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NEUROSCIENZE SCIENZA DEL CERVELLO ____________________________________________________________________________ ____________________________________________________________________________ Una introduzione per giovani studenti Titolo originale: Neuroscience - Science of the Brain prodotto dalla British Neuroscience Association Traduzione italiana di Gabriele Garbin, PhD Stampato in proprio e distribuito gratuitamente da: Centro Interdipartimentale per le Neuroscienze dell’Università di Trieste - BRAIN (Basic Research And Integrative Neuro- science) e Comitato per la Promozione delle Neuroscienze per Neuroscience Cafè Con il contributo della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia 1

Neuroscienze- Scienza del Cervello

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prodotto dalla British Neuroscience Association Traduzione italiana di Gabriele Garbin, PhD Stampato in proprio e distribuito gratuitamente da:Centro Interdipartimentale per le Neuroscienze dell’Università di Trieste

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NEUROSCIENZESCIENZA DEL CERVELLO

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Una introduzione per giovani studenti

Titolo originale:Neuroscience - Science of the Brain

prodotto dalla British Neuroscience AssociationTraduzione italiana di Gabriele Garbin, PhD

Stampato in proprio e distribuito gratuitamente da:Centro Interdipartimentale per le Neuroscienze dell’Università di

Trieste - BRAIN (Basic Research And Integrative Neuro-science) e

Comitato per la Promozione delle Neuroscienzeper Neuroscience Cafè

Con il contributo della Regione AutonomaFriuli Venezia Giulia

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1-Il Sistema Ner-voso

Schema del Sistema Nervoso centrale umano: sono visualizzati il cervello ed il midollo spinale

Struttura fondamentale

Il Sistema Nervoso è composto dal cervello, dal midollo spinale e dai nervi periferici. È costituito da cellule ner-vose, chiamate neuroni, e da cellule di supporto, dette cellule gliali.

Esistono tre tipi principali di cellule neu-ronali. I Neuroni Sensoriali sono colle-gati a recettori specializzati nel rileva-mento di varie forme di energia e ri-spondono alle diverse caratteristiche dell’ambiente esterno ed interno.

I recettori sensibili a variazioni di luminosità, suoni, stimolimeccanici e chi-mici sono alla base delle funzioni senso-riali della visione, dell’ascolto, del tatto, dell’olfatto e del gusto.Quando uno stimolo meccanico, termico o chimico sulla pelle supera una certa in-tensità, esso può causare un danno al tessuto e uno speciale gruppo di recet-tori detti nocicettori viene attivato: questi danno origine sia ad un riflesso protettivo sia alla sensazione del dolore (vedi capitolo 5 su Tatto e Dolore).I motoneuroni, che controllano l’attività dei muscoli, sono responsabili di tutte le forme di comportamento, incluse la paro-la. Situati fra i neuroni sensoriali ed i motoneuroni si trovano gli interneuroni, che sono di gran lunga i più numerosi (nel cervello umano).Gli Interneuroni fanno da tramite per i riflessi semplici e sono responsabili delle più evolute funzioni del cervello.

Oggi sappiamo che le Cellule Gliali, a lun-go ritenute avere solamente una funzio-ne di impalcatura per i neuroni, contri-buiscono in maniera importante allo svi-luppo del sistema nervoso ed alle sue funzioni nel cervello adulto. Benché siano molto più numerose, esse non trasmetto-no informazione come i neuroni.

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Il cervello umano visto dall’alto, dal bas-so e di latoL’architettura del neurone consiste in un corpo cellulare e due strutture aggiunti-ve chiamate processi. Una di queste due strutture è detta assone: il suo lavoro consiste nel trasmettere l’informazione dal neurone ad altri a cui è connesso. L’altra struttura è costituita dai dendri-ti: essi hanno il compito di ricevere l’in-formazione che viene trasmessa dall’as-sone di altri neuroni. Questi processi so-no in comunicazione attraverso dei con-nettori specializzati, detti sinapsi (vedi capitoli 2 e 3 su Potenziale d’Azione e Messaggeri Chimici). I neuroni sono or-ganizzati in complesse catene e reti che sono la via di comunicazione attraverso la quale viene trasmessa l’informazione nel sistema nervoso.

Il cervello ed il midollo spinale sono col-legati ai recettori sensoriali ed ai mu-scoli attraverso lunghi assoni che costi-tuiscono il sistema nervoso periferico. Il midollo spinale ha due funzioni: è la sede di riflessi semplici, come la flessione in-dotta del ginocchio o il gesto di ritrarre velocemente un arto da una fonte di ca-lore o da un oggetto appuntito, così come di riflessi più complessi, e costituisce una grande via di comunicazione fra il corpo ed il cervello per consentire il pas-saggio di informazioni da una parte all’al-tra in entrambe le direzioni.Queste strutture di base del sistema nervoso sono le stesse in tutti i verte-brati. Ciò che contraddistingue il cervel-lo umano sono le sue generose dimensioni

in rapporto a quelle dell’intero corpo. Questo è dovuto ad un enorme aumento del numero di interneuroni nel corso del-l’evoluzione, che consente agli esseri umani una scelta incommensurabilmente ampia di reazioni all’ambiente circostan-te.

Anatomia del Cervello

Il cervello è costituito dal tronco ence-falico e dagli emisferi cerebrali.

Il tronco encefalico è suddiviso in bulbo (o midollo allungato), ponte, e una strut-tura nella parte superiore chiamata di-encefalo.Il bulbo è una prosecuzione del midollo spinale. Esso contiene reti di neuroni che costituiscono il centro di controllo delle funzioni vitali come la respirazione e la pressione sanguigna. Fra queste reti vi sono gruppi di neuroni la cui attività so-vrintende tali funzioni. Dalla sommità del bulbo si estende il cervelletto, che gioca un ruolo assolutamente centrale nel con-trollo e nella temporizzazione dei movi-menti (vedi il capitolo su Movimento e Dislessia).

Il ponte contiene popolazioni di neuroni, ciascuna delle quali sembra utilizzare in maniera predominante un particolare ti-po di messaggero chimico, ma tutte sono collegate agli emisferi cerebrali. Si ri-tiene che esse possano modulare l’attivi-tà dei neuroni nei centri superiori del cervello per mediare funzioni come il

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sonno, l’attenzione, il senso di ricompen-sa in seguito ad un’azione.

Il diencefalo è suddiviso in due aree molto differenti fra loro, chiamate ta-lamo ed ipotalamo. Il talamo invia alla corteccia cerebrale gli impulsi che rice-ve da tutte le regioni del sistema senso-riale; a sua volta, la corteccia cerebrale invia come risposta dei segnali al talamo. Questo aspetto di “avanti e indietro” della connessione cerebrale è piuttosto intrigante: l’informazione non viaggia semplicemente in una sola direzione.L’ipotalamo controlla funzioni come il mangiare ed il bere, e regola inoltre il rilascio degli ormoni coinvolti nelle fun-zioni sessuali.

Gli emisferi cerebrali sono costituiti da una parte centrale, nota come gangli della base, ed un foglio sottile ma este-so di neuroni che costituiscono la mate-ria grigia della corteccia cerebrale. I

gangli della base giocano un ruolo di pri-mo piano nella capacità di iniziare e con-trollare un movimento (vedi il capitolo 7 sul Movimento).Impacchettata nello spazio limitato del cranio, la corteccia cerebrale è accar-tocciata con pieghe verso l’interno e ver-so l’esterno, consentendo di avere una superficie disponibile molto maggiore di quanto altrimenti possibile per il foglio di neuroni che la compone. L’estensione della corteccia cerebrale è maggiore nel cervello degli esseri umani – quattro vol-te più grande di quello dei gorilla. È sud-divisa in un gran numero di aree separa-te, ciascuna distinguibile in base ad una propria struttura stratiforme e specifi-che connessioni. Le funzioni di molte di queste aree sono ben note, come le aree visiva, uditiva ed olfattiva, le aree che ricevono i segnali sensoriali dalla pelle (dette aree somatosensoriali) e numero-se aree specializzate nel controllo del movimento.Le vie nervose che connettono i recetto-ri sensoriali alla corteccia e la corteccia ai muscoli si incrociano da un emisfero all’altro. Ciò significa che i movimenti della parte destra del corpo sono con-trollati dalla parte sinistra della cortec-cia cerebrale (e vice versa).Analogamente, la parte sinistra del cor-po invia segnali sensoriali all’emisfero destro cosicché, ad esempio, i suoni im-messi nell’orecchio sinistro raggiungono principalmente la corteccia del lato de-stro. In ogni caso, le due metà del cer-vello non lavorano in maniera isolata, poi-ché la corteccia cerebrale destra e sini-stra sono connesse da un largo tratto di fibre detto corpo calloso.

La corteccia cerebrale è necessaria per le azioni volontarie, il linguaggio, la capa-cità di parlare e le funzioni superiori come pensare e ricordare. Molte di que-

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ste funzioni sono svolte sia da un emi-sfero sia dall’altro, ma alcune di esse so-no molto più lateralizzate su un emisfero rispetto all’altro. Aree connesse con al-cune di queste funzioni superiori, come la capacità di parlare (che è lateralizza-ta sull’emisfero sinistro nella maggior parte delle persone), sono già state identificate. Resta comunque molto da imparare, specialmente su argomenti af-fascinanti come la coscienza, e pertanto lo studio delle funzioni della corteccia cerebrale è una delle più interessanti ed attive aree di ricerca delle Neuroscien-ze.

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2 - I Neuroni e il Potenziale d’AzioneChe siano sensoriali o motori, piccoli o grandi, i neuroni hanno tutti in comune il fatto che la loro attività è sia elet-trica che chimica. I neuroni cooperano e competono l’uno con l’altro nel rego-lare lo stato complessivo del sistema nervoso, all’incirca nel modo i cui gli individui di una società collaborano e competono nel prendere una decisione comune. I segnali chimici ricevuti nei dendriti dagli assoni con cui sono a contatto vengono trasformati in segnali elettrici, che si sommano o sottraggo-no ai segnali elettrici che vengono ri-cevuti da tutte le altre sinapsi, de-terminando così la decisione di propa-gare o meno il segnale risultante verso una nuova destinazione. In questo ca-so, i potenziali elettrici viaggiano lungo l’assone verso le sinapsi poste sui den-driti del neurone accanto ed il proces-so si ripete.

I componenti essenziali di un neurone

Il neurone dinamico

Come descritto nel capitolo precedente, un neurone è composto da dendriti, un corpo cellulare, un assone e delle termi-nazioni sinaptiche. Questa struttura ri-flette la suddivisione delle funzioni di ricezione, integrazione e trasmissione in parti diverse. Possiamo dire che il den-drite riceve, il corpo cellulare integra e l’assone trasmette – un concetto che è detto polarizzazione, poiché si suppone che l’informazione che essi elaborano vada in una sola direzione.

Tre differenti tipi di neuroni

Come ogni altra struttura, il neurone de-ve essere delimitato da qualcosa. La struttura esterna dei neuroni è una membrana costituita da sostanza grasse, avvolta attorno ad un citoscheletro co-stituito da bacchette di proteine tubula-ri e filamentose che si estendono anche nei dendriti e negli assoni. La struttura risultante assomiglia ad una tessuto teso ed avvolto intorno all’intreccio dei tubi di un telaio.

