Principia Contradictionis Sui Principi A

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  • 8/18/2019 Principia Contradictionis Sui Principi A

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    2 · 2008

    P IS A · RO MA

    FABRIZIO SERRA · EDITORE

    MMIX

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    SOMMARIO

    B I ,IntroductionR S ,Self and Morality: Cross-Cultural Perspectives J G ,Self and Morality: Some Indian Perspectives on SorabjiC O ,‘Self’ and ‘Soul’ in Indian Philosophy J Y , After Socrates and After Confucius: Self, Virtue, and SoulC G ,The Ancient Self – Where now? J W ,The Lockeanism of AristotleE B , C L , Le ‘je’ de l’être juif chez Philon d’Alexandrie et Lévinas

    W C , Principia contradictionis. Sui principi aristotelici della contraddi-zione (§ 4)

    L M. C ,Te í Ó Ï¤ÁÂÙ·È ÔÏÏ·¯á˜ . Questioni aristoteliche sui signi -cati dell’uno

    Norme redazionali della Casa editrice

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    La dimostrazione all’impossibile assume che ogni cosa affermarla o negarla [scl.il ], e questi non sempre univer-salmente, ma tanto quanto è sufficiente; e sufficiente è nel caso del genere. Intendo con ‘nel casodel genere’, per esempio, il genere sul quale uno conduce le sue dimostrazioni, come si è detto an-che prima.

    . APo. 11, 77a22-25Contro la tesi che i principi dimostrativi siano assunzioni o premesse delle dimostrazioni, DavidRoss ha obiettato che sempre in APo. 11 Aristotele sostiene che «nessuna dimostrazione assume(Ï·Ì‚¿ÓÂÈ) che non è possibile insieme affermare e negare [scl.il Principio di NonContraddizione ( )]» (77a10-11), a meno che non si voglia provare una conclusione della fma ‘S è P e S non è non- P ’. Questo, secondo Ross, indicherebbe che per Aristotele gli assiomipiù generali come il e il servono non da premessea partire dalle qualidimostrare, ma daprincipisecondo i quali(«according to which») ragionare; servono cioè non da principicostitutivima da principire olatividelle dimostrazioni, vale a dire da regole di inferenza.Negli Analitici Se-condi( 2, 72a1 -2 ) le premesse ultime da cui derivano le dimostrazioni scientiche nei vari g

    neri dell’essere non sono gli assiomi più generali, ma i principi particolari di ciascuna scienza(ı¤ÛÂȘ), cioè da un lato le «ipotesi» (ñ Ôı¤ÛÂȘ), dall’altro le «denizioni» (ïÚÈÛÌÔ›). Inoltre, in APo. 32, 88a36-b3, Aristotele sostiene espressamente la tesi che «non è possibile che fra i prinpi comuni ve ne siano alcuni a partire dai quali (âÍ zÓ) siano provate tutte quante le cose», per-ché «i generi degli enti sono diversi, e alcuni appartengono alle quantità, altri soloalle qualità; ed è con tali predicati (ÌÂı\ zÓ ) che si conducono le prove per mezzo dei comuni (‰Èa ÙáÓ ÎÔÈÓáÓ)», cioè si prova una conclusione per mezzo (‰Èa) degli assiomi assu-mendo (ÌÂÙa) i principi propri di ogni genere dell’essere.Ross considera pertanto «rather mi-sleading» da parte di Aristotele descrivere gli assiomi più generali comeÙa âÍ zÓ: «the axiomsare in a peculiar sense theâÍ zÓ , the most fundamental starting-points of all», cioè nel senso chenon sono assunzioni o premesse (ciò da cui), ma regole di inferenza (ciò secondo cui): «even if weinsert the law of contradiction as a premiss, we shall still have to use it as a principlein order to justify our advance from that and any other premiss to a conclusion».

    I principi dimostrativi sono dunque costitutivi o regolativi? Premesse o regole di inferenza?Entrambe le tesi incontrano serie difficoltà. Mario Mignucci, per esempio, ritiene più naturaleinterpretareÙa âÍ zÓ come premesse, osservando giustamente che la distinzione di funzionedei principi proposta da Ross non è mai esplicitamente asserita da Aristotele. Ma di fronte al-l’obiezione rappresentata da APo. 11 la sua replica appare tutt’altro che convincente. Egli sug-gerisce infatti che in questo passo Aristotele «consider[i] esclusivamente il caso di dimostraziondirette in forma sillogistica, per cui possiamo pensare che il ( ) ai suoi occhi possa avere uimpiego più vasto in argomentazioni non costruite formalmente come sillogismi o che non sia-

    Cfr. M 1975, p. 239: «ilÙ·ÜÙ·

    iniziale non può essere riferito al solo nelle sue varie formulazioni,[…], ma sembra allargare la considerazione che segue, se non a tutti i principi comuni, per lo meno a quello di noncontraddizione». Così già G C (1955), che traduceÙ·ÜÙ·con «[t]ali assiomi»;contraB 1975 («andthat») e 1993 («They assume it»); P 2005 («et cela»). M 2007, p. 33, traduceÙ·ÜÙ·con «queste cose».

    Ma Aristotele ammette anche sillogismi (cioè deduzioni valide) aventi premesse fra loro contrarie o con-traddittorie, la cui conclusione ovviamente non può essere vera: cfr. APr. 15, 6 a1-15 e 6 b7-27 (su cui vedi S1989, p. 20 ; W 200 , p. 8 [che cita erroneamente il passo come I 15]; M 2007, p. 188).

    Cfr. R 19 9, p. 56. D’accordo con David Ross, M K 1992, p. 71: «They [scl.gli assiomi «trascenden-tali», cioè e , e l’assioma «categoriale» degli uguali, cioè sottraendo da uguali uguali restano uguali] argulative principles or inference licenses for going from propositions about a given genus to other propositionsabout it»; ma in seguito (pp. 7 -75) l’autore riconosce agli assiomi sia un ruolo costitutivo come premesse delle mostrazioni sia un ruolo regolativo come leggi logiche.

    Cfr. D 1975, p. 8. Sulla critica aristotelica dell’idea di una scienza universale deduttiva e per un’ana dettagliata di APo. 32 vedi in particolare W 2001, pp. 101-169.

    R 19 9, p. 531 (corsivo mio).

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    no dirette».È singolare che un principio dimostrativo non si applichi alla dimostrazione, cioè alsillogismo scientico ( APo. 3, 71b18), tanto più che i principi dimostrativi di Metaph. B 2 sonodetti anche «principi sillogistici» in Metaph. ° 3, 1005b7, e «principi sillogistici immediati» in APo.

    2, 72a1 -17, al pari dei principi particolari delle varie scienze. Ora, il per Aristotele non soloè un principio dimostrativo, ma è anche quello cui si rifanno tutti coloro che dimostrano

    ( ¿ÓÙ˜ Ôî à Ô‰ÂÈÎÓ‡ÓÙ˜), perché è il principio anche di tutti gli altri assiomi ( Metaph. ° 3,1005b32-3 ). Non si vede perciò come «possa avere un impiego più vasto in argomentazioni noncostruite formalmente come sillogismi» e non nelle «dimostrazioni dirette in forma sillogisti-ca», o si limiti alle argomentazioni indirette, quando, come Mignucci stesso riconosce subito do-po, Aristotele chiaramente assegna al e non al la funzione di premessa nelle dimostra-zioni per assurdo. E d’altra parte Mignucci non offre alcun esempio dell’uso del comepremessa in tali argomentazioni diverse dalle dimostrazioni dirette in forma sillogistica.

    Quanto alla tesi di David Ross che i principi dimostrativi siano regole di inferenza e non pre-messe, a parte l’interpretazione innaturale diâÍ zÓ , essa urta da un lato contro la natura mani-festamente proposizionale di tali principi, che Aristotele chiama appuntoÚÔÙ¿ÛÂȘ( Metaph. B2, 996b31),e dall’altro contro l’esplicita assegnazione al della funzione di premessa nelle di-mostrazioni per assurdo.Non si vede insomma quali regole di inferenza possano rappresenta-re principi proposizionali come il e il , né Ross da parte sua chiarisce mai di quali regolesi tratti e come vengano applicate. In ogni caso, i principi dimostrativi sono principi sillogisticie quindi, quale che sia il loro ruolo, costitutivo o regolativo, nella dimostrazione, la soluzione delproblema va ricercata, a mio avviso, nella teoria aristotelica del sillogismo e della dimostrazio-ne, cioè negli Analitici Primie Secondi, cominciando da quello che sembra essere il caso più sem-plice e su cui abbiamo maggiori informazioni, cioè dal ruolo che Aristotele assegna al nelledimostrazioni per assurdo.

    Fra i testi aristotelici riguardanti la dimostrazione per assurdo (o più esattamente la dimo-strazione all’impossibile,ì Âå˜ Ùe à‰‡Ó·ÙÔÓ à ‰ÂÈ-ÍÈ )̃ il più interessante per i nostri scopi è senz’altro APr. 11, il primo di quattro capitoli ( 11-1 )dedicati allareductio ad absurdum( ) sia in generale sia in ciascuna delle tre gure sillogistiche. All’inizio di 11 Aristotele introduce il sillogismo per impossibile(ï ‰Èa ÙÔÜ à‰˘Ó¿ÙÔ˘ Û˘ÏÏÔÁÈ-Û̘) distinguendolo dallaconversio syllo ismi, di cui ha trattato nei capitoli precedenti, e lo esem-plica così:T45 ÔxÔÓÂåÙeAÙ†B ·ÓÙdñ ¿Ú¯ÂÈ, ̤ÛÔÓ‰bÙe°,âaÓñ ÔÙÂı”ÙeAjÌc ·ÓÙdjÌˉÂÓdÙ†Bñ ¿Ú¯ÂÈÓ,

    Ù† ‰b ° ·ÓÙ›, ¬ ÂÚ qÓ àÏËı¤,̃ àÓ¿ÁÎË Ùe ° Ù† B j ÌˉÂÓd j Ìc ·ÓÙd ñ ¿Ú¯ÂÈÓ. ÙÔÜÙÔ ‰\ à‰‡Ó·ÙÔÓ,œÛÙ „Â܉Ԙ Ùe ñ ÔÙÂı¤ÓØ àÏËıb˜ ôÚ· Ùe àÓÙÈΛÌÂÓÔÓ.Per esempio, se Aappartiene a ogniBe ‘C ’ funge da termine medio, qualora venga supposto che Ao non appartiene a ogniBo non appartiene a nessunB, ma appartiene a ogniC – la qual cosa è,come si era convenuto, vera – è necessario cheC o non appartenga a nessunBo non appartenga aogniB. Ma questo è impossibile; di conseguenza ciò che è stato supposto è falso; dunque è verol’opposto .

    A . APr. B 11, 61a27-31L’esempio si compone di due sillogismi aventi la stessa conclusione: ‘ A appartiene a ogniB’(‘ AaB’): il primo deriva la conclusione in modo diretto, cioè «probativo» o «ostensivo» (‰ÂÈÎÙÈ-

    M 2003b, pp. 81-82.David Ross traduceÚÔÙ¿ÛÂȘdi Metaph. B 2, 996b31 con «proposizioni» ( propositions), Giovanni Reale con

    «premesse».Signicativo il silenzio di Ross al riguardo nel suo commento ad APo. 11, dove si limita a una parafrasi del te-

    sto aristotelico: «The law of excluded middle is assumed by thereductio ad impossibile». Signicativo è anche che,parlando del , osservi: «It is obvious that no proof of the law of contradiction, for example, is possible, sinceall proofassumes this law» (19 9, p. 5 3, corsivo mio).

    Su tale qualica vedi le riserve di W 200 , pp. 52-55.

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    162 Îᘠ); il secondo in modo indiretto, cioè per impossibile. Il sillogismo diretto è un sillogismo inBarbaraavente come termine medio ‘C ’ («se Aappartiene a ogniBe ‘C ’ funge da termine me-dio») e quindi formalmente corrisponde alla seguente derivazione:

    ( ) AaC ( ) CaB

    , ( ) AaB , Barbara.Il sillogismo indiretto assume inveceex hypothesifra le premesse la contraddittoria della tesi daderivare, cioè ‘ Anon appartiene a qualcheB’ (‘ AoB’), insieme alla prima assunzione del sillogi-smo diretto, cioè ‘ Aappartiene a ogniC ’ (‘ AaC ’), e ne deriva inBarocola contraddittoria della se-conda assunzione del sillogismo diretto, cioè ‘C non appartiene a qualcheB’ (‘CoB’):

    ( ) AaC ( ) AoB ex hypothesi

    , ( ) CoB , Baroco.

