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Gabriella Addivinola (University of Warwick): Rispecchiare il mondo: Narciso e le “nominate
cose” nel canto III del Paradiso
Durante il XII secolo la riflessione teologica tende ad acquisire un carattere sistematico,
distinguendosi progressivamente dai commentari biblici. In questo processo la teoria
grammaticale svolge un ruolo fondamentale, in quanto l’analisi dei procedimenti di
significazione e di espressione del dato rivelato si sviluppa utilizzando proprio i suoi strumenti e
attirando, come sottolinea Chenu, “gli stessi anatemi che, nel XX secolo, suscitò il metodo
storico”.
Le teorizzazioni legate all’impiego del linguaggio umano per trattare delle realtà divine vengono
progressivamente elaborate focalizzandosi sull’analisi linguistica di termini e proposizioni e in
seguito sulle modalità secondo cui le parole sono create e comprese nell’atto comunicativo, con
un passaggio dalla grammatica alla psicologia e alla gnoseologia.
Utilizzando questo quadro storico il mio intervento si propone di indagare come le problematiche
relative all’esegesi del testo vengano tematizzate attraverso la figura di Narciso nella Divina
Commedia, un poema che si presenta al lettore come una visione infusa da Dio e che dunque
rivendica le stesse caratteristiche del testo sacro.
Nel Medioevo la figura di Narciso è associata non soltanto al tema della sterile ossessione
amorosa, ma anche all’immaginazione che stimola l’invenzione poetica. In Paradiso III Dante
mette in atto un complesso sistema di rovesciamenti – afferma infatti di cadere nell’“error
contrario” a quello del personaggio mitologico – la cui analisi permette di mettere in evidenza la
complessa relazione che lega visione, rappresentazione e conoscenza nella scrittura dantesca.
Per misurare la distanza dell’operazione compiuta dall’Alighieri rispetto a quella dei suoi
predecessori è utile comparare il suo impiego della figura di Narciso con quello che ne viene
fatto da Alano di Lilla in un altro componimento che si presenta come una visio in somniis, il De
Planctu Naturae (1160-1165?). In questo testo Narciso è evocato nella descrizione che Natura fa
del pervertimento delle sue leggi da parte degli uomini, che ha come controparte la rottura delle
regole grammaticali: la lira di Orfeo delira, e l’uomo non riconoscendo se stesso e amandosi,
devia dall’ortografia di Venere e diventa un “sophista falsigraphus”.
Rosa Affatato (Universidad Complutense de Madrid): Interpretazione allegorica e orizzonte del reale
nei proemi dei primi commentatori della Commedia
I primi commenti alla Commedia sono i primi mediatori tra l’opera dantesca e il pubblico del
Trecento e del primo Quattrocento. Sono essi stessi il primo “pubblico”, i primi lettori, secondo
quanto scrive S. Bellomo, e quella che trasmettono nei loro commenti è una visione ideologica –
consapevole o no- della realtà che analizzano attraverso il poema. Troviamo degli esempi a
cominciare dai proemi di alcuni dei primi commentatori, attraverso i verbi utilizzati per spiegare
l'allegoria nella Commedia: dimostrare, correspondēre, interpretare o addirittura essere, ognuno dei
quali fa riferimento a un proprio paradigma mentale e apre a un differente orizzonte del reale. Come
intellettuali, i commentatori rivelano l’eterodossia o l’ortodossia del poema dantesco attraverso
quello che potremmo definire l’inconscio letterario della borghesia medievale che sta cercando di
affermare la propria individualità a livello sociale, in una specie di processo di individuazione
collettivo che trova nella Commedia e nella lingua volgare, per richiamare la tesi di R. Imbach,
l’opera comune di riferimento. riferimento.
Cristina Barbolani (Universidad Complutense de Madrid: Da Petrarca a Dante attraverso il
commento del Landino (una tappa del percorso verso l’ortodossia tridentina)
Nel secondo Quattrocento fiorentino la Commedia, da tempo presente nell’immaginario
collettivo popolare, diventa oggetto di promozione ufficiale nel circolo colto dell’Accademia
ficiniana ad opera di Cristoforo Landino e del suo famoso Comento (1481). Tale recupero del
poeta ingiustamente esiliato, la cui figura viene considerata esemplare accanto a quella del
Petrarca, implicherà una nuova proposta di lettura globale del capolavoro dantesco. Sorvolando
sull’interpretazione allegorica eccessivamente minuziosa dei commenti anteriori, il poema sacro
verrà equiparato all’epica latina e greca, e il Dante theologus nullius dogmatis expers riletto alla
stregua degli autori classici, anch’essi considerati teologi nell’aspirazione umanistica a un
sincretismo culturale pagano-cristiano. Ciò non toglie però che si continui ad insistere sulla
figura di un Dante autore di preghiere e devoto figlio della Chiesa, ribadendone l’ortodossia
cattolica in una prospettiva che, attraverso il concilio tridentino, continuerà fino ai giorni nostri.
Lorenzo Bartoli (Universidad Autónoma de Madrid): “Tu, cui colpa non condanna”: Dante e la
poetica della colpa.
Il concetto di colpa è plutivettoriale: possiamo affrontarlo dalla prospettiva religiosa, giuridica,
psicologica (e psicolanalitica), antropologica, filosofica; nella dimensione pubblica (o politica) e
in quella privata, come colpa collettiva o individuale, soggettiva o oggettiva.
Dal punto di vista storico culturale, questa complessa rete si va intessendo a partire dall’epoca
appena precedente quella di Dante, ovvero, per esattezza dal Concilio Laterano IV del 1215 nel
quale, sotto l’egida di Innocenzo III, la Chiesa stabilisce, contestualmente, la professione di fede,
l’istituzione della inquisizione, e l’obbligo di confessione. Mentre il diritto recuperava la
centralità della confessione come regina probationum nel Digesto giustinianeo riscoperto nel
1070, e penetrato nel sistema giuridico imperiale attraverso Federico II, la chiesa costruiva un
complesso sitema di exculpazione/incolpazione che, incentrato sulla confessione, conservava
tuttavia uno sfondo dichiaratamente politico-inquisitoriale, a colofón di quella Crociata contro
gli Albigesi che marcò la fine, di fatto, della tradizione trovadorica.
La Commedia di Dante nasce in questo contesto storio-culturale, accentuato e rispecchiato, dalla
sua personale traiettoria biografico-psicologica. La colpa e la condanna dominano lo schema
poetico del testo, costituiscono l’essenza del suo allegorismo, oltre ad informarne la diegesi
stessa. La condanna all’esilio del 1302 e la condanna a morte di Dante Alighieri, del 1315,
riflettono cetamente la situazione politica medioevale, ma sono anche i segni personali
dell’universo biografico, psicoanalitico e creativo di Dante . E il problema della colpa e della sua
confessione, con la complessità allegorica di incolpazione/exculpazione, domina la biografia e la
poetica dantesa della Commedia e particolarmente dell’Inferno: da Francesca a Ugolino.
Johhanes Bartuschat (Universität Zürich): Dante politico: elementi del pensiero politico dantesco
tra Convivio, Monarchia e Commedia e la fondazione del pensiero politico moderno
La conferenza intende indagare un particolare aspetto del pensiero politico dantesco, quello
relativo alla “civitas” e alla nozione di “cittadinanza”. Questo tema viene analizzato sullo sfondo
dell´aristotelismo politico duecentesco e della diffusione della nozione aristotelica dell´uomo
come “essere politico”. La prima parte pertanto presenta alcune fonti contemporanee, tra cui le
opere di Brunetto Latini e i trattati di Remigio de´ Girolami, in cui il concetto di un legame
naturale tra l´individuo e la società viene elaborata in modo particolarmente pregnante. La
seconda parte, relativa a Dante, cerca di ricostruire il significato e la portata di queste concezioni
nel quarto trattato del Convivio, nella Monarchia e nell´ottavo canto del Paradiso. Pur
prendendo le distanze dal modello comunale propugnato da Brunetto e Remigio de´ Girolami,
Dante continua a sviluppare la sua concezione dell´uomo come cittadino e della città come luogo
necessario alla realizzazione della natura umana. All´interno di questa tematica – di cui si spera
di dimostrare la centralità per la riflessione politica dantesca - un´attenzione particolare sarà
dedicata alla tensione tra la molteplicità (ossia la diversità e pluralità degli individui e dei loro
talenti) e l´unità, intesa come unità politica, garante della pace. La conclusione cercherà di
inserire questa problematica in una prospettiva storica più vasta, quella della nascita del pensiero
politico moderno, tra la fine del Medioevo e il Rinascimento.
Francesco Benozzo (Università di Bologna): Lo smembramento iniziatico di Dante (riflessioni
eterodosse sulla dantistica ortodossa)
Partendo dall'inquietante considerazione che sono attualmente noti circa 650.000 studi dedicati a
Dante e alla sua opera, questo intervento intende aprire alcune riflessioni sullo stato della
dantistica italiana e internazionale, a partire dall'immagine, di ascendenza iniziatico-sciamanica,
dello smembramento di Dante e dei suoi testi, per arrivare a qualche proposta - in una specie di
anti-decalogo a favore del poeta e contro i suoi vivisettori - che mira a mettere in atto concrete
strategie di tutela dei testi danteschi. Il caso di Dante non rappresenta che l'emblematica punta di
diamante delle ormai proliferanti e insostenibili elucubrazioni autoreferenziali di una critica
sempre meno capace di farsi attraversare dal "grande brivido" (Coomaraswamy) della parola
poetica e letteraria, e sempre più attratta dalla pratica della glossa intertestuali e dl commento
formale.
Alessandro Bennucci (Université Paris Ouest Nanterre La Défense-Centre de Recherches
Italiennes, CRIX): La Processione santa di Paradiso XXIII : trionfo classico o visione mistica?
La nostra comunicazione si propone di analizzare la descrizione della visione del trionfo di
Cristo che appare a Dante e Beatrice nel primo canto dedicato al cielo delle Stelle Fisse, cioé il
canto XXIII del Paradiso. Nello specifico, il nostro obiettivo è quello di arrivare a una
ricostruzione il più fedele possibile dell’architettura dell’apparizione e della disposizione interna
dei personaggi che vi prendono parte e degli eventi che li coinvolgono, dando particolare rilievo
alla ricchezza semantica dei termini impiegati nella descrizione (campo semantico militare)
Il punto di partenza della nostra indagine è un confronto accurato con l’esegesi antica al canto : i
primi commentatori, infatti, tenendo conto della cospicua presenza di lessico militare (trionfo,
schiera, turbe) sono per lo più concordi nell’attribuire al tripudio di luci che invade la scena le
caratteristiche strutturali proprie di una processione bellica classica ; un trionfo, dunque, come
quelli dell’antica Roma, che continuerebbe a vivere nell’immaginario cristiano medievale (arti
figurative, sermoni) e che traducevano una noto concetto della cristianità, il Cristo trionfatore e
la Chiesa Trionfante.
Ciononostante, si costata come sin da subito la descrizione dell’apparizione si allontani dallo
stereotipo della parata militare per avvicinarsi, invece, a scene tipiche dei raptus estatici e delle
visioni mistiche, comuni in questa cantica : luci, fiamme, lucerne sante formeranno in realtà una
struttura circolare, un « bel giardino / che sotto i raggi di Cristo s’infiora » [Pd. XXIII, 71-72], un
trionfo che diffonde tutto intorno luci e colori.
Di fronte a questa apparente contraddizione, si impone una riconsiderazione degli usi dei termini
militari del canto XXIII del Paradiso
Il nostro compito sarà dunque quello di mettere in luce le sfumature di signficato dei vocaboli
che descrivono l’evento, per valutare il ruolo che svolgono in questa selezione lessicale le
reminiscenze scritturali e patristiche e le suggestioni della mistica medievale. Una tale
operazione ci permetterà nella parte conclusiva di riflettere sul significato della poesia del
Paradiso e in particolare sul generale ripensamento cui Dante sottopone il lessico adoperato
nella descrizione delle ultime meraviglie paradisiache.
Simone Tarud Bettini (Università di Bologna-Fondazione M. Pellegrino): Memoria,
immaginazione e creazione letteraria nellaa Vita nova
Fin dall'inizio, la Vita nova di Dante appare connotata come un'opera strettamente connessa alla
memoria: dal ricordo di Beatrice e dei fatti della vita del poeta incentrati su di lei nasce il
desiderio di raccontare, la narrazione dell'amore e dei suoi sviluppi, in vita e poi in morte della
donna amata. Memoria e creazione letteraria sono strettamente connesse, e non si darebbe la
seconda senza la prima.
Accanto al ruolo della memoria, è però indispensabile sottolineare all'interno del libello il ruolo
attivo (e creativo) della facoltà immaginativa. Capace di lavorare attivamente sulle immagini
sensoriali (in primo luogo visive) ricevute dal cervello e conservate nella memoria, essa è la
fonte primaria della creazione letteraria dantesca, lo strumento indispensabile, in particolare, per
la trasformazione dei fatti vissuti in prima persona dal poeta (raccontati dalla prosa) in eventi
rivissuti e reinterpretati nella propria interiorità e nella propria memoria alla luce dell'amore per
Beatrice (raccontati dalla poesia). L'uso esperto e attento, da parte di Dante autore, delle
conoscenze del tempo in materia di scientia de anima sull'attività di memoria e facoltà
immaginativa consente alla Vita nova di mettere in scena descrizioni di visioni dirette poi
rielaborate con l'aggiunta di elementi non direttamente presenti nella memoria (ad esempio
l'apparizione di Amore nella cavalcata fuori da Firenze); di descrivere vere e proprie
«ymaginationi» interamente accadute nella mente del poeta, eppure saldamente ancorate alla
realtà della vita e dell’interiorità di Dante, poi trasformate in poesia (ad esempio la visione di
Amore nell’anniversario dell’innamoramento stesso, appunto collocata nella mente di Dante,
seguita dalla comparazione fra Giovanna e Beatrice); di giocare costantemente fra il piano, per
così dire, della realtà storica e il piano dell’immaginazione, facendo sì che al lettore appaia
naturale accettare come connessa agli eventi della prosa la creazione letteraria di poesie scritte in
realtà anteriormente (e magari rielaborate in occasione del libello), e facendo sì che al lettore
appaia veritiero ogni aspetto della vicenda raccontata, proprio perché raccontato dalle e nelle
leggi scientifiche dell’immaginazione.