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Le spine dendritiche sono quelle piccole protuberanze che sporgono dai dendriti (i sottili filamenti della figura) del neu-rone. Sono il luogo dove si trovano le si-napsi

Le diverse parti di un neurone sono in continuo movimento, un processo di rias-sestamento che riflette la sua stessa attività e quella dei neuroni circostanti. I dendriti cambiano forma, creando nuo-ve connessioni ed eliminandone altre, e l’assone aumenta o diminuisce le sue terminazioni se il neurone intende comu-nicare con i suoi consimili a voce più alta o più bassa.All’interno dei neuroni si trovano vari compartimenti. Essi sono costituiti da proteine, prodotte principalmente nel corpo cellulare, che vengono trasportate lungo il citoscheletro. Piccole protube-ranze fuoriescono dai dendriti, dette spine dendritiche. Queste sono il luogo in cui gli assoni esterni creano la maggior parte delle loro connessioni in ingresso. Le proteine trasportate verso le spine sono importanti per creare e mantenere la connettività neuronale. Queste pro-teine sono costantemente rinnovate, ve-nendo sostituite con nuove proteine quando hanno svolto il loro compito. Tut-ta questa attività ha bisogno di energia per essere svolta, e all’interno delle cel-lule esistono dei veri e propri generatori di energia (i mitocondri) che permettono all’insieme di funzionare. Le estremità degli assoni reagiscono inoltre ad alcune molecole dette fattori di crescita. Que-sti fattori vengono assorbiti e traspor-tati al corpo cellulare, dove influenzano

l’espressione dei geni neuronali e, conse-guentemente, la produzione di nuove proteine che consentono al neurone di far crescere dendriti più lunghi o modi-ficare in maniera dinamica la propria forma o le proprie funzioni. Le informa-zioni, il nutrimento e i messaggeri scor-rono da e verso il corpo centrale in ogni istante.

Ricezione e decisione

Sul lato ricevente della cellula, i dendriti hanno contatti ravvicinati con gli assoni provenienti da altri neuroni. Ciascun con-tatto avviene ad una minuscola distanza di circa 20 miliardesimi di metro.Un dendrite può ricevere contatti da una, alcune o persino centinaia di altre cellule neuronali. Questi punti di giunzio-ne sono detti sinapsi, che in Greco Anti-co significa “unire assieme”. La maggior parte delle sinapsi nella corteccia cere-brale sono situate sulle spine dendriti-che che fuoriescono come piccoli micro-foni in cerca di segnali molto deboli. La comunicazione fra le cellule nervose at-traverso questi contatti puntiformi è detta trasmissione sinaptica e coinvolge un processo chimico che verrà descritto nel prossimo Capitolo. Quando i dendriti ricevono un messagge-ro chimico che è stato espulso da un as-sone ed ha superato la distanza di giun-zione, all’interno della spina dendritica si genera una minuscola corrente elettrica. Generalmente si tratta di correnti che si apprestano ad entrare nella cellula, e so-no dette eccitatorie; se invece si tratta di correnti che si dirigono verso l’ester-no della cellula, esse sono dette inibito-rie. Tutte queste onde positive e negati-ve di corrente si accumulano nei dendriti e si diffondono poi verso il corpo cellula-re. Se non sono sufficientemente inten-

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se, queste correnti sono destinate a dis-solversi e non portano ad alcun effetto. Se, al contrario, l’intensità di queste correnti supera un certo valore di soglia, il neurone trasmetterà un messaggio ad altri neuroni.

Il neurone è pertanto una sorta di calco-latore in miniatura che esegue addizioni e sottrazioni senza sosta. Ciò che viene aggiunto e sottratto sono i messaggi che provengono da altri neuroni. Alcune sina-psi producono eccitazione, altri inibizio-ne, ed il modo in cui questi segnali costi-tuiscano la base per le sensazioni, i mo-vimenti ed il pensiero dipende moltissimo da com’è fatta la rete in cui i neuroni so-no situati.

Il Potenziale d’Azione

Per comunicare da un neurone ad un al-tro, il segnale neuronale deve anzitutto percorrere la distanza dal corpo cellula-re alla terminazione assonica attraverso l’intero assone. Come fanno in neuroni a far sì che questo avvenga?

La risposta consiste nel mettere a frut-to le energie immagazzinate in variazioni fisiche e chimiche, e mettere assieme

queste forze per ottenere qualcosa di utile. Gli assoni dei neuroni trasmettono impulsi elettrici che sono detti poten-ziali d’azione.

Questi impulsi viaggiano lungo le fibre nervose come un getto d’acqua scorre giù da una montagna. Il funzionamento di questo meccanismo e` assicurato dal fatto che la membrana assonica contiene canali ionici, che possono aprirsi e chiu-dersi per lasciar passare ioni elettrica-mente carichi. Alcuni canali favoriscono il passaggio degli ioni sodio (Na+) mentre altri lasciano passare ioni potassio (K+). Quando i canali sono aperti, gli ioni Na+ o K+ fluiscono creando differenze chimi-che ed elettriche fra l’interno e l’ester-no della cellula (gradienti), portando alla depolarizzazione elettrica della mem-brana.Quando un potenziale d’azione si origina nel corpo cellulare, i primi canali che si aprono sono quelli al Na+. Una manciata di ioni sodio entra nella cellula ed un nuovo equilibrio è così stabilito entro un milli-secondo. In un batter d’occhio, il voltag-gio da un lato all’altro della membrana varia di circa 100mV, da un valore nega-tivo all’interno di circa -70mV ad un va-lore positivo di circa +30mV. Questa va-riazione causa l’apertura dei canali al K+, avviando la fuoriuscita di una certa quantità di ioni potassio all’esterno della cellula, all’incirca con la stessa rapidità con cui gli ioni Na+ erano entrati, e que-sto evento ha come conseguenza il ripri-stino dei valori di voltaggio originali, os-sia negativi internamente. Il fenomeno del potenziale d’azione si esaurisce più velocemente del tempo che si impiega ad accendere una lampadina ed a spegnerla immediatamente, per quanto veloci si cerchi di essere. In realtà, solo un nume-ro molto basso di ioni deve attraversare la membrana cellulare per ottenere que-

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Il potenziale d’azione

sto risultato, e le concentrazioni di ioni Na+ e K+ nel citoplasma non variano in maniera significativa durante un poten-ziale d’azione. Comunque, nel lungo ter-mine le concentrazioni di questi ioni sono tenute sotto controllo da opportune pompe ioniche, il cui lavoro consiste nel-l’espellere l’eccesso di ioni sodio (e ri-prendere gli ioni potassio). Questo av-viene all’incirca nello stesso modo in cui si può rimediare ad una piccola falla nello scafo di una barca in mare raccogliendo l’acqua che entra con un pentolino e get-tandola all’esterno, senza che la struttu-ra dello scafo rischi di cedere sotto la pressione dell’acqua su cui la barca sta navigando.

Il potenziale d’azione è un evento elet-trico, per quanto complesso. Le fibre nervose si comportano come conduttori elettrici (anche se meno efficienti di un cavo isolato), ed in tal modo un potenzia-le d’azione generato in un certo punto crea un altro gradiente di voltaggio fra la membrana attiva in cui si trova e quel-la in quiete intorno ad esso. Il potenziale d’azione viene così propagato in un’onda di depolarizzazione che viaggia da un ca-po all’altro della fibra nervosa.

Un’analogia che può aiutare la compren-sione di come viene propagato un poten-ziale d’azione è lo spostamento delle scintille di una stella filante dopo che è stata accesa all’estremità: all’inizio le scintille sono tantissime (questo punto equivale alla zona in cui gli ioni fluiscono verso l’interno e verso l’esterno in corri-spondenza della posizione del potenziale d’azione), ma la successiva progressione dell’energia su bastoncino avviene molto più lentamente. La meravigliosa partico-larità delle fibre nervose è che, dopo un brevissimo periodo di inattività (il pe-riodo refrattario) la membrana riacqui-

sta la sua capacità di produrre scintille, pronta a consentire il trasferimento di un nuovo potenziale d’azione.

La maggior parte di queste nozioni sono note da ormai 50 anni, grazie ad impor-tanti esperimento che sono stati eseguiti utilizzando i neuroni e gli assoni di gros-se dimensioni che sono tipici di certe creature marine. Lo spessore di questi assoni ha consentito agli scienziati di porre minuscoli elettrodi all’interno e

misurare in tal modo le variazioni di vol-taggio elettrico. Al giorno d’oggi, una moderna tecnica di registrazione elet-trica nota come patch-clamping (che po-trebbe suonare come “attaccare una toppa”) consente ai neuroscienziati di studiare il movimento degli ioni attra-verso singoli canali ionici in ogni sorta di neurone, ed ottenere pertanto misure estremamente accurate di queste cor-renti in cervelli molto simili al nostro.

L’isolamento dei neuroni8

Ricerche di frontiera.Le fibre nervose (porpora) sono avvolte dalle cellule di Schwann (rosso) che ne isolano elettricamente dall’ambiente circostante. In colore sono mostrate sostanze fluorescenti che indicano la presenza di un complesso proteico scoperto recentemente. Il danneg-giamento di questo complesso causa una ma-lattia ereditaria che determina degenerazio-ne muscolare.

Lungo molti assoni il potenziale d’azione si sposta con una certa facilità ma non molto velocemente. In altri, i potenziali d’azione balzano letteralmente da una parte all’altra. Questo accade perché lunghe porzioni dell’assone sono avvolte da fogli di un isolante composto da mem-brane di cellule gliali opportunamente stirate, dette guaine mieliniche.Nuove ricerche descrivono le caratteri-stiche delle proteine che compongono queste guaine. L’isolante ha il compito di impedire che le correnti generate dagli ioni possano disperdersi all’esterno e fi-nire nel posto sbagliato. Ciononostante, in molti punti le cellule gliali lasciano scoperte piccole aree di membrana. Questo fatto è utile, poiché in tal punti gli assoni concentrano i loro canali ionici per Na+ e K+. Questi agglomerati di ca-nali ionici fungono da amplificatori che riforniscono e mantengono il potenziale d’azione mentre esso salta letteralmente lungo la fibra nervosa. La sua velocità può essere veramente elevata: infatti, lungo un assone mielinizzato il potenziale d’azione può correre anche a 100 metri al secondo!

I potenziali d’azione hanno la proprietà caratteristica di essere “tutto-o-nulla”: quello che varia non sono le loro dimen-sioni, bensì quanto frequentemente si presentano. Pertanto, l’unico modo in cui una singola cellula può interpretare l’in-tensità o la durata di uno stimolo è la va-riazione della frequenza dei potenziali d’azione. Gli assoni più efficienti riesco-no a condurre potenziali d’azione a fre-quenze che raggiungono le 1000 volte al secondo.