    Ora, poiché si è convenuto che il sillogismo diretto sia in realtà un sillogismo dimostrativo, cioèderivi correttamente una conclusione vera da premesse vere, ne consegue che la conclusione delsillogismo per impossibileè da ritenersi senz’altro falsa in quanto è la contraddittoria di una pro-posizione vera, la seconda premessa del sillogismo diretto; e quindi, dal momento che la deri-vazione è formalmente corretta e dal vero non può derivare correttamente il falso, almeno unadelle due premesse è falsa; ma la prima è senz’altro vera, essendo un’assunzione del sillogismodiretto; dunque sarà falsa la seconda, quella assuntaex hypothesi:

    ( ) ¬ AoB , .

    A questo punto Aristotele conclude direttamente che «dunque è vero l’opposto » (àÏËıb˜ ôÚ· Ùe àÓÙÈΛÌÂÓÔÓ), cioè ‘ AaB’, chiudendo in questo modo la dimostrazione perassurdo:

    ( ) AaB ?

    Manca tuttavia ancora qualcosa di fondamentale per chiudere la dimostrazione per assurdo, cioèla regola di inferenza che legittimi la derivazione di (5) da ( ). Aristotele la fornisce esplicitamenalla ne del capitolo ed è qui che interviene il come assunzione implicita ma necessariaT46 º·ÓÂÚeÓ ÔsÓ ¬ÙÈ Ôé Ùe âÓ·ÓÙ›ÔÓ àÏÏa Ùe àÓÙÈΛÌÂÓÔÓ ñ ÔıÂÙ¤ÔÓ âÓ ± ·ÛÈ ÙÔÖ˜ Û˘ÏÏÔÁÈÛÌÔÖ˜. Ô≈Ùˆ

    ÁaÚ Ù Ù àÓ·ÁηÖÔÓ öÛÙ·È Î·d Ùe àÍ›ˆÌ· öÓ‰ÔÍÔÓ. Âå ÁaÚ Î·Ùa ·ÓÙe˜ ì Ê¿ÛȘ j ì à Ê·ÛȘ,‰Âȯı¤ÓÙÔ˜ ¬ÙÈ Ôé¯ ì à Ê·ÛȘ, àÓ¿ÁÎË ÙcÓ Î·Ù¿Ê·ÛÈÓ àÏËı‡ÂÛı·È. ¿ÏÈÓ Âå Ìc Ù›ıËÛÈÓàÏËı‡ÂÛı·È ÙcÓ Î·Ù¿Ê·ÛÈÓ, öÓ‰ÔÍÔÓ Ùe àÍÈáÛ·È ÙcÓ à Ê·ÛÈÓ.È chiaro dunque che in tutti i sillogismi < per impossibile> non si deve assumereex hypothesiil con-trario ma l’opposto , perché così facendo la conclusio-ne sarà necessaria e la proposizioneendossale. Se infatti in ogni caso l’affermazione o la

    Nel presentare le derivazioni seguo L 1965, pp. 9-10 / 1986, pp. 12-13: a sinistra numero le assunzioncentro riporto i passi numerati della derivazione, a destra indico la regola di assunzione (A) o di derivazione chegiustica il passo corrispondente, insieme ai numeri delle premesse usate nell’applicazione della regola.

    Ciò che è impossibile, cioè non solo falso manecessariamentefalso, è la conclusione ‘CoB’, in quanto è la con-traddittoria di una proposizione vera, ‘CaB’, la seconda premessa del sillogismo diretto. In questo modo Aristote-le applica all’assunzione da ridurre (‘ AoB’) e alla sua conseguenza impossibile (‘CoB’), e non all’assunzione daridurre e alla congiunzione di contraddittorie ‘CaB ∧CoB’, come ci si aspetterebbe di norma (cfr.infra, p. 166). Rin-grazio Giorgio Volpe per aver richiamato la mia attenzione su questo punto.

    Per l’uso frequente diàÍ›ˆÌ· come sinonimo diÚÙ·ÛÈc̃fr. B 2007, p. 288 (n. 2 di p. 122), chetuttavia sceglie di tradurre convenzionalmenteàÍ›ˆÌ· con «axiome» «par souci de préserver une différence ter-minologique entreàÍ›ˆÌ· et ÚÙ·ÛȘ» (p. 26 [n. 5 di p. 102]). Anche P F (2007, p. 73) traduceàÍ›ˆÌ· dise 2 , 179b1 , con «assioma» e commenta (p. 20 ): «àÍ›ˆÌ· è qui verosimilmente una premessa generale». Così an-che M 2007, p. 156. Sull’origine dialettica del termine vedi D 1975, p. 21 n. b.

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    negazione, una volta che sia stato provato che non è vera la negazione, è necessario che sia veral’affermazione. Inversamente, se non si pone che sia vera l’affermazione, è endossale ritenere verala negazione.

    A . APr. 11, 62a11-17

    Per derivare l’universale affermativa ‘ AaB’ dalla negazione della sua contraddittoria, cioè dellaparticolare negativa ‘ AoB’, occorre dunque assumere una esemplicazione del , cioè la di-sgiunzione esclusiva

    AaBw AoB,

    e applicare a essa la regola d’inferenza tradizionalmente detta Modus Tollendo Ponens( ), re-gola che nella logica stoica sarà elencata come quinto degli anapodittici crisippei, cioè:

    (· w ‚ ), ¬‚ ├─ · ,

    e che, come osserva Aristotele, è sempre applicabile nel caso dei contraddittori a differenza deicontrari. La dimostrazione per assurdo di ‘ AaB’ si conclude dunque assumendo il e appli-cando :

    ( ) ¬ AoB , AaBw AoB, ( ) AaB ,* .

    Il (o una sua esemplicazione) è dunque in Aristotele una delle due assunzioni necessarie diogni dimostrazione per assurdo di una tesi. Come tale è una premessa e non una regola di infe-renza, ma al tempo stesso è parte integrante, insieme alla negazione di uno dei disgiunti con-traddittori, di una regola di inferenza.Resta ora da vedere se nell’ambito della teoria aristoteli-ca del sillogismo e della dimostrazione un risultato analogo si può ottenere anche per il .

    . 2.

    Michael Wedin ha suggerito di recente una soluzione da un punto di vista logico al problemarappresentato dalla tesi nale di Metaph. ° 3, quella che chiama «[t]he ultimacy claim»:T47 ‰Èe ¿ÓÙ˜ Ôî à Ô‰ÂÈÎÓ‡ÓÙ˜ Âå˜ Ù·‡ÙËÓ àÓ¿ÁÔ˘ÛÈÓ âÛ¯¿ÙËÓ ‰Í·ÓØ Ê‡ÛÂÈ ÁaÚ àÚ¯c ηd ÙáÓ ôÏψÓ

    àÍÈˆÌ¿ÙˆÓ ·≈ÙË ¿ÓÙˆÓ.

    Modus Tollendo Ponens( ) e la sua conversa, Modus Ponendo Tollens( ), prima di essere, rispettivamente,il quinto e il quarto anapodittico crisippeo, sono regole di inferenza tacitamente in uso nelle divisioni platonichedelSo stae del Politico(cfr. C 1982, p. 50, e 1995, p. 129). La loro prima formulazione esplicita è data da Ari-stotele inTop. 6, 112a2 -31, anche se non in relazione alle proposizioni ma ai predicati incompatibili:≠OÛÔȘ ‰\àÓ¿ÁÎË ı¿ÙÂÚÔÓ ÌÓÔÓ ñ ¿Ú¯ÂÈÓ, ÔxÔÓ Ù† àÓıÚÒ Å ÙcÓ ÓÛÔÓ j ÙcÓ ñÁ›ÂÈ·Ó, […]‰Â›Í·ÓÙ˜ ÌbÓ ÁaÚ ¬ÙÈ ñ ¿Ú¯ÂÈı¿ÙÂÚÔÓ

    ,¬ÙÈ Ôé¯ ñ ¿Ú¯ÂÈ Ùe ÏÔÈ eÓ ‰Â‰ÂȯÙ˜ âÛÌÂı·Ø âaÓ ‰\ ¬ÙÈ Ôé¯ ñ ¿Ú¯ÂÈ ‰Â›ÍˆÌÂÓ

    ,Ùe ÏÔÈ eÓ ¬ÙÈ ñ ¿Ú¯ÂÈ

    ‰Â‰ÂȯÙ˜ âÛÌÂı·(«A tutti quei soggetti cui necessariamente appartiene uno solo di due predicati, per esempioall’uomo la malattia o la salute, […] provando infatti che uno dei due predicati appartiene , avremoprovato che l’altro non appartiene [ ]; se invece proveremo che non appartiene, avremo provato che l’altro ap-partiene [ ]»).

    Cécile Wartelle interpreta i principi dimostrativi in quanto principi sillogistici come regole di inferenza e ci-ta il caso delle dimostrazioni indirette: «Par exemple, dans les démonstations indirectes, de –P faux je peux infé-rer (avec le principe de non-contradiction et le principe du tiers-exclu) que P est vrai» (W 2001, p. 311;con-tra W 200 , p. 3 : «Le principe du tiers exclu intervient […] dans toutes les démonstrations indirectes. C’est bien une prémisse», anche se non «une prémisse syllogistique» [pp. e 6]). In realtà, come si è visto, la regola diinferenza è e il principio dimostrativo cui si applica è il , non il ; così anche W 200 , p. 5 n«Si elle est fausse, la contradictoire est vraie (c’est ici qu’intervient le principe du tiers exclu ou la formule qui l’im-plique)», che tuttavia a p. 9 estende l’intervento al . Che il sia un principio necessario nelle dimostrazio-ni indirette è sostenuto anche in G 2001, pp. 80-81, seguendo verosimilmente Łukasiewicz.

    W 2000, p. 116. Ringrazio Luca Castagnoli per avermi segnalato l’importanza di questo articolo.

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    Perciò tutti coloro che dimostrano si rifanno a questa credenza ultima [scl.al ]: essa infatti è pernatura principio anche di tutti gli altri assiomi.

    A . Metaph. ° 3, 1005b32-3

    In che senso tutti coloro che dimostrano si rifanno al ? E perché il è principio anche

    tutti gli altri principi dimostrativi? La risposta di Wedin alla prima domanda è che il non né una premessa né una regola di inferenza, ma una presupposizione comune a ogni argomen-to deduttivo valido, ovvero ciò da cui dipende lavaliditàdi ogni deduzione. Vediamo la sua ri-sposta nei dettagli.

    Ogni argomento deduttivo valido è tale se il condizionale corrispondente, cioè il condiziona-le che ha come antecedente la congiunzione delle assunzioni e come conseguente la conclusio-ne, è una verità logica. Per esempio, lo schema deduttivo:

    (a ) p→q, p ├─ qè valido perché il condizionale corrispondente:

    (b) ( p→q)∧ p→q

    è una verità logica. Ma a sua volta il condizionale corrispondente equivale (per la legge di Cri-sippo) alla negazione della congiunzione dell’antecedente e della negazione del conseguente,cioè:

    (g) (( p→q)∧ p→q)↔¬((( p→q)∧ p)∧¬q).Tale equivalenza e quindi la verità logica del condizionale corrispondente si fondano su un ri-corso al , in quanto il condizionale corrispondente equivale alla negazione di una contrad-dizione, come si evince applicando alla congiunzione:

    (d) (( p→q)∧ p)∧¬qle leggi logiche del calcolo proposizionale. Pertanto, conclude Wedin, la verità logica di (b) e

    quindi la validità di (a

    ) dipendono dal , anche se nonusano

    tale principio come premessa ocome regola di inferenza.La risposta di Wedin ha senz’altro il merito di non essere evasiva ed è la sola, a mia conoscenza

    che si cimenti da un punto di vista logico con la tesi aristotelica per cui ogni dimostrazione si rifà al . Ma quello che più colpisce di questa interpretazione è la sua totale estraneità alla logic

    Per la traduzione cfr. in particolare W 2001, p. 306 n. 306; 200 , p. 51 n. 6. Delle due traduzion bili diàÓ¿ÁÔ˘ÛÈÓ(intransitiva: «si rifanno», o transitiva: «riconducono ») ho scelto quella in-transitiva, che adotta anche Wartelle, seguendo K 1993, p. 8, e C e N 1989, p. 126: tale traduzfatti, come osserva giustamente Wartelle, ha un senso «più debole», in quanto per essa il «est au fondement dtoutes les démonstrations, sans nécessairement être utilisé par ceux qui démontrent». Quanto all’omissione del-l’articolo dopo il dimostrativo (Âå˜ Ù·‡ÙËÓ[…]âÛ¯¿ÙËÓ ‰Í·Ó), essa è perfettamente grammaticale in greco: la co-

    struzione con l’articolo sarebbe solo più enfatica («si rifanno a questa che è la credenza ultima») rimarcandol’âÛ¯¿ÙËÓ. Myriam Hecquet, invece, suggerisce ora di intendereàÓ¿ÁÔ˘ÛÈÓcome transitivo e reggenteâÛ¯¿ÙËӉͷÓ: «C’est pourquoi, quand ils font des démonstrations,tous ramènent l’opinion ultime à celle-ci, car par nature, el-le est le principe aussi de tous les autres axiomes» (H -D e S 2008, p. 123, corsivo miduzione è senz’altro possibile da un punto di vista grammaticale, anche se un po’ laboriosa, e ha inoltre il vantaggio di conservare adàÓ¿Áˆ il valore prevalente di verbo transitivo (ma per il suo uso intransitivo cfr. per es. P . R.