Il gioco dei rapporti fra memoria, immaginativa e creazione letteraria si fa poi particolarmente
interessante alla conclusione del libello. L’apparizione, al poeta affranto per la morte di lei, di
Beatrice con lo stesso aspetto del primo fatale incontro, in qualità di autentica imago agens
memoriale, è il motore sia del ritorno all’amore per lei sia della scrittura stessa del libello,
dapprima progettata e limitata al sonetto Lasso, per forza di molti sospiri, poi estesa al recupero
dell’intera vicenda e alla scrittura del libello stesso. La visione dei pellegrini diretti a Roma a
vedere l’immagine del volto di Cristo e non a conoscenza dei fatti di Beatrice è lo stimolo al
desiderio di scrivere, ai pellegrini e a tutti, parole che senz’altro commuoverebbero chi le
ascoltasse, e al pellegrinaggio della mente di Dante, attraverso l’azione fondamentale della
facoltà immaginativa, dalla memoria di Beatrice morta fino alla visione di Beatrice viva
nell’Empireo. Tale visione, nel sonetto Oltre la spera, è una visione nella mente di Dante per
speculum in enigmate secondo l’indicazione di s. Paolo (1Cor. 13, 12), un anticipo della visione
facie ad faciem di Beatrice, da attendersi all’atto del ricongiungimento del poeta con lei.
L’immaginativa agisce da speculum, in maniera analoga alla fede, facendo sì che Dante
contempli ciò che non può vedere; nel finale del libello, essa è poi premiata come la fede sarà
premiata dalla visione, perché a Dante, dopo aver visto nella mente, è consentito di vedere coi
propri occhi la «mirabile visione» di lei nella gloria. Visione che sarà, infine, nuovo stimolo alla
scrittura poetica.
Lucilla Bonavita (Università di Roma Tor Vergata): Esperienze poetiche eterodosse nel Canto I
del Paradiso
Il presente contributo parte dal presupposto che la nozione ideologica di “sovversivismo” non sia
propriamente utile alla comprensione dell’opera dantesca, poiché si cercherebbe di applicare uno
schema ideologico estraneo al contesto storico-filosofico-culturale nel quale visse il poeta
fiorentino. Dante, scrivendo a partire dalla norma in crisi del suo momento storico, non ne ha
un’altra in base alla quale costruire la sua opera letteraria: non è possibile essere eterodossi
quando non si ha una chiara concezione dell’ortodossia.
Nonostante ciò, si cercherà di esaminare un possibile aspetto eterodosso di Dante di fronte alla
norma letteraria dei nostri tempi sottomessa alla relatività e alla considerazione del testo poetico
come manifestazione degli strati emozionali più oscuri della natura umana: la funzione del senso
letterale avente come scopo principale la trasmissione di una verità oggettiva e razionale.
L’analiticità del senso letterale della Commedia verrà considerato come mezzo di passaggio
verso l’allegoria intesa come modo razionale di usare l’immaginazione e verrà applicata al primo
canto del Paradiso, partendo dalla considerazione che la poesia ha una sua logica (la “logica
poeziei” teorizzata nell’Ottocento da Alexandrum Macedonski e ancor prima da G. Vico che per
primo avrebbe avuto il merito di proporre una “logica poetica”, distinta da quella intellettuale,
capace di considerare la poesia una forma di conoscenza autonoma rispetto alla filosofia) e
ponendo costantemente in dialogo le due linee interpretative di poesia come conoscenza che
crocianamente ha sempre un’intonazione capace di ricondurre il particolare all’universale, il
finito all’infinito e come espressione linguistica. Il passaggio all’espressione verrà considerato
parte di un processo di chiarificazione interiore: sentimenti ed impressioni passano, per virtù
della parola, dalla oscura regione della psiche allo spirito contemplatore. Il proposito sarà quello
di liberare il testo da ogni schema ideologico, ponendo in essere le motivazioni relative alla
difficoltà con la quale oggi risulti complesso capirla. Questo ostacolo è indissolubilmente legato
anche ad un modo di ragionare inconsueto per l’uomo d’oggi che vive di immediatezza, che non
è più preoccupato di ricondurre ad unità i particolari della sua vita, confermando quanto afferma
H.U. von Balthasar, teologo e studioso di Dante riguardo al fatto che siamo divenuti analisti del
mondo e dell’anima e non siamo più in grado di cogliere la totalità. Di fronte alla moderna
norma letteraria e anche gnoseologica, quello che verrà analizzato può essere considerato un
possibile aspetto eterodosso.
Paolo Borsa (Università degli studi di Milano): Pastori, greggi e dieci vaselli di latte canoro. Per
un’interpretazione delle egloghe dantesche
È noto che le egloghe dantesche presentano un travestimento pastorale: Titiro è lo stesso Dante,
Mopso Giovanni del Virgilio, nel personaggio di Melibeo è riconoscibile il notaio fiorentino
Dino Perini, in quello di Alfesibeo il concittadino Feduccio de’ Milotti, medico, mentre Iolla
dovrebbe essere Guido Novello da Polenta e Polifemo (forse) Fulcieri da Calboli. Diversi altri
elementi del testo – armenti e greggi, pascoli erbosi e dure cruste, l’ovis gratissima di
Titiro/Dante e la bucula di Mopso/Giovanni, il latte loro, usato per riempire decem vascula... –
sembrano suscettibili di un’interpretazione allegorica, il cui senso complessivo è, però, sempre
apparso sfuggente. Con tutte le cautele del caso, e sulla base dell’identificazione dei diversi
pastori con gli stessi Dante, Giovanni del Virgilio, ser Dino e magister Feduccio, a loro volta
esponenti di diverse categorie professionali, nella comunicazione per il Convegno si intende
proporre una lettura delle egloghe che interpreti le diverse tipologie di bestiame (capelle e forse
anche hirci per Melibeo/Dinus, pecudes mixtaeque capelle per Alfoesibeus/Feduccio e
Titiro/Dante, boves per Mopso/Giovanni) come raffigurazioni di altrettanti gruppi di individui, e
dunque di altrettanti “pubblici”, dotati di differenti competenze linguistiche (volgari e/o latine),
grosso modo corrispondenti ai tre livelli di apprendimento della scuola medievale. Ciò consente
di avanzare una soluzione a due diversi interrogativi: da un lato 1) quali siano le ragioni che
muovono Dante a rifiutare la proposta di Giovanni del Virgilio – che lo aveva invitato a
comporre un carmen vatisonum di materia epica, in lingua latina, che gli meritasse
un’“ortodossa” incoronazione poetica – e ad opporgli la propria fiducia nella possibilità di
un’“eterodossa” incoronazione poetica in grazia di un’opera scritta in lingua volgare (comica
verba che ‘risuonano logore su labbra di donnette’); dall’altro 2) cosa rappresentino i ‘dieci
vaselli’ di latte di pecora che Titiro/Dante manda a Mopso/Giovanni del Virgilio, i quali a questo
punto non identificheranno tanto dei componimenti in lingua latina, quanto piuttosto in lingua
volgare “illustre”. Più precisamente, si tratterebbe di dieci canti del Paradiso; si richiami a
questo proposito Par. XXV 1-9, ove i termini ovile, agnello e vello sono utilizzati in un
passaggio relativo proprio al motivo dell’incoronazione poetica: «Se mai continga che ’l poema
sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra, / sì che m’ ha fatto per molti anni macro, / vinca la
crudeltà che fuor mi serra / del bello ovile ov’io dormi’ agnello, / nimico ai lupi che li danno
guerra; / con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta, e in sul fonte / del mio battesmo
prenderò ’l cappello».
Morana Cale (Sveuciliste u Zagrebu): “Quello che può avvenire” (Convivio, III, 1) e la poetica
della supplementazione
Nel Convivio I, iii, Dante sostiene che il suo „comento“ è „ordinato a levar lo difetto de le
canzoni“ redatte all'epoca della Vita Nova, fornendo un supplemento allegorico che ripari quella
manchevolezza dei componimenti precedenti in quanto palesamento della loro „vera sentenza“ e
„movente cagione“ (I, ii); procedendo, cioè, a una delle tante ricostruzioni e rivalutazioni
palinodiche la cui successione nell'ambito dell'opera dantesca mima, a posteriori, l'ascensione al
sommo della verità compiuta dal pellegrino protagonista della Commedia. La causa di tale
„difetto“ si divide in „due ineffabilitadi“ (III, iv): „la debilitade de lo 'ntelletto e la cortezza del
nostro parlare“ (ivi), ambedue condizioni che eccedono la responsabilità individuale dell'autore e
quindi sono esenti da giudizio morale. Poiché l'esame del „nodo“ fra le canzoni e il commento
che costituisce il Convivio mira a farsi „sottile ammaestramento e a così parlare e a così
intendere l'altrui scritture“ (I, ii), il contributo si impegna a dimostrare che „lo difetto“ che
necessita uno o più supplementi in grado di restituire, o piuttosto inventare, almeno una
provvisoria integrità di senso dei componimenti, non è da riferire né alle canzoni, né al loro
autore, bensì all'impossibilità della lettura di cogliere tutta la verità del senso dietro l'apparenza
del testo letterario, nonché di esaurirne in anticipo le potenzialità di „transmutazione“, senza
sospendersi di fronte a „quello che può avvenire“ (III, 1). L'intervento si propone di rileggere
„Amor che ne la mente mi ragiona“ alla luce di tali considerazioni dantesche, rilette
avventurosamente come istruzioni per una poetica e una teoria della supplementazione.
Corrado Calenda (Università di Napoli “Federico II”): L’ «Amore» e gli amori; la «Donna» e le
donne; «costanzia de la ragione» e «vanitade de li occhi»: significato e valore di un percorso non
lineare.
L’approdo finale, nella Commedia, alla unicità «originaria» di Beatrice, che sarebbe stata
colpevolmente offuscata solo dai provvisori limiti e dalle attitudini viziose del soggetto-amante,
è in realtà l’esito di un percorso molto accidentato e spesso contraddittorio, tra volontaristiche
dichiarazioni di intenti, ammissioni e ripensamenti, proiezioni in avanti e clamorosi passi
indietro. L’analisi e il confronto tra un capitolo-chiave della Vita nuova, un brano del Convivio e
uno dei sonetti di corrispondenza con Cino illustra come, in maniera diretta e argomentativa, o
sotto la copertura dell’invenzione fantastica o della narrazione pseudo-autobiografica, Dante
abbia declinato in più occasione e con più soluzioni questo motivo centrale della sua poetica
prima della definitiva unificazione nella trama del poema.
Duilio Caocci (Università di Cagliari): Vedere e sapere. Alcune osservazioni sui canti XI e XII
del Paradiso
Con la relazione che propongo, vorrei rileggere l'XI e il XII del Pd oltre che come una
pacificazione tra scientia e sapientia (come ha mostrato anche F. Bausi 2009 e in parte A.
Mazzucchi in un articolo del medesimo anno), anche come una legittimazione del genere della
Commedia. Per dirla con la brevità necessaria in un abstract, Francesco mostrerebbe la via
pragmatica alla salvezza (la medesima modalità per cui Dante personaggio apprende una serie di
fatti perché li vede accadere), Domenico rappresenterebbe la necessità di un impianto teorico
capace di ordinare a sistema i saperi (la medesima funzione che è strutturalmente delegata alle
guide di Dante-personaggio).
Mi pare interessante, in tale prospettiva, tornare all’impianto delle Parabolae di Bernardo – e
cioè ai testi che stanno all’origine del genere scelto da Dante – e valutare come quei racconti
rappresentino già una forte legittimazione dell’esperienza mondana come premessa della
salvezza. Bernardo di Chiaravalle, del resto, che partecipa da protagonista al virulento dibattito
della prima metà del XII secolo intorno alla conciliabilità di scientia e sapientia (e lo fa, non a
caso, soprattutto nei Sermones super Cantica Canticorum), nella Commedia, è il medium
indispensabile per la più alta conoscenza (rappresentando anche l’occasione per tradurre in
termini umanissimi ciò che altrimenti non si potrebbe «ridire»).
Francesco e Domenico risultano complementari e indispensabili – l’uno «quinci» e l’altro
«quindi» – come sono indispensabili e complementari per Dante l’esperienza del transito
infernale e purgatoriale, da un lato, e, dall’altro lato, la prospettiva teorica delle prolusioni delle
guide.
Chiara Cappuccio (Universidad Complutense de Madrid): L'eterodossia della muscia delle sfere
La controversia sulla presenza all'interno del Paradiso (Par.I, 76-84) del concetto pitagorico
relativo all'esistenza di un suono prodotto dal movimento delle sfere celesti rappresenta una delle
questioni musicali più discusse all'interno della critica dantesca. La problematicità della
posizione dantesca sull'argomento risalta per un'evidente eterodossia nei confronti delle posizioni
tomistico-aristoteliche sull'argomento. Dante accetta o rifiuta l'idea di un cosmo continuamente e
completamento sonoro? Studiosi di diverse discipline - dalla critica filologica a quella
musicologica fino alla filosofia e alla storia delle idee - si sono posti tale domanda affrontando il
dibattuto argomento. Nella nostra comunicazione ci proponiamo di riesaminare l'articolata
questione alla luce di nuove letture e interpretazioni musicologiche della terza cantica.