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3 - I Messag-geri Chimici

I potenziali d’azione sono trasmessi lungo l’assone fino a delle zone specia-lizzate chiamate sinapsi, che sono le aree in cui gli assoni entrano in con-tatto con i dendriti di altri neuroni. Le sinapsi sono costituite da una termina-zione nervosa presinaptica che è sepa-rata da una breve distanza dalla com-ponente postsinaptica, che spesso è localizzata su una spina dendritica. Le correnti elettriche responsabili della propagazione del potenziale d’azione lungo gli assoni non possono scavalcare la fessura sinaptica. La trasmissione attraverso questa fessura è consentita da messaggeri chimici chiamati neuro-trasmettitori.

Immagazzinamento e Ri-lascio

I neurotrasmettitori sono immagazzina-ti in delle piccole borse sferiche note come vescicole sinaptiche poste alla fine

come vescicole sinaptiche poste alla fine degli assoni. Esistono vescicole per l’im-magazzinamento e vescicole più vicine al termine della fibra nervosa, pronte per essere rilasciate. L’arrivo di un potenzia-le d’azione causa l’apertura di canali ioni-ci che consentono l’ingresso di ioni calcio (Ca++). Questo attiva alcuni enzimi che agiscono su una categoria di proteine presinaptiche dai nomi esotici come “snare”, “tagmin” e “brevin” – nomi adatti ai personaggi di una storia d’avventura scientifica. I neuroscienziati hanno ap-pena scoperto che queste proteine pre-sinaptiche se ne vanno in giro etichet-tando ed intrappolando le altre, causan-do una fusione fra la membrana e le ve-scicole sinaptiche per il rilascio, facen-dole scoppiare e rilasciare i messaggero chimico al di fuori della terminazione nervosa.

Questo messaggero poi percorre i 20 nanometri della fessura sinaptica. Le vescicole sinaptiche si riformano quando le loro membrane vengono risucchiate dentro la terminazione nervosa, dove vengono nuovamente riempite di neuro-trasmettitori che verranno successiva-mente emessi in un processo ciclico e continuo. Appena arrivato dall’altra par-te – il che avviene in maniera incredibil-mente veloce, in meno di un millisecondo -, il messaggero interagisce con specifi-che strutture molecolari, dette recet-tori, situate nella membrana del neurone successivo. Anche le cellule gliali se ne stanno in agguato intorno alla fessura

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Trasmettitori chimici impacchettati in invo-lucri sferici pronti per il rilascio attraverso la giunzione sinaptica

sinaptica. Alcune di esse hanno micro-scopici aspirapolvere pronti all’uso, detti trasportatori, il cui compito è di risuc-chiare il trasmettitore che trovano nella fessura. In questo modo la zona della fessura viene ripulita prima dell’arrivo del prossimo potenziale d’azione. Tutta-via nulla viene sprecato, queste cellule gliali rielaborano il trasmettitore e lo rispediscono alla terminazione nervosa per essere immagazzinato nelle vescicole per un prossimo utilizzo. Le cellule gliali non sono le uniche a compiere questo la-voro di pulizia della fessura sinaptica dai neurotrasmettitori. A volte, la cellula nervosa richiama direttamente i tra-smettitori verso le proprie terminazioni. In altri casi, il trasmettitore viene di-strutto da altri agenti chimici presenti nella fessura.

Messaggeri che aprono canali ionici

L’interazione dei neurotrasmettitori con i recettori ricorda molto quella della chiave con la serratura. L’incontro fra il neurotrasmettitore (la chiave) con il re-cettore (la serratura) generalmente causa l’apertura di un canale ionico; que-sti recettori sono detti recettori iono-tropici (vedi Figura). Se il canale ionico consente l’ingresso di ioni positivi (Na+ o Ca++), l’immissione di cariche positive causa una eccitazione. Questo produce un’oscillazione nel potenziale di membra-na detto “potenziale eccitatorio post-si-naptico” (epsp). Tipicamente, un gran numero di sinapsi convergono verso un neurone e, in qualsiasi istante, alcuni so-no attivi ed altri non lo sono. Se la som-ma di questi “epsp” raggiunge la soglia per generare un impulso, un nuovo poten-ziale d’azione viene generato ed i segnali

vengono trasmessi lungo l’assone del neurone ricevente, come descritto nel capitolo precedente.

I recettori ionotropici (a sinistra) hanno un canale che può essere attraversato da ioni (come Na+ e K+). Il canale è costituito da cinque subunità disposte in modo circolare. I recettori metabotropici (a destra) non han-no canali, ma sono accoppiati, all’interno del-la membrana cellulare, a G-proteine che pos-sono far andare avanti il segnale.

Il principale neurotrasmettitore eccita-torio nel cervello è il glutammato. La grande precisione dell’attività nervosa richiede che l’eccitazione di alcuni neu-roni avvenga contemporaneamente alla soppressione dell’attività di altri neuroni. Questo è ottenuto attraverso una inibi-zione. In una sinapsi inibitoria, l’attiva-zione di recettori causa l’apertura di ca-nali ionici che consentono l’ingresso di ioni carichi negativamente, dando origine ad un cambiamento nel potenziale di membrana detto “potenziale inibitorio post-sinaptico” (ipsp) (vedi Figura). Que-sto potenziale si oppone alla depolariz-zazione della membrana e dunque alla possibilità di generare un potenziale d’azione da parte del corpo cellulare del neurone ricevente. Vi sono due neurotra-smettitori inibitori: il GABA e la glicina.

La trasmissione sinaptica è un processo estremamente rapido:il tempo che inter-corre fra l’arrivo del potenziale d’azione ad una sinapsi e la produzione di un epsp

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nel neurone successivo è brevissimo, 1/1000 di secondo.

Il potenziale sinaptico eccitatorio (EPSP) è una variazione del potenziale di membrana da -70 mV a un valore verso lo 0. Un poten-ziale sinaptico inibitorio (IPSP) è di segno opposto

Differenti neuroni devono programmare il rilascio del glutammato verso i loro consimili entro un certo intervallo di tempo utile, se gli epsp del neurone rice-vente si stanno sommando per superare la soglia per l’inizio di un nuovo impulso. Analogamente, l’inibizione deve operare entro il medesimo intervallo di tempo per riuscire ad impedire che ciò avvenga.

Messaggeri che modulano

La ricerca per identificare i neurotra-smettitori eccitatori ed inibitori ha inol-tre rivelato l’esistenza di un gran numero di ulteriori agenti chimici che vengono rilasciati dai neuroni. Molti di essi influi-scono sui meccanismi neuronali inter-agendo con un gruppo molto specializzato di proteine nelle membrane dei neuroni, dette recettori metabotropici. Questi recettori non contengono canali ionici, non sono sempre localizzati nella regione di una sinapsi e, importantissimo, non causano la produzione di un potenziale d’azione. Oggigiorno si pensa a questi re-cettori come a dei regolatori o modula-tori della vasta gamma dei processi chi-mici che avvengono all’interno dei neuro-ni, e pertanto l’azione dei recettori me-

tabolici è detta neuro-modulazione.

I recettori metabotropici si trovano abi-tualmente in agglomerati complessi che collegano la parte esterna della cellula ad enzimi contenuti nella cellula che pos-sono agire sul metabolismo cellulare. Quando un neurotrasmettitore viene ri-conosciuto e legato dal un recettore me-tabotropico, vengono attivate contempo-raneamente alcune molecole di collega-mento dette proteine G ed altri enzimi legati alla membrana. L’effetto del lega-me di un trasmettitore con il sito di un recettore metabotropico può essere pa-ragonato ad una chiave d’accensione: non apre una porta per gli ioni nella membra-na, come fanno i recettori ionotropici, ma invece mettono in azione dei secondi messaggeri intracellulari, originando una sequenza di eventi biochimici (vedi Figu-ra). Il motore metabotropico del neuro-ne allora va su di giri e comincia a fun-zionare. Gli effetti della neuro-modula-zione includono cambiamenti nei canali ionici, nei recettori, nei trasportatori e persino nell’espressione dei geni. Questi cambiamenti sono più lenti ad iniziare e più duraturi di quelli indotti da trasmet-titori eccitatori ed inibitori, ed i loro effetto si estendono ben oltre la sinapsi. Anche se non danno origine ad un poten-ziale d’azione, essi hanno profondi ef-fetti sul traffico di impulsi che avviene nelle reti neuronali.

L’identificazione dei Mes-saggeri

Fra i molti messaggeri che agiscono sui recettori accoppiati alle proteine G vi sono acetilcolina, dopamina e noradre-nalina. I neuroni che rilasciano questi

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trasmettitori non hanno solo un diverso effetto sulle cellule, ma anche la loro organizzazione anatomica è rimarchevole perché, pur essendo numericamente po-chi, i loro assoni si proiettano a lunghe distanze attraverso il cervello (vedi fi-gura). Vi sono solo 1600 neuroni che rila-sciano noradrenalina nel cervello umano, ma essi inviano assoni a tutte le parti del cervello e del midollo spinale. I trasmet-titori neuro-modulatori non inviano una precisa informazione sensoriale, ma al-cuni neuroni con una calibratura raffina-ta sparsi qua e la` si assemblano per mi-gliorare la propria efficienza.

Le cellule noradrenergiche sono situate nel locus coeruleus (LC). Gli assoni di queste cel-lule si distribuiscono in tutto il tronco del-l’encefalo, raggiungendo l’ipotalamo (Hyp), il cervelletto (C) e la corteccia cerebrale.

La noradrenalina è rilasciata in risposta a vari stati di stress o eventi nuovi ed aiuta l’organizzazione di una reazione complessa dell’individuo a queste condi-zioni. Molte reti neuronali potrebbero avere bisogno di sapere che l’organismo è sotto stress.

La dopamina fornisce una sensazione di ricompensa per l’individuo, agendo sui centri del cervello associati alle sensa-

zioni emozionali positive (vedi Capitolo 4). L’acetilcolina, invece, sembra poter avere ambedue gli effetti, agendo sia sui recettori ionotropici sia su quelli meta-botropici. Questo neurotrasmettitore è stato scoperto per primo, utilizza mec-canismi ionici per inviare un segnale at-traverso la giunzione neuromuscolare di motoneuroni alle fibre del muscolo stria-to. Può anche fungere da neuromodulato-re, ad esempio quando si vuole focalizza-re l’attenzione su qualcosa – modulando finemente i neuroni nel cervello verso il compito di recepire solo le informazioni rilevanti.

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4 - Droghe e Cer-vello

Molte persone sembrano avere un co-stante desiderio di alterare il proprio stato di coscienza mediante l’uso di droghe. Alcuni usano droghe stimolanti che li aiutino a restare svegli la sera per andare a ballare. Altri usano se-dativi per calmare i nervi. Altri ancora assumono sostanze che consentano di provare nuove forme di coscienza e dimenticare i problemi di tutti i giorni. Tutte queste droghe agiscono in modi diversi con i sistemi dei neurotrasmet-titori ed altri messaggeri chimici nel cervello. In molti casi, le droghe di-rottano i sistemi che nel cervello han-no naturalmente a che fare con il pia-cere e il senso di ricompensa: processi psicologici che sono importanti nelle funzioni nutritive, sessuali e persino di apprendimento e memoria.