    528a6 citato in N 2008, p. 377 n. 27). Tuttavia, «ricondurre l’opinione ultima a questa» mi sembra solo udo alquanto articioso di dire che il è l’«opinione ultima» (come intende anche Hecquet nella sua analisi del-l’argomentazione, premessa alla traduzione: «tous reviennent à cette opinion ultime» [p. 67]). Che per Aristotele i

    sia una‰Í·e che quindiâÛ¯¿ÙËÓ ‰Í·Ósi riferisca verosimilmente a esso e non a una qualsiasi «opinione ulti-ma» (?!) mi pare confermato dal fatto che a Metaph.° 6, 1011b13, il è detto espressamente‚‚·ÈÔÙ¿Ùˉͷ ·ÛáÓ(cfr. anche B 2, 996b28-29:à Ô‰ÂÈÎÙÈÎa˜ Ùa˜ÎÔÈÓa˜ ‰Í·˜ âÍ zÓ ± ·ÓÙ˜‰ÂÈÎÓ‡Ô˘ÛÈÓ). Cfr. ora anche la traduzionedi M -P D e A J (2008, p. 153): «C’est pourquoi tous ceux qui font une démomontent à cette opinion dernière, car elle est par nature le principe de tous les autres axiomes aussi».

    Cfr. W 2000, pp. 117-118.

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    di Aristotele, cioè alla teoria analitica del sillogismo e della dimostrazione. Wedin non cita un so-lo passo aristotelico a sostegno della sua interpretazione, né si rifà mai, anche quando sarebbeovvio, alla storia della logica antica. La sola fonte citata è il Manuale di lo icadi Quine e proprioa proposito della legge di Crisippo (che Wedin non menziona), cioè della tautologia ‘( p→q)↔¬( p ∧¬q)’. Il punto di vista di Wedin è in realtà quello della logica proposizionale classica, non

    della logica predicativa aristotelica. Lo schema deduttivo scelto da Wedin per stabilire la dipen-denza dal della validità di ogni deduzione, non è il sillogismo analitico, ma il Modus Ponen-do Ponens( ), cioè, per la logica antica, il primo degli argomenti anapodittici crisippei. Stoico,come testimonia Sesto Empirico, e non aristotelico è anche il principio di condizionalizzazione,cioè la tesi che la validità di uno schema deduttivo dipende dalla verità logica del condizionalecorrispondente. E stoica è altresì la legge logica di Crisippo, che in realtà deriva dall’interpreta-zione crisippea del condizionale comeÛ˘Ó¿ÚÙËÛȘo connessione. Questi riferimenti stoici sonodel tutto assenti nella diagnosi che Wedin fa del problema aristotelico, ma soprattutto non sonoapplicabili alla teoria logica di Aristotele.

    Da questo punto di vista l’esempio più signicativo è quello della legge logica di Crisippo, omeglio dell’interpretazione crisippea del condizionale comeÛ˘Ó¿ÚÙËÛȘo connessione: un con-dizionale è «sano» (ñÁȤ)̃, cioè vero, se e solo se la congiunzione dell’antecedente e della nega-zione del conseguente è logicamente falsa, per esempio è una contraddizione. Un pendant ari-stotelico di questa tesi può essere ravvisato nella regola sillogistica dellaconversio syllo ismi. Scriveinfatti Aristotele all’inizio di APr. 8:

    T48 Te ‰\ àÓÙÈÛÙÚ¤ÊÂÈÓ âÛÙd Ùe ÌÂÙ·ÙÈı¤ÓÙ· Ùe Û˘Ì ¤Ú·ÛÌ· ÔÈÂÖÓ ÙeÓ Û˘ÏÏÔÁÈÛÌeÓ ¬ÙÈ j Ùe ôÎÚÔÓ Ù†Ì¤ÛÅ Ôé¯ ñ ¿ÚÍÂÈ j ÙÔÜÙÔ Ù† ÙÂÏÂ˘Ù·›Å. àÓ¿ÁÎË ÁaÚ ÙÔÜ Û˘Ì ÂÚ¿ÛÌ·ÙÔ˜ àÓÙÈÛÙڷʤÓÙÔ˜ ηd ÙɘëÙ¤Ú·˜ ÌÂÓÔ‡Û˘ ÚÔÙ¿Ûˆ˜ àÓ·ÈÚÂÖÛı·È ÙcÓ ÏÔÈ ‹ÓØ Âå ÁaÚ öÛÙ·È, ηd Ùe Û˘Ì ¤Ú·ÛÌ· öÛÙ·È.Convertire è mutare la conclusione e deriva-re sillogisticamente la conclusione che o il termine maggiore non apparterrà al termine medio oil termine medio non apparterrà al termine minore. È necessario infatti che, convertendo la con-clusione e rimanendo invariata una delle due premesse, la premessa restante sia eliminata, perché

    se essa rimarrà, rimarrà anche la conclusione. A . APr . 8, 59b1-5

    Aristotele prende a esempio un sillogismo di prima gura inBarbara, cioè un sillogismo della forma:

    ( ) AaB( ) BaC

    , ( ) AaC , Barbara.

    Tale sillogismo si può convertire in due modi: o assumendo come premessa maggiore la con-traddittoria della conclusione e lasciando invariata la premessa minore, o assumendo come pre-messa minore la contraddittoria della conclusione e lasciando invariata la premessa maggiore.

    Nel primo caso si avrà un sillogismo di terza gura inBocardodella forma:( ) AoC ( ) BaC

    , ( ) AoB , Bocardo,

    la cui conclusione è la contraddittoria della premessa maggiore del sillogismo inBarbara. Nel se-condo caso invece si avrà un sillogismo di seconda gura inBarocodella forma:

    ( ) AaB( ) AoC

    , ( ) BoC , Baroco,

    Cfr. W 2000, p. 117 n. 9.

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    la cui conclusione è la contraddittoria della premessa minore del sillogismo inBarbara. In en-trambi i casi una delle premesse del sillogismo inBarbaradeve essere eliminata, perché «se essarimarrà, rimarrà anche la conclusione», cioè si avrà insieme la conclusione del sillogismo inBar-barae la sua contraddittoria. Come per la legge di Crisippo la congiunzione formata dall’ante-cedente di un condizionale vero e dalla negazione del suo conseguente è necessariamente falsa,così per la regola dellaconversio syllo ismil’insieme formato dalle premesse di un sillogismo e dal-la contraddittoria della conclusione è necessariamente contraddittorio. Ma in questo modo Ari-stotele ha soltanto dimostrato per assurdo la validità della regola dellaconversio syllo ismi, non ladipendenza della validità del sillogismo dal . E, come si è visto, per Aristotele la dimostrazione per assurdo assume il , non presuppone il :

    ( ) AaB( ) BaC ( ) AoC

    , ( ) AaC , Barbara, , ( ) AoC ∧ AaC , ├─ ∧, ( ) ¬ AaB ,

    AaBw AoB, , ( ) AoB ,* .

    Wedin fonda la validità degli schemi deduttivi sul ricorso al , evocando il principio di condzionalizzazione e la legge di Crisippo, e applica tale teoria ad Aristotele. Ma in Aristotele la valdità degli schemi deduttivi, cioè dei modi validi delle tre gure sillogistiche, non dipende dal bensì dalla validità, assunta come evidente, dei modi validi della prima gura, nei quali si risolvono (direttamente o indirettamente) i modi validi delle altre gure. Se vi è una soluzione al pro- blema posto dall’«ultimacy claim» aristotelico, questa va ricercata in primo luogo nella teoria arstotelica della dimostrazione, cioè del sillogismo dimostrativo, e non nel Manuale di lo icadiQuine. In questo senso, la soluzione proposta da Wedin, malgrado il suo interesse da un punto

    di vista logico, è solo un esempio di quellaà ·È‰Â˘Û›· ÙáÓ àÓ·Ï˘ÙÈÎáÓ, «mancanza di educa-zione negli Analitici», già lamentata da Aristotele;ed è anche un esempio, aggiungerei, di comenonsi debba fare storia della logica antica.

    Come interpretare allora dal punto di vista della teoria aristotelica della dimostrazione la te-si che ogni dimostrazione si rifà in ultima analisi al ? E in che modo conciliare questa tesi coquella di APo. 11 che nessuna dimostrazione «assume» il ? A mio avviso, il signicato della

    A . Metaph.° 3, 1005b3- . Barbara Cassin e Michel Narcy traducono‰È\ à ·È‰Â˘Û›·Ó ÙáÓ àÓ·Ï˘ÙÈÎáÓcon«par manque de formation à l’analyse», ritenendo che le paroleÙáÓ àÓ·Ï˘ÙÈÎáÓnon abbiano qui il loro «senso li- bresco», cioè non si riferiscano agli Analitici, ma quello tecnico di analisi, cioè di «risoluzione di un oggetto nei

    suoi elementi primi»: «Avant d’être le titre d’un ouvrage d’Aristote, en effet, le motàÓ·Ï˘ÙÈΘ

    désigne la techni-que de resolution d’un objet en ses élements premiers» (1989, p. 180), e rinviano per questo all’Index AristotelicusdiBonitz. Ma il senso tecnico di cui parlano non è attestato alla voceàÓ·Ï˘ÙÈΘ(cfr. B 1870, 8b33-39): a par-te l’occorrenza di Metaph. ° 3 e quella di Rh. , 1359b10 (öÎ Ù Ùɘ àÓ·Ï˘ÙÈÎɘ â ÈÛÙ‹Ì˘, su cui cfr. ora L200 , pp. 89b-90a), le altre occorrenze sono tutte citazioni degli Analitici(per cui cfr. B 1870, 102a30- 0). Inol-tre non si vede come il pluraleÙáÓ àÓ·Ï˘ÙÈÎáÓpossa essere tradotto con «analyse»; inne l’interpretazione cheCassin e Narcy propongono diàÎÔ‡ÔÓÙ·ã 1005b5 non come chi riceve un insegnamento ma come più in gene-rale l’uditore (1989, pp. 180-181) suona alquanto forzata e innaturale. Vedi anche le giuste riserve di Wp. 276, e la traduzione di Myriam Hecquet in H -D e S 2008, p. 121: «c’est par igno Analytiquesqu’ils le font». La menzione degli Analiticiè ora riconosciuta anche da N (2008, p. 372 n. 16).

    Per la denizione aristotelica dià ·È‰Â˘Û›·come non saper discernere a proposito di ciascuna questione le ar-gomentazioni pertinenti e quelle non pertinenti, cfr.ee 6, 1217a8-10:à ·È‰Â˘Û›· Á¿Ú âÛÙÈ ÂÚd ≤ηÛÙÔÓ ÚÄÁÌ·Ùe Ìc ‰‡Ó·Ûı·È ÎÚ›ÓÂÈÓ ÙÔ‡˜ Ù\ ÔåΛԢ˜ ÏÁÔ˘˜ ÙÔÜ Ú¿ÁÌ·ÙÔ˜ ηd ÙÔf˜ àÏÏÔÙÚ›Ô˘˜.

    O H (200 , p. 5 ) scrive invece, erroneamente, che «[i]n the Posterior Analytics. 11 Aristotle main-tains that it is not necessary to assume the principle of excluded middle to make a demonstration».

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    tesi aristotelica di Metaph. ° 3 è insieme più semplice e più profondo di quello proposto da We-din, e riguarda direttamente il concetto aristotelico di dimostrazione.

    Per Aristotele la dimostrazione è un sillogismo che deriva una conclusione vera a partire dapremesse vere e primitive o da premesse la cui conoscenza (ÁÓáÛȘ) trae origine da premesse ve-re e primitive.La verità delle premesse è ciò che distingue il sillogismo dimostrativo dal sillogi-

    smo dialettico, le cui premesse non sono vere maendossali, cioèhanno fama diessere vere sulla base del consenso della maggioranza o dell’autorità dei sapienti. Aristotele ogni volta distinguela dimostrazione (à ‰ÂÈÍȘ) dall’argomentazione dialettica (â ȯ›ÚËÌ·): la prima ritrae la no-stra conoscenza scientica del mondo,la seconda le nostre credenze vere o false sul mondo.La dimostrazione riguarda la logica della verità, l’argomentazione dialettica la logica della cre-denza. La nozione scientica di vero èsistematica(verità primitive e derivate, «assiomi» e «teo-remi»), quella dialettica di endossale è radabileo intensiva(più o meno endossale).