Alberto Casedei (Università di Pisa): L’incipit del Paradiso e l’Epistola a Cangrande
In questa comunicazione verrà esaminato in dettaglio l’attacco del Paradiso, per interpretarne le
implicazioni bibliche e teologiche, in base a un’attenta disamina della lettera dei primi versi,
nonché dei loci paralleli nel poema dantesco.
Sulla base di queste considerazioni, che saranno incentrate soprattutto sull’espressione biblica
della Gloria Domini e sulla sua valenza esatta, sarà proposta un’esegesi che in sostanza contrasta
con quella ricavabile dall’accessus dell’Epistola a Cangrande.
Verranno presentati numerosi motivi esterni e interni al testo per ipotizzare che tale accessus non
sia opera di Dante. Ciò giustificherebbe l’incongruenza tra la lettera e la più plausibile
interpretazione dell’incipit del Paradiso, e la spiegazione offerta nell’epistola.
Marcello Ciccuto (Università di Pisa): Le istanze antidogmatiche della Commedia a specchio di
temi e immagini del gioachimismo.
Con questo contributo cerco di fare il punto sull'influsso a più livelli esercitato dal profetismo
gioachimita nei confronti del pensiero dantesco più maturo, esaminando tutti i luoghi testuali in
cui più esplicita o evidente si fa la riflessione del poeta attorno al Liber figurarum e alla sua
proposta di considerare le 'figurae' quali elementi integranti e ineludibili del procedimento di
elaborazione di una teologia 'diversa' da quella ufficialmente accreditata.
Milly Curcio (Pécsi Tudományegyetem): Le short stories dell’ Inferno
L’analisi del testo della prima cantica intende indicare i momenti in cui la narrazione, in modo
diretto o indiretto, delinea i ben noti racconti brevi, sia come enunciazione del personaggio sia
come descrizione del narratore sia come spazio di un personaggio che racconta un altro
personaggio.
Senza trascurare le categorie del ritratto, dell’autoritratto e della confessione, il disegno della
short story dantesca illumina, a volte fulmineamente e a volte dettagliatamente, l’intreccio di
singole esistenze, inserite nella prospettiva dello specifico canto di riferimento.
Queste brevi storie, da Filippo Argenti a Ulisse, possono avere un retroterra fuori dal testo che in
effetti fanno apparire la short story come la parte emergente di una sottintesa e più intrigante
long story: tanto in ambito mitologico, quanto nella storia civile, fino a far affiorare un
insospettabile intreccio urbano dell’epoca di Dante.
La relazione non intende misurarsi con il contesto contemporaneo a Dante ma formalizzare
l’enunciazione delle diverse tipologie di short story nei vari livelli di elaborazione.
Nell’osservare questa specifica consistenza narratologica, si terrà conto della presentazione del
personaggio, ovvero:
1. Del personaggio che entra in scena auto-presentandosi senza essere interpellato;
2. Del personaggio che racconta o si racconta dietro esortazione dei viaggiatori;
3. Del personaggio che presenta un altro personaggio;
4. Del personaggio raccontato esclusivamente da Virgilio.
Uno specifico focus sarà dedicato al modo in cui formalmente è delineata la storia breve:
1. Storia come inserto dipendente dal contesto, con riferimento a vicende complesse;
2. Storia racchiusa nell’esclusivo riferimento al nome di un personaggio;
3. Storia privata completa ed essenziale.
Il risultato di questa analisi porta a chiarire le modalità dell’enunciazione dantesca e l’inferenza
di singoli spazi narrativi sul complesso disegno inventivo e impegno etico della prima cantica.
Claudia Di Fonzo (Università di Trento): La poesia: crogiolo della riflessione filosofica,
teologica e giuridica
Dalla comparazione tra l’ordinamento cosmologico e quello della societas degli uomini nasce
l’osservazione e la riflessione del Convivio circa il fine dell’uomo, circa la necessità della pace e
dell’imperatore che è l’incarnazione della «Ragione scritta» e per questo legibus solutus e
tuttavia legibus alligatus.
Il secondo trattato del Convivio custodisce il nucleo più significativo del pensiero filosofico
dantesco. È centrale infatti la collocazione della Morale filosofia appena prima della Teologia nel
disegno generale che Dante propone. Se la scuola di Chartres individua una perfetta specularità
tra macrocosmo creato e ordinato da Dio e microcosmo affidato alla libertà dell’uomo e alle
leggi tese a disciplinarlo (allorché l’arbitrio è libero diritto), condizione che Dante disegna sulla
cima del Purgatorio ovvero nel Paradiso terrestre, Giovanni di Salsbury nel suo Policraticus
fonda questo ordinamento sulla legge di natura attingendo a Cicerone e specialmente al De
officiis, fonte comune di Dante e di Giovanni e tramite eccellente insieme al De regimine
principum e all’Ethica Nicomachea di Tommaso del pensiero politico aristotelico. L’Empireo, il
cielo aggiunto dai teologi al cosmo disegnato da Tolomeo e Aristotele, alla conoscenza del quale
è preposta la scienza teologica, è il modello formale dell’ordine naturale impresso da Dio (la
legge di natura). Nel cielo cristallino, al quale corrisponde ed è disposta la Morale filosofia, è
concepito l’ordine a cui è destinata l’humana civilitas attraverso la Morale filosofia. La morale
filosofia è lo spazio di intersezione tra conoscenza e prassi, tra il principio generale della
giustizia divina e il diritto che ne discende e che si incarna nella legge posta dagli uomini per
regolare se stessi (ius), ed è dunque la scienza che ordina tutte le altre scienze e tutte le altre
operazioni conoscitive che ineriscono l’agire dell’uomo nella societas. L’uomo riesce a
contemplare in sé entrambi gli ordinamenti allorché partecipa, in diverso modo e grado, alla vita
contemplativa e dunque teologica (teologia al cui sommo è la mistica) e alla vita attiva per
conoscere e attuare la massima ratio impressa nell’uomo dalla natura che lo vuole creatura e
compagnevole animale: in relazione con Dio e con gli altri uomini.
Una filosofia quella morale che presiede all’agire e che lo ordina e disciplina. La giustizia, quella
superiore, non può che rimanere altro, il diritto è l’ordinamento che tenta di incarnare
l’ordinamento teologico e cosmologico a immagine e somiglianza di quella giustizia che già
presso i Romani e al tempo di Giustiniano era altro e altrove. Non si può non ipotizzare una
influenza diretta del cristianesimo in questa concezione espressa nel De iustitia et iure.
Violeta Díaz-Corralejo (Asociación Complutense de Dantología): Heterodoxia hoy, ortodoxia
mañana... y viceversa
Definición y diacronía de los conceptos de ortodoxia y heterodoxia en distintos campos: política,
economía, sociedad y religión. Análisis. Referencias en la Comedia.
Giovanni Vito Distefano (Università di Cagliari): Il dolce riso. Una lettura di Cv III da Dante a
Leopardi
La teoria dell’amore costituisce non solo una mirabile sintesi della riflessione eudemonistica
classica e medievale, ma, indagata nella sua irriducibile unità di pensiero e poesia, un caso
esemplare di invenzione poetica fondata sulla meditazione attorno alla condizione umana e
sviluppata con grande originalità e forza immaginativa. Tale forza s’irradia in uno spazio non
solo storico ma propriamente poetico, dinamicamente generato dall’evoluzione del sistema
letterario e strutturato secondo rapporti interpoematici di diversa rilevanza ed evidenza.
Percorrendo queste vie, spesso segrete e nascoste, dell’influenza dantesca e dirigendo l’indagine
lungo gli assi principali e le campate portanti del sistema, un contatto di grande interesse da
focalizzare e istituire è quello tra la teoria dell’amore dantesca e la teoria del piacere di Giacomo
Leopardi.
Entro questo generale tema di ricerca, si propone una circostanziata lettura del terzo libro del
Convivio condotta attraverso i rapporti interpoematici che da questo luogo saliente
dell’elaborazione e della scrittura dantesca muovono verso alcuni corrispondenti brani
leopardiani dello Zibaldone e dei Canti. Una lettura intertestuale – è opportuno precisare sul
piano delle premesse teoriche – depurata da ogni residuo di fuorviante “studio delle fonti” e
fondata invece sul riconoscimento dell’essenziale intertestualità dell’invenzione poetica e sulla
conseguente indicazione metodologica per cui «all that matters for interpretation is the
revisionary relationship between poems, as manifested in tropes, images, diction, syntax,
grammar, metric, poetic stance» (Harold Bloom).
Eszter Draskóczy (Szegedi Tudományegyetem): Metamorfosi dei corpi e della poesia: miti
ovidiani, scienza medica e simbolismo teologico nelle Malebolge (Inf. XXIV-XXV e XXIX-
XXX)
Le metamorfosi infernali, specie quelle delle Malebolge, sono fenomeni nei quali è possibile
osservare la complessità e la ricchezza delle operazioni di trasformazione letteraria e culturale a
cui Dante sottopone le sue fonti. Il concetto di metamorfosi è centrale in diversi ambiti della
cultura antica e medievale: non solo nella poesia ovidiana, ma anche nella scienza medica e nella
letteratura religiosa, dove assume decisivi significati spirituali e opera nella teologia del corpo e
della malattia.
Tutti questi elementi si intrecciano in modo particolarmente interessante nei canti dedicati alle
bolge dei ladri e dei falsari. Questi canti (Inf. XXIV-XXV e XXIX-XXX) costituiscono due
coppie “gemelle”, strettamente collegate fra loro, oltre che dal riuso di materiali culturali affini,
anche da una serie di forti corrispondenze attive nel lessico e nella struttura, nella descrizione del
paesaggio infernale, nella prospettiva narrativa, negli elementi retorici, nella focalizzazione sul
corpo umano e le sue metamorfosi e malattie, nel linguaggio ricco di hapax legomena e attinto
anche alla scienza medica.
Tenendo presente questo complesso intreccio di motivi, possono essere comprese in modi nuovi
le funzioni assegnate alle numerose allusioni alla poesia classica, su cui il poeta richiama
esplicitamente l’attenzione del lettore in più luoghi, per esempio nella celebre sfida ai poeti
antichi delle metamorfosi, Lucano e Ovidio. Del resto, nei canti dei ladri tutte e tre le
metamorfosi sono basate su miti ovidiani (la fenice, Salmace e Ermafrodito, Cadmo e Io).
Nei canti della bolgia dei falsari troviamo molti richiami espliciti a figure e avvenimenti
ovidiani: dalla peste di Egina al volo di Dedalo; dall’incenerimento di Semele alla follia di
Atamante e a quella di Ecuba; sino agli amori folli e agli inganni tragici perpetrati da Mirra e
subiti da Narciso. I paralleli con i canti dei ladri e la fitta rete di allusioni ovidiane accentuano il
carattere metamorfico della pena dei falsari.
Tali allusioni ovidiane svelano però i loro complessi significati solo se lette insieme agli altri
elementi culturali e intertestuali che agiscono in questi canti, come il linguaggio della scienza
medica, l’intertestualità biblica e religiosa, il simbolismo teologico della malattia.
Enrico Fenzi (Università di Genova): Conoscenza e felicità nel III e IV del Convivio
La relazione torna sul tema del rapporto tra conoscenza e felicità nel Convivio, intorno al quale
esistono già ottimi contributi (si veda da ultimo il volume di Paolo Falzone, Desiderio della
scienza e desiderio di Dio nel Convivio di Dante, Bologna, il Mulino, 2010) ma che è
suscettibile di nuove articolazioni e sviluppi sul doppio versante della conoscenza e dei suoi
limiti, e su quello strettamente correlato di una possibile felicità umana. In particolare, attraverso
una lettura ravvicinata di passi del III e IV libro dell’opera, si vuole mostrare come la particolare
dialettica dantesca riesca a rovesciare su un punto fondamentale il tradizionale discorso
sull’imperfezione e la limitatezza del sapere, dal momento che Dante fonda precisamente su tale
limitatezza l’idea affatto opposta della sua possibile e multipla perfezione. Si tratta di un gesto di
tale audacia intellettuale da sovvertire nel profondo gli schemi tradizionali e da inaugurare un
approccio affatto nuovo al problema della conoscenza scientifica, definita per la prima volta
nella sua autonomia e compiutezza.
Sabrina Ferrara (Université François Rabelais, Tours): Giustizia e ingiustizia tra umano e divino,
tra individuale e universale nella Commedia
Catalizzatrice di tutte le esperienze precedenti, la Commedia lo è anche per il fondamento
concettuale della giustizia intorno a cui si struttura. Problematica non nuova nel pensiero di
Dante, la nozione di giustizia e del suo contrario l’ingiustizia, acquista nell’opus magnum una
nuova valenza datale dalla perdita, in un certo senso, di taluna astrattezza teorica e dalla
rappresentazione, figurata, della sua attuazione attiva e concreta. Evidentemente la misura di
questa giustizia è lo stesso poeta, ma è proprio l’interpretazione che questi ne dà a stabilire la
portata del messaggio che è trasmesso. La duplice tematica si articola, a sua volta, nella duplice
categoria dell’umano e del divino e dell’individuale e universale e si concentra sul nodo
esistenziale del poeta, la pena ingiusta subita dell’esilio. A partire dall’ “io” poetico l’isotopia
della giustizia si estende all’intera umanità e il discorso prende i toni di un’orazione etica per
quanto riguarda le cause e di un proiezione ottativa per quanto riguarda le soluzioni. Impotente
ad intervenire direttamente per modificare le circostanze storiche in cui si trova a vivere, diventa
allora imperativo procedere per il poeta a una riabilitazione della propria persona. È la missione
che Dante si addossa, a livello autoriale, con la redazione della Commedia e a livello esistenziale
grazie a un doppio dispositivo; da una parte assumendo il ruolo dell’arbitro-autore che dispone, a
proprio piacimento, le anime punendole o salvandole, d’altra parte predisponendo delle figure
ideali, alter ego, dell’autore investite di messaggi programmatici. È questo duplice impianto che
il saggio presente intende seguire e proporre.