Il cammino verso l’as-sue-fazione e la dipen-denza

Le droghe che agiscono sul cervello o sull’apporto sanguigno al cervello sono utilissime, così come quelle usate per ri-durre il dolore.Le droghe utilizzate per uso ricreativo hanno uno scopo ben diverso, ed il pro-blema in questo caso sta nel fatto che possono portare ad un abuso nell’as-sun-

zione. Chi fa uso di queste sostanze può facilmente diventare dipendente o per-sino assuefatto, e soffrire di spiacevo-lissimi sintomi di astinenza sia fisici sia psicologici quando la somministrazione viene interrotta. Questo stato di dipen-denza può condurre una persona a volere a tutti i costi assumere una certa so-stanza, anche se questo dovesse sicura-mente danneggiare la sua vita lavorativa, la sua salute, la sua famiglia. In casi estremi, la persona potrebbe essere in-dotta a commettere dei crimini per po-tersi permettere di comprare una certa quantità di droga.

Fortunatamente, non tutte le persone che assumono una qualche droga ricrea-zionale diventano dipendenti da essa. Le droghe hanno diverse capacità di indurre dipendenza, da un rischio elevato per cocaina, eroina, e nicotina ad un rischio più basso per alcol, cannabis, ecstasy e amfetamine. Durante lo sviluppo della dipendenza da droghe, il corpo ed il cer-vello si adattano lentamente alla presen-za ripetuta della sostanza, ma quali cam-biamenti realmente avvengano nel cer-vello resta un mistero. Anche se è noto che i siti primari di eroina, amfetamine, nicotina, cocaina e cannabis sono tutti diversi, queste droghe hanno in comune l’abilità di incoraggiare la produzione di un messaggero chimico, la dopamina, in certe regioni del cervello.

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Benché questo non sia necessariamente collegato ad un meccanismo per ottenere una sensazione di “piacere”, si ritiene che il rilascio di dopamina indotto da una droga possa essere un importante per-corso finale comune per il “piacere” nel cervello. Questo è il passo iniziale che porta una persona a continuare ad assu-mere la sostanza.

Le droghe individuali – Come funzionano e cosa si rischia

Alcool

L’alcol agisce su sistemi di neurotra-smissione nel cervello per abbassare gli effetti dei messaggi eccitatori ed inco-raggiare l’inibizione dell’attività neurona-le. L’azione dell’alcol parte da uno stato di rilassamento e buon umore, al primo bicchiere, portando poi a sonnolenza e perdita di coscienza. Questo è il motivo per cui le forze di polizia sono molto se-vere con chi guida avendo assunto alcol, ed il motivo di così tanta attenzione da parte delle strutture sociali. Alcune per-sone diventano molto aggressive e persi-no violente quando hanno bevuto, e circa un bevitore abituale su dieci diventa un alcolista dipendente. L’uso dell’alcol nel lungo termine causa danni all’organismo, specialmente al fegato, e può provocare danni permanenti al cervello. Le donne in stato di gravidanza che assumono alcol rischiano di avere bambini con danni ce-rebrali e forme di ritardo mentale. Più di 30.000 persone muoiono ogni anno solo in Gran Bretagna per patologie legate al-l’alcol.

Nicotina

La nicotina è l’ingrediente attivo in tutti i prodotti a base di tabacco. La nicotina agisce su quei recettori del cervello che normalmente riconoscono il neurotra-smettitore acetilcolina, tendendo ad at-tivare i naturali meccanismi di allerta nel cervello. Sapendo ciò, non sorprende che i fumatori dicano che le sigarette li aiu-tano a concentrarsi ed hanno un effetto calmante.

Il problema è che la nicotina crea forte assuefazione e molti fumatori di lungo corso continuano a fumare solo per evi-tare le spiacevoli sensazioni che insorgo-no se provano a smettere. Il piacere, in questo caso, se n’è andato da tempo. Mentre sembrano non esserci effetti deleteri sul cervello, il fumo di tabacco è estremamente pericoloso per i polmoni e un’esposizione prolungata può portare a cancro polmonare ed altre patologie sia dei polmoni sia del cuore. In Gran Breta-gna, più di 100.000 persone muoiono ogni anno per patologie legate al fumo.

Cervello con sigaretta accesa. Vincent Van Gogh, 1885

Cannabis

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La cannabis si presenta come un rompi-capo, perché agisce su un importante si-stema naturale del cervello che utilizza neurotrasmettitori che le assomigliano moltissimo. Questo sistema ha a che fa-re con il controllo dei muscoli e con la regolazione della sensazione del dolore. Usata in maniera controllata ed in conte-sto medico, la cannabis può essere una droga molto utile. Si tratta tuttavia di una sostanza intossicante che può essere piacevole e rilassante, e può causare uno stato di quasi-sogno nel quale le perce-zioni dei suoni, dei colori e del tempo so-no fortemente alterate. Nessuno sembra essere mai morto per un uso eccessivo di cannabis, anche se si riportano casi di spiacevoli attacchi di panico dopo un uso notevole. La cannabis è stata usata al-meno una volta da quasi la metà della po-polazione britannica al di sotto dei 30 anni d’età. Alcuni ritengono che dovreb-be essere resa legale, e così facendo si spezzerebbe il legame fra le droghe ad uso di supporto ed altre molto più peri-colose.Sfortunatamente, così come per la nico-tina, il modo più efficace per introdurre la sostanza nel corpo consiste nel fumar-la. Il fumo di cannabis contiene all’incirca la stessa mistura di veleni del fumo di sigarette (e viene spesso mescolata con il tabacco).I fumatori di cannabis tendono a svilup-pare malattie polmonari e corrono il ri-schio di incorrere in tumori ai polmoni, per quanto questo non sia ancora stato dimostrato. Circa un fumatore di canna-bis su dieci può diventare dipendente, cosa di cui i venditori di droga sono ben consapevoli ed evitano cautamente. L’uso ripetuto ed in quantità è incompatibile con la possibilità di guidare e con lavori che richiedano abilità intellettive. Alcuni esperimenti hanno stabilito che le per-sone intossicate dall’uso di cannabis sono

incapaci di portare a termine compiti complessi di ragionamento . Anche se non è stato ancora provato, vi sono alcune evidenze che l’uso massiccio da parte di soggetti giovani potrebbe portare ad una malattia mentale come la schizofrenia (vedi il capitolo 17) in individui più vulne-rabili.

Amfetamine

Le amfetamine sono sostanze chimiche prodotte dall’uomo che includono “Dexe-drina”, “Speed”, ed il derivato della me-tamfetamina noto come “Ecstasy”. Que-ste droghe agiscono nel cervello causan-do il rilascio di due neurotrasmettitori naturalmente presenti. Uno e` la dopa-mina – il che probabilmente spiega l’ef-fetto di forte sovreccitazione e di pia-cere associato alle amfetamine. L’altro è la serotonina – che si ritiene essere re-sponsabile delle sensazioni di benessere e di stato di quasi-sogno che può inclu-dere allucinazioni. La Deoxidrina e lo Speed spingono soprattutto il rilascio di dopamina, l’Ecstasy principalmente quello di serotonina.L’allucinogeno che è persino più potente di questi, il d-LSD, agisce anch’esso sui meccanismi della serotonina nel cervello. Le amfetamine sono potentissimi psico-stimolanti e possono essere pericolose, specialmente in dosi elevate. Esperimen-ti su animali hanno dimostrato che l’Ecstasy può causare una riduzione pro-lungata o persino permanente delle cellu-le che producono serotonina. Questo può essere la causa della “malinconia di metà settimana” di cui soffrono molti consu-matori del sabato sera di Ecstasy. Ogni anno, dozzine di giovani muoiono in segui-to all’assunzione di questa droga. Spa-ventose psicosi schizofreniche possono insorgere dopo l’assunzione di Dexedrina e Speed. Si potrebbe essere portati a

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pensare che lo Speed possa aiutare uno studente a passare un esame: be’, non è il caso, non serve.

Eroina

L’eroina è un prodotto dell’uomo derivato dal prodotto vegetale morfina. Come la cannabis, l’eroina distorce il funziona-mento di un sistema che impiega neuro-trasmettitori normalmente presenti nel cervello noti come endorfine. Questi elementi sono importanti nel controllo del dolore – e pertanto le droghe che ri-escono a riprodurre i loro effetti sono molto utili in medicina. L’eroina può esse-re iniettata o fumata, nel qual caso pro-voca un effetto immediato di piacere, forse dovuto ad un effetto delle endor-fine sui meccanismi della gratificazione. Essa crea elevata assuefazione ma, con il crescere della dipendenza, la sensazione di piacere lascia presto il posto ad un’in-cessante necessità di una nuova dose. È una droga estremamente pericolosa che può uccidere anche con un modesto so-vra-dosaggio, perché sopprime la facoltà automatica della respirazione. L’eroina ha letteralmente rovinato la vita a molte persone.

Cocaina

La cocaina è un altro derivato chimico di un prodotto vegetale che può causare intense sensazioni di piacere ed agire come un potente psicostimolante. Come le amfetamine, la cocaina rende una maggior quantità di dopamina e serotoni-na disponibili nel cervello. In più, come l’eroina, la cocaina è una droga altamente

pericolosa. Le persone intossicate da questa sostanza, specialmente nella for-ma che può essere fumata detta “crack”, possono diventare immediatamente vio-lente ed aggressive, ed esiste un rischio concreto di mettere a rischio la propria vita in caso di overdose. L’induzione di dipendenza è elevata, ed i costi per man-tenere uno stile di vita di dipendenza da cocaina portano in molti casi a commet-tere crimini.

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5 - Tatto eDolore

Il tatto è qualcosa di speciale – una stretta di mano, un bacio, un battesi-mo. Esso fornisce il nostro primo con-tatto con il mondo. Schiere di recet-tori su tutto il nostro corpo sono de-dicate al rilevamento dei diversi aspetti del mondo somatosensoriale – tatto, temperatura e posizione del corpo – ed in più altri per la percezio-ne del dolore. La possibilità di distin-guere il tatto varia lungo la superficie corporea, ed è estremamente sensibile in aree come i polpastrelli delle nostre dita.

L’esplorazione attiva è altrettanto im-portante, interagendo in maniera si-gnificativa con il sistema motorio. La sensazione del dolore serve ad infor-marci e metterci in allerta contro pos-sibili danni al nostro corpo. Essa ha un forte impatto emozionale, ed è sog-

getta ad un controllo notevole all’in-terno del corpo e del cervello.