    Sillogismo dimostrativo e sillogismo dialettico differiscono dunque per quella che i com-mentatori greci di Aristotele chiamano la «materia» (≈ÏË) del sillogismo, cioè per la modalità del-le premesse (vere o endossali).Ma la differenza tra premessa dimostrativa e premessa dialetti-ca riguarda anche il modo in cui tali premesse sono assunte in quanto parti di una coppia dienunciati contraddittori:T49 ÚÙ·ÛȘ ‰\ âÛÙdÓ àÓÙÈÊ¿Ûˆ̃Ùe ≤ÙÂÚÔÓ ÌÚÈÔÓ, íÓ Î·ı\ ëÓ˜ , ‰È·ÏÂÎÙÈÎc ÌbÓ ì ïÌÔ›ˆ˜ Ï·Ì‚¿ÓÔ˘Û·

    ï ÔÙÂÚÔÓÔÜÓ, à Ô‰ÂÈÎÙÈÎc ‰b ì óÚÈṲ̂ӈ˜ ı¿ÙÂÚÔÓ, ¬ÙÈ àÏËı¤.̃Premessa è l’una o l’altra parte di una contraddizione, un predicato di un soggetto: dia-lettica quella che assume indifferentemente una qualsiasi delle due parti, dimostrativa quella cheassume determinatamente l’una o l’altra parte, perché vera.

    A . APo. 2, 72a8-11

    Chi discute assume «indifferentemente» (ïÌÔ›ˆ˜ ) l’uno o l’altro dei contraddittori: per l’argo-mentazione dialettica vale la «regola di assunzione (o delle assunzioni)» del calcolo di deduzionenaturale, che permette di introdurre aqualsiasipasso di un’argomentazionequalsiasienunciato

    A .Top. 1, 100a27-29. Quella che Aristotele chiama «dimostrazione per riduzione all’impossibile» è soloin apparenza un controesempio a questa denizione: la dimostrazione per assurdo, infatti,nonèun sillogismo di-mostrativo, in quanto una delle assunzioni è falsaex hypothesie la deduzione, come si è visto, è solo in parte unsillogismo, perché prevede alla ne l’applicazione tacita di una regola d’inferenza non sillogistica come (cfr.supra, p. 163, e APr. , 50a29-32).

    «Dialettiche sono che deducono la contraddittoria a partire da premesse endossali»(‰È·ÏÂÎÙÈÎÔd[scl. ÏÁÔÈ] ‰\ Ôî âÎ ÙáÓ âÓ‰ÍˆÓ Û˘ÏÏÔÁÈÛÙÈÎÔd àÓÙÈÊ¿Ûˆ˜) (Arist.se 2, 165b3- ; cfr. anche Metaph.B 1, 995b23-2 ; Rh. 25, 1 02a33-3 ).

    A .Top. 1, 100a27-30. Per la denizione di «credenze endossali» (öÓ‰ÔÍ·) cfr. 100b21-23 e Cavini 1989, p. 18:che si tratti di una denizione (¬ÚÔ)̃ e non di una semplice descrizione è detto chiaramente a 101a11, anche se nonsembra essere una denizione per genere prossimo e differenza specica ma per enumerazione completa dei casi,come quella di vero e falso in Metaph.° 7, 1011b25-27. J B (2007, p. 280 [n. 2 di p. 117]) parla di «de

    nizione disgiuntiva» degliöÓ‰ÔÍ·

    e non vede nessuna buona ragione pernon

    considerarla come una denizione.La dimostrazione è il sillogismo scientico (â ÈÛÙËÌÔÓÈΘ), cioè quello in base al quale «riteniamo di cono-scere» (ÔåÒÌÂı· ÁÈÓÒÛÎÂÈÓ) insieme la causa e la necessità di qualcosa: APo. 2, 71b9-19, cfr. 2 , 85b23.

    Le nostre credenze sul mondo possono essere veree endossali, falsema endossali, falsee adossali, veremaadossali: cfr. C 1989, pp. 17 e 36 n. 7.

    A . APr. 16, 65a35-37. Sulla differenza tra vero e endossale cfr. A . A .in Top.19.22-27 W.: «Ciò cheè endossale differisce da ciò che è vero non per il fatto di essere falso (alcuniöÓ‰ÔÍ·sono veri), ma per il giudizio (Ù” â ÈÎÚ›ÛÂÈ). Nel caso infatti di ciò che è vero il giudizio è dato in base alla cosa (à eÙÔÜ Ú¿ÁÌ·ÙÔ˜)su cui verte : quando concorda (ïÌÔÏÔÁ”) con essa, allora è vera. Nel caso invece diciò che è endossale il giudizio non è dato in base alle cose, ma agli ascoltatori (à e ÙáÓ àÎÔ˘ÓÙˆÓ) e alle creden-ze (ñ ÔÏ‹„ˆÓ) che essi hanno sulle cose» (citato in C 1989, p. 37 n. 9).

    Cfr. C 1989, p. 17.Cfr. A . A .in Top.2.2-5, 2.15-3. W.; A .in APr.19.13-17 W.; P .in APr. 3.18-33 W. Per la distin-

    zione tra forma e materia logica nella logica antica vedi B 1990 e 2007, pp. 280-286.Per l’emendazioneàÓÙÈÊ¿Ûˆc̃fr. C 2007b, p. 123 n. .

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    168 scelto come assunzione dell’argomentazione.Invece chi dimostra assume «determinatamente»(óÚÈṲ̂ӈ)̃ l’uno o l’altro dei contraddittori perché vero: l’argomentazione dimostrativa comequella dialettica presuppone il , cioè la tesi che non è possibile assumere insieme i contraddittori, ma limita la regola di assunzione alle premesse vere, scartando quelle false. Lo schemadeduttivo soggiacente è il seguente:

    ¬(· ∧¬· ), · ├─ ¬¬ · ,cioè una variante del terzo anapodittico crisippeo:

    ¬(· ∧ ‚ ), · ├─ ¬‚ .Prendiamo allora un sillogismo dimostrativo, per esempio:

    ( ) AaB( ) BaC

    , ( ) AaC , Barbara.Entrambe le assunzioni saranno vere e quindi sarà vera anche la conclusione. In che modo chidimostra si è rifatto in ultima analisi al in questa banale dimostrazione della verità di ‘ AaC ’?

    Supponiamo che non valga il , supponiamo cioè di ammettere la co-verità dei contradditto-ri, e quindi che chi dimostra possa – come il dialettico – assumere «indifferentemente» l’una ol’altra parte di una contraddizione «perché vera», per esempio sia ‘ AaB’ sia ‘ AoB’. Assumendo‘ AaB’ potremo assumere, come nel sillogismo precedente, anche ‘BaC ’ e dimostrare così la veri-tà di ‘ AaC ’. Assumendo invece la contraddittoria di ‘ AaB’, cioè ‘ AoB’, non potremo più assumerecome premessa minore ‘BaC ’, perché le due premesse sono sillogisticamente sterili (da esse nonderiva alcun sillogismo); dovremo assumere invece la conversa di ‘BaC ’, cioè ‘CaB’, perché, da-te queste premesse, potremo derivare inBocardola conclusione ‘ AoC ’:

    ( ) AoB( ) CaB

    , ( ) AoC , Bocardo.

    Col sillogismo inBarbaraavremo dimostrato la verità di ‘ AaC ’, col sillogismo inBocardoquelladella sua contraddittoria ‘ AoC ’. La conclusione è che, se non valesse il , potremmodimostra-recheo niasserzione sul mondo è vera. E questo ovviamente renderebbe il mondo inintelligi- bile e perfettamente superua la ricerca della verità, e quindi del tutto vano il desiderio natura-le dell’uomo di conoscere.

    Solo presupponendo il , cioè la negazione della co-verità dei contraddittori, l’assunziondi uno dei due implica necessariamente (per il terzo anapodittico crisippeo) la negazione del-

    Cfr. L 1965, p. 9 / 1986, p. 12. Questo ovviamente non signica che in un’argomentazione dialetticarispondente possa assumereinsiemeuna tesi endossale e la sua contraddittoria adossale o paradossale, cioè viola-

    re il . L’argomentazione dialettica è soggetta non meno di quella scientica a tale principio, e anzi compitodell’interrogante è proprio quello di derivare la contraddittoria della tesi inizialmente assunta dal rispondente. Mala differenza sta in questo, che in un’argomentazione dialettica il rispondente può sempre,in linea di principio, sce-gliere di assumere una premessa endossaleo la sua contraddittoria adossale, a seconda della strategia argomenta-tiva adottata, dal momento che laÚÙ·ÛÈd̃ialettica è una domanda del sì o del no, cioè chi interroga permettedi scegliere fra due enunciati contraddittori. L’argomentazione scientica invece non è «erotetica» o interrogati-va: «infatti chi dimostra non può interrogare dato che non si prova la stessa cosa se si assumono gli opposti » (A . APo. 11, 77a33-3 ; cfr. anchese 11, 172a15-17;Top. 1, 155b7-16; W 200 , p. 50). De-vo questa precisazione a Paolo Fait, che ringrazio, anche se non credo con questo di averlo persuaso.

    Ovviamente tale assunzione èad hoc, dal momento che per ‘BaC ’ non vale laconversio simplex (s) in ‘CaB’, malaconversio per accidens( p) in ‘CiB’.

    Cfr. C 2007a, pp. 17-20. Wartelle osserva giustamente che «[u]n seul énoncé est vrai dans le cas ddémonstration à l’exclusion de sa contradictoire» (2001, p. 312; 200 , p. 53), ma poi assegna al un ruolo smantico sia sintattico non conseguente a tale esclusione. Per il ruolo che il avrebbe, secondo Wartelle, nelldimostrazione indiretta, vedisupra, p. 163 n. 2.

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    l’altro, bloccando in questo modo la possibilità di dimostrare due conclusioni contraddittorie,cioè la «trivialità» della dimostrazione. Come il si applica a una conclusione falsaper deriva-re la verità della tesi contraddittoria, chiudendo in questo modo la dimostrazione per assurdodella tesi, così il si applica a una premessaveraper derivare la falsità della contraddittoria,aprendo in questo modo la via alla dimostrazione (diretta o indiretta) di una conclusione vera.

    Ma a differenza del , il (o una sua esemplicazione) non è una delle assunzioni necessa-rie per la dimostrazione (diretta o indiretta) di una tesi, in quanto, come Aristotele sostiene in APo. 11, nessuna dimostrazione lo assume come premessa; tuttavia è al tempo stesso premessae parte integrante, insieme a una delle assunzioni della dimostrazione, della regola di inferenzache permette di negare l’assunzione contraddittoria, bloccando in questo modo la trivialità del-la dimostrazione.

    Il signicato della tesi che chi dimostra si rifà sempre al è racchiuso dunque, a mio avvi-so, nella regola di assunzione che distingue il sillogismo dimostrativo dal sillogismo dialettico:chi dimostra assume determinatamente uno dei contraddittori perché vero e con ciò, presup-ponendo il e applicando il terzo anapodittico crisippeo, implicitamente scarta come falsol’altro contraddittorio, bloccando in questo modo la possibilità di dimostrare due conclusionicontraddittorie e quindi di rendere triviale l’attività dimostrativa.Resta ora da esaminare l’altratesi contenuta nell’«ultimacy claim» aristotelico della ne di Metaph. ° 3, quella cioè che il èper natura principio anche di tutti gli altri assiomi. Infatti è per tale priorità naturale del ri-spetto agli altri principi dimostrativi che tutti coloro che dimostrano si rifanno a esso nelle lorodimostrazioni.

    . 3.Łukasiewicz trova senz’altro oscura la tesi di Aristotele per cui il non è soltanto la «legge ul-tima» ma anche la «leggesomma»: «non sappiamo infatti se Aristotele ritenga il principio di con-traddizione il fondamento sufficiente oppure necessario di tutti gli assiomi»,ma obietta che per-sino secondo Aristotele il non è la legge somma, almeno non in quanto presupposto

    necessario di tutti gli altri assiomi logici, perché il principio del sillogismo (e quindi ildictum deomni et nullo) è indipendente dal . La riprova sarebbe data dal più volte citato APo. 11, in cuisi ha un esempio di sillogismo (cioè di deduzione formalmente corretta) nonostante la contrad-dizione contenuta nella premessa minore.

    Wedin fa notare invece che la tesi per cui chi dimostra si rifà sempre al è introdotta comeconseguenza della tesi che il è il più certo dei principi dimostrativi: «it isbecauseit is the r-mest of principles that is the principle every demonstration goes back to», e suggerisce diinterpretare la tesi che il è anche il principio di tutti gli altri assiomi nel senso che non nesta-biliscela validità, ma nemanifestala certezza: se è possibile ingannarsi sugli altri principi dimo-strativi, allora è possibile ingannarsi anche sul ; ma questo è impossibile, come è stato di-mostrato nella seconda parte di Metaph. ° 3; dunque «the rmness attaching to is inherited

    by all principles whose denials out the principle of non-contradiction».

    Questa è anche la ragione per cui, paceŁukasiewicz, per Aristotele è il e non la denizione di verità ilprincipio ultimo di tutti i principi dimostrativi. Cfr. C 2007b, p. 1 6.