Nicolò Maria Fracasso (Università degli studi di Pavia): Madre e fuoco nella Commedia: legame
innovativo di due tradizioni iconografiche
La Commedia è a pieno titolo definibile sul piano espressivo un crogiolo di immagini, la cui
altissima temperatura inventiva forgia sempre nuove sovrapposizioni mentre procede ad isolare
elementi che una lunga tradizione ha unito; se, ad esempio per quanto riguarda l’immagine della
fonte di luce, assente nella Commedia, di recente Marco Ariani ha messo magistralmente in
rilievo la totale eterodossia dell’inventiva poetica dantesca (Dante e il Fons Lucis, in Accademia
dei Filomartani, L’acqua e i suoi simboli, a cura di G. Rati, Roma, Bulzoni 2011), che rifugge il
nesso codificato confinandolo alla sfera dell’allusione, per quanto riguarda invece il legame tra
immagini ignee e materne nel poema si ha la sensazione di assistere in presa diretta al
procedimento di fissaggio di più tradizioni iconografiche e culturali, che Dante stringe lungo il
dipanarsi dell’opera in un sinolo del tutto originale.
Proprio quindi al legame del tutto eterodosso, tanto stretto quanto ignoto alla critica, tra
immagini materne ed ignee nella Commedia, e alla sua funzione nel dettato del poema, vuole
essere dedicato il mio intervento che partirà anzitutto da un dato testuale: su sedici paragoni di
ambito materno, ben tredici si accompagnano a citazioni e riferimenti evidenti al fuoco.
Il nesso tra madre e fuoco non appare però codificato, nè a livello di fonti letterarie o scritturali
nè sul piano iconografico: per cogliere quindi appieno il meccanismo dell’inventiva ed il
profondo senso dell’espressione dantesca, è necessario isolare le due grandi aree tematiche che il
paragone materno chiama in causa, ossia quella dell’amore genitoriale e quella del nutrimento.
Per il primo ambito si crede di recuperare elementi utili ripercorrendo la storia dell’iconografia
della carità, mentre per il secondo, data la forte sovrapposizione tra nutrimento e apprendimento
linguistico nella Commedia, si prenderà in considerazione l’iconografia della grammatica.
Ripercorrendo a ritroso questi due filoni la sovrapposizione si mostra chiarissima; tanto per
l’ambito della charitas materna, quanto per quello della grammatica, è possibile infatti
identificare un’autentica filiera di fonti che, a partire dal dato scritturale, si articolano lungo i
padri latini e parallelamente lungo l’iconografia gotica pittorica e plastica: fonti in cui appunto si
evidenzia la costante, e per certi versi anche ovvia, sovrapposizione tra i due temi in esame e
l’elemento igneo.
Dante dunque, in perfetta conoscenza di tali sistemi di fonti, sembra operare una originale
sovrapposizione tra due filoni separati, dando vita ad un agglomerato innovativo e fortemente
eterodosso, sperimentato poi in misura crescente lungo l’intero dettato dell’opera e
massimamente nell’ultima cantica.
Controprova della rilevanza dell’accostamento dantesco sarà ancora una volta da ricercarsi sul
piano iconografico: Giovanni di Balduccio, allievo dei Pisano, scolpisce nel 1338 sull’Arca di
san Pietro martire (chiesa di Sant’Eustorgio, Milano) una carità che somma in sé i classici
attributi della grammatica (nutre al seno un fanciullo, come la grammatica che già per Marziano
Capella «fovet pueros») con quelli propri appunto della carità (la figura femminile ha una
fiamma scolpita sopra il seno); tale iconografia, in palese violazione di quelle delle grammatiche
e delle carità scolpite ad esempio sui pulpiti dei maestri, testimonia sul piano plastico un esito
analogo a quello raggiunto nella Commedia, praticamente coeva. Nulla vieta di supporre anzi che
proprio dal poema dantesco lo scultore abbia tratto ispirazione.
Giacomo Gambale (Università di Salerno): L’Inferno dei giuristi
«Dante ha commesso un grossolano errore nel porre con un’ingenuità da far paura sulla porta del
suo inferno quell’iscrizione: ‘fecemi l’eterno amore’». Dietro quest’affermazione di Nietzsche,
tratta dalla Genealogia della morale, si nasconde un’intuizione. Le rappresentazioni infernali
inventate dal poeta sono l’esaltazione del concetto di giustizia come ius perpetuum, legge divina
e naturale in grado di rispondere in modo implacabile, attraverso una precisa distribuzione di
punizioni, al peccato commesso dagli individui. Per questo, il concetto entra in conflitto con
l’amore, la cui logica è caratterizzata invece dall’eccedenza e dalla gratuità, in una parola dal
perdono, nei confronti dell’essere al quale esso è destinato. L’interpretazione nietzschiana della
Commedia, anche se a prima vista estemporanea, è degna di essere segnalata, in quanto scopre
nell’opera di Dante il primo delinearsi di alcuni tratti tipici del mondo moderno, per esempio
l’esaltazione della giustizia punitiva e distributiva a scapito di una giustizia che il Cristianesimo
delle origini intende come salvezza.
A partire da questa suggestione si vuole dimostrare, con un approccio al contempo teorico e
storico, come questo aspetto della modernità si evinca con forza dall’esegesi del poema
realizzata nel Trecento dai giureconsulti. L’Inferno, lungi dal rappresentare una giustapposizione
caotica di scene macabre, si rivela una vera Summa, il cui obiettivo è una ricerca scientifica –
alla luce delle categorie giuridico-romane di iniuria e di crimen stellionatus – dei reati che
l’uomo può commettere a danno del proprio simile e della società in cui è inserito. L’inchiesta
sul peccato non riguarda la dimensione intima e spirituale dell’uomo, ma la dimensione
‘esteriore’ e ‘relazionale’ della sua azione: in una parola il diritto, l’infrazione che si commette
contro una lex (divina e umana). I giuristi delineano nella loro originale lettura dell’Inferno – di
pari passo con ciò che in ambito politico è il fenomeno del progressivo accentramento del potere
e il passaggio dal sistema penale accusatorio a quello inquisitorio – alcuni elementi filosofico-
giuridici che risulteranno fondamentali in età moderna: la pubblicizzazione della giustizia, la
dimensione totalizzante e razionale del potere, la personalità della pena, la nascita del reo come
cosa (res) o persona ficta. Ai loro occhi, la Commedia non solo diventa un’autorità vivente (una
vera fonte di diritto) in grado di risolvere di volta in volta problemi ‘pratici’. Allo stesso tempo
diventa un’opera che disegna una nuova (e complessa) concezione di giustizia: statale, laica,
terza, perpetua; capace di sorvegliare e punire in modo razionale, freddo ed efficiente.
Noemi Ghetti (Roma): Amore e conoscenza nella poesia italiana delle origini
Nella rinascita dopo il Mille in diverse parti d’Europa intrepidi poeti, voltate le spalle al latino
della cultura ecclesiastica, cominciarono a cantare l’amore per la donna, dando origine alle
letterature romanze. La “lingua del sì” nasceva in Sicilia, la grande isola al centro del
Mediterraneo, dove nei secoli secoli si erano avvicendati Fenici, Greci, Romani, Arabi,
Normanni, dal disegno politico laico di Federico II, e cantava la fenomenologia d’amore con gli
strumenti offerti dalla poesia, ma anche dall’ottica, dalla fisiologia e dalla psicologia degli Arabi.
Come avrebbe fatto anche Alfonso X il Saggio in Spagna, Federico II fece inoltre tradurre il
Commento del medico e filosofo andaluso Averroè al De anima di Aristotele, fino ad allora
sconosciuto in Europa, e ne fece dono allo Studio di Bologna. Diffuso nelle università europee,
l’Aristotele arabo apriva alla conoscenza della realtà umana nuovi orizzonti, contribuendo alla
nascita della poesia siciliana e poi stilnovista, che si interrogava sulla natura dell’amore e
sull’origine della fantasia poetica, collocando al centro di una rivoluzionaria cosmologia la
donna, intorno a cui il cuore gentile innamorato ruota, come nella cosmologia tomistica gli angeli
ruotano intorno a Dio.
Mortalità dell’anima individuale, possibilità di compiuta conoscenza senza l’illuminazione della
fede e di realizzazione dell’identità umana nella dialettica amorosa, origine tutta terrena
dell’ispirazione poetica dalla vis cogitativa, fantasia dell’anima sensitiva capace di dedurre dalla
percezione dei sensi i movimenti degli affetti, di creare immagini e di dare un nome alle cose
invisibili della mente erano alcune tra le rivoluzionarie proposizioni dell’averroismo latino che
nel 1277 furono condannate come eretiche a Parigi, insieme alle eversive “regole d’amore” di
Andrea Cappellano, da cui aveva preso le mosse la lirica di Provenza.
La feroce crociata contro i Catari, l’istituzione dell’Inquisizione con i processi e i roghi degli
eretici, la dispersione della civiltà dei trovatori, la scomunica dei filosofi parigini, la sconfitta del
partito ghibellino a Benevento nel 1266 concorsero a determinare alla fine del Duecento la crisi
dei fermenti di umanesimo da cui era percorsa la rinascita. La sintesi di aristotelismo e
cristianesimo operata da Tommaso d’Aquino provvide infine a ricondurre ogni libertà di
pensiero all’ortodossia del ferreo connubio tra religione e ragione.
In questo contesto culturale va collocata la conversione di Dante dall’amore per la donna
all’amore per Dio, dalla filosofia naturale alla teologia, che sta alla radice del drammatico
dissidio umano, artistico e ideologico con Guido Cavalcanti, ultimo testimone della poesia
dell’amore irrazionale delle origini: uno scontro sanguinoso con il primo amico e maestro di
poesia, che è possibile ricostruire in tutte le sue tappe attraverso la Vita nuova, il Convivio e la
Commedia. L’evento chiave su cui si incardina la crisi, destinato a diventare un topos obbligato
della letteratura e della cultura europea fino alla modernità, è la morte di Beatrice che, spogliata
di ogni carnalità, fatta emblema di grazia illuminante e figura di Cristo, sarà la guida del poeta
del Paradiso.
Nella Commedia la condanna della poesia d’amore come istigazione alla lussuria (Inf., V) e della
conoscenza perseguita senza l’investitura divina (Inf., XXVI) è accompagnata da un lavoro
sistematico di risemantizzazione correttiva in direzione spirituale del lessico poetico dei Siciliani,
di Guinizzelli e di Cavalcanti, derivato dalla filosofia naturale, con una massiccia immissione di
termini latini derivati dalla mistica e dalla teologia scolastica medievale.
Dalla poesia come libera espressione della fantasia interna e conoscenza della realtà umana
nell’amore – il frutto dell’albero proibito del paradiso terrestre – Dante passa alla poesia morale
e profetica, ispirata da Dio per redimere se stesso e l’umanità dal peccato, continuando a fare i
conti fino all’ultimo canto del Paradiso con l’eterodossa esperienza poetica giovanile che lo
aveva portato nella «selva oscura».
Francesc J. Gómez (Universitat Autònoma de Barcelona): Il senso della poesia: sfida intellettuale
e discrezione ermeneutica
La teoria ermeneutica esposta nel Convivio (II, I, 2-15) e nell’Epistola a Cangrande (VII-VIII, 20-
25) è stata adeguatamente definita come una contaminazione di modelli esegetici eterogenei,
perché fondata da una parte sulla distinzione teologica dei quattro sensi della Scrittura e dall’altra
sulla giustificazione neoplatonica del mito filosofico come narratio fabulosa, integumentum o
involucrum di una verità nascosta. Se nel Convivio però Dante propende per il modello
filosofico, sostituendo l’allegoria poetica alla nozione teologica di allegoria in factis o typologia
e affermando il carattere favoloso de la littera come «bella menzogna», nell’Epistola si poggia
invece sul modello teologico sottolineando la sussistenza di un senso letterale il cui vero
significato è poi anche significante di un altro senso allegorico. Questa diversità è un chiaro
riflesso dell’immenso balzo che separa la finzione storica della Commedia dalle canzoni
allegoriche del Convivio: il senso allegorico della Commedia diventa analogo all’allegoria
teologica perché si fonda, senza sostituirlo né cancellarlo, su un senso letterale che comprende
realtà fisiche e personaggi storici dentro a una cronologia precisa e una cosmografia concreta. In
vece del modello di Alano di Lilla e dell’allegoresi medievale, Dante assorbe il modello
dell’Aeneis virgiliana e lo trascende come cristiano mercé i dati della rivelazione, i quali rendono
possibile che la poesia diventi da razionale a teologica, rivendicando una polisemia analoga a
quella della Scrittura.