Tutto comincia nella pelle

Negli strati del derma della pelle, in prossimità della superficie, si trovano molti tipi di minuscoli recettori. Essi prendono il nome degli scienziati che per primi li hanno identificati al microscopio: i corpuscoli di Pacini e di Meissner, i di-schi di Merkel e le terminazioni di Ruf-fini descrivono diversi aspetti del tatto. Tutti questi recettori hanno canali ionici che si aprono in risposta a deformazioni meccaniche, dando inizio a potenziali d’azione che possono essere osservati sperimentalmente con sottili elettrodi. Alcuni affascinanti esperimenti sono stati fatti alcuni anni fa da scienziati che hanno sperimentato su se stessi, in-serendo gli elettrodi nella propria pelle e registrando da singoli nervi sensoriali. Da questi ed analoghi esperimenti su animali anestetizzati, sappiamo ora che i due tipi principali di recettori si adatta-no velocemente e quindi rispondono in maniera ottimale a sensazioni che varia-no rapidamente (senso della vibrazione e dell’oscillazione). Il disco di Merkel ri-sponde bene ad una prolungata sollecita-zione della pelle (senso della pressione), mentre le terminazioni di Ruffini rispon-dono a sollecitazioni che avvengono len-tamente.

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Un concetto importante riguardo ai re-cettori somatosensoriali è quello del campo recettivo. Si tratta dell’area del-la pelle di pertinenza di ciascun recetto-re. I corpuscoli di Pacini hanno campi re-cettivi ben più ampi ci quelli dei corpu-scoli di Meissner. Lavorando assieme, sia gli uni sia gli altri consentono di poter avere sensazioni tattili su tutta la su-perficie del corpo. Una volta individuato uno stimolo, i recettori come risposta inviano impulsi lungo i nervi sensoriali che entrano nelle radici dorsali del mi-dollo spinale. Gli assoni che connettono i recettori del tatto al midollo spinale so-no fibre mielinizzate di grandi dimensio-ni che convogliano l’informazione dalla periferia in maniera estremamente rapi-da. Il freddo, il caldo e il dolore sono ri-levati da sottili assoni con terminazioni “scoperte”, che trasmettono più lenta-mente. I recettori per la temperatura dimostrano una capacità di adattamento (vedi la Casella Sperimentale). Ci sono stazioni di servizio per il tatto nel bulbo e nel talamo, prima di proiettarsi verso l’area sensoriale primaria sulla corteccia, detta corteccia somatosensoriale. Le fibre nervose attraversano la linea me-diana del corpo, cosicché la parte destra del corpo è rappresentata nell’emisfero sinistra e la parte sinistra nell’emisfero destro.

Le informazioni che arrivano dal corpo vengono sistematicamente “mappate” lungo la corteccia somatosensoriale per formare una rappresentazione della su-perficie corporea. Alcune parti del cor-po, come la punta delle dita e la bocca, hanno un’elevata densità di recettori ed un corrispondente numero elevato di nervi sensoriali. Aree come la schiena hanno meno recettori e nervi. Comunque, nella corteccia somatosensoriale, la den-sità di aggregazione dei neuroni è uni-

forme.

Un esperimento sull’adattamento allatemperatura.

Questo esperimento è molto semplice.Hai bisgno di un filo metallico di circaun metro di lunghezza, che puoi ricava-re da una gruccia di lavanderia e duebacinelle d’acqua. In una metterai acquaabbastanza calda, nell’altra acqua piùfredda che puoi. Poi immergi la mano sinistra nell’acqua calda e la destra inquella fredda e rimani così per almenoun minuto. Passato il minuto, tira fuorile mani, asciugale velocemente e prendiil filo metallico per le estremità. Tisembreranno di temperatura diversa. Perché?

Conseguentemente, la “mappa” della su-perficie corporea nella corteccia è molto deformata ed è nota anche con il nome di homunculus sensoriale. Se esistesse una persona in carne ed ossa con le caratte-ristiche di estensione corporea di questa mappa, avrebbe un corpo decisamente bizzarro.

Ciascuno può sperimentare sul proprio corpo questa differente abilità sensoria-le mediante il cosiddetto test di discri-minazione a due punti. Si prendano al-cune clips per i fogli e le si pieghino ad U, alcune con uno spazio di 2 o 3 centi-metri fra le punte, altre con distanze più ravvicinate. Poi, ad occhi bendati, si chieda ad un amico di toccare vari parti del nostro corpo con ogni tipo di clip. Provate a farlo: sentite una sola punta oppure due? Sentite una sola punta an-che quando venite toccati da entrambe? Perché?

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L’omuncolo. L’immagine di una persona è di-segnata lungo la superficie della cortecciasomatosensitiva in proporzione al numero di recettori che si trovano in ciascuna partedel corpo. Ne viene fuori una forma molto distorta.

Il Fascino discreto della discriminazione

L’abilità nel percepire i dettagli più raf-finati di un oggetto varia notevolmente a seconda delle diverse parti del corpo ed è maggiormente sviluppata sulla punta delle dita e sulle labbra. La pelle è suffi-cientemente sensibile da percepire un punto su un foglio in rilievo di meno di 1/100 di millimetro, se lo si accarezza co-me fa una persona che legge l’alfabeto Braille. Un settore della ricerca è molto attivo nel chiedersi come diversi tipi di recettori contribuiscano all’esecuzione di diversi compiti, come discriminare di-versi tipi di tessuto o identificare la trama di un oggetto.

Il tatto non è solo un senso che passiva-mente reagisce solo a quanto riceve. Es-

so è anche coinvolto nel controllo attivo del movimento. I neuroni che nella cor-teccia motoria controllano i movimenti che attraverso il braccio portano al mo-vimento delle dita della mano ricevono stimoli sensoriali dai recettori per il tat-to nei polpastrelli. Quale modo migliore per riconoscere un oggetto sulla mano che farlo scivolare mettendo in rapida comunicazione i sistemi motorio e senso-riale? La comunicazione incrociata fra i sistemi motorio e sensoriale inizia appe-na l’informazione arriva nel midollo spi-nale, invia un feedback (un avviso di ri-cevimento) propriocettivo ai motoneuro-ni, e continua a tutti i livelli del sistema somatosensoriale. Nel cervello, la cor-teccia motoria e sensoriale primaria sono poste l’una immediatamente dopo l’altra.

L’esplorazione attiva è una componente cruciale per il senso del tatto. Immagi-nate di stare discriminando alcune minu-scole differenze fra due campioni di tessuto, ad esempio provenienti da di-verse manifatture o con diverso grado di rugosità. Quale delle seguenti condizioni ritenete siano in grado di generare la più raffinata discriminazione fra essi?

- Appoggiare i polpastrelli sopra i diversi campioni?

- Far scorrere i polpastrelli lungo la trama?

- Avere una macchina che fa scorre-re il tessuto sotto le dita?

L’esito di questo esperimento comporta-mentale porta a quesiti su dove le infor-mazioni sensoriali rilevanti siano analiz-zate nel cervello. Le tecniche di visualiz-zazione dell’attività cerebrale suggeri-scono che l’identificazione delle caratte-ristiche di un tessuto mediante il tatto coinvolga diverse regioni della corteccia. L’imaging cerebrale (l’insieme di tecniche

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che consentono la visualizzazione del cervello in vivo) sta inoltre cominciando a fornire informazioni sulla plasticità cor-ticale, evidenziando che la mappa del corpo nell’area somatosensoriale può va-riare con l’esperienza. Ad esempio, le persone cieche in grado di leggere i ca-ratteri alfabetici Braille hanno una rap-presentazione corticale molto più svilup-pata per l’indice della mano utilizzata per la lettura, ed i suonatori di strumenti a corde hanno una rappresentazione corti-cale più estesa per le dita della mano si-nistra.

Il DoloreMolto spesso si classifica il dolore come una variante del senso del tatto; in real-tà, si tratta di un sistema con funzioni molto diverse da esso e con una organiz-zazione anatomica molto diversa. Le sue principali caratteristiche sono di essere sgradevole, di variare notevolmente fra un individuo ed un altro e, sorprenden-temente, che l’informazione fornita dai recettori per il dolore non dice granché sulla natura dello stimolo che l’ha provo-cato (c’è ben poca differenza fra la sen-sazione di dolore provocata da un’abra-sione e quella che si ha sfiorando una pianta d’ortica). Gli antichi Greci ritene-vano che i dolore fosse un’emozione, non una sensazione.

La registrazione elettrica effettuata su singole fibre sensoriali negli animali ci dice quali sono le risposte a stimoli che possono causare o minacciare un danno ad un tessuto – stimolazioni meccaniche intense come dei pizzicotti, calore inten-so, ed una varietà di stimoli chimici. Ma questi esperimenti non ci dicono nulla di concreto su quale sia l’esperienza sog-

gettiva.

Le tecniche della biologia molecolare hanno ora rilevato le caratteristiche e la struttura di un gran numero di nocicet-tori. Questi includono i recettori che ri-spondono a temperature che superano i 46 °C, all’acidità del tessuto e – un’altra sorpresa – all’ingrediente attivo del pe-peroncino. I geni per i recettori che ri-spondono a stimolazioni meccaniche in-tense non sono stati ancora identificati, ma devono pur esserci. Due classi di fi-bre afferenti dalla periferia rispondono a stimoli dolorosi: fibre mielinizzate re-lativamente veloci, dette fibre A (A-delta), e fibre molto lente e non mieli-nizzate, dette fibre C. Questi due grup-pi di fibre nervose entrano nel midollo spinale, dove creano sinapsi con una serie di neuroni che proiettano fino alla cor-teccia cerebrale. Ciò avviene attraverso percorsi ascendenti paralleli, uno cui compete la localiz-zazione del dolore (simile alla via usata per il tatto), l’altro responsabile degli aspetti emozionali del dolore.

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Vie ascendenti del dolore da una regione del midollo spinale (in basso), fino a diver-se regioni del tronco dell’encefalo e della corteccia cerebrale, comporesa la cortec-cia anteriore del cingolo (ACC) e l’insula.

Questo secondo percorso proietta verso aree decisamente differenti dalla cor-teccia somatosensoriale, che includono la corteccia anteriore del cingolo e la corteccia dell’insula. Negli esperimenti di imaging cerebrale che utilizzano l’ip-nosi, è stato possibile separare la mera sensazione di dolore dalla “sensazione spiacevole” ad esso associata.I soggetti immergevano le mani in acqua bollente e subito posti sotto suggestione ipnotica per provare più o meno dolore, o a non provare un’emozione spiacevole mentre percepivano il dolore. Usando la Tomografia ad Emissione di Positroni (PET), si è scoperto che mentre si pas-sava da un’intensità di dolore ad un’altra si aveva un’attivazione della corteccia somatosensoriale, mentre l’esperienza del dolore senza dispiacere era accom-pagnata da un’attivazione nel giro ante-riore del cingolo.

Una vita senza dolore?

Visto il desiderio comune di evitare tut-to ciò che può provocare dolore, come l’appuntamento dal dentista, si potrebbe immaginare che una vita senza dolore sia fantastica. In realtà non è così, poiché una delle funzioni chiave del dolore è quella di insegnarci ad evitare le situa-zioni che possano provocare dolore stes-so. I potenziali d’azione che dai nervi no-cicettivi entrano nel midollo spinale dan-no origine a riflessi protettivi automati-ci, come il riflesso di ritrarre immedia-tamente un arto. Essi forniscono inoltre l’esatta informazione che consente di apprendere come evitare le situazioni pericolose o minacciose.