    Ł 1910a/2003, p. 89.Ł 1910a/2003, pp. 90-93; 1910b/2000, pp. 05- 06.W 2000, pp. 119-120. A una analoga conclusione sembra giungere anche Angela Longo quando suggeri-

    sce, seguendo il commento di Alessandro di Afrodisia e di Siriano, che la priorità del rispetto agli altri assio-mi sia dovuta al ruolo di «protezione» che il svolgerebbe nei confronti degli altri assiomi: «Quest’ultimo [scl.il ], infatti, permette di confutare chiunque contesti un qualsiasi altro assioma, poiché tale contestatore saràconfutato per il fatto appunto di cadere in contraddizione» (L 2005, p. 150; cfr. anche p. 1 6 n. 5). Sul com-mento di Alessandro di Afrodisia alla tesi che il è principio anche di tutti gli altri assiomi, cfr. B 2001pp. 268-270; M 2003a, pp. 97-101; F 2003, pp. 137-138.

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    verso una conclusione.E di conseguenza il principio anipotetico non è un principionon con et-turale, ma è un principio diverso dalle ipotesi e superiore a esse.

    Che cosa Platone intenda per ‘ipotesi’ è chiarito subito dopo da Socrate in risposta alla per-plessità manifestata da Glaucone:T52 \AÏÏ\ âÚá , qÓ ‰\ âÁÒØ ®3ÔÓ ÁaÚ ÙÔ‡ÙˆÓ ÚÔÂÈÚËÌ¤ÓˆÓ Ì·ı‹Û–. ÔrÌ·È Á¿Ú Û Âå‰¤Ó·È ¬ÙÈ Ôî ÂÚd Ùa˜

    ÁˆÌÂÙÚ›·˜ Ù ηd ÏÔÁÈÛÌÔf˜ ηd Ùa ÙÔÈ·ÜÙ· Ú·ÁÌ·Ù¢ÌÂÓÔÈ, ñ Ôı¤ÌÂÓÔÈ Ù Ù ÂÚÈÙÙeÓ Î·d ÙeôÚÙÈÔÓ Î·d Ùa Û¯‹Ì·Ù· ηd ÁˆÓÈáÓ ÙÚÈÙÙa Âú‰Ë ηd ôÏÏ· ÙÔ‡ÙˆÓ à‰ÂÏÊa ηı\ ëοÛÙËÓ Ì¤ıÔ‰ÔÓ,Ù·ÜÙ· ÌbÓ ó˜ Âå‰Ù˜, ÔÈËÛ¿ÌÂÓÔÈ ñ Ôı¤ÛÂȘ ·éÙ¿, Ô鉤ӷ ÏÁÔÓ ÔûÙ ·ñÙÔÖ˜ ÔûÙ ôÏÏÔȘ öÙÈ àÍÈ-ÔÜÛÈ ÂÚd ·éÙáÓ ‰È‰Ó·È ó˜ ·ÓÙd Ê·ÓÂÚáÓ, âÎ ÙÔ‡ÙˆÓ ‰\ àÚ¯ÌÂÓÔÈ Ùa ÏÔÈ a õ‰Ë ‰ÈÂÍÈÓÙ˜ÙÂÏ¢ÙáÛÈÓ ïÌÔÏÔÁÔ˘Ì¤Óˆ˜ â d ÙÔÜÙÔ Ôy iÓ â d ÛΤ„ÈÓ ïÚÌ‹ÛˆÛÈ.

    ¶¿Ó˘ ÌbÓ ÔsÓ, öÊË, ÙÔÜÙ Á Ôr‰·.«Lo farò» io dissi: «comprenderai più agevolmente quando avrò esposto queste premesse. Penso in-fatti tu sappia che coloro che si occupano di geometria, di aritmetica e di scienze simili, dopo averipotizzato il pari e il dispari, le gure, i tre tipi di angoli, e le altre cose di questo genere secondo le esi-genze di ciascuna disciplina, danno tutto questo per noto e lo assumono come ipotesi, né ritengonodi doverne più dar conto a se stessi e agli altri, quasi fosse chiaro a tutti; partendo poi da queste nesvolgono le conseguenze e convengono sulle conclusioni intorno a ciò su cui verteva l’indagine.»

    «Conosco perfettamente» disse «questo procedimento.»P .R. 510c1-d

    L’interpretazione del passo è quanto mai controversa, ma una cosa è chiara: Platone chiama «ipo-tesi» i principi della matematica, cioè letesi fondamentalidella geometria, dell’aritmetica e dellescienze affini, riguardanti oggetti matematici come «il pari e il dispari, le gure, i tre tipi di an-goli, e le altre cose di questo genere». Tali tesi sono i principi da cui i matematici del tempo de-

    in his demonstrations. The denitions that the mathematician needs in his proofs are those of the odd, the even,the circle, the right angle, etc., but not those of the point, the line, the number, the limit, etc. The latter are not

    used in demonstrations. Hence, examination of these latter things are not necessary for the mathematician, andleave him indifferent. It is not the task of the geometer to go beyond the hypotheses as long as he works as a ma-thematician and not as a philosopher. The examination of the hypotheses is the task of the philosopher. But this“defect” of mathematics is a defect only in comparison to dialectic».

    Trovo particolarmente illuminante e del tutto convincente la distinzione che Karasmanis propone nel suo ar-ticolo fra due tipi di denizioni matematiche, quelle che riguardano gli oggetti matematici più elementari comepunto, linea, numero, ecc. e quelle che riguardano oggetti matematici «lower in the hierarchy» come «il pari e ildispari, le gure, i tre tipi di angoli, e le altre cose di questo genere»: quest’ultime sono le ipotesi matematiche dicui parla Platone, perché di esse, e non delle prime, si servono i matematici nelle loro dimostrazioni. Il compitodel losofo è dunque quello di trascendere le ipotesi matematiche e di risalire «at the most elementary conceptsand theorems of all mathematical sciences» (K 1990, p. 121; 2005, pp. 13-15).

    Ugualmente interessante è quanto sostiene K (1990, pp. 127-128) a proposito degli Elementidi Eucli-de: «In Euclid’s Elements, denitions of the rst kind (point, line, straight line, surface, plane surface, angle, boun-dary, gure, unit, number, solid) are never invoked in proofs, and, in this sense, are mathematically useless. Onthe other hand, denitions of the second kind are frequently invoked and play an essential role in proofs. I shallargue now, that the second kind of mathematical denitions is an earlier stage of denitions that has a purely ma-thematical origin. The rst kind of denitions represents a later stage, and was formulated under the philosophi-cal inuence of Plato and the Academy». Ovviamente il compito del losofo non è solo quello di risalire dalle de-nizioni matematiche del secondo tipo a quelle del primo tipo, ma di ascendere no al principio anipotetico deltutto acquisendo in questo modo una visione sinottica e sistematica del sapere: «It is probable that Plato furtherthought that the dialectical ascent could continue until one arrives at the unique rst principle that is no longer apostulate; namely the Good. Thus, everything knowable would be organized in a system, in the model of geo-metry» (K 1990, p. 127).

    «It is important to try to form a denite conception of the nature of the hypotheses with which Plato sup-poses mathematics to start. To begin with, there is nothing hypothetical, in the ordinary sense, about the hypo-theses; they are not assumptions entertained merely in order to see what consequences can be drawn from them.They are accepted unquestioningly as true and obvious to anyone (510 c 6-d 1)» (R 1951, p. 50 / 1989, p. 80)

    Trad. it. V 2006, pp. 833 e 835.

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    17 rivavano i loro teoremi («partendo poi da queste ne svolgono le conseguenze e convengono sul-le conclusioni intorno a ciò su cui verteva l’indagine») e come tali non sono giusticate («né ritengono di doverne più dar conto a se stessi e agli altri») ma ritenute senz’altro evidenti («quasfosse chiaro a tutti»). Qui chiaramente ‘ipotesi’ ha il signicato losoco e scientico di «ciò chè assunto a fondamento di una qualsiasi costruzione di pensiero», in particolare, per Platone, del

    pensiero matematico.Il signicato diàÓ˘ ıÂÙÔṽa dunque letto alla luce di questa accezione di ‘ipotesi’. Una vol-ta chiarito che le ipotesi sono i principi della matematica del tempo, Socrate, parlando del seg-mento noetico della linea, reintroduce il principio anipotetico:T53 Te ÙÔ›Ó˘Ó ≤ÙÂÚÔÓ Ì¿Óı·Ó ÙÌÉÌ· ÙÔÜ ÓÔËÙÔÜ Ï¤ÁÔÓÙ¿ Ì ÙÔÜÙÔ Ôy ·éÙe˜ ï ÏÁÔ˜ ± ÙÂÙ·È Ù” Ù

    ‰È·Ï¤ÁÂÛı·È ‰˘Ó¿ÌÂÈ, Ùa˜ ñ Ôı¤ÛÂȘ ÔÈÔ‡ÌÂÓÔ˜ ÔéÎ àÚ¯a˜ àÏÏa Ù† ùÓÙÈ ñ Ôı¤ÛÂȘ, ÔxÔÓ â È‚¿ÛÂȘÙ ηd ïÚÌ¿˜ , ¥Ó· ̤¯ÚÈ ÙÔÜ àÓ˘ Ôı¤ÙÔ˘ â d ÙcÓ ÙÔÜ ·ÓÙe˜ àÚ¯cÓ åÒÓ, ê„¿ÌÂÓÔ˜ ·éÙÉ ,̃ ¿ÏÈÓ ·sâ¯ÌÂÓÔ˜ ÙáÓ âΛӢ â¯Ô̤ӈÓ, Ô≈Ùˆ˜ â d ÙÂÏ¢ÙcÓ Î·Ù·‚·›Ó–, ·åÛıËÙ† ·ÓÙ¿ ·ÛÈÓ Ôé‰ÂÓd

    ÚÔÛ¯ÚÒÌÂÓÔ˜, àÏÏ\ Âú‰ÂÛÈÓ ·éÙÔÖ˜ ‰È\ ·éÙáÓ Âå˜ ·éÙ¿, ηd ÙÂÏ¢Ù3 Âå˜ Âú‰Ë.M·Óı¿Óˆ , öÊË, îηÓᘠÌbÓ Ôû – ‰ÔÎÂÖ˜ Á¿Ú ÌÔÈ Û˘¯ÓeÓ öÚÁÔÓ Ï¤ÁÂÈÓ – ¬ÙÈ Ì¤ÓÙÔÈ ‚Ô‡ÏÂÈ ‰ÈÔÚ›˙ÂÈÓ

    ۷ʤÛÙÂÚÔÓ ÂrÓ·È Ùe ñ e Ùɘ ÙÔÜ ‰È·Ï¤ÁÂÛı·È â ÈÛÙ‹Ì˘ ÙÔÜ ùÓÙÔ˜ Ù ηd ÓÔËÙÔÜ ıˆÚÔ‡ÌÂÓÔñ e ÙáÓ Ù¯ÓáÓ Î·ÏÔ˘Ì¤ÓˆÓ, ·x˜ ·î ñ Ôı¤ÛÂȘ àÚ¯·d ηd ‰È·ÓÔ›0 ÌbÓ àÓ·Áο˙ÔÓÙ·È àÏÏa Ìc·åÛı‹ÛÂÛÈÓ ·éÙa ıÂÄÛı·È Ôî ıÂÒÌÂÓÔÈ,‰Èa ‰b Ùe Ìc â \ àÚ¯cÓ àÓÂÏıÓÙ˜ ÛÎÔ ÂÖÓ àÏÏ\ âÍ ñ Ôı¤ÛˆÓ,ÓÔÜÓ ÔéÎ úÛ¯ÂÈÓ ÂÚd ·éÙa ‰ÔÎÔÜÛ› ÛÔÈ[η›ÙÔÈ ÓÔËÙáÓ ùÓÙˆÓ ÌÂÙa àگɘ]. […]

    ^IηÓÒٷٷ, qÓ ‰\ âÁÒ, à ‰¤Í.̂ […]«Capisci dunque anche che intendo per l’altra sezione dell’intelligibile, quella su cui la ragione stesa fa presa con la potenza del discorrere dialettico; essa non tratta più le ipotesi come princìpi, marealmente come ipotesi, cioè come punti di appoggio e di partenza per procedere no a ciò che nonè ipotetico, verso il principio del tutto; e quando ha fatto presa su di esso, segue tutte le conseguen-ze che ne dipendono, e così ridiscende verso una conclusione, non servendosi mai di alcun dato sen-sibile, ma solo delle idee attraverso le quali procede e verso le quali si dirige, e conclude a idee.»