Questa comunicazione esplora il doppio aspetto sovversivo di tale rivendicazione. Dal punto di
vista teologico, solo Dio è capace di depositare un senso occulto nella storia (significatio rerum),
per cui soltanto la Scrittura sacra ha propriamente tre sensi mistici o spirituali; l’uomo può infatti
depositare un senso occulto nelle figure del linguaggio (significatio vocum), ma questo modus
significandi aspetta al senso letterale, il massimo a cui può aspirare una scrittura umana priva
dell’intervento divino tramite la ispirazione profetica. Le pretensioni polisemiche della
Commedia potevano quindi venire interpretate come un’affermazione eterodossa del carisma
profetico di Dante, e alcune proposte di Guido da Pisa puntano a questa lettura. Più sovversiva
era invece una rinvendicazione del senso letterale tanto accesa come quella de l’Epistola, in cui
l’autoesegeta difende la realtà dell’elevatio intellectus in Deum descritta nel Paradiso: «Vidit
ergo, ut dicit, aliqua que referre nescit et nequit rediens» (XXIX, 83). Cecco d’Ascoli aveva più
volte deriso la finzione dantesca del descensus ad inferos; l’inquisitore francescano Accursio
Bonfantini ebbe a scusare la finzione della pena dei suicidi (Inf. XIII, 93-108), e molti commenti
eludono gli aspetti più compromessi delle ipotesi dantesche sull’aldilà confinandole alla
condizione di finzione poetica. Pietro Alighieri si occupò particolarmente di questo problema
analizzando minutamente i modi loquendi della Commedia fino a distinguere i sette sensi
risultanti da spiegare il sensus litteralis in quattro categorie diverse. La finzione dei traditori
dannati mentre i loro corpi campano in possesso dei demoni (Inf. XXXIII, 122-135) è uno dei casi
in cui lo schema viene applicato in un modo esemplare.
Tiago Guerreiro da Silva (Universidade de Lisboa): Dante e la credibilità delle cose scritte
Dante Alighieri era uno scrittore convinto che la verità potesse essere trasmessa tramite la
letteratura e questa convinzione ha accompagnato la stesura della Commedia, dove si trovano
frequenti rivendicazioni dell’autenticità della narrazione e delle verità trasmesse. Questo testo è
uno dei primi tentativi nella letteratura occidentale di combinare poesia con teologia, ovvero, è la
creazione di un testo poetico che si vuole trasmetta delle verità, in particolare delle verità
teologiche.
I testi biblici erano per il pensiero medievale, e per Dante incluso, la principale fonte di verità,
almeno in termini teologici, ed il sommo poeta ha voluto che la sua opera maggiore fosse un
scritto che in un certo senso imitasse gli scritti divini. Nei canti XXIII e XXV del Paradiso il
testo di Dante viene definito dallo stesso autore come "sacrato poema" (Par. XXIII, v. ) e "
poema sacro" (Par XXV, v. ).
L’intento della mia esposizione è di fare vedere che questi versi delimitano una discussione
(sviluppata soprattutto nel Canto XXIV del Paradiso) sulla credibilità del testo biblico e di
conseguenza, come vorrei dimostrare, del poema di Dante. Questo canto, infatti, generalmente
considerato un canto dove viene discussa la fede del pellegrino, con San Pietro come
personaggio centrale, diventa così un canto sulla natura della propria letteratura, dove viene
messo in scena il rapporto tra poesia, finzione e conoscenza. Dante attua un parallelismo tra la
propria scrittura a quella degli “scrittori dello Spirito Santo” provando a mettere sullo stesso
livello i testi biblici e la sua Commedia; l’espediente utilizzato da Dante per giungere a tale
conclusione è di elevare la propria scrittura al sacro e abbassare quella dei sacri scrittori ad un
livello più terreno. Nel Canto XXIV del Paradiso la poesia diventa ancora più teologica che la
teologia stessa ed è allo stesso tempo un esempio della modernità di Dante, per la riflessione e
l’autoriflessione sulla scrittura e sulla letteratura.
Sosterrò anche che il Canto XXIV del Paradiso porta in se un parallelismo tematico con il Canto
XXIV del Purgatorio, Canto emblematicamente letterario della Commedia, dove il pellegrino
incontra l’anima del poeta Bonagiunta di Lucca con il quale discute sulla definizione di poesia,
Canto che il critico Giuseppe Mazzotta definisce come “Il centro drammatico” di una sequenza
ininterrotta di incontri poetici che vanno dal canto XXI al XXVI.
Interessante sarà constatare anche il perché della scelta dei Canti XXIV per mettere a fuoco
discussioni sulla letteratura e sulla natura della scrittura, il numero 24 ha a mio parere un
rapporto diretto con la figura di Beatrice, quindi tutta la discussione che avviene nei Canti XXIV
del Paradiso e del Purgatorio assume una valenza significativamente simbolica.
Marcia Guimaraes (Universidade estadual de Maringá): L’Educazione nelle opere di Dante
Alighieri
Dante Alighieri ha agito come mediatore tra la conosenza scolastica e la società che apparteneva
a proporre una pratica sociale in cui i basi erano l’Etica e la Fede, essenze della filosofia
scolastica. Quando usiamo il termine "agire" stiamo affermando che il fiorentino ha veramente
preso una posizione come assistente sociale, perchè ha sviluppato importanti funzioni nella
politica nella sua città natale, Firenze, e anche perchè ha messo nella sua produzione literaria un
punto educazionale, non solo il modello, ma anche dal linguaggio. Sulla base di un'ampia cultura
classica e cristiana, Dante era capace di capire e mostrare ai vostri lettori le molteplici
manifestazioni della vita in società, e convincerli a lasciare dalla "selva oscura", guidato dalla
luce della conoscenza. Ha scritto in latino, come facevano gli intellettuali di quel tempo, e anche
nella lingua della Toscana, Il Toscano, non solo per evidenziare la lingua comune - una delle loro
preoccupazioni, espresse in “De Vulgare Eloqüentia” e nel “Convivio” – ma, soprattutto per
permettere la populazione di partecipare della società, e quindi , di agire criticamente. Dante ha
capito la forza delle lingue vernacolari, e ha condiviso, attraverso di loro, le sue idee. In Toscano
ha scritto in prosa (Convivio) e poesia (La Divina Commedia e la Vita Nuova). In latino, ha
scritto sull'importanza delle lingue comuni: “De Vulgari Eloqüentia”, un trattato sulla scienza e
sul linguaggio. É il primo ad affermare la superiorità intrinseca della vita nelle lingue vernacole
sul latino. È stata espressa in prosa e in versi, nella forma literale e allegorica perché, come lui
spiega nel Convivio, il letterale è più difficile da comprendere e, quindi, si propone di spiegarlo
usando le allegorie. Dante ha capito gli aspetti di variazione e cambiamento relativi alla lingua e
direttamente collegati ai cambiamenti di abitudini, tempo e luogo. Dante non si limita a notare e
studiare le limitazioni che esistono tra i membri della società, ed a osservare criticamente i
cambiamenti che erano in gioco a Firenze nei primi anni del Trecento, ma lui ha anche creato i
procedimenti, le forme, i meccanismi, in modo che l'apprendimento fosse possibile. Lui ha anche
cercato le allegorie e i simbolismi, così importanti nella cultura medievale, l'ispirazione per
educare. I valori morali, i conflitti politici, l'autonomia delle repubbliche; la giustizia e la
prudenza come prerogativa per la pace, per "il buon ordinamento del mondo," erano soggetti dei
suoi pensieri, condivisi in vari modi con i suoi contemporanei, tutti fondati su una profonda base
filosofica e teologica. L ‘obiettivo di questo studio è quello di stabilire, dal punto di vista della
filosofia scolastica, il rapporto tra il pensiero politico di Dante Alighieri e la formazione di un
cittadino critico sul mondo a cui apparteneva, usando la conosenza formale como uno strumento
prezioso per la comprensione, la critica e l'azione politica. Crediamo che i valori morali ed etici,
mentre cercano la piena attuazione umana e applicate nella dimensione della pratica sociale sono
argomenti rilevanti nella società atuale e, in questo senso, l’opera di Dante si presenta come una
ricca allusione teorica per comprendere l'importanza di questi questioni.
János Kelemen (Eötvos Loránd Tudományegyetem, Budapest): Autorità, eterodossia e
innovazione in Dante
Dante accentua in diversi luoghi che non è in grado di fare riferimento ad alcuna autorità, vale a
dire, non può fare ricorso a ciò che per gli medievali è il principale mezzo euristico di investigare
la verità („Inquirere intendamus de hiis in quibus nullius autoritate fulcimur”, De vulgari
eloquentia, I, ix; „Desidero et intemptatas ab aliis ostendere veritates”. Monarchia, I, i.). Egli
mette, molte volte, in evidenza anche le sue intenzioni innovatrici, promettendo, addirittura, di
creare una opera che prima di lui non fu mai scritta (“io spero di dicer di lei quello che mai non
fue detto d’alcuna”, Vita nuova, XLII). Da questo nuovo tipo del rapporto con l’autorità e dalle
sue intenzioni consapevolmente innovatrici sono inseparabili quelli contenuti delle sue opere che
possono essere giudicati eterodossi. Oltre ai messaggi positivi ed espliciti, sono i dubbi, le
questioni e i dilemma del poeta che rispecchiano in modo più eloquente le tendenze eterodosse
del suo pensiero. In questa sede saranno analizzati due problemi relativi a Dante eterodosso: il
suo “averroismo” e il modo in cui egli pone la questione della giustizia divina nel caso dei
miscredenti e non cristiani virtuosi.
Leila M. G. Livraghi (Università di Pisa): Raptus e Deificatio ovidiani nel sistema della
Commedia.
Nel Paradiso, il ricorso al mito è spesso finalizzato a sottolineare lo scarto esistente tra
l’esperienza del poeta-pellegrino e le vicende raccontate nelle storie pagane. Proprio a questo
servono gli exempla delle eroine coinvolte in una relazione amorosa con un dio: in confronto alla
ricerca cristiana del perfezionamento spirituale, il mito ovidiano rappresenta per Dante un
tentativo di deificatio mancata o imperfetta. In Pd. XXI 4-6, la sorte di Semele, folgorata
dall’abbraccio del suo amante divino, è contrapposta a quella di Dante, che viene preparato per
gradi alla visio Dei e a cui non è permesso neanche di ammirare il riso di Beatrice finché non è
pronto. Europa, rapita da Giove mutatosi stavolta in toro, è chiamata a rappresentare uno dei lidi
tra cui è compreso il Mediterraneo e quindi il mondo intero (Pd. XXVII, vv. 83-84); l’altro
estremo è costituito dal «varco / folle» (vv. 84-85) di Ulisse, cosicché lo sguardo che Dante
lancia alla terra, in procinto già di salire all’Empireo, si polarizza su due emblemi dell’errato
avvicendamento tra umano e divino. Nel canto XIII, infine, il doppio cerchio formato dai beati
festanti era stato paragonato alla costellazione della Corona borealis che, secondo il mito, fu
originata dal diadema di Arianna. Dopo molte peripezie, l’eroina avrebbe avuto la sua apoteosi,
giacché il catasterismo della sua corona corrisponde in definitiva a una forma di immortalità
celeste conquistata dalla donna. Dante però avverte che il paragone mitologico non deve sviare
dalla specificità della situazione descritta, cioè il canto intonato non certo a Bacco o ad Apollo,
bensì rivolto all’unico vero Dio («Lì si cantò non Bacco, non Peana» etc.; v. 25 ss.).
In Ovidio, la tela di Aracne polemizza contro le numerose unioni che gli dei avevano avuto con
donne costrette per mezzo dell’inganno e della forza. Certo, Aracne nella Commedia è trattata
come un caso esemplare di superbia, avendo osato sfidate il potere divino; tuttavia, Dante non
disconosce la qualità superiore dell’arte aracnea, capace di dare un’impressione di realismo che
può essere paragonata a quella prodotta dall’opera divina nei quadri di umiltà che corrono lungo
la parete della prima cornice del Purgatorio. Non era stata semplicemente la perizia di Aracne a
provocare l’ira di Minerva, che perciò la trasformò in ragno, ma il fatto che la tela rappresentasse
i «caelestia crimina» (Met. VI, 131). Dante è ben consapevole che i pagani adoravano «dei falsi e
bugiardi» (If. I, v. 72), cioè, in accordo all’opinione medievale, personificazioni di forze naturali
altrimenti misteriose, idealizzazioni di comuni esseri umani, per lo più manifestazioni diaboliche.
Il raptus cristiano, come quello paolino, si realizza in un’ascesa effettiva, in un reale contatto con
la Divinità. Invece i rapimenti descritti da Ovidio, anche quando si concludono con una sorta di
deificatio del rapito, non producono che una conquista parziale, offuscata da risvolti non sempre
piacevoli. Così connotati sono i due raptus – con connessa deificatio – che circoscrivono il
percorso purgatoriale di Dante: il rapimento di Ganimede (Pg. IX, vv. 22-24) e quello di
Proserpina (Pg. XXVIII, vv. 49-51).
Dante è trasportato sulla soglia del Purgatorio vero e proprio da quella che in sogno gli appare
come un’aquila e che in realtà è Santa Lucia; allo stesso modo, Ganimede era stato rapito da
Giove e portato sull’Olimpo, ma al prezzo di abbandonare la sua famiglia e diventare amante del
dio. Conclusa la scalata e ormai approdato nel Paradiso terrestre, Dante descrive Matelda,
dicendo che era tale e quale a Proserpina nel momento in cui fu ghermita da Plutone. Da Ovidio,
il mito di Proserpina è narrato sia nelle Metamorfosi sia nei Fasti, fonti entrambi dell’episodio
purgatoriale. Proserpina ricompare inoltre nel catalogo esemplificato da Aracne, a dimostrazione
che la condanna aracnea della libidine olimpica assume nella Commedia una funzione
programmatica. Infatti, secondo quest’ulteriore versione del mito, Proserpina sarebbe stata
sedotta da Giove trasformatosi in serpente. Dopo aver fatto riferimento al peccato originale nella
sacra rappresentazione di Pg. VIII e più volte nella cornice dei golosi, nell’Eden Dante preferisce
dipingere un paesaggio bloccato a prima della corruzione, alludendo soltanto indirettamente alla
tentazione in cui caddero i nostri progenitori. L’eterodossia, ovvero la novità, di Dante sta nel
contemplare un range molto più vasto di racconti mitologici e di loro variazioni. Il messaggio
sotteso, ricostruibile attraverso l’esegesi allegorica e figurale, è ortodosso, cristiano; la differenza
decisiva è che Dante non riduce tutto al senso morale, ma lo rende auto evidente in immagini di
straordinaria pregnanza narrativa e fantastica, che nulla tolgono alla fonte classica.