Un’altra funzione chiave del dolore è di inibire l’attività: quel periodo di pausa che consente la guarigione dopo il dan-neggiamento di un tessuto. Naturalmen-te, in alcune situazioni è necessario che l’attività e la reazione a scappare non vengano inibite. Per poter far fronte a queste situazioni, alcuni meccanismi psi-cologici si sono sviluppati per sopprimere o esaltare la sensazione del dolore. Il primo di questi meccanismi di modulazio-ne ad essere scoperto è stato il rilascio di analgesici endogeni. Sotto una condi-zione di potenziale pericolo, come quella in cui si trova un soldato in battaglia, la sensazione del dolore è ridotta ad un li-vello sorprendentemente basso – proba-bilmente proprio perché vengono rila-sciate queste sostanze. Esperimenti su animali hanno rivelato che la stimolazione elettrica di aree cerebrali come la so-stanza grigia periacqueduttale, causa un marcato innalzamento della soglia del do-lore e questo è dovuto alla mediazione di una via discendente dal ponte al midollo spinale.

Diversi neurotrasmettitori sono coinvolti in questo processo, inclusi oppioidi endo-geni come la meta-encefalina. Il sop-pressore di dolore morfina agisce sugli stessi recettori su cui agiscono alcuni degli oppioidi endogeni.

Il fenomeno opposto, ovvero l’aumento del dolore, è chiamato iperalgesia. Ad esso corrisponde un abbassamento della soglia del dolore, un aumento d’intensità dello stesso, ed a volte un aumento del-l’area sulla quale il dolore viene percepito

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e persino la possibilità di provare dolore senza che vi sia alcuna stimolazione dolo-rosa. Ciò può rappresentare un importan-te problema clinico. La iperalgesia coin-volge la sensibilità dei recettori perife-rici, oltre a complessi fenomeni a vari livelli delle vie ascendenti del dolore. Questi includono l’intera-zione di eccita-zione ed inibizione mediate chimicamen-te. L’iperalgesia osservata in stati di do-lore cronico risulta dall’aumento di ecci-tazione e dminuzione di inibizione. La causa è spesso dovuta a cambiamenti nella capacità di risposta dei neuroni che elaborano l’informazione sensoriale. Cambiamenti importanti avvengono nelle molecole dei recettori che mediano l’azione dei principali neurotrasmettitori. Nonostante i progressi nella compren-sione dei meccanismi cellulari dell’iperal-gesia, il trattamento del dolore cronico è ancora tristemente inadeguato.

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Frontiere della ricerca

La Medicina tradizionale cinese usa la “ago-puntura” per il sollievo dal dolore. Essa uti-lizza sottili aghi, che vengono inseriti sottola pelle in punti precisi del corpo lungo quel-li che sono chiamati meridiani, e vengonopoi ruotati o fatti vibrare dalla persona cheha in cura il paziente. Questo metodo è ef-ficace nell’alleviare il dolore ma, fino adora, nessuno è riuscito a spiegarne il moti-vo.Quarant’anni fa è stato creato in Cina un laboratorio per indagare i motivi dei risul-tati dell’agopuntura. Si è evidenziato che lastimolazione elettrica ad una determinatafrequenza di vibrazione attiva il rilascio di oppioidi endogeni detti endorfine, come la meta-encefalina, mentre la stimolazione adun’altra frequenza attiva un sistema sensi-bile alle dinorfine. Questo studio ha con-dotto allo sviluppo di una economica appa-recchiatura per l’agopuntura (figura a sini-stra) che può essere usata per attenuare ildolore al posto dei farmaci. Una coppia dielettrodi viene posizionata nei punti “Heku”sulla mano (figura a destra), un terzo elet-trodo viene posto sull’area dolorante

6 - La Visione

Gli esseri umani sono una specie alta-mente dipendente dal senso della vi-sione, ed usano gli occhi costantemen-te per valutare il mondo circostante. Con occhi rivolti in avanti come gli al-tri primati, usiamo la visione per per-cepire quei molti aspetti del-l’ambien-te che sono lontani dal nostro corpo. La luce è una forma di energia elet-tromagnetica che entra nei nostri oc-chi ed agisce sui fotorecettori posti

sulla retina. Questo dà l’avvio a pro-cessi attraverso i quali vengono gene-rati impulsi neurali che attraversano i percorsi e le reti di quelle parti del cervello dedicate alla visione, o cer-vello visivo.

Schema dell’occhio umano. La luce che en-tra nell’occhio è messa a fuoco dal cristal-lino sulla retina, che si trova in fondo. I suoi recettori rilevano l’energia luminosa e, con un processo di trasduzione, generano i potenziali d’azione che viaggiano poi lungo il nervo ottico.

Esistono percorsi separati che rag-giungono il ponte e la corteccia cere-brale per mediare diverse funzioni – rilevare e rappresentare il movimento, le forme, i colori ed altri caratteri distintivi del mondo visibile. Alcuni di questi meccanismi, ma non tutti, sono accessibili dalla nostra coscienza. Nel-la corteccia, i neuroni in una gran nu-mero di aree visive distinte sono spe-cializzati nel compiere diversi tipi di decisioni visive.

Luce sull’occhio

La luce entra nell’occhio attraverso la pupilla ed è fatta convergere, dalla cor-nea e dal cristallino, sulla retina che è posta sulla parete posteriore del-l’oc-chio. La pupilla è circondata da un’iride pigmentata che può espandersi o con-trarsi, rendendo la pupilla più grande o più piccola al variare del livello di luce incidente. E’ naturale supporre che l’oc-chio si comporti come una macchina fo-tografica, che crea una sorta di “immagi-ne” del mondo, ma questa è una metafora fuorviante sotto molti punti di… vista. Anzitutto, non esistono immagini stati-che nella visione, poiché gli occhi si muo-vono in continuazione. Secondo, anche se un’immagine sulla retina fosse inviata come immagine al cervello, servirebbe allora una seconda persona – piccola pic-

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cola, dentro il cranio - per vedere que-st’altra immagine! Per evitare un’infinita catena di persone che si guardano nella testa senza avere ancora capito cosa stiano guardando, consideriamo il vero problema che il cervello visivo deve ri-solvere: come usare i messaggi criptati che arrivano dagli occhi per interpretare il mondo visibile e prendere decisioni su di esso.

La retina. La luce attraversa le fibre che danno origine al nervo ottico e una comples-sa rete di cellule (bipolari, amacrine, ecc.) per arrivare ai bastoncelli e ai coni, che si trovano nella parte posteriore della retina.

Una volta fatta convergere sulla retina, i 125 milioni di fotorecettori posizionati sulla superficie della retina rispondono alla presenza della luce che li colpisce generando minuscoli potenziali elettrici. Questi segnali passano per via sinaptica in una rete di cellule nella retina, atti-vando cellule gangliari retiniche i cui as-soni si raggruppano formando il nervo ottico posto sull’altro lato della parete posteriore dell’occhio. Gli assoni entrano nel cervello, dove trasmettono i poten-ziali d’azione a differenti regioni visive con diverse funzioni.

Un esperimento sul-l’adattamento ai coloriFissa lo sguardo sulla picco-la croce che si trova inmezzo ai due cerchi piùgrandi, per almeno 30 se-

condi. Poi trasferisci lo sguardo sulla crocepiù in basso. I due cerchi “gialli” sembre-ranno di colori diversi. Puoi spiegartelo?

Molto si conosce di questa prima parte del meccanismo della visione. I fotore-cettori più numerosi, detti bastoncelli, sono circa 1000 volte più sensibili alla luce degli altri, molto meno numerosi, detti coni. In maniera sommaria, si può dire che di notte si vede con i bastoncel-li e di giorno con i coni. Esistono tre tipi di coni, sensibili a diverse lunghezze d’onda della luce. È una notevole sempli-ficazione dire che i coni producono la vi-sione a colori – ma sono essenziali per questo scopo. Se vengono sovra-esposti alla luce di un solo colore, i pigmenti dei coni si adattano per fornire un minore contributo alla nostra percezione di quel colore per un breve lasso di tempo (vedi Casella Sperimentale).Nel corso degli ultimi 25 anni, sono state fatte importanti scoperte sul processo di fototrasduzione (la conversione della luce in segnali elettrici nei bastoncelli e nei coni), sulle basi genetiche della ceci-tà ad alcuni colori che è dovuta all’assen-za di alcuni pigmenti, sulle funzioni delle

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connessioni nella retina e sulla presenza di due tipi distinti di cellule gangliari. Circa il 90% di queste cellule sono molto piccole, mentre un altro 5% è costituito da cellule più grandi, dette di Tipo M, o magnocellulari. Vedremo in seguito che le anomalie nelle cellule di Tipo M posso-no essere all’origine di alcuni casi di di-slessia (Capitolo 9).

Le vie nervose dagli occhi al cervello

I passi successivi nel processo visivo

Il nervo ottico di ciascun occhio entra nel cervello. Le fibre di ciascun nervo si incontrano in una struttura detta chia-sma ottico; metà di esse passa nell’emi-sfero opposto, e si unisce alla metà del nervo ottico che non è passata dall’altra parte. Assieme, questi fasci di fibre co-stituiscono i tratti ottici, che ora con-tengono fibre provenienti da ambedue gli occhi e che si dirigono (attraverso un in-trico di cellule e sinapsi in una struttura chiamata nucleo genicolato laterale) verso la corteccia cerebrale. Questo è il luogo in cui vengono create le “rappre-sentazioni interne” dello spazio visibile che ci circonda. In modo analogo a quan-to avviene per il tatto (Capitolo prece-

dente), la parte sinistra del mondo visi-bile viene rappresentata nell’emisfero destro, e la parte destra nell’emisfero sinistro. La rappresentazione neurale viene fatta a partire da informazioni provenienti da ciascun occhio e quindi le cellule nelle aree visive poste nella parte posteriore del cervello (dette V1, V2, eccetera) possono reagire in risposta ad una immagine che provenga indifferen-temente da un occhi o dall’altro. Questa capacità è nota come binocularità.

La corteccia visiva è costituita da un certo numero di aree, ciascuna delle qua-li è dedicata ad uno degli aspetti del mondo visibile quali la forma, il colore, il movimento, la distanza, ecc. Le sue cellu-le sono organizzate in colonne. Un con-cetto importante riguardo la capacità reattiva delle cellule è quello del campo recettivo: la porzione di retina sulla quale le cellule rispondono ad un tipo di immagine piuttosto che ad un altro. In V1, ove avviene il primo stadio dell’elabo-razione corticale, i neuroni rispondono meglio all’osservazione di linee o margini in un particolare orientamento. È stato importante scoprire che tutti i neuroni che compongono ogni singola colonna ri-spondono maggiormente a linee o margini con un specifico orientamento, mentre la colonna adiacente risponde meglio a linee o margini con un orientamento legger-mente diverso dal precedente, e così via su tutta la superficie di V1. Questo si-gnifica che le cellule della corteccia visi-va hanno un’organizzazione intrinseca per l’interpretazione del mondo, ma non è un’organizzazione che non cambia mai. La varietà di direzioni alla quale una sin-gola cellula può essere reattiva viene modificata dall’esperienza attraverso i segnali che provengono dall’occhio destro o dall’occhio sinistro. Come per tutti i sistemi sensoriali, la corteccia visiva ma-

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nifesta anch’essa quella capacità che ab-biamo chiamato plasticità.