    «Capisco» disse, «sebbene non a sufficienza (mi sembra in effetti che tu parli di un’opera difficle): tu intendi soprattutto determinare che la zona dell’essere e del noetico studiata dalla scienza

    della dialettica presenta più certezza di quella di pertinenza delle discipline chiamate ‘tecniche’, chhanno a principio le ipotesi; chi ne studia gli oggetti, benché sia costretto a studiarli mediante ilpensiero discorsivo e non con i sensi, tuttavia, siccome non conduce l’indagine risalendo verso unprincipio, bensì a partire dalle ipotesi, a te sembra non acquisire una comprensione noetica di que-gli stessi oggetti, [sebbene essi, fondati su un principio, siano pur noetici]. […]«Hai capito perfettamente» dissi io. […]

    P .R. 511b2-d6

    Per la dialettica platonica le ipotesi che i matematici considerano principi, secondo il signicatolosoco e scientico del termine, cioè tesi fondamentali di per sé evidenti da cui derivare i teoremi della matematica, sono in realtà «punti di appoggio e di partenza»,secondo quello che Pla-tone considera il signicato letterale di ‘ipotesi’, per ascendere a un principio superiore. Il com

    pito della dialettica ascendente è di risalire dalle ipotesi al principio anipotetico, cioè al principiultimo, al «principo del tutto»,che come tale non può essere a sua volta un’ipotesi nel senso let-

    La traduzione (lievemente modicata) è di V 2006, p. 837, che segue S 2003 nell’accettal’espunzione proposta da Bolling diη›ÙÔÈ ÓÔËÙáÓ ùÓÙˆÓ ÌÂÙa àگɘ. ContraK 1990, p. 13 n. 23.

    Per questa traduzione diâ È‚¿ÛÂȘ Ù ηd ïÚÌ¿c̃fr. C 1982, p. ; e per un’analoga immagine platoni-ca vediSmp.211c3:œÛ ÂÚ â ·Ó·‚·ÛÌÔÖ˜ ̄ ÚÒÌÂÓÔÓ(«servendosene come di gradini»). R R (1953,pp. 98-99) traduce «steps and sallies» e considera questa accezione «sica» di ‘ipotesi’ come deviante rispetto l’uso comune del termine, che è sempre astratto: in questo caso Platone «is calling attention to something theword might have been used to mean but has not; and the phrase “really hypotheses” is a humorous pretence. Bur-net calls it “a characteristic etymological pun, such as is often introduced byÙ† ùÓÙÈ”». Vedi anche S 1935,p. 11 n.a.

    Come è stato osservato, «[n]ella formulazione platonica l’anipotetico e il principio del tuttononcoincidonoesattamente» (F R 2003, p. 38 ): la dialettica procede « no(̤¯ÚÈ) a ciò che non è ipotetico,verso

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    terale del termine, cioè un punto di appoggio e di partenza verso un principio superiore.E intale ascesa la dialettica acquisisce quella «comprensione noetica» degli oggetti matematici chemanca alla matematica del tempo. Il compito della dialettica discendente sarà invece quello diderivare dal principio anipotetico «tutte le conseguenze che ne dipendono» servendosi solo del-le forme intelligibili, senza mai ricorrere al sensibile, come fanno invece i matematici quando si

    servono di gure visibili e tangibili.Il principio anipotetico del libro della Repubblicaè dunque il principio che non è una ipote-si nell’accezione platonica del termine, cioè che non è a sua volta un punto di appoggio e di par-tenza verso un principio superiore, dal momento che è il principio ultimo, il principio del tutto. Anche Aristotele in Metaph. ° 3 considera anipotetico il principio che non è una ipotesi, ma per‘ipotesi’ non intende né «una pura ipotesi»,cioè una supposizione o congettura, né, come Pla-tone, il punto di appoggio e di partenza verso un principio superiore, bensì, come i matematicidel tempo, il principo di una scienza particolare. Il principio più certo di Aristotele è anipoteticoperché non è il principio di una scienza particolare o di un genere dell’essere, ma è «il principioche è necessario possieda chi vuol comprendereuno qualsiasidegli enti», cioè è la condizione ne-cessaria per comprendere qualunque ente, qualunque genere dell’essere. Il principo più certo èquello su cui non è possibile sbagliarsi, perché non solo è il più noto ma è anche anipotetico, cioèè la condizione necessaria non di un sapere particolare ma di ogni sapere possibile.

    (â d) il principio del tutto». Ma se il principio anipotetico è tale in quanto a sua volta non può essere punto di appoggio e di partenza verso un principio superiore (cioè ipotesi nell’accezione letterale del termine secondo Platone), allora è evidente che non può essere neanche un principio intermedio fra le ipotesi matematiche e il principio del tutto, ma deve coincidere con quest’ultimo (cfr. V 2003b, pp. 11- 12). Quanto alla coincidenza fra principio anipotetico e idea del bene, Platone non li identica mai esplicitamente. Inoltre non dice mai chel’idea del bene è un principio (cfr. K 2005, p. 6). Come osserva R (1951, p. 2), «while the phrase idea of good” points to a universal, the other phrase [scl.“unhypothetical rst principle”] points to a proposition,presumably one in which the idea of Good is a term». Il principio anipotetico non sarebbe dunque l’idea del benema una proposizione o un insieme di proposizioni riguardanti l’idea del bene (K 2005, pp. 6 e 10, che

    tuttavia a p. 11 identica il bene col principio anipotetico;contraC e N 1989, pp. 102-103; V 2003b,pp. 28- 30). In ogni caso, il principio anipotetico è il principio ultimo del tutto, così come la dialettica che ascen-de a tale principio è il sapere ultimo, il «fregio» o «culmine» (ıÚÈÁÎ,̃ 53 e2) di tutti i saperi.

    Michel Narcy (C e N 1989, p. 102) ritiene invece che l’àÓ˘ ıÂÙÔÓdi 511b5 sia «ce qui n’est “pas pla-cé sous” autre chose dont dépend sa validité, le contraire d’une hypo-thèse; on pourrait le traduire par “incondi-tionné”»; ma, come risulta da 511b5-6, il signicato che Platone dà a ‘ipotesi’ non è quello disupposizionecome ciòche è subordinato a un principio da cui dipende la sua validità, ma di punto di appoggio e di partenza verso unprincipio superiore. L’àÓ˘ ıÂÙÔÓnon è una ipotesi in questo senso, in quanto non può essere a sua volta puntodi appoggio e di partenza verso un principio superiore, ma coincide col principio del tutto. Quest’ascesa è sen-z’altro un modo di rendere conto (ÏÁÔÓ ‰È‰Ó·È) delle ipotesi che i matematici assumono come di per sé eviden-ti e quindi senza esaminarle: l’ascesa dialettica verso il principio anipotetico equivale a una eliminazione delle ipo-tesi (Ùa˜ ñ Ôı¤ÛÂȘ àÓ·ÈÚÔÜÛ·, 533c8; cfr. A .ee 6, 1222b28:ÙcÓ ñ ıÂÛÈÓ àÓÂÏÂÖÓ), cioè a una eliminazionedelle ipotesicome principi, e alla loro trasformazione in punti di appoggio e di partenza verso il principo stesso. In

    altri termini, la dialettica non nega la verità delle ipotesi matematiche (per esempio la denizione di pari e dispa-ri), ma solo la loro natura di principi, e in questo modo, risalendo al principio stesso, rende conto delle ipotesi,cioè acquisisce una comprensione noetica (puramente intelligibile) degli oggetti matematici ( 511d1-2), a diffe-renza delle scienze matematiche, che, considerando erroneamente le ipotesi come principi e quindi lasciandole«immobili» (àÎÈÓ‹ÙÔ˘,̃ 533c2) senza renderne conto, non hanno una comprensione noetica degli oggetti ma-tematici, ma colgono l’intelligibile solo in sogno: «sognano riguardo all’essere, ma in stato di veglia è loro impos-sibile vederlo» ( 533b6-c1, cfr. 53 c6-7). Vedi C 1982, p. 3; K 2005, pp. -6, che seguetazione prevalente, per la quale «rendere conto» delle ipotesi non signica «dare una denizione», cioè chiarire iconcetti, ma «dare una dimostrazione», cioè dimostrare le ipotesi mediante ipotesi superiori, analogamente al me-todo delle ipotesi descritto nel Fedone(101de).

    Come traduce, signicativamente, R (200 , p. 1 3), secondo un pregiudizio teorico largamente diffuso,riscontrabile ora anche in G 2007, p. 3: «It is no mere hypothesis».

    Cfr. Metaph.B 2, 997a3-5:±Ì· ‰b ηd Ù›Ó· ÙÚ ÔÓ öÛÙ·È ·éÙáÓ â ÈÛÙ‹ÌË;Ù› ÌbÓ ÁaÚ≤ηÛÙÔÓ ÙÔ‡ÙˆÓÙ˘Á¯¿ÓÂÈkÓ Î·d ÓÜÓ ÁÓˆÚ›˙ÔÌÂÓ(̄ ÚáÓÙ·È ÁÔÜÓ ó˜ ÁÈÁÓˆÛÎÔ̤ÓÔȘ ·éÙÔÖ˜ ηd ôÏÏ·È Ù¤¯Ó·È) («E, allo stesso tempo, in chemodo vi sarà una scienza di essi [scl.dei principi della dimostrazione]? Che cosa infatti ciascuno di essi sia lo sap-

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    Quanto alle denizioni, il problema è dato dal fatto che, da un lato, non sono affermazioni o ne-gazioni come le ipotesi, e questo farebbe pensare che si tratti non di proposizioni ma di locuzionidenitorie; dall’altro, in quanto tesi, sono principi sillogistici immediati, e i principi sillogistici immediati sono premesse delle dimostrazioni, cioè proposizioni.Quindi si tratterebbe non di lo-cuzioni denitorie ma di proposizioni diverse dall’affermazione o negazione, cioè di enunciati

    equativi o di identità non aventi la forma predicativa delle affermazioni o negazioni aristoteliche.La questione, in particolare per quanto riguarda le denizioni, rimane assai controversa e nonho modo di affrontarla qui. Ma quanto alle ipotesi, è chiaro che per Aristotele sono principi in-dimostrabili delle scienze particolari diversi dalle denizioni, principi che non è necessario co-noscere prima di studiare una scienza particolare. Come tali si distinguono dagli assiomi, che so-no invece principi comuni alle varie scienze e la cui conoscenza preliminare è condizionenecessaria per lo studio di qualunque scienza. Pertanto, quando Aristotele in Metaph. ° 3 (cfr. laclausola[f] diT49) dice che «il principio che è necessario possieda chi vuol comprendere unoqualsiasi (ïÙÈÔÜÓ) degli enti, non è unañ ıÂÛÈ»̃, non fa che ripetere la distinzione di APo. 2 fraassioma e tesi, fra il principio che «è necessario possieda chi vuole imparare qualsiasi co-sa (ïÙÈÔÜÓ)» e quello che non «è necessario possieda chi vuole imparare qualcosa». Ancheil lessico e la grammatica coincidono: in entrambi i casi compare il pronome indenitoïÙÈÔÜÓeai participi presenti conativiÙeÓ[…]͢ÓȤÓÙ·(«chi vuol comprendere») eÙ† […]ÁÓˆÚ›˙ÔÓÙÈ(«per chi vuol conoscere») delle clausole(f ) e (g) diT49 fa riscontro il participio futuro volitivoÙeÓ Ì·ıËÛÌÂÓÔÓ(«chi vuole imparare») diT53, verbo quest’ultimo che riecheggia anche nellaclausola(g) diT49 («e ciò che è necessario conoscere per chi vuol conoscere una cosa qualsiasi,è necessario anche che chi viene lo possieda già»), se, come credo, il verbo≥Î -ÂÈÓha qui il valore di «venire », come prima (1005b5) aveva quello di «venire », cioè di «venire a lezione».

    Il principio più certo è dunque anipotetico perché non è una ipotesi ma un assioma, non è unprincipio proprio di una scienza particolare, ma è un principio comune a ogni scienza;non lo siapprende studiando una scienza particolare, ma è condizione necessaria di ogni apprendimento.

    ñ ¿Ú¯ÂÈ Ùe A Ù† ° ‰Èa Ùe ñ ¿Ú¯ÂÈÓ Ù† B ηd ÙÔÜÙÔ Ù† °, ï ‰b ÛÙÂÚËÙÈΘ, […].Ê·ÓÂÚeÓ ÔsÓ ¬ÙÈ ·î ÌbÓ àÚ¯·d ηd·î ÏÂÁÌÂÓ·È ñ Ôı¤ÛÂȘ ·yÙ·› ÂåÛÈØ Ï·‚ÓÙ· ÁaÚ Ù·ÜÙ· Ô≈Ùˆ˜ àÓ¿ÁÎË ‰ÂÈÎÓ‡Ó·È, ÔxÔÓ ¬ÙÈ Ùe A Ù† ° ñ ¿Ú¯ÂÈ ‰ÈaÙÔÜ B(«Ogni sillogismo è in forza di tre termini ed un tipo è capace di provare che Aappartiene aC grazie al suoappartenere aBe all’appartenere di questo aC , mentre un altro tipo è privativo […]. Allora è manifesto che questepremesse sono i principi e le cosiddette ipotesi; infatti è assumendole così che è necessario provare, per esempio,che Aappartiene aC in forza diB» [trad. M 2007, p. 53, modicata]), dove le «cosiddette ipotesi» sono chia-ramente proposizioni predicative e non esistenziali, e l’espressione fa pensare che Aristotele si stia riferendo qui alsignicato tecnico del termine come principio sillogistico immediato e non a quello non tecnico di premessa.Con-tra M 2007, p. 209: «ñ ıÂÛÈq̃ui in 81b15 è semplicemente sinonimo di “premessa” ed ha evidentementeun signicato diverso da quello che il termine assumeva in APo. 2, 72a18-21 e in APo. 10, 76b27-31».

