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Neuroni in mostra a Londra. Chi ha rubato il cervello di Einstein - Panorama http://scienza.panorama.it/Neuroni-in-mostra-a-Londra-Chi-ha-rubato-il-cervello-di-Einstein?utm_source=twitter&utm_medium=social&utm_campaign=tweet[17/02/2013 14:09:26] Newsletter | Archivio | Meteo | | | | | | News Economia Mytech Scienza Società Cultura Sport Foto Video Blog Icon Magazine Salute Padri con figli STORIE Il Papa, Elezioni 2013, Sanremo 2013, #MPS, Casa Belén , Spotify in Italia IN EVIDENZA Il Mondo in Primo Piano | Mobile&App | Panoramauto | Giochi | Oroscopo | English | Instant Book Home - Scienza - Neuroni in mostra a Londra. Chi ha rubato il cervello di Einstein 12-06-2012 10:19 0 TAG: CERVELLO DI EINSTEIN FISICA DEL CERVELLO E GENIO FURTO PANORAMA IN EDICOLA VIDEO LEGGI ANCHE Ecco come funziona il nostro cervello di Luca Sciortino Alla Wellcome Collection di Londra la gente vi si affolla intorno come fosse la reliquia di un santo. Non importa che ci voglia un certo senso del macabro per avvicinarsi alla teca e osservarla attentamente. Quella non è materia cerebrale qualunque. È la carne che ha prodotto una delle più grandi rivoluzioni nella storia del pensiero, mutato la nostra concezione dello spazio e del tempo, sovvertito le nostre più radicate concezioni dell’universo. A questo simbolo della genialità della schiatta umana, per la prima volta esposta al pubblico, la targhetta della mostra non rende giustizia: «a slice of Einstein’s brain», una sottile fettina del suo cervello. Vicende alterne l’hanno tenuta nascosta per ben 57 anni, quelli che vanno dalla morte del padre della Relatività a oggi, un arco di tempo in cui gli scienziati hanno sezionato, analizzato, pensato, in un gioco continuo di congetture e confutazioni. In ballo, il tentativo di decifrare il segreto della sua intelligenza. Un vero e proprio mistero da risolvere, tanto più che domande come “Cos’è il Neuroni in mostra a Londra. Chi ha rubato il cervello di Einstein A Londra sono esposte, per la prima volta, le cellule neuronali del padre della relatività. E già questo è singolare. Ma la storia più incredibile è un’altra. Riguarda un medico truffaldino e i tanti neurologi che gli chiedevano qualche fetta di quella materia cerebrale per scoprire il mistero del genio. Se vi siete persi la vicenda, ve la raccontiamo noi Scienza, la foto del giorno - Febbraio Scienza, la foto del giorno - Gennaio Scienza, la foto del giorno - Dicembre Vedi tutte La nuova Mondadori Card Richiedila subito online Le ragazze Periscopio Guarda le foto delle splendide modelle in rampa di ommozione - Benedetto XVI ha invitato la Chiesa a "rinnovare lo spirito". Berlusconi: "Grillo pericolo per la democrazia" Monti sfida l'ex premier e Bersani: "Tutti in tv" - Poi un a Mi piace Mi piace 19

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    Vicende alterne l’hanno tenuta nascosta per ben 57 anni, quelliche vanno dalla morte del padre della Relatività a oggi, un arco ditempo in cui gli scienziati hanno sezionato, analizzato, pensato, inun gioco continuo di congetture e confutazioni. In ballo, il tentativodi decifrare il segreto della sua intelligenza. Un vero e propriomistero da risolvere, tanto più che domande come “Cos’è il

    Neuroni in mostra a Londra. Chi ha rubato il cervellodi EinsteinA Londra sono esposte, per la prima volta, le cellule neuronali del padre della relatività. Egià questo è singolare. Ma la storia più incredibile è un’altra. Riguarda un medicotruffaldino e i tanti neurologi che gli chiedevano qualche fetta di quella materia cerebraleper scoprire il mistero del genio. Se vi siete persi la vicenda, ve la raccontiamo noi

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  • Neuroni in mostra a Londra. Chi ha rubato il cervello di Einstein - Panorama

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    Cervello: colpa dei geni sediventa più piccolo con l'età

    Il segreto del Dio diMichelangelo

    LINK

    Il sito della WellcomeCollection di Londra

    talento?” “Dove risiede?” “Da cosa è prodotto?” rimandano a unadelle questioni insolute della nostra conoscenza: come i prodottiinvisibili della mente siano connessi alla struttura fisica delcervello.