Le registrazioni elettriche effettuate da David Hubel e Tornsten Wiesel hanno rivela-to alcune caratteristiche affascinanti delle cellule della corteccia visiva. Fra queste vi sono la selettività all’orientamento dello stimolo, la loro ordinata organizzazione co-lonnare e la plasticità dell’intero sistema. Queste scoperte hanno portato alla asse-gnazione del Premio Nobel.

L’intricata circuiteria della corteccia vi-siva è uno dei grandi rompicapo che han-no incuriosito i neuroscienziati. Diffe-renti tipi di neuroni sono disposti in sei strati corticali, connessi a formare pre-cisi circuiti locali che solo ora stiamo ini-ziando a comprendere.

Alcune delle connessioni sono eccitatorie ed altre inibitorie. Qualche neuroscien-ziato ha proposto l’ipotesi che esistano microcircuiti corticali canonici – come i circuiti integrati all’interno di un compu-ter. Non tutti sono d’accordo. Ora si ri-tiene che la circuiteria in un’area visiva abbia notevoli somiglianze con quella in un’altra, ma potrebbero esserci sottili differenze che riflettono i diversi modi

in cui ciascuna informazione elementare del cervello visivo fornisce un’interpre-tazione dei diversi aspetti del mondo vi-sivo. Inoltre, gli studi sulle illusioni otti-che hanno dato spunti sul tipo di proces-si che potrebbero avvenire passo per passo nell’analisi visiva.

Le strisce di questa famosa decorazione di un caffé di Bristol (a sinistra) sono perfet-tamente rettangolari, ma non sembrano tali. La disposizione degli elementi verticali crea

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Frontiere della ricerca

Puoi vedere se sei cieco? Certamente no.La scoperta della presenza di più aree visi-ve, però, ha mostrato come alcune capacitàvisive si attuino in modo inconsapevole. Persone che hanno un danno esteso allacorteccia visiva primaria (V1) riferiscono di non poter vedere gli oggetti presenti nelloro campo visivo ma, se viene loro chiestodi pren-dere un oggetto che non possonovede-re, lo fanno con notevole accuratezza.Questo curioso e affascinante fenomeno ènoto come “visione cieca” ed è probabil-mente mediato da connessioni parallele chevanno dagli occhi ad altre regioni, integre,della corteccia cerebrale.

Non riconoscere le cose che si vedono è unfenomeno comune nella vita di tutti i giorni delle persone normali. Se si chiacchiera conun passeggero mentre si guida l’auto, lapropria attenzione può essere interamentediretta verso la conversazione, ma si conti-nua a guidare correttamente, fermandosi aisemafori ed evitando gli ostacoli. Questa capacità riflette un certo tipo di visione cieca funzionale.

una illusione causata da complesse interazio-ni eccitatorie e inibitorie fra i neuroni che elaborano le linee e i contorni. Il Triangolo di Kanizsa (a destra) in realtà non esiste, ma ciò non impedisce di vederlo. Il sistema visi-vo “decide” che un triangolo bianco si trova al di sopra degli altri oggetti della scena.

Decisione e Indecisione

Una funzione chiave della corteccia ce-rebrale è la capacità di mettere assieme informazioni sensoriali provenienti da diverse fonti ed elaborarle. L’abilità di prendere una decisione è una parte cri-tica di questa capacità. Questa è la par-te del processo che ha a che fare con il pensiero e il confronto con elementi noti, o “processo cognitivo”. I dati sensoriali disponibili devono essere soppesati ed elaborati per formulare la scelta (ad esempio, muoversi o restare fermi) che meglio si adatti alla circostanza nel modo migliore possibile. Vi sono decisioni com-plesse che richiedono un ragionamento poderoso ed altre che possono essere semplici ed automatiche. Persino le deci-sioni più semplici possono coinvolgere la collaborazione fra le informazioni senso-riali e ciò che già si sa.Un modo per cercare di comprendere le basi neurali del processo di decisione po-trebbe essere quello di registrare l’atti-vità dei neuroni di una persona durante le sue normali attività quotidiane. Po-tremmo immaginare di essere in grado di registrare, con una precisione di un milli-secondo, l’attività di ognuno dei 1011 neu-roni del cervello. In questo modo, non solo avremmo una quantità inge-stibile di dati, ma anche il compito di do-verli interpretare, il che complicherebbe ulteriormente le cose. Per capire il per-ché, si pensi un istante al motivo per cui le persone compiono certe operazioni.

Una persona che vediamo camminare in una stazione ferroviaria potrebbe tro-varsi là per prendere un treno, incontra-re qualcuno che sta arrivando, o persino per fare dei graffiti sui vagoni. Senza sapere quali siano le sue intenzioni, potrebbe risulta-re decisamente difficile interpretare le correlazioni fra qualsiasi modalità di at-tivazione nel suo cervello ed il suo com-portamento.

Per questo motivo, ai neuroscienziati piace valutare il comportamento in situa-zioni tenute sotto un preciso controllo sperimentale. Questo può essere otte-nuto mettendo a punto un compito speci-fico, assicurandosi che i soggetti umani lo eseguano al meglio delle loro possibili-tà dopo un intenso allenamento, e poi te-nere sotto controllo l’esecuzione del

compito. Il compito meglio configurato deve avere la caratteristica di essere sufficientemente complesso da essere interessante, ma anche sufficientemente semplice da offrire la possibilità di es-

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Solo macchie nere? All’inizio è difficile riconoscere bordi e superfici in questa immagine, ma una volta che si sa che si tratta di un cane dalmata, l’immagine “salta fuori”. Il cervello visivo usa le proprie rap-presentazioni per interpretare le scene fornite dai sensi.

sere seguito per capire cosa stia succe-dendo. Un buon esempio è costituito dal processo di prendere una decisione sulle caratteristiche di due stimoli visivi – ge-neralmente non più di due – e fornire una semplice risposta (ad esempio, quale sor-gente luminosa è più intensa, o quale la più estesa). Benché si tratti di un compi-to semplice, ad esso si accompagna un ciclo completo di processo decisionale. L’informazione sensoriale viene acquisita ed analizzata; vi sono risposte corrette e sbagliate per la decisione che viene presa; si può pensare di assegnare una ricompensa a seconda che il compito venga eseguito in maniera corretta o meno. Questo tipo di ricerca è una sorta di “fisica della visione”

Decisioni sul Movimento e i Colori

Un argomento di grande interesse attua-le è come i neuroni siano coinvolti nel prendere decisioni sulla visione del mo-vimento. Sapere se un oggetto si sta muovendo o no, ed in quale direzione, è importante per gli esseri umani e per tutti gli altri esseri viventi. Il movimento relativo indica generalmente che un og-getto è differente da quelli che gli stan-no attorno. Le regioni del cervello visivo che sono coinvolte nella elaborazione delle informazioni sul movimento possono essere identificate come regioni anato-micamente distinte esaminando i percor-si delle fibre e le connessioni fra le aree cerebrali mediante te-cniche di imaging cerebrale nell’uomo (Capitolo 14) e regi-strando l’attività di singoli neuroni negli altri animali.L’attività elettrica dei neuroni in una di queste aree, detta area MT o anche V5, è stata registrata nella scimmia, mentre

essa eseguiva una semplice decisione sul percorso di un insieme di punti in movi-mento. La maggior parte dei punti veniva fatta muovere in maniera casuale in di-verse direzioni, mentre solo alcuni si spostavano costantemente in una stessa direzione – verso l’alto, verso il basso, a destra o a sinistra. L’osservatore doveva giudicare quale fosse la direzione del movimento prefe-renziale di tutto l’insieme. Il compito po-teva essere reso molto semplice aumen-tando la percentuale di punti che si muo-vevano uniformemente, o più difficile ri-ducendo questa percentuale.

Il risultato di questo esperimento è che l’attività delle cellule in V5 riflette ac-curatamente l’intensità del segnale for-

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Il cubo di Necker si inverte percettiva-mente. L’immagine sulla retina non cambia, ma il cubo può essere visto con l’angolo in alto a sinistra sia vicino all’osservatore sia in profondità. A volte, ma raramente, può anche essere visto come una serie di linee che si incrociano su una superficie piana. Esistono molti tipi di figure reversibili, alcune delle quali sono state utilizzate per esplorare i segnali nervosi che vengono co-involti quando il cervello visivo prende de-cisioni su quale configurazione sia domi-nante in ogni momento.

nito dal movimento uniforme. I neuroni in quest’area rispondono selettivamente a particolari direzioni di movimento, au-mentando sistematicamente ed accura-tamente la loro attività quando aumenta la percentuale di punti che si spostano nella direzione preferenziale delle cellu-le neurali.Sorprendentemente, alcuni singoli neu-roni riescono ad identificare il movimen-to dei puntini come fa un osservatore, sia esso una scimmia o un essere umano, compiendo una scelta decisionale. La mi-crostimolazione di questi neuroni attra-verso l’elettrodo che si usa normalmente per la registrazione può persino influen-zare il giudizio della scimmia sullo spo-stamento relativo. Questo è notevole,

poiché un gran numero di neuroni è sen-sibile alla osservazione del movimento e ci si potrebbe aspettare che la decisione sia basata sull’attività di molti neuroni anziché solo di pochi. Le decisioni prese sul colore procedono in maniera simile (vedi la casella sulle Frontiere della Ri-cerca).

Vedere per Credere

L’area V5 fa qualcosa di più della sola ri-cognizione del movimento di uno stimolo visivo, essa registra anche la percezione del movimento. Usando alcuni trucchi vi-sivi per far sembrare che un gruppo di

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Sensibilità al movimento. A. Vista laterale del cervello di scimmia con la corteccia visiva pri-maria (V1) a sinistra e l’area MT (chiamata anche V5) dove si trovano i neuroni sensibili al mo-vimento. B. Attività elettrica (potenziali d’azione: linee verticali) di un neurone sensibile al movimento di uno stimolo (barra bianca) che si muove da sud-est a nord-ovest, ma non in di-rezione opposta. C. Stimoli utilizzati negli esperimenti sulla sensibilità al movimento, dove i cerchietti si muovono in tutte le direzioni (0% di coerenza) o in una sola direzione (100% di coerenza). D. La capacità della scimmia di indicare la più probabile direzione dei cerchiettiaumenta con la coerenza del loro movimento (linea gialla). La microstimolazione elettrica dellecolonne di diverso orientamento sposta la linea della stima della direzione preferita (linea blu).

puntini si stia spostando in una direzione muovendo opportunamente i puntini cir-costanti, dunque fornendo l’illusione del movimento, si osserva che i neuroni cor-rispondenti all’area dell’illusione inviano segnali differenti se lo spostamento illu-sorio è percepito verso sinistra o verso destra. Se il movimento è completamen-te casuale, i neuroni che normalmente preferiscono lo spostamento verso de-stra si attiveranno un po’ di più se l’os-servatore riferisce che il movimento ca-suale dei puntini sembra andare com-plessivamente verso destra (e vicever-sa). Le differenze fra le decisioni neuro-nali di “movimento verso destra” o “verso sinistra” riflettono il giudizio dell’osser-vatore sulla modalità del moto, non la na-tura assoluta del moto che viene presen-tato.