    Cfr. APo. 2, 72a7:àÚ¯c ‰\ âÛÙdÓ à ԉ›Íˆ˜ ÚÙ·ÛȘ ôÌÂÛÔ˜.Vedi C 1955, pp. 896-897.ContraM 1975, pp. 37-39; 2007, pp. 156-157. Secondo H 200 , pp.

    6, la distinzione aristotelica fra ipotesi e denizioni non riguarda la loro forma enunciativa ma il loro valore diverità: in entrambi i casi si tratterebbe di enunciati predicativi, ma mentre le ipotesi sono affermazioni o negazio-ni, cioè enunciati bivalenti (possono essere veri o falsi), le denizioni sono «asserzioni» (Ê¿ÛÂȘ, cfr. Metaph. £ 10,1051b25), cioè enunciati monovalenti (possono essere solo veri). Vedi ancheInt. 5, 17a11-1 : la denizione di uomo(ï ÙÔÜ àÓıÚÒ Ô˘ ÏÁÔ˜), cioè ilde niens‘animale terrestre bipede’, non è ancora unÏÁÔ˜ à ÔÊ·ÓÙÈΘ, ma lo di-viene una volta aggiunta la «copula».

    L’analogia fra i due passi è rilevata da M (1975, p. 35), che giustamente osserva: «Ma l’analogia [di APo.2, 72a1 -2 ] con Metaph.° 3, 1005b15-7, come anche l’espressioneÙeÓ ïÙÈÔÜÓ Ì·ıËÛÌÂÓÔÓ[…] fanno pensare piut-

    tosto che Aristotele voglia sottolineare la distinzione fra principi generalissimi, indispensabili per l’apprendimen-to di qualunque cosa, e principi che sono tali nell’ambito di un particolare genere dell’essere».

    La distinzione fra assiomi e tesi di APo. 2 coincide con quella fra principi comuni (ÎÔÈÓ¿) e principi propri( ú‰È·) di ogni scienza di APo. 10, 76a37-b2 (cfr. B 1993, p. 99;contraM 1975, p. 35; 2007, pp. 181-182).

    Il merito di aver sostenuto per primo l’interpretazione diñ ıÂÛÈẽ àÓ˘ ıÂÙÔãlla luce di APo. 2 control’interpretazione tradizionale spetta a T U (1983, pp. 593-59 n. 7; 1985, pp. 283-290 e 299; 2002, pp.

    68). Cfr. anche Z 1972, pp. 86-87; D 1975, pp. 3 e 7; W 2001, pp. 282-283, che giustamen

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    questo consiste la differenza fra ipotesi e postulato: un postulato è infatti ciò che è contrario alla cre-denza di chi impara, ovvero ciò che, pur essendo dimostrabile, uno assuma e usi senza provarlo.

    A . APo. 10, 76b23-3

    In questo passo Aristotele distingue in primo luogo «ciò che è necessario che sia per se stesso eche è necessario credere che sia» (cioè verosimilmente i principi sia propri sia comuni)dal-l’ipotesi e dal postulato; quindi denisce l’ipotesi e il postulato distinguendoli fra loro. Ipotesi epostulato sono entrambi proposizioni dimostrabili, a differenza dei principi, ma una proposi-zione dimostrabile assunta senza dimostrazione è un’ipotesi relativamente a chi impara se chiimpara la ritiene vera, è invece un postulato relativamente a chi impara se chi impara o la ritie-ne falsa o non ha credenze al riguardo. È chiaro che qui una proposizione dimostrabile che ildocente assume senza dimostrazione è un’ipotesi o un postulato non in senso assoluto (Ôé¯ê Ïᘠ), ma solo relativamente al discente (àÏÏa Úe˜ âÎÂÖÓÔÓ ÌÓÔÓ). Questa precisazione tut-tavia è fatta valere solo per l’ipotesi, perché il postulato è tale sempre in relazione a un discen-te, mentre di ipotesi si può parlare sia in senso assoluto (ê Ïᘠ), sia, come qui, in senso relati-vo ( Úe˜ âÎÂÖÓÔÓ). In questo modo svanisce, a mio avviso, l’apparente contrasto fra la denizionedi ipotesi come tesi, cioè come principio indimostrabile, di APo. 2 e quella di ipotesi come pro-posizione dimostrabile assunta senza dimostrazione di APo. 10: nel primo caso si parla di ipo-tesisimpliciter , nel secondo di ipotesiad aliquem, e l’occorrenza diñ ıÂÛÈĩn Metaph. ° 3 èun’ulteriore riprova che l’uso assoluto del termine in opposizione ad assioma non è un uso li-mitato alla denizione di APo. 2.

    Tornando dunque al principio più certo di Metaph.° 3, tale principio è anipotetico perché nonè una ipotesisimpliciter , non è un principio (non denitorio) proprio di una scienza particolare,ma è un principio comune a ogni scienza, una condizione necessaria di ogni apprendimento econoscenza, cioè un assioma. In questo modo, discutendo del principio più certo, Aristotele siriallaccia all’esordio di Metaph. ° 3, alla soluzione dell’aporia concernente «quelli che nelle ma-tematiche sono detti ‘assiomi’» (1005a20), cioè alla loro inclusione nella scienza del losofo, nel-la «scienza ricercata» dell’essere in quanto essere.Ma perché usare proprio l’aggettivo platoni-

    Non vedo ragioni per limitare il signicato din àÓ¿ÁÎË ÂrÓ·È ‰È\ ·ñÙe ηd ‰ÔÎÂÖÓ àÓ¿ÁÎËai principi comu-ni (cfr. M 1975, p. 20 ,contraM 2007, p. 182), né di costruire‰È\ ·ñÙecon‰ÔÎÂÖÓoltre che conÂrÓ·Èlimitando il signicato della clausola ai principi propri ( paceB 1993, pp. 16 e 1 1; P 2005, pp.115-116, 360 n. 6): vedi M 2007, p. 31 («Ciò che è necessario che sia in virtù di sé e che è necessario rnere che sia»).

    Per l’uso assoluto diñ ıÂÛÈñella Meta sicacfr. anche¢ 1, 1013a1 -16 (T58). (1975, p. 207) attri- buisce a Filopono la conciliazione dell’apparente contrasto fra le due denizioni di ipotesi degli Analitici Secondiin base alla distinzione frañ ıÂÛȘ ê Ïá˜e ñ ıÂÛȘ Úe˜ âÎÂÖÓÔÓ, ma ritiene che «questa esegesi non può sod-disfare nessuno ed ha l’aria di un salvataggio a tutti i costi della coerenza interna del discorso aristotelico». Tutta-via non mi pare che la spiegazione alternativa offerta da M (pp. 207-209) della distinzione «se si vuole unpo’ curiosa» (p. 208) frañ ıÂÛȘ ê Ïá˜e ñ ıÂÛȘ Úe˜ âÎÂÖÓÔÓsia più chiara e convincente. Mignucci vede in

    tale distinzione il tentativo da parte di Aristotele di «differenziare la sua concezione dei principi della scienza daquella platonica, dicendo che essi non possono essere presupposizioni [cioè ipotesi, secondo la traduzione che Mi-gnucci propone del termine] nel senso platonico. Queste infatti sono proposizioni dimostrabili e, come tali, nonpossono fungere da principi» (p. 208; cfr. anche M 2007, p. 183). Indubbiamente per Aristotele le ipotesi dela matematica (per riprendere l’esempio del libro della Repubblica, cui rinvia anche Mignucci) non sono propo-sizioni dimostrabili né tanto meno, come per Platone, «punti di appoggio e di partenza» verso un principio ani-potetico. Per Aristotele le ipotesi della matematica sono, come per i matematici del tempo, i principi dellamatematica e come tali non derivabili da principi superiori. Questo chiaramente in polemica con Platone. Ma nonsi vede che cosa questa polemica abbia a che fare con la distinzione fra ipotesisimpliciter e ipotesiad aliquem. L’oc-correnza diñ ıÂÛÈĩn Metaph. ° 3 (che Mignucci non prende in considerazione) ha chiaramente il valore asso-luto di principio. Quanto poi a Filopono, questi in realtà non vede alcun contrasto fra le due denizioni di ipote-si negli Analitici Secondie cerca di fonderle tra loro, col risultato di confondere le due accezioni aristoteliche diñ ıÂÛÈ(̃cfr.in APo.127.21-128.23, 129.23-130.2 W.).

    Cfr. W 2001, pp. 269 e 277: «inclusion de la science des axiomes dans la science de la substance»; W200 , p. 50: «l’étude des axiomes est incluse dans celle de la substance».

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    180 coàÓ˘ ıÂÙÔ˜? Verosimilmente perché il principio più certo non è soltanto un assioma, ma èl’assioma più noto, quello su cui è impossibile sbagliarsi. Come il principio anipotetico di Platone non è un’ipotesi nel senso platonico del termine, cioè non è un punto di appoggio e di par-tenza verso un principio superiore, perché è il principio ultimo, «il principio del tutto», così ilprincipio anipotetico di Aristotele non è un’ipotesi non solo nel senso aristotelico del termine,

    ma anche in quello platonico, cioè non è a sua volta un punto di appoggio e di partenza versoun principio superiore, perché è il principo più certo di tutti, l’assioma più noto, la «credenza ul-tima» (1005b33), e, in questo senso, è anch’esso il principo di tutte le cose (1005b10-11). Il tonorico diàÓ˘ ıÂÙÔh̃a così una implicita valenza superlativa che lo rende analogo ai super-lativi espliciti‚‚·ÈÔÙ¿ÙË(«il più certo») eÁÓˆÚÈ̈ٿÙË(«il più noto»).

    . .Resta ora da stabilire quale sia questo principio più certo di tutti. Aristotele, com’è noto, lo iden-tica, con studiato ritardo, con il , perché il «possiede la determinazione di cui si è deto» (ö¯ÂÈ ÁaÚ ÙeÓ ÂåÚË̤ÓÔÓ ‰ÈÔÚÈÛÌÓ, 1005b23), cioè quella che distingue il principio più certo ditutti dagli altri principi: su di esso è impossibile sbagliarsi. La dimostrazione che ne dà Aristotele è la seguente:T57 à‰‡Ó·ÙÔÓ ÁaÚ ïÓÙÈÓÔÜÓ Ù·éÙeÓ ñ ÔÏ·Ì‚¿ÓÂÈÓ ÂrÓ·È Î·d Ìc ÂrÓ·È, ηı¿ ÂÚ ÙÈÓb˜ ÔúÔÓÙ·È Ï¤ÁÂÈÓ

    ^HÚ¿ÎÏÂÈÙÔÓ. ÔéÎ öÛÙÈ ÁaÚ àÓ·ÁηÖÔÓ, ± ÙȘ ϤÁÂÈ, Ù·ÜÙ· ηd ñ ÔÏ·Ì‚¿ÓÂÈÓØ Âå ‰b Ìc âÓ‰¤¯ÂÙ·È ±Ì·ñ ¿Ú¯ÂÈÓ Ù† ·éÙ† ÙàÓ·ÓÙ›·( ÚÔۉȈڛÛıˆ ‰\ ìÌÖÓ Î·d Ù·‡Ù– Ù” ÚÔÙ¿ÛÂÈ Ùa ÂåˆıÙ·),âÓ·ÓÙ›· ‰\âÛÙd ‰Í· ‰Í– ì Ùɘ àÓÙÈÊ¿Ûˆ˜, Ê·ÓÂÚeÓ ¬ÙÈ à‰‡Ó·ÙÔÓ ±Ì· ñ ÔÏ·Ì‚¿ÓÂÈÓ ÙeÓ ·éÙeÓ ÂrÓ·È Î·d ÌcÂrÓ·È Ùe ·éÙØ ±Ì· ÁaÚ iÓ ö¯ÔÈ Ùa˜ âÓ·ÓÙ›·˜ ‰Í·˜ ï ‰È„¢Ṳ̂ÓÔ˜ ÂÚd ÙÔ‡ÙÔ˘.È impossibile infatti per chiunque ritenere vero che la stessa cosa sia e non sia, come alcuni pensa-no dicesse Eraclito. Perché non è necessario che le cose che uno dice, le ritenga anche vere. Ora, senon è possibile che i contrari appartengano insieme alla stessa cosa (e aggiungiamo anche a questaproposizione le solite precisazioni) e se una credenza è contraria alla credenza del contraddittorio,è manifestamente impossibile che la stessa persona ritenga vero insieme che la stessa cosa sia e non

    sia, perché chi si sbagliasse su ciò avrebbe insieme credenze contrarie. A . Metaph. ° 3, 1005b23-32

    Aristotele enuncia in primo luogo la tesi da dimostrare: è impossibile ritenere vera una contrad-dizione, cioè credere che pe insieme non- p(ovviamente è possibiledireuna contraddizione, madirenon equivale aritenere vero, perché «non è necessario che le cose che uno dice, le ritenga an-che vere»).La dimostrazione parte da due assunzioni. La prima è il principio di non contrarie-tà (uno dei due principi dell’opposizione contraria):

    (1) Se P e Q sono predicati contrari (C ), allora non è possibile che Px e insiemeQx .