    Data la difficoltà della questione, ogni uomo di scienza avrebbedesiderato che il cervello del genio dell’umanità fosse rimasto tuttiquesti anni nei laboratori per essere studiato da cima a fondo. Dicontro, Einstein, per scoraggiare gli idolatri, aveva espressamentechiesto che suoi resti fossero cremati e sparsi al vento. La storiasi è incaricata di deludere sia l’uno sia gli altri.

    La sera del 17 aprile 1955, all’età di 76 anni, il vecchio eceleberrimo fisico fu portato all’ospedale di Princeton dove morì dianeurisma aortico la mattina seguente. Forse un esame autopticonon sarebbe stato necessario, ma per Thomas Harvey, un anatomo-patologo dalla risata fuori luogo ela voce tonante che era di turno quella mattina, l’occasione era imperdibile. Si accinse a effettuarel’autopsia e si trovò di fronte a una sorta di pepita d’oro della neurologia - il cervello di uno dei piùgrandi geni dell’umanità.

    La tentazione era irresistibile: quell’encefalo poteva essere studiato per carpire il segreto del genio.Non era permesso prenderlo per sé, ma in nome della scienza perché non violare la regola? Il furtodi Harvey, perché solo così possiamo chiamarlo, venne alla luce qualche giorno dopo. HansAlbert, figlio di Einstein, dovette andare su tutte le furie, ma di riffa o di raffa Harvey lo convinse adaccettare l’increscioso episodio in cambio di una promessa: quel cervello sarebbe stato usato solonell’interesse della scienza. La caccia al segreto del talento era cominciata.

    La notizia si sparse nel mondo della scienza e il direttore dell’ospedale di Princeton intimò a Harvey dicedere la refurtiva. Però quest’ultimo, come un cane con l’osso, il cervello se lo teneva stretto. Allora ilsuo superiore lo fece espellere dall’ordine degli anatomo-patologi ma, finché la pressione su di lui noncrebbe ancora, non ci fu nulla da fare. Dovette passare qualche mese prima che Harvey si rendesseconto che non poteva reclamare alcun diritto su quel tesoro visto che le sue conoscenze si limitavanoagli esami post-mortem sugli organi umani. Consegnare tutto il cervello però era troppo. Così ilpatologo lo portò all’ospedale di Philadelfia, lo fece affettare in un centinaio di parti e ne consegnòalcune a Harry Zimmerman, il medico personale di Einstein. Una volta fatto questo, Harvey tirò unsospiro di sollievo: aveva ancora fette in abbondanza ben conservate in un vaso colmo di formalina epoteva sempre rispondere ai postulanti che le sue ricerche erano di imminente pubblicazione.

    In quegli anni, un neuroscienziato dell’università della California, Marian Diamond, aveva contato lecellule gliali (quelle che sostengono e nutrono le cellule neuronali) in diverse parti del cervello di topisottoposti a differenti stimoli ambientali. La sua conclusione era stata che ambienti mentalmentestimolanti facevano decrescere il rapporto tra il numero di neuroni e quello delle cellule gliali.

    Quando Diamond venne a conoscenza dell’esistenza di porzioni del cervello di Einstein non stettenella pelle e ne chiese ad Harvey qualcuna. Quest’ultimo dovette pensare che in fondo non glicostava poi tanto cederne un’altra manciata e così Diamond nel 1985 poté pubblicare su ExperimentalNeurology uno studio dal suggestivo titolo «On the brain of Albert Einstein». La sua conclusione erache in un’area della corteccia cerebrale, la cosiddetta numero 39 di Brodmann, il cervello di Einsteindifferiva da quello di un campione di undici cervelli di sessantaquattrenni nel rapporto tra cellule glialie neuroni. Diamond suggerì una possibile interpretazione: Einstein aveva sviluppato un alto numero dicellule gliali come conseguenza di maggiori stimoli intellettuali. Proprio come i topi negli esperimenti.Eureka? Non proprio.