Carlos López Cortezo (Universidad Complutense de Madrid): Papa e antipapa all’Inferno
Sulla base della ambiguità grammaticale di Pg. XX, 87 (“e nel vicario suo Cristo esser catto”), si
arriva a una nuova lettura del passo più accorde con la diatriba di san Pietro in Paradiso XXVII,
19-27), intesa non solo in chiave morale, ma pure canonica. Per Dante, infatti, l’elezione di
Bonifacio VIII fu illegittima perché illegittima fu anche la rinuncia di Celestino V, come si
evince dall’analisi di Inferno III, 60.
Nicolò Maldina (University of Leeds): Tra invettiva e profezia. L'immagine dei Mendicanti nella
Commedia di Dante
I numerosi riferimenti agli ordini Mendicanti nella Commedia di Dante costituiscono una
costante nelle tre cantiche e si collocano al centro di importanti snodi concettuali e poetici del
poema. La relazione intende passarne in rassegna i contenuti, le forme e i possibili antecedenti
presenti alla memoria poetica dell'Alighieri per ricostruire non solo l'immagine dei Mendicanti
che Dante ha assunto e promosso, ma anche il suo ruolo nell'economia complessiva del poema,
con una particolare attenzione per il ruolo della polemica contro la degenerazione degli ordini
religiosi in riferimento alla definizione dell'identità profetica del poeta.
Maria Maslanka-Soro (Uniwersytet Jagiellónski, Cracovia): “Quella materia ond’io son fatto
scriba”: La non ortodossa ortodossia dantesca nei confronti della “scriptura paganorum” nella
Commedia
L’ossimoro presente nel titolo non è un gioco di parole: non si addirebbe a Dante come poeta “di
cose”. L’epiteto non ortodossa riferisco al metodo ermeneutico dell’Alighieri di utilizzare le
fonti classiche, in particolare quelle epiche, che si contrappone a quello solitamente applicato
nella sua epoca alla poesia di Virgilio (Eneide) e ancora di più a quella di Ovidio (Metamorfosi).
Il termine ortodossia, invece, riguarda i significati di questa poesia, i quali sul piano etico-
religioso si rivestono nella riscrittura dantesca di valore cristiano.
È risaputo che la tecnica interpretativa diffusa nell’aetas vergiliana nonché nell’aetas ovidiana è
quella allegorica. Nonostante la prima allusione medievale alla lettura allegorica dei poeti pagani
sia quella di Teodulfo nel IX secolo, quell’approccio viene praticato incidentalmente già da
Servio (IV sec.) e da Fulgenzio (V/VI sec.) nei loro commenti a Virgilio. Ma solo Bernardo
Silvestre, il cui Comentum super sex libros Eneidos Vergilii è conosciuto a Dante, utilizza quel
metodo in maniera sistematica. Per quanto riguarda, invece, Ovidius maior, sulla scia dell’opera
di Arnolfo d’Orléans, intitolata Allegoriae super Ovidii Metamorphosin (del XII secolo), i miti
ovidiani vengono trattati come un falso “velo” sotto cui si nasconde la verità (e quindi le
transformationes sono di tipo mutatio moralis). Un’altra posizione ermeneutica, più “radicale”
della prima, si potrebbe chiamare moralisatio e comporta lo scarto e la condanna delle favole
ovidiane, assieme alla loro sostituzione da una glossa esplicativa che contiene una verità
cristiana. Si tratta del famoso Ovide moralisé, composto agli inizi del XIV secolo.
Se all’altezza del Convivio Dante sembra ancora in parte influenzato da quel tipo di esegesi (e la
prova ne abbiamo p.e. nel CV IV, XXIV), nella “poesia forte” (per usare l’espressione di F.
Spera) del poema sacro il suo rapporto con i maggiori poeti epici latini subisce un cambiamento
radicale (caratterizzandosi appunto della “non ortodossia”) e sfocia in una aemulatio priscorum,
benché fondamentalmente diversa da quella degli scrittori umanisti. L’atteggiamento emulativo,
indipendentemente dalle sue forme particolari, è presente fin dall’inizio nel piano generale
dell’opus magnum che è al tempo stesso un poema che racconta il viaggio iniziatico ed un poema
delle metamorfosi.
Trattando gli episodi virgiliani e i miti ovidiani come verità storicche, Dante ne opera una
riscrittura, accompagnata spesso da un dialogo attivo (per lo più implicito), non di rado
polemico, con gli auctores. Non negando a priori il valore semantico dei loro testi, nei quali anzi
scopre germi di verità rivelata, ne propone una versione “corretta” e definitiva. Giustamente
chiamato da Peter Hawkins mythmaker, Alighieri crea la mitologia cristiana, autorizzato dal suo
ruolo di scriba Dei, stabilendo nel contempo (come notato da M. Picone) un rapporto tipologico-
figurativo tra l’Eneide e la Commedia, nonché tra Metamorfosi e la Commedia. E così ad
esempio le transformationes spirituales della anime (per limitarci al procedimento assai diffuso
nelle tre cantiche) avvengono come effetto dell’adempimento della loro figura terrena. Diversi
episodi sono stati esaminati in questa chiave dalla critica. Nel presente intervento il mio modesto
contributo consisterebbe tra l’altro nella dimostrazione che l’interpretazione dantesca dei miti,
tramandati dai loro autori nella forma “incompleta” o “distorta”, ha come punto di partenza il
cambiato rapporto tra divino e umano. L’approccio proposto mi permetterà anche di analizzare in
questa prospettivsa il rapporto falso/vero, tanto importante nella Commedia.
Norbert Matyus (Pázmany Péter Katolikus Egyetem, Budapest): Gli appelli di Dante al lettore
Il quesito dell’ortodossia e/o eterodossia dantesca sul livello retorico si presenta soprattutto come
problema di fonti e di adesione alle diverse tradizioni retoriche. La novità o eterodossia di Dante
sotto quest’aspetto pare più ravvisabile nella contaminazione delle fonti e meno in un
rinnovamento degli espedienti retorici usati.
L’intervento proposto tenta appunto di mostrare un caso contrario, cioè la forte indole
rinnovatrice dell’Alighieri per quanto riguarda un’unica figura rettorica: l’appello al lettore.
Dopo una breve e sommaria rassegna sugli studi finora eseguiti sull’argomento (Gmelin,
Auerbach, Spitzer, Russo, Ledda) vengono innanzitutto discusse le caratteristiche generali degli
appelli. Ammettendo la validità dei criteri morfosintattici e stilistici rilevati dalla critica,
l’intervento propone un ulteriore aspetto da studiare, quello narratologico. Se è vero che ogni
tipo di apostrofe interrompendo il flusso della narrazione introduce una netta distinzione tra il
tempo della narrazione e il tempo narrato, è altrettanto vero che la peculiarità degli appelli al
lettore consiste nell’introdurre un’ulteriore distinzione nell’ordine temporale della narrazione:
ogni appello al lettore infatti fa un chiaro riferimento al tempo della fruizione del testo.
Da tale premessa consegue che l’intervento dovrà proporre alcune modifiche su: 1) i criteri in
base ai quali vengono stabiliti gli aspetti generali degli appelli al lettore nelle opere dantesche; 2)
il corpus degli appelli nella Commedia; 3) il significato e il ruolo degli appelli
nell’interpretazione del testi danteschi.
Gibson Monteiro (Universidade estadual de Pernambuco): Homo viator nella Divina Commedia
Questo lavoro analizza la Divina commedia partendo dalla definizione di “Homo viator”. Per
questo il nostro studio si è concentrato sulla percezione dell’evoluzione del viaggiatore, che è
anche il protagonista dell’opera. Questo viaggiatore fittizio è concepito secondo un fascio di
relazioni che Dante-autore crea nel comporre le loro opere, di modo che abbiamo focalizzato
alcuni di questi elementi, per esempio: la presenza della nozione di esodo biblico, oltre a quella
di viaggiatore nautico greco-latino nella caratterizzazione di questo viaggiatore. Per analizzare
questi elementi, ci riferiamo a postulati della critica letteraria, alla teoria degli archetipi e a quella
della metafisica platonica. Inoltre, questo studio ha lo scopo di presentare il “Homo viator” come
metafora dell’instancabile ricerca umana della verità che arriva dal medioevo alla
contemporaneità.
József Nagy (Eötvos Loránd Tudományegyetem, Budapest): L’ideale dell’Impero Universale
nella Monarchia e nella Commedia
L’autore, rilevando le argomentazioni teleologiche della Monarchia e comparando queste con i
riferimenti all’Impero Universale nella Commedia, inoltre per mezzo della ricostruzione critica
delle interpretazioni di Kantorowicz, di Kelsen e di altri studiosi, analizza alcuni aspetti
fondamentali del contesto culturale-religioso-politico in cui Dante ha formulato le proprie idee
etico-politiche, come anche le presupposizioni teorico-giuridiche che potevano influenzare
Alighieri nella stesura della Monarchia e della Commedia.
Giuliana Nuvoli (Università degli studi di Milano): Virtù civili ed etica politica in Dante
L’etica di Dante ha, sino all’esilio, una dimensione squisitamente privata che gli deriva, in
particolare, dai Padri della Chiesa. A partire dall’inizio dell’esilio prende forma un’etica
pubblica per la quale l’individuo deve regolare i suoi comportamenti sul “bene comune”. In
questa seconda fase l’autore di riferimento è Cicerone, in particolare il De officiis, testo ben noto
anche in ambito cristiano per l’adattamento omonimo che ne aveva fatto Sant’Ambrogio.
L’intervento prende in esame questa trasformazione, partendo dalla Vita Nova e arrivando
all’inizio della scrittura della Commedia. Centrale è il Convivio che, combinazione di testi scritti
prima e dopo l’allontanamento da Firenze, mostra come il passaggio sia chiaro e inequivocabile
e si compia proprio nel quarto libro del trattato. La res publica terrena, il perno attorno al quale
ruotava l’etica ciceroniana, diventa la res publica celeste; né Firenze, né altri luoghi della
penisola italiana possono rappresentare lo Stato. Dante sposta, allora, il baricentro in una
dimensione ultraterrena: a questa egli si riferisce, a questa devono tendere – da ultimo - le virtù
civili dell’uomo.
L’etica pubblica di cui parlavamo, così, diventa universalmente valida: per ogni res publica, per
ogni Stato, per tuto il genere umano senza distinzione di spazio e di tempo.
Raffaele Pinto (Universitat de Barcelona): Eterodossia e modernità: le immagini-movimento
nella Commedia.
La rappresentazione iconografica del gesto è oggi un importante terreno di ricerca per gli storici
del cinema, che nella esplorazione sulla genealogia del suo linguaggio fanno risalire le origini
della estetica cinematografica ad un mutamento di paradigma relativo alla rappresentazione di
immagini non più statiche e fisse, come negli oggetti di culto religioso, e, in generale, nella
concezione antica dell’arte, ma dinamiche e in movimento. In particolare Gilles Deleuze ha
descritto l’immagine-movimento, densamente impregnata di temporalità, come cellula originaria
e costitutiva del linguaggio cinematografico e ne ha indicato la primitiva formulazione
nell’ambito della nascita del pensiero scientifico moderno, che attribuisce al tempo un rango
teorico di prim’ordine, sconosciuto alla scienza antica.
L’ipotesi che mi propongo di verificare con la mia analisi è che tale primato della temporalità
venga acquisito alla cultura europea già in ambito poetico, nel quadro delle poetiche del
desiderio che dai trovatori a Petrarca trasformano la cultura letteraria, collocando l’immagine
mentalmente riprodotta al centro della vita morale del soggetto e determinando così il passaggio
dalla estetica antica a quella moderna. In tale prospettiva, la Commedia appare come il primo
testo letterario d’Occidente in cui l’immagine viene rappresentata nel suo dinamismo e descritta
nella prospettiva di una percezione soggettiva che ne coglie e valorizza non la collocazione
‘cultica’ nello spazio ma il suo divenire ‘esistenziale’ nel tempo. Verranno analizzati esempi di
tale “cinematograficità” immanente alla immagine rappresentata, che fanno della poesia di Dante
uno snodo essenziale verso la estetica moderna che celebrerà il suo trionfo nella tecnologia del
cinema.
Diana Mary RAMÍREZ LÓPEZ, (Universidad de Los Andes Mérida-Venezuela): La visión de la
materia en el Infierno, Purgatorio y Paraíso en la Comedia de Dante Alighieri.
Uno de los rasgos que hace distinguir a Dante Alighieri es la fuerza del Lenguaje que plasma en
sus versos, aunada no a una simple elocuencia, sino a profundos conocimientos.
El estudio comienza percibiendo que, en el siglo XIII, Dante nos especifica la existencia de una
energía –en nuestra visión actual- distinta en el Infierno, el Purgatorio y el Paraíso. La materia
es atraída hacia el centro de la tierra, mas en los círculos estrechos y profundos del infierno
donde se anima una impresionante oscuridad, el poeta nos describe un aumento en la masa de
los cuerpos y a medida que los observamos en una escala macroscópica, innegable la
separación entre ellos, no sólo se mueven más despacio, produciendo un gran ruido al cambiar
de posición, sino que, tal cual como lo expresa Dante, nos muestra una dilación en el tiempo,
éste transcurre y se adapta a esa escala. Dante le llega a conferir a dicha materia, condiciones
de dureza, lo cual nos lo manifiesta al abrir un paralelo entre el derrumbe de una montaña y el
pesado desplazamiento de los demonios. La forma como Dante nos presenta a Dite es
comprimido sobre sí mismo; lo que en nuestro siglo se entiende como una forma densa de
materia: la energía congelada, pensamos, por ello, el hielo. Sabemos actualmente, que el frío
atenúa el movimiento de los átomos, ¿cómo podríamos entonces imaginar el tiempo?. Dante,
nos explica el estatismo de cualquier expresión de discernimiento, disminuyendo la capacidad
de percibir y de comprender. Cuando Virgilio le sugiere tener el coraje de ver al que un día fue
un bello ángel, y en el ahora, sufre la carencia del Amor divino, las palabras del poeta también
nos asombran: ¿cómo se podría privar de la vida y de la muerte?. Nos afirma de su poca
capacidad para escribirlo.