    La seconda presuppone la seguente denizione di credenze contrarie: due credenze sono con-

    trarie fra loro se e solo se le proposizioni ritenute vere nei due casi sono contraddittorie, cioè as-sume che

    Come scrive giustamente Narcy (C e N 1989, p. 102), «[i]l est difficile d’attribuer au hasard l’que fait Aristote de l’adjectif […] pour nommer le principe qu’il convient au philosophe, et au philosophe seul, dconnaître» (cfr. anche N 2008, p. 37 n. 20).

    R (200 , p. 1 5) traduce inspiegabilmente: «avrebbe ad un tempo opinioni contraddittorie».Cfr. anche Metaph. K 5, 1062a35: Eraclito «ammise questa dottrina senza rendersi conto di ciò che diceva» (Ôé

    Û˘ÓÈÂd˜ ë·˘ÙÔÜ Ù› ÔÙ ϤÁÂÈ, Ù·‡ÙËÓ öÏ·‚ ÙcÓ ‰Í·Ó), e D 1975, p. 22 n. 16; su ciò che Eraclito «forse volevadire» cfr. già P .Smp.187a3-b2. Per la distinzione fradiree crederevedi Metaph. ° , 1005b35-1006a2, 1006b20-22, e APo. 10, 76b23-27. Distinzione che risolve per altro il paradosso di un principio «sur lequel on ne peut se tromp(cf. 3, 1005 b 12), ignoré cependant jusqu’ici par tout le monde (5, 1009 b 16)» (C e N 1989, p. 66;

    2001, pp. 285-286 n. 28 , 307, 316-317).

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    (2) La credenza che p (Bp) è contraria alla credenza che non- p (B¬ p).Da queste assunzioni deriva per esemplicazione e Modus Ponendo Ponens( ) che non è possi- bile che qualcuno abbia insieme due credenze contrarie, cioè:

    (3) Non è possibile che x creda che p (Bxp) e insieme x creda che non- p(Bx ¬ p). A questo punto si deve presupporre che Aristotele assuma tacitamente la tesi della distributivitàdella credenza, cioè che

    ( ) Se x crede che pe insieme non- p, allora x crede che pe insieme x crede che non- p.Ma per la (3) non è possibile che x creda che pe insieme x creda che non- p; dunque, per ModusTollendo Tollens( ),

    (5) Non è possibile che x creda che pe insieme non- p,cioè non è possibile che x ritenga vera una contraddizione e quindi si sbagli sul PNC. Che era ciòche Aristotele voleva dimostrare. In simboli:

    ( ) C ( P ,Q) →¬◊( Px ∧Qx ) Principio di Non Contrarietà( ) C (Bp,B¬ p) Df. di Credenze Contrarie, < > ¬◊(Bxp ∧Bx ¬ p) , Esemplicazione e

    < > Bx ( p ∧¬ p) →Bxp ∧Bx ¬ p Distributività della Credenza, , ( ) ¬◊Bx ( p ∧¬ p) , .

    La dimostrazione aristotelica così ricostruita è senz’altro ineccepibile da un punto di vista logi-co. Quanto alla verità delle assunzioni, il principio di non contrarietà è una delle due proprietàlogiche dell’opposizione contraria (l’altra è che i contrari, a differenza dei contraddittori, posso-no essere entrambi falsi) e la denizione aristotelica di credenze contrarie soddisfa entrambe leproprietà logiche della contrarietà: non si può insieme credere che p e credere che non- p (cioèavere credenze contrarie), ma, se si è agnostici, si può benissimo non credere che pe non crede-re che non- p, e come gli scettici sospendere il giudizio.Quanto inne alla tesi della distributivi-tà della credenza, sembra essere del tutto intuitiva e banalmente vera. Pertanto l’impossibilità diritenere vera una contraddizione, e quindi di violare (non a parole) il , sembra essere una im-possibilitàlo ica. Si potrebbe obiettare che in questa dimostrazione Aristotele si serve di un prin-cipo, quello di non contrarietà, che più avanti (in Metaph. ° 6, 1011b15-22) considera una tesi de-rivabile dal , e questo darebbe alla dimostrazione aristotelica «un’aria di circolarità».Ma ciòche Aristotele intende dimostrare a partire dal principio di non contrarietà non è il (che inquanto assioma è indimostrabile), bensì l’impossibilità logica di ritenere vera una contraddizio-ne e quindi la certezza assoluta del . In questo senso, la dimostrazione aristotelica non sem- bra essere circolare.

    Comunque sia, è chiaro che per Aristotele il è il principio più certo di tutti perché è logi-camente impossibile sbagliarsi su di esso, cioè violarlo non a parole ma ritenendo vera una con-traddizione. Ma di che cosa è principio il principio più certo di tutti? Il termine ‘principio’ (àÚ¯‹)ha in Aristotele vari signicati, fra i quali quello di principio di conoscenza ( principium co no-scendi), di punto di partenza o fondamento del sapere:T58 öÙÈ ¬ıÂÓ ÁÓˆÛÙeÓ Ùe ÚÄÁÌ· ÚáÙÔÓ, ηd ·≈ÙË àÚ¯c ϤÁÂÙ·È ÙÔÜ Ú¿ÁÌ·ÙÔ˜, ÔxÔÓ ÙáÓ à ԉ›ÍˆÓ

    ·î ñ Ôı¤ÛÂȘ.

    Cfr. D 1975, p. 6, che rinvia, sia pure problematicamente, aInt. 1 , 23b7-32.D 1975, p. 3.Sulla dimostrazione aristotelica dell’impossibilità di ritenere vera una contraddizione cfr. Ł

    1910a/2003, capp. - ; B 1969; D 1975, pp. 3-7; L 1980, pp. 99-101; K 1993, pp. 88-891996, pp. 53-60.

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    Inoltre, ciò da cui una cosa risulta conoscibile in primo luogo, anche questo si dice principio dellacosa, come per esempio le ipotesidelle dimostrazioni.

    A . Metaph. ¢ 1, 1013a1 -16

    Come le ipotesi, cioè i principi propri di una scienza particolare,sono principi di conoscenzadelle dimostrazioni, in quanto sono ciò che permette di conoscere le conclusioni delle dimo-strazioni, così gli assiomi, «i principi più certi di tutte le cose» (Ùa˜ ¿ÓÙˆÓ ‚‚·ÈÔٿٷ˜, 1005b10-11), sono ciò che permette di conoscere qualunque cosa. E fra i principi più certi il più certo dtutti è il , perché su di esso è logicamente impossibile sbagliarsi. Il è il principio di cnoscenzaηÙ\ âÍÔ¯‹Ó, l’assioma non solo più noto ma anche anipotetico nel senso di «credenzaultima» (âÛ¯¿ÙËÓ ‰Í·Ó, 1005b33) cui si rifanno tutti coloro che dimostrano. Chi dimostra infattinon può assumere «indifferentemente» come il dialettico l’uno o l’altro dei contraddittori: per il

    i contraddittori non possono essere entrambi veri e chi dimostra deve assumere «determi-natamente» quello vero e non assumere quello falso (se non nelle dimostrazioni per assurdo). Senon valesse il , se chi dimostra potesse assumere «indifferentemente» come veri entrambi contraddittori, allora paradossalmente si potrebbedimostrarela verità di una conclusione e quel-la della sua contraddittoria. Ma questo renderebbe il mondo inintelligibile e priverebbe di ognisignicato la conoscenza scientica di esso.

    A questo punto è forse anche più chiaro in che senso il è «per natura principio anche ditutti gli altri assiomi» (1005b33-3 ). In quanto principio di conoscenza è ciò che permette di cnoscere anche gli altri assiomi, non perché questi siano derivabili dal come le conclusiondelle dimostrazioni dalle ipotesi di una scienza particolare, ma perché il è il principio più ceto, quello su cui è logicamente impossibile sbagliarsi. Da un punto di vista logico, per esempioil e il sono interderivabili, come sembra riconoscere implicitamente lo stesso Aristotle, ma nel caso del si può altresì dimostrare che è logicamente impossibile sbagliarsi su desso, cioè violarlo se non a parole. Ora, il è condizione necessaria del : se si nega il si nega anche il (° , 1008a2-7). Ne consegue che è possibile sbagliarsi sul solo seè possi- bile sbagliarsi anche sul , cioè ritenere vera una contraddizione; ma dal momento che è logicamente impossibile sbagliarsi sul , è anche logicamente impossibile sbagliarsi sul .dimostrazione aristotelica dell’impossibilità di ritenere vera una contraddizione stabilisce la priorità logica del rispetto al e ne fa «per natura» il principio di conoscenza, cioè di certecognitiva, anche di tutti gli altri assiomi.

    Myles Burnyeat così riassume i rapporti fra il principio anipotetico di Platone e quello di Aristotele:Dialectic for the Platonists is the supreme science, their rival to Aristotelian rst philosophy. When Aristotle speaks of the principle of non-contradiction as ‘unhypothetical’ (° 3.1005b1 :àÓ˘ ıÂÙÔÓ), he is de-

    La traduzione corrente diñ Ôı¤ÛÂȘ

    è «premesse» (così C 1928/1959, T 1966, R 1968/20R 1973, V 197 e ora anche M 2007, p. 859): cfr.¢ 2, 1013b20 (·î ñ Ôı¤ÛÂȘ ÙÔÜ Û˘Ì ÂÚ¿ÛÌ·ÙÔ˜). Fan-no eccezione R 1908, K 1993 e D e J 1991, che traducono «ipotesi».

    Cfr. A . A .in Metaph. 3 6.25-27 H.:ñ Ôı¤ÛÂȘϤÁˆÓ Ùa˜Î·ı\ ëοÛÙËÓâ ÈÛÙ‹ÌËÓÙ ηdÙ¤¯ÓËÓàÚ¯¿˜,·Q ‰ÈÙÈ Ìc ‰È\ à ԉ›Íˆ̃ Ï·Ì‚¿ÓÔÓÙ·È, àÏÏ\ó˜ âÓ·ÚÁÂÖ˜, ñ Ôı¤ÛÂȘ ·éÙa˜ ϤÁÔ˘ÛÈÓ(«chiamando ‘ipotesi’ i prin-cipi di ciascuna scienza e tecnica, che, poiché sono assunti non per dimostrazione ma come evidenti, li chiamano‘ipotesi’»).ContraK 1993, p. 123: «here the words [scl.‘principio’ e ‘ipotesi’] are used indifferently of anything accepted without proof», che ha presente anche in questo caso APo. 10 e non APo. 2.

    «La mia opinione è pertanto che non si debba assumere come principio primitivo se non le esperienze e l’assioma di identità, o (che è la stessa cosa) di contraddizione, che è primitivo; perché altrimenti non vi sarebbe alcuna differenza tra la verità e la falsità; e tutte le ricerche,se fosse indifferente affermare o ne are, cesserebbero di col-po» (L , Prime osservazioni sul «Sagio sull’intelletto umano» di Locke, in B 1967, vol. , pp. 155-156, corsivomio; citato in D 1975, p. 12). Che non sia possibile insieme affermare e negare la stessa cosa è una delle mulazioni aristotelichestandarddel ; cfr. per es. APo. 11, 77a10:Ùe ‰b Ìc âÓ‰¤¯ÂÛı·È ±Ì· Ê¿Ó·È Î·d à ÔÊ¿Ó·È(C 2007b, pp. 139-1 0). Cfr. C 2007b, p. 1 9 n. 1

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    throning the Platonic Good (the One), which in the Republic(510b7, 511b6) is famously called ‘unhypo-thetical’, in favour of a principle which was the Republic’s rst example of a mere hypothesis ( 37a6).

    Al di là dei problemi che pone l’identicazione del Bene platonico (anzi dell’Uno, come scriveBurnyeat)col principio anipotetico del tutto, è tuttavia attraente pensare che Aristotele abbiavoluto in qualche modo sostituire all’idea del bene di Platone il principio di non contraddizionecome principio anipotetico del tutto. E questo non solo, come osserva Burnyeat, per la puntapolemica di considerare un principio quello che Platone nel libro della Repubblicaconsidera«una mera ipotesi».Il Bene platonico, a differenza del