    Fu un gioco da ragazzi per i colleghi criticare i metodi della ricerca: campione di riferimento troppopiccolo, stato del tessuto non ottimale e pur sempre quello di settantaseienne; e infine il dubbio che ilvalore ridotto del rapporto tra neuroni e cellule gliali derivasse più per una rapida moria dei primi chenon per l’aumento delle cellule gliali. Evidentemente a pesare sulla pubblicazione dei risultati fu più ilclamore intorno all’argomento che non la validità scientifica dei metodi.

    Nel frattempo, Harvey divorziò da sua moglie: chissà quanto aveva pesato il fatto che a un certopunto lei aveva minacciato di reclamare il possesso delle preziose reliquie. Harvey partì con la suaparte di cervello in un barattolo, prima per il Kansas, poi per il Missouri e poi di nuovo per Lawrence,in Kansas, dove si stabilì e fece amicizia con il poeta William Burroughs. Forse perché fu un periodofelice, forse fu l’effetto delle gran bevute con l’amico, fatto sta che Harvey si mostrò più generoso inquel periodo e cedette altre fettine ad altri ricercatori. Dopotutto, non doveva tenere fede allapromessa fatta ad Einstein junior?

    Agli inizi degli anni ’90, quando Harvey ritornò a Princeton, un ricercatore dell’Osaka BioscienceInstitute, in Giappone, mise in connessione i risultati di Diamond con il fatto che Einstein iniziò aparlare dopo i tre anni e mostrò un comportamento dislessico durante i primi anni di scuola. Lacongettura era che il conteggio delle cellule di Diamond rivelava invece una lesione nell’area

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  • Neuroni in mostra a Londra. Chi ha rubato il cervello di Einstein - Panorama

    http://scienza.panorama.it/Neuroni-in-mostra-a-Londra-Chi-ha-rubato-il-cervello-di-Einstein?utm_source=twitter&utm_medium=social&utm_campaign=tweet[17/02/2013 14:09:26]

    relativa al linguaggio successivamente guarita: altro che numero superiore di cellule gliali, Einsteinaveva da bambino una regione della corteccia compromessa. Se i genitori, lo avessero saputo loavrebbero certo distolto dall’intraprendere la carriera accademica.

    Ora la caccia al segreto dell’intelligenza di Einstein era in fase di stallo. Finché nel 1996, suNeuroscience Letters, apparve un articolo di Britt Anderson, dell’università dell’Alabama, cheesaminava porzioni (probabilmente ricevute da Zimmerman) dell’area 9 di Brodmann, una regioneadiacente a quella che Harvey aveva mandato a Diamond. Questa volta emergeva che Einstein avevaun cervello piuttosto piccolo ma di peso nella media e che la sua corteccia cerebrale era più sottilema con un impacchettamento più serrato dei neuroni. E allora dove era localizzato il suo genio?Anderson suggerì che l’impacchettamento serrato dei neuroni doveva tradursi in una riduzione deltempo di interazione tra neuroni e quindi in un’economia del processo mentale del grande fisico. Unatesi che comunque non diceva molto sul genio di Einstein.