Hemos pasado al canto III del Purgatorio, la acción de las almas que vienen, pero que no
avanzan como si estuvieran suspendidas… y por el contrario, en el canto V, él abre la
comparación con la rapidez de la luz, a través de vapores… y la velocidad que de ella se
apoderan las almas para cruzar distancias. El predominio de la luz nos indica el descenso de la
acción gravitatoria concebida como venimos de apreciarla en el infierno.
Y así, llegamos al Paraíso, haciéndonos entrar en una verdadera realidad cuántica: ¿qué
significado tienen esos impulsos –que logran los saltos a una velocidad, en su momento, tan
desconocida-, que hacen trasladar a Dante y a Beatriz por las distintas esferas?. A nuestro
inmortal poeta se le hizo difícil explicarlo.
Ed io era con lui; mal del salire
Non m’accors’io, se non com’uom s’accorge, 35
Anzi il primo pensier, del suo venire.
É Beatrice quella che si scorge
Di bene in meglio si subitamente,
Che l’atto suo per tempo non si sporge.
E se le fantasie nostre son basse46
A tanta altezza, non é maraviglia,
Chè sovra il Sol non fu occhio ch’andasse
¿Disolvió Dante, la materia en el Paraíso?. El poeta nos muestra que la masa se convierte en
energía…
En conclusión, hemos pensado que estamos rezagados en comparación con la realidad de
Dante. Él tuvo percepciones de la naturaleza, que captó e intentó transmitirlas, no fue un
científico que las pudo haber reducido a las matemáticas, sino un poeta tocado por los dioses:
O buono Apollo, all’ultimo lavoro
Fammi del tuo valor sì fatto vaso,
Come dimandi a dar l’amato alloro
Además, al girar Virgilio, y estar en otra posición, ya que se presenta otro lugar distinto al que
se venía confrontando; porque tomando en consideración las palabras del poeta-guía, a la vista
de Dante, existe una posición que se le presenta en forma distinta; no sucede como lo pensaba
Dante, ¿o sólo lo percibe Dante?...”¿Dónde está el hielo?”. Podemos afirmar que el poeta
florentino ubicó a Dite, en el más bajo nivel de energía. Virgilio le dice: “Imaginaste todavía
estar en la parte allá del centro donde me así yo al pelo del potervo monstruo que traspasa el
mundo. Estuviste allí todo el tiempo que tardé en bajar, más cuando me volví, penetraste por el
punto que de una y otra parte atrae así la gravedad del globo. Ahora estás bajo el hemisferio
contrapuesto…” ¿No queda como si se patentiza ¿“el llegar a estar”?, entendiéndose ¿cómo si
él hubiese fluctuado entre dos lugares y momentos distintos?. Acaso, ¿es una realidad que se
asemeja a la superposición de estados? ¿Él está o no está consciente de el estar vivo y el estar
muerto?.
Asimismo, cuando el poeta se refiere a las almas que están casi impresas en el hielo, prisioneras
en su propio estado de conciencia, que lo cataloga como “falta de inteligencia”, esboza la
duración de este estado como larga, sin luz, la acción gravitatoria se intensifica, perdiendo las
almas la facultad de comprender el verdadero sentido de la totalidad.
Irène Rosier-Catach (Centre National per la Recherche Scientifique): L'uomo nobile e il volgare
illustre : paralleli tra la struttura del Convivio e quella del De vulgari eloquentia
Spesso sono state opposte la nobilità del latino, affermata nel Convivio, e la nobiltà del volgare,
vantata nel De vulgari eloquentia. Si tratta di una contraddizione soltanto apparente, che
poggia su due accezioni diverse di nobiltà. Cosa più importante, la nobiltà del volgare naturale è
molto differente dalla nobiltà del volgare illustre, esposta soprattutto nel secondo libro del De
vulgari eloquentia. E quest'ultima corrisponde invece alla nobilità definità in Convivio IV.
Partendo da questa constatazione si possono mettere in parallelo la costruzione dell'uomo
nobile e del volgare illustre, del Convivio e del De vulgari eloquentia: desiderio di sapere e
desiderio di ben parlare; constatazione che non tutti gli uomini realizzano questi desideri nella
stessa misura; diseguguaglianza che viene spiegata dalla presenza di una grazia particolare;
dovere che spetta a coloro che possiedono questa grazia di governare e guidare gli altri;
necessità che coloro che hanno ricevuto questa grazia la coltivino perché essa possa dare i suoi
frutti; responsabilità assunta da Dante di insegnare loro come coltivare questo seme, proietto
del Convivio per il sapere, e del De vulgare eloquentia per la lingua, cemente de la vita sociale.
Nuria Sánchez Madrid (Universidad Complutense de Madrid): La nobiltà del poeta. Una lettura
del Convivio di Dante in chiave poetico-politica
La comunicazione partirà dall’apologia del volgare contenuta nel libro I del Convivio,
intendendo principalmente identificare le ragioni per le quali Dante ritiene necesario procedere
a una sorta di personificazione etica di una lingua vernacola come il toscano. Le proprietà della
nobiltà di una semantica e una sintassi sigillate dalla soavità e l’amore in tanto che motori di
conoscenza svolgono un importante ruolo nel progetto poetico-politico del nostro poeta.
Cercheremo di segnalare, in primo luogo, che secondo il Convivio una lingua naturale più che
artificiale, in grado di comunicare elevate tesi dottrinali agli uomini, non dovrebbe lasciarsi
sedurre dalle trappole del guadagno e dell’avarizia, cause della rovina sociale della struttura
comunale. In secondo luogo, sosterremo che il poeta che si esprima abilmente in una lingua
purificata dai vizi della koiné della teologia e della filosofia medievali assumerà il compito
proprio di un nuovo Nembroto, il cui «coto» non sarà più la costruzione di una torre che
scommetta in potere con la divinità, ma bensì un’attualizzazione delle potenze espressive insite
nella lingua naturale o phùsei, cioè, quella con cui il poeta ha «tutto [suo] tempo usato». Per
ultimo, ci occuperemo di determinare se Il Convivio potrebbe considerarsi un saggio germinale
di un programa poetico-politico materializzato finalmente nell’opera magna che rappresenta
La divina Commedia, che non a caso sovrasta per vari aspetti la prima.
Rosario Scrimieri (Universidad Complutense de Madrid): De la heterodoxia a la ortodoxia en el
personaje de Beatriz: Vita nova e Commedia
¿La Beatriz de la Vida Nueva, aquella sobre la que Dante se propuso decir “quello che mai fu
detto d’alcuna”, va más allá de la Beatriz de la Commedia? ¿Podría considerarse comprendida
también dentro de esta “alcuna” la figura de la Virgen María, última presencia femenina del
Paraíso? Tratar de contestar a estas preguntas pone de manifiesto el espacio entre ortodoxia y
heterodoxia en que se mueve Dante en su obra juvenil pues la intuición de Dante sobre Beatriz
al concluir la Vida Nueva parece que sobrepasa lo que explícitamente dirá de ella en los tres
últimos cantos del Paraíso.
Luigi Tassoni (Pécsi Tudományegyetem): L’immagine del pensiero e il pensiero come immagine
nel De vulgari eloquentia
Lo studio affronta il tracciato della retorica del discorso di Dante come percorso intorno al tema,
osservando il modello di costruzione progressiva e quello di regressione comparata con la
problematica delle origini, e complicata da una serie di digressioni, opposizioni, biforcazioni,
annullamenti, eccezioni, exempla. Nei punti fermi di questo tracciato di senso si indicano le
tappe di un pensiero che si sviluppa nel farsi della scrittura del testo. Inoltre l’analisi della
scrittura del De vulgari eloquentia si apre a dimostrazione dei processi creativi del linguaggio
testuale, come appare dalle gerarchie messe in atto per la comprensione selettiva e orientativa
della locutio in quanto enunciazione elementare del dire da un piano di non necessità a uno di
necessità del dire comunicando, e fino alla nobiltà del vocare poetando, insomma della parola
della poesia come discorso alto.
Parallelamente lo studio mette in rilievo la qualità del parlare nobile e di quello non nobile, tra
istanze di molteplicità e istanze di unità, tra «imitatio soni nostrae vocis» e il silenzio locutorio
concesso agli angeli, con la posizione mediana dell’ (umana) elaborazione rimico-ritmica del
suono come parola sceltissima della dulcedo, nonché tra immutabilità delle locutiones e
differenze molteplici della percezione umana.
Momento centrale di attribuzione di referenti specifici è naturalmente quello che delimita i campi
semantici pertinenti e oscillanti, là dove si diversificano i sinonimi di eloquium, ydioma, lingua e
sermone. Qui, come in altri sèmi fondamentali del trattato, si motiva la posizione di Dante come
voce del testo che identifica se stesso come ricettore, testimone, rielaboratore, nuovo inizio,
riguardo al pensiero del linguaggio, sul linguaggio e dentro il linguaggio (poetico). Che cos’è la
poesia? In che misura essa comunica? E in che relazione Dante la pone con il «dire» elementare?
A questo scopo la piccola autoantologia dantesca indica un interessante percorso di senso fra le
rime. La tipologia selettiva di un linguaggio alto e adatto alla scrittura poetica, esemplificato
nell’ autoriferimento a precisi testi poetici dello stesso Dante, non è un percorso chiuso ma un
percorso emblematico del dire, del parlare, dello spazio necessario, insostituibile e primario della
poesia sia come forma della dulcedo enunciata sia come concatenazione e combinazione
progressiva del senso.
Natascia Tonelli (Università degli studi di Siena): Dante lirico fra tradizione e innovazione:
l’invenzione del Canzoniere moderno
Dato per acquisito il presupposto dell'autorialità della serie di canzoni dantesche così come
restituita dall'edizione critica di De Robertis, l'intervento si propone di indagare quali siano gli
elementi di novità di tale macrostruttura rispetto alle precedenti modalità autoriali di trasmissione
di liriche; e di quale possa esser stato lo specifico contributo di tale raccolta al costituirsi di
quello che sarà il 'canzoniere' (in senso moderno) per antonomasia, il canzonierepetrarchesco.
Maria Rita Traina (Università degli studi di Siena): Il volgibile cor di Cino da Pistoia: l’auto-
ostentazione dell’antietica amorosa e la percezione dell’esperienza poetica individuale come
grande narrazione.
Negli ultimi tempi il dibattito intorno alla corrispondenza intercorsa tra Cino da Pistoia e Dante è
particolarmente acceso. Alla ricerca delle possibili ragioni che hanno indotto diversi dei suoi
corrispondenti, tra i quali l’Alighieri, ad accusarlo di falsità e volubilità amorosa, s’è addirittura
ipotizzato che alla realtà extraletteraria si dovesse fare appello per trovare un fondamento ai
rimproveri dei corrispondenti (Giunta). È però possibile dimostrare che i rimproveri mossi a
Cino trovano la loro ragion d’essere all’interno della produzione poetica del pistoiese e solo in
essa. A cominciare da Dante, i cui avvertimenti – a parte in Io mi credea – tengono sempre dietro
a delle precedenti auto-rappresentazioni ciniane di amori sempre nuovi e diversi: la donna verde,
la donna in drappo scuro o la Mala spina; finché la strenua fedeltà a un’etica anticortese e non
monogama approderà all’orgoglioso ribadimento (poetico innanzitutto) delle mille donne sparte
di Poi ch’i’ fui Dante. Che le accuse rivolte a Cino siano diretta conseguenza di un suo
comportamento poetico emerge anche dalle altre corrispondenze in cui quelle vengono reiterate,
anche se dal coacervo tradizionale va esclusa la corrispondenza con Cacciamonte da Bologna
(che verte su altre questioni che non hanno nulla a che vedere con la doppiezza in amore). Va
riletta con attenzione anche la corrispondenza con Guelfo Taviani il quale accusa Cino di
doppiezza e falsità in toni aggressivi e in un dettato ‘comico’. Infatti, i presunti missivi ciniani
nulla hanno che formalmente li renda testi di corrispondenza (si risolvono in una variazione sul
tema dell’ennesima donna: Teccia-cavaliere, costituendo ciclo a sé stante); in secondo luogo –
ed è ciò che qui importa – il Taviani tira in ballo Selvaggia (tradita, quindi), altrimenti taciuta da
Cino e affatto estranea alla corrispondenza (la catacresi della coppia è petrarchesca e si trova nel
Triumphus cupidinis). È probabile che Guelfo abbia scritto i sonetti a latere. La coerenza
richiesta a Cino è una coerenza a tutto tondo, giustificata con un occhio alla sua intera (o a gran
parte) produzione poetica. Se la corrispondenza in sei battute con Gherarduccio non pone
problemi quanto al suo statuto, anche qui le accuse di doppiezza travalicano l’occasione dello
scambio perché il bolognese rimprovera Cino di amare contemporaneamente l’anonima donna
dei missivi e una certa pola (anche in questo caso, né allusa, né mai nominata da Cino nella
corrispondenza), dietro la quale sembra ragionevole intravedere la merla che avvinghia il poeta
nell’ennesimo ciclo (quello del Cino lussurioso, come notato recentemente da Marrani). Al ciclo
della merla e al ciclo di Teccia-cavaliere va aggiunto anche lo sviluppo vitanovistico del tema
del doppio amore convogliato nella serie dei sonetti del Marciano (Venezia, Biblioteca
Nazionale Marciana, Italiano IX 529) e riconosciuto da Marrani recentemente.