Altri esempi di decisione o indecisione visiva includono le reazioni alla percezio-ne di oggetti veramente ambigui, come il cosiddetto cubo di Necker (vedi Figura). Con questo tipo di stimolo, l’osservatore è posto in uno stato forzato di indecisio-ne e fluttua continuamente fra un’inter-pretazione ed un’altra. Un simile conflit-to interiore si può sperimentare guar-dando un gruppo di linee verticali con l’occhio sinistro mentre con l’occhio de-stro si guardano delle linee orizzontali. La percezione risultante è detta rivalità binoculare, poiché l’osservatore riferi-sce inizialmente di vedere soprattutto linee verticali, poi orizzontali e poi nuo-vamente verticali. Di nuovo, i neuroni in diverse aree della corteccia visiva reagi-scono diversamente quando la percezione dell’osservatore cambia da orizzontale a verticale e viceversa.

Il nostro mondo visibile è un posto affa-scinante. La luce che entra negli

occhi ci permette di apprezzare il mondo intorno a noi, dalla semplicità di certi oggetti alle opere d’arte che ci abbaglia-

no ed incantano. Milioni e milioni di neu-roni sono coinvolti, con diversi ruoli che vanno dal fotorecettore retinico che ri-sponde ad un puntino luminoso al neurone in area V5 che decide se qualcosa nel mondo visibile si sta muovendo. Tutto ciò avviene apparentemente senza sforzo nel nostro cervello. Non siamo ancora in grado di capire tutto questo, ma i neuro-scienziati ci stanno lavorando e progre-discono a grandi passi.

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Colin Blakmore ha contribuito alla comprensio-ne di come il sistema visivo si sviluppi, com-piendo studi pionieristici con culture cellulari per studiare le interazioni fra porzioni diverse delle vie nervose nel cervello dell’embrione (a sinistra). A destra sono mostrati assoni (colo-rati in verde) che scendono dalla corteccia verso altre fibre (colorate in arancione) e che “si stringono la mano” prima di salire verso la corteccia.

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Frontiere della ricercaCellule sensibili ai colori. Alcuni neuroni mostrano attività elettriche diverse a seconda della lunghezza d’onda della luce. Alcuni rispondono meglio alle onde lunghe, altri a quelle corte. Si potrebbe pensare che ciò sia sufficiente a percepire i colori, ma non è sempre così. Si paragoni l’attività della cellula a sinistra con quella della cellula a destra. Qual’è la differenza? Sotto è riportata una rappresentazione ragionata di uno sfondo colorato chiamato Mondrian (dall’artista Peter Mondrian). Può essere illuminato con differente combinazioni di onde lunghe, medie e corte, così che ogni pannello colorato rifletta esat-tamente la stessa miscela luminosa: ciò nonostante si continuerebbero a percepire colori diversi a causa della presenza dei pannelli circostanti.

Sinistra. La cellula a sinistra, registrata in V1, risponde più o meno allo stesso modo in tutti i casi. Non “percepisce” i colori: semplicemente risponde alle iden-tiche miscele di lunghezze d’onda riflesse da ciascun pannello.

Destra. Una vera cellula sensibile ai colori dell’area V4 risponde bene a un’area del Mondrian che viene percepita rossa, ma molto meno agli altri pannelli. La diversità di risposta si verifica anche quando la stessa tripletta di lunghezze d’onda è ri-flessa da ciascun pannello. V4 può quindi essere la parte del cervello che consente di percepire i colori, anche se alcuni neuro-scienziati ritengono che non sia l’unica.

7 - Il Movimento

Pensate di afferrare un pallone. Sem-bra facile, ma anche per eseguire questo semplice movimento il cervello deve compiere alcuni notevoli passaggi. Noi diamo tutto per scontato, eppure serve una certa pianificazione: il pal-lone sarà leggero o pesante? Da quale direzione sta arrivando e con quale velocità? Serve anche una certa coor-dinazione: come si fa a coordinare au-tomaticamente le braccia per affer-rarlo e quale sarà il modo migliore per farlo? Occorre inoltre eseguire il mo-vimento: riusciranno le braccia ad ar-rivare in tempo nel posto giusto e le dita a chiudersi al momento opportu-no? I neuroscienziati ora sanno che sono molte le aree del cervello coin-volte. L’attività neurale in queste aree si combina per formare una lunga ca-tena di comandi – una gerarchia moto-ria – dalla corteccia motoria ed i gan-gli della base al cervelletto ed al mi-dollo spinale.

La Giunzione Neuromu-scolare

All’estremo inferiore della catena gerar-chica del movimento, il midollo spinale, centinaia di migliaia di cellule nervose specializzate dette motoneuroni aumen-tano la frequenza della loro attività elettrica. Gli assoni di questi neuroni proiettano verso i muscoli dove attivano

le fibre muscolari contrattili.

Per far contrarre i muscoli, i nervi formano contatti specializzati con ogni singola fibra muscolare, a livello delle giunzioni neuromu-scolari. Man mano che si sviluppano, più fibre nervose si dirigono verso ciascuna fibra mu-scolare ma, a causa della competizione fra neuroni, vengono tutte eliminate, tranne una. La fibra che rimane rilascia il suo neurotra-smettitore acetilcolina su molecole recet-trici specializzate nella “placca muscolare” (in rosso). L’immagine è stata ottenuta con un microscopio confocale.

I rami terminali degli assoni di ciascun motoneurone formano giunzioni neuro-muscolari specializzate con un numero limitato di fibre muscolari su ogni mu-scolo (vedi Figura). Ciascun potenziale d’azione in un motoneurone causa il rila-scio di un neurotrasmettitore dalle ter-minazioni nervose e genera un corrispon-dente potenziale d’azione nelle fibre mu-scolari. Questo provoca il rilascio di ioni Ca++ da parte di opportuni magazzini in-tracellulari localizzati in ciascuna fibra muscolare. Conseguentemente si ha l’ini-zio della contrazione muscolare, che produce la forza ed il movimento.

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Registrazione dell’attività elettrica (elet-tromiogramma, EMG) di un muscolo durante la sua contrazione.

Gli eventi elettrici nei muscoli del brac-cio possono essere registrati con un am-plificatore, anche attraverso la pelle, e queste registrazioni elettromiografiche (EMG) possono esser utilizzate per mi-surare il livello di attività in ciascun mu-scolo (vedi Figura).

Le sette regioni del cervello coinvolte nel movimento.

Il midollo spinale gioca un ruolo impor-tante nel controllo dei muscoli attraver-so un gran numero di diversi percorsi ri-flessi.

Fra questi c’è il riflesso di ritrazione che ci protegge dagli oggetti appuntiti o in-candescenti, ed il riflesso di estensione che ha un ruolo nella postura del corpo. Il ben noto riflesso del “martelletto” è un esempio di riflesso di estensione

piuttosto particolare, perché coinvolge solo due tipi di cellule nervose – i neuroni sensoriali che rilevano l’allungamento del muscolo, connessi attraverso sinapsi ai motoneuroni che ne causano la contra-zione.

Un esperimento sul mo-vimento.

Chi è che mi muove? Faiquesto esperimento con

un amico. Metti un libro pesante sulpalmo della tua mano destra. Adessosolleva il libro con la mano sinistra. Deviriuscire a tenere ferma la mano destra.Ti sembrerà facile. Adesso prova dinuovo, tenendo la mano con il libro asso-lutamente ferma mentre il tuo amico losolleva. Poche persone ci riescono. Nonti preoccupare: bisogna provare moltevolte, prima di avvicinarsi a quanto ti èstato facile farlo da solo.

Questo esperimento dimostra che learee sensitivo-motorie del tuo cervelloconoscono meglio quello che fai intera-mente da solo che quando sono altri adavviare le tue azioni.Questi riflessi si combinano con altri più complessi, in circuiti spinali che organiz-zano comportamenti più o meno completi, come il movimento ritmico degli arti quando camminiamo o corriamo. Questo coinvolge l’eccitazione e la inibizione co-ordinata dei motoneuroni.

I motoneuroni sono la via finale comune verso i muscoli che muovono le nostre ossa. Il cervello ha notevoli problemi nel controllare l’attività di queste cellule. Quali muscoli deve far muovere per compiere una qualsiasi particolare azio-ne, per quanto ed in che ordine?

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Il vertice della gerarchia – la corteccia motoria

All’opposto dell’estremità inferiore della gerarchia motoria, nella corteccia cere-brale, uno sconcertante numero di calcoli deve essere eseguito in ogni istante da molte decine di migliaia di cellule per ciascuna componente del movimento. Questi calcoli garantiscono che il movi-mento venga eseguito con abilità e preci-sione. A metà strada fra la corteccia ce-rebrale ed i motoneuroni del midollo spi-nale, alcune aree di estrema importanza nel tronco cerebrale combinano le infor-mazioni, riguardanti gli arti e i muscoli, che salgono dal midollo spinale con le in-formazioni che discendono dalla cortec-cia cerebrale.

La corteccia motoria è un sottile foglio di tessuto che si estende sulla superficie del cervello, esattamente davanti alla corteccia somatosensoriale (vedi il capi-tolo 5). Qui si trova una completa mappa del corpo: le cellule nervose che causano il movimento nei differenti arti (attra-verso connessioni con i motoneuroni si-tuati nel midollo spinale) sono organizza-te topograficamente. Usando un elettro-do per la registrazione, si possono ritro-vare in ogni parte di questa mappa neu-roni che sono attivi circa 100 millisecon-di prima che inizi l’attività nei muscoli appropriati. Che cosa venga codificato nella corteccia motoria è stato a lungo argomento di discussione – chiedendosi se le cellule nella corteccia codificano l’azione che una persona vuole eseguire o i singoli muscoli che devono essere con-

tratti per eseguirla. La risposta a questa domanda è risultata essere un po’ inatte-sa: i singoli neuroni non si occupano di nessuna di queste due attività. Il mecca-nismo utilizzato è una codifica di popo-lazione in cui le azioni sono specificate dalla compartecipazione attiva di un in-sieme di neuroni.

Anteriormente alla corteccia motoria si estendono le importanti aree premoto-rie che sono coinvolte nella progettazio-ne delle azioni, nella preparazione al mo-vimento dei circuiti spinali , ed in pro-cessi che stabiliscono collegamenti fra la visione delle azioni e la comprensione della gestualità. Nuovi studi hanno por-tato alla notevole scoperta dei neuroni specchio, che nelle scimmie rispon-dono sia quando il primate vede il movimento di una mano sia quando è esso stesso a muoverla. I neuroni specchio sembrano essere importanti per le facoltà imitati-ve e per comprendere le azioni. Poste-riormente alla corteccia motoria, nella corteccia parietale, un certo numero di aree differenti è coinvolto nella rappre-sentazione