    Nel 1997 la vicenda scientifica del cervello di Einstein sfiorò la farsa. Ad Harvey venne in mente diincontrare la nipote di Einstein in California e il giornalista scientifico Michael Paterniti, un freelanceche aveva fiutato la storia, si offrì di accompagnarlo. I due affittarono un’enorme Buick Skylark,automobile nello stile dei film polizieschi americani, e si misero in viaggio con le porzioni del cervellodi Einstein in un contenitore a chiusura ermetica riposto in una sacca da viaggio sistemata nelbagagliaio. Così, il giovane Paterniti e il vecchio ottantaquattrenne Harvey attraversarono il NewJersey e l’Ohio, passarono per Kansas City, Los Alamos e Las Vegas, e finalmente raggiunseroBerkeley in California dove incontrarono Evelyn, la nipote di Einstein. Dopo i primi convenevoli,Harvey, che sentiva di essere negli ultimi anni di vita, la buttò lì: «Signora, io vorrei farle dono diquesti preziosi resti…». Neanche per sogno, Evelyn rifiutò. Non solo. Al momento di congedarsi,quando Harvey dimenticò il contenitore, la nipote di Einstein glielo fece notare. Non sappiamo se ladimenticanza di Harvey era voluta, di sicuro Evelyn quel barattolo con il cervello del nonnoproprio non lo voleva. Ormai stufo, di lì a poco Harvey depositò definitivamente i reperti aldipartimento di patologia di Princeton. Invece, Paterniti fece di quello strano viaggio un libro dal titoloDriving Mr. Albert in cui se ne leggono di tutti i colori.

    Nel 1999, Sandra Witelson, del McMaster University di Hamilton, nell’Ontario, pubblicò un articolosulla prestigiosa rivista Lancet. Questa volta l’attenzione della scienza si spostava sulle fotografiescattate da Harvey durante l’esame autoptico. Witelson notò che nel cervello di Einstein la cosiddetta«scissura di Silvio», il solco che divide i lobi parietali e frontali da quello temporale, era anomala: eracome se, rispetto a un cervello normale, il solco s’interrompesse in un punto. Così ecco un’altracongettura: quell’anomalia era il risultato di un rapidissimo sviluppo del lobo parietale la cuiparte inferiore è responsabile della capacità di visualizzare il movimento di oggetti nello spazio nonchédel pensiero logico-matematico. Insomma proprio le doti di un buon fisico teorico.

    Ma era davvero la soluzione dell’enigma? Si trattava pur sempre di uno studio effettuato su fotografie.Come notarono i critici, Witelson non era in grado di dire se l’anomalia era un semplice segno sullacorteccia o se rappresentava differenze nel modo in cui le cellule erano organizzate per comporre iltessuto. Nel 2009 una nuova congettura su Medical Hypotheses ribaltava il vecchio studio diDiamond: il valore ridotto del rapporto tra neuroni e cellule gliali nel cervello di Einstein era piuttosto ilsegno di autismo piuttosto che del genio. Restava però soltanto un’ipotesi. In assenza di un esamementre Einstein era in vita, la caccia al segreto del suo talento era di nuovo in fase di stallo.

    L’odissea del cervello del genio intanto proseguiva. Negli anni ’60 Harvey aveva dato un set di fette aWilliam Ehrich, a capo del dipartimento di neurologia dell’ospedale di Filadelfia. Quando Ehrich morì,la vedova le diede alla neurologa Lucy Rorke-Adams, la quale a sua volta decise di donarle al MütterMuseum di Filadelfia. Qualche mese fa, Marius Kwint, «senior lecturer» di cultura visualedell’università di Portsmouth, curatore dell’attuale mostra alla Wellcome Collection di Londra«Brains: The Mind as Matter» ha ricevuto due fette del cervello di Einstein proprio dal MütterMuseum di Filadelfia. Le reliquie del genio non potevano mancare tra i 150 pezzi di una mostra il cuiscopo, spiega Kwint, «è tentare di spiegare non il cervello umano ma cosa gli esseri umani hannofatto ai cervelli umani».

    Kwint ha offerto a Panorama i dettagli della storia fin qui raccontata e ha messo a disposizione alcunenote dello studioso Brian Burrell, pubblicate sotto il titolo Postcards from the Brain Museum. Unadelle recensioni di Burrell portava il nome di un’italiana, Marina Bentivoglio, professoressa presso ildipartimento di scienze neurologiche all’università di Verona, interessata alla storia delle neuroscienzee autrice su Brain Research Bulletin, di un’analisi delle ricerche condotte dal neuroscienziato OskarVogt sul cervello di Lenin.