Lo studio è volto quindi a suggerire una nuova possibilità di lettura per i testi in cui si declina la
celeberrima volubilità di cuore di Cino – in primis quelli in cui è direttamente coinvolto Dante –
assumendo come punto di partenza un’analisi ‘intra-generica’, dal momento che queste accuse
vengono palesate unicamente nei testi di corrispondenza, luoghi in cui il rimatore pistoiese
mostra l’incorreggibile tendenza a ‘mettersi avanti’ in prima persona con la sua esperienza,
anche quando il contesto (una questione più generica, ad esempio) non lo richiede (è il caso di
alcuni resposivi). Questa ricercata esibizione investe soprattutto le auto-rappresentazioni ciniane
in sede di dialogo in versi: è agli interlocutori che Cino esprime il suo bisogno di conferme, la
ricerca di consigli o la speranza del semplice compatimento. La vicenda intima (nelle sue
multiformi sfaccettature) diviene mezzo di ostentazione principale delle proprie avventure
amorose (il soggettivismo lirico venendo a coincidere, nei fatti, con la possibilità stessa di fare
poesia) e l’individualità sentimentale coacervo di possibilità poetiche.
Silvia Tranfaglia (Università di Bologna): Per una poetica dell’immanenza: natura e arte
nelle ‘petrose’ dantesche
Con le ‘petrose’ Dante apre il discorso poetico a prospettive del tutto inedite rispetto al dire di
Amore così come si era andato configurando alla nascita di una lirica moderna in volgare di sì.
Proposito di questo intervento è quello di mostrare come l’estrema complicazione della forma
delle quattro canzoni dantesche in nome di ‘Petra’ leghi il problema cruciale della significatività
della forma a una ricerca che è essenzialmente una volontà di esplorazione conoscitiva.
Lo scavo nelle potenzialità espressive della parola poetica e nei meccanismi che regolano la
costruzione del metron restituiscono infatti la chiave di accesso a una novitas che è “novità di
visione delle cose”.
Una novità che è perseguita attraverso la sapientia dei classici: Virgilio, Ovidio, Lucano, ma
anche Seneca offrono a Dante l’occasione di sperimentare un linguaggio capace di descrizioni di
estrema precisione, che, lontane da ogni intento di puro didatticismo, muovono intorno a un
ritrovato rapporto parola-realtà. La parola, veicolo di Amore per eccellenza nella poesia delle
Origini, diventa, nell’esattezza terminologica delle petrose, accessus alla realtà che si disvela
nella molteplicità degli elementi. Ed è una parola che ritrova la sua aderenza al reale non in uno
sforzo mimetico-descrittivo, ma nell’evidenza di un’intima corrispondenza dell’espressione
all’immagine rappresentata.
Arte e scienza (scienza della natura in specimen) sono i poli dialoganti di una poesia che
scaturisce dalla tensione, sempre viva in Dante, a rinnovare gli orizzonti gnoseologici di una
riflessione che è poetica e esistenziale insieme.
La struttura formale della repetitio (che diventa suggestivo jeu des constantes et des variables
nella sestina, incalzante riproposizione di un tema dato in Io son venuto al punto de la rota,
tentativo di una sistematica explicatio delle ragioni e delle conseguenze di Amore in Amor, tu
vedi ben che questa donna) traduce sul piano strutturale l’estrema esperienza di un amore chiuso
nella immanenza mortifera di un presente assoluto.
Unico scarto possibile di fronte al pericolo di un canto poetico serrato nella ‘dura petra’ è il
convergere di ‘dire’ e ‘agire’ teorizzato in Così nel mio parlar voglio esser aspro, dove l’azione
si fa parola, la canzone saetta. Ma questa nuova dimensione della parola poetica sarà
compiutamente realizzata solo nella Commedia, laddove l’impresa del viaggio coincide con la
scrittura del libro.
Paola Ureni (City University of New York-College of Staten Island): Medicina e pensiero
radicale. La presenza del pensiero galenico nella Commedia.
Il pensiero medico medievale contribuisce in profondità al più ampio dibattito filosofico sulla
definizione di anima individuale, e in particolare sulle relazioni fra attività sensitive e intellettive
dell’anima. Sulla base della supremazia attribuita alla dimensione corporale, emerge la
possibilità di investigare ulteriori connessioni fra il cosiddetto pensiero radicale e la medicina
medievale. La presenza, accreditata dalla critica, del sapere medico attraverso l’opera dantesca,
solleva questioni di natura filosofica e teologica, secondo un’intersezione dei campi di pensiero
che rende la medicina partecipe di nodi cruciali nella dialettica, propria del dibattito del tempo,
fra prospettive intellettuali ortodosse e eterodosse. Focali per la discussione intellettuale in
genere, e la scienza medica in particolare, sono questioni quali l’interazione fra le dimensioni
corporale e razionale, e, ancora più nello specifico, la natura dell’intellezione umana, la sua sede,
i suoi eventuali limiti. Linee di pensiero considerate pericolose (perchè eterodosse) penetrano nel
dibattito del XIII secolo anche attraverso l’approccio scientifico, clinico, quasi deterministico,
del sapere medico. Owsei Temkin sottolinea come “Galenic basic medical science, i.e., his
doctrines of Nature and of the elements, qualities, and tissues, together with his doctrine of
research presupposed the validity of the Aristotelian approach to nature and to knowledge”; sulla
base di un approccio scientifico che trova convalida in un metodo dimostrativo, la rinnovata
diffusione di testi sia galenici che aristotelici caratterizza il XIII secolo e procede su binari/linee
parallele e a tratti in relazione. Nancy Siraisi documenta la riscoperta del sapere galenico da parte
del circolo bolognese che fa capo a Taddeo Alderotti: Bologna, centro di discussione e sviluppo
del pensiero aristotelico radicale, accoglie anche la riscoperta e la rinnovata attenzione per altri
testi passibili di contenuti eterodossi, quelli medici della tradizione galenica. La supremazia
accordata da Galeno alla teoria della complessione corporea e dunque alla dimensione corporale,
determina anche una dipendenza dell’anima dal corpo che suggerisce lo studio di possibili
relazioni fra galenismo e epicureismo. Sulla base del rinnovato interesse per i testi galenici nel
XIII secolo, questa comunicazione considera aspetti radicali del pensiero medico e
specificamente galenico, e, sulla base di tale prospettiva, propone di investigare e rileggere la
presenza di una traccia gelenica (radicale o no) attraverso la scrittura dantesca con particolare
attenzione alla Commedia.
Juan Varela-Portas de Orduña (Universidad Complutense de Madrid): Il corpo eterodosso di
Dante Alighieri
La pretesa di verosimiglianza è una caratteristica schiettamente sovversiva nella Divina
Commedia. Il fatto che un laico affermi di essere salito fino all’Empireo, come Paolo, ed essere
ritornato con gli “affetti sani” per raccontar la propria esperienza, e tutto ciò in virtù di una
missione divina assegnata direttamente a lui, fu senz’altro difficile da accettare per le autorità
ecclesiastiche e per la mentalità più strettamente feudale. Ma per dotare di tale carattere
verosimile il racconto, Dante dovette risolvere dei problemi non trascurabili. Abbiamo già
parlato in altra sede della risorsa del sogno come modo per collegare gli “affetti” di Dante
visionario e Dante visionato. Ma questa risorsa non servirebbe a nulla se Dante visionario non
fosse salito in cielo con il corpo o almeno con i sensi e l’immaginazione completamente in grado
di agire. L’intervento esaminerà come Dante risolve nel Paradiso la questione del corpo e come
articola letterariamente –ma anche gnoseologicamente e teologicamente– quel nonsense che
presuppone l'essere nell’Empireo, luogo non materiale per eccellenza, con la propria materialità
Marco Veglia (Università di Bologna): La conversione di Beatrice
L'immagine di Beatrice, prima della Commedia, è almeno duplice, se consideriamo ciò che entra
e ciò che esce, o non entra affatto, nel libello giovanile. Diventa triplice se, come credo, alcuni
tratti della Pietra, e perfino della Pargoletta, vanno riferiti alla multiforme natura della figlia di
Folco Portinari. Il rischio di non cogliere la conversione di Beatrice si traduce nel rischio di non
comprendere esattamente la conversione di Dante. L'attenzione, allora, va portata più da vicino
sul principio del poema e in particolare sui canti I-II. La durezza di Beatrice, la sua indifferenza
allo smarrimento di Dante, portano a un rimprovero celeste: Lucia, "nimica di ciascun crudele",
redarguisce Beatrice e questa si affretta a persuadere Virgilio a intervenire per la salvezza del
poeta. L'ingranaggio del poema prevede allora che la conversione di Dante, il suo viaggio verso
Beatrice, cominci con l'insolita, prodigiosa conversione di Beatrice.
Éva Vígh (Szegedi Tudományegyetem): La «doppia fiera». La lettura del grifone tra Medioevo
ed età moderna
Il codice interpretativo dei vari animali nell’opera dantesca ricalca, da una parte, le concezioni
radicate nei vari bestiari, dall’altra, dimostra la fantasia e l’osservazione acuta di Dante nei
confronti del mondo animale. L’esegesi simbolica degli animali può rappresentare un valido
strumento per poter operare un raffronto con la produzione letteraria anteriore, contemporanea e
posteriore alla Commedia, produzione alquanto ricca di simbologie animali. Ora, considerando
una delle linee proposte del convegno (La questione della conoscenza: filosofia, sapienza, fede,
immaginazione), mi accingo a percorrere brevemente la descrizione e la natura allegorica del
grifone nelle fonti antiche presumibilmente note a Dante e in alcuni testi della prima età moderna
per accentuare l’ingegnosa idea del nostro poeta nell’immaginare, al timone del carro nella
processione nel Paradiso terrestre, la «fiera / ch’è sola una persona in due nature».
Eduard Vilella (Universitat Autònoma de Barcelona): “La mente ov’io la porto” (RimeV, 34):
l’io lirico fra eterodossia e ortodossia?”
Sono diversi i fronti vincolati all’espressione della soggettività nell’opera di Dante che è solito
indicare quali elementi rilevanti nella storia della letteratura, un discorso sviluppato in speciale
dalla Vita Nuova e dalla Commedia, ma per il quale l’ambito delle Rime offre ovviamente
numerosi spunti. Il mio proposito è la lettura in questo senso di versi di Amor che movi
osservandone le loro particolarità in quanto “ultimo esito del motivo siciliano della pintura”
(Contini), dalla prospettiva di un’eventuale incipiente costruzione dell’io lirico.
Raffaela Zanni (Università di Roma La Sapienza- Université Lille 3 “Charles de Gaulle”): Tra
curialitas e cortesia nel pensiero dantesco: una ricognizione (e una proposta) per Dve I, xviii, 4.
La comunicazione intende proporre un affondo sul concetto medievale di cortesia nel pensiero
dantesco, che esula dal più comune retaggio (e vagheggiamento) delle antiche virtù cavalleresche
(fino ad ora assai indagate dal punto di vista dantesco), e che si inserisce invece in un ambito
speculativo e di azione preminentemente politica. Si intende quindi dimostrare come un tale
campo di tensioni possa aver orientato, sulla scorta di una indiscussa fonte del pensiero politico
medievale (e dantesco) come Egidio Romano, la scelta dell'epiteto curiale per il volgare da parte
di Dante De vulgati eloquentia. Un sorprendente corto-circuito linguistico-semantico tra il
termine latino curialitas e il corrispettivo romanzo ‘cortesia’ (in una filiera para-etimologica
sulla base dell'assai precoce assimilazione da parte del latino curia e derivati dell'originale cohors
- che sopravvive come etimo negli esiti romanzi) si riscontra parallelamente in contesti assai
differenti, che hanno entrambi indubbiamente influenzato il farsi del pensiero dantesco: la
trattatistica erotica cortese del De amore e suoi volgarizzamenti toscani, da un lato, ma
soprattutto il pensiero filosofico-politico espresso nel De regimine principum da Egidio Romano,
tra redazione originale e suoi volgarizzamenti romanzi (antico-francese e toscano, praticamente
coevi all'originale). La resa volgare di curialitas con cortesia opera una sovrapposizione di campi
semantici arrivando sostanzialmente ad un unico concetto ; curialitas/ cortesia costituisce per
Egidio la virtù per eccellenza dell'essere nobile, un complesso valoriale sommo e misurato di
potenziamento in atto della nobiltà e di esercizio della stessa (da parte di colui che in quanto
nobile è preposto al governo della res pubblica, sia esso il principe, il sovrano ecc. - ma anche il
podestà forestiero nella riflessione di Brunetto): ciò raggiunge l’Alighieri al momento dell’esilio,
nella composizione del De vulgari e del Convivio ove il letterato e l'intellettuale si interroga
profondamente (a livello filosofico e nella sua ricaduta pragmatica) sul proprio rapporto con le
istituzioni e sulla propria collocazione al di fuori o dentro di esse (quella tensione irrisolta che
diventerà paradigmatica nel modello intellettuale proposto da Petrarca), sul concetto di nobiltà
(di sclatta e di core), e sul ruolo non solo poetico, ma politico della locutio volgare. La
trasposizione intatta di tale campo di tensioni nella Commedia permette di comprendere meglio,
sotto tale rispetto, gli esempi di magnanimità cittadina e il richiamo alla nobiltà e cortesia del
buon tempo antico operato da Dante, nonché l’investitura poetico-politica da parte del nobile avo
Cacciaguida.