    Raggiunta telefonicamente, Bentivoglio ha esordito dicendo: «Non credo che ricerche di tipoanatomico, cioè che si limitano ad analizzare singole sezioni del cervello di un genio, possano portaread una soluzione definitiva dell’enigma». I problemi che Bentivoglio vede in questo tipo di ricerchesono molteplici: il cervello che Harvey aveva trafugato era pur sempre un organo che aveva subito lealterazioni della vecchiaia; studi neuro-anatomici dell’encefalo in sezioni sottili richiedono molto tempoed enormi risorse, data la grandezza relativa di quest’organo; infine, per le comparazioni, è necessarioun campione di riferimento costituito da un grande numero di cervelli provenienti da popolazioni

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  • Neuroni in mostra a Londra. Chi ha rubato il cervello di Einstein - Panorama

    http://scienza.panorama.it/Neuroni-in-mostra-a-Londra-Chi-ha-rubato-il-cervello-di-Einstein?utm_source=twitter&utm_medium=social&utm_campaign=tweet[17/02/2013 14:09:26]

    comparabili. Secondo Bentivoglio, «una conclusione significativa e incoraggiante derivata da questistudi è semmai che un individuo con un danno nell’area del linguaggio ha poi sviluppato talentiparticolari».

    Fine della storia? Assolutamente no: «la possibilità di sapere di più riguardo la relazione tra lastruttura del cervello e le sue funzioni può arrivare da studi che integrano diversi tipi di ricerche: varietecniche di brain imaging con le quali si può visualizzare l’attivazione di specifiche aree del cervellodurante particolari compiti; la genetica e i nuovi studi sulle funzioni delle proteine, sulle loro moltepliciinterazioni e sugli effetti dell’ambiente su DNA e proteine».

    Insomma la caccia al segreto del talento è ancora aperta. Il punto di partenza universalmentecondiviso è che il termine «intelligenza» è in fondo una parola vuota: il cervello di un genio non è ilcervello di una persona più intelligente delle altre; semmai quello di una persona dotata di particolariabilità nell’eseguire compiti ben precisi, che possono essere misurate con un test del QI. Lo psicologoHoward Gardner, dell’università di Harvard, ha sviluppato una «teoria delle intelligenze multiple», difatto scomponendo quella che è comunemente chiamata «intelligenza» in una serie di abilità umanedistinte, tra queste l’intelligenza linguistica, musicale, spaziale, logico matematica, corporeo-cinestetica o personale interpersonale. Sebbene, secondo Gardner, Einstein fosse dotato diun’«intelligenza spaziale» e di una «logico-matematica» eccezionalmente sviluppate, il suo successoderivò dall’integrazione delle sue abilità cognitive con la capacità di porsi domande originali e concerte convinzioni riguardo a come l’universo deve essere descritto. Einstein si ostinò per tutta la vita acontestare l’assolutezza del tempo e dello spazio, un’idea radicata nella vecchia fisica newtoniana,tanto che sin da piccolo immaginava di cavalcare un raggio di luce cercando di indovinare leconseguenze. Più tardi giunse a ritenere che l’esperienza del tempo per il viaggiatore sul fascio diluce deve essere diversa per un individuo seduto in poltrona. Nel suo libro Formae Mentis Gardnerha concluso che il genio di Einstein «risiede nell’audacia di aver concepito il problema, nella tenacianel perseguirlo e nella sottigliezza con cui egli ne valutò la connessione con gli interrogativi piùbasilari sulla natura e la struttura dell’universo». Lo storico della scienza di Harvard, Gerald Holton, haaggiunto che per il successo del padre della Relatività è stato cruciale la fede in un valore diriferimento, il convincimento che devono esserci poche leggi semplici che unificano i vari fenomeni.

    È stato questo complesso intricato di fattori a produrre la grande rivoluzione concettuale della teoriadella Relatività. Se anche la scienza identificherà le abilità cognitive umane e il loro rapporto con lastruttura del cervello, il successo di coloro che a posteriori chiamiamo «geni» resterà sempre unfenomeno imponderabile e imprevedibile.

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    19:26 15-02-2013

    Asteroidi: tutte le ideeper evitare l'Armageddon

    18:50 15-02-2013

    Sarà l'anno dellecomete. Ma attenti aimeteoriti

    12:51 15-02-2013

    Pioggia di meteoritinegli Urali: oggi come105 an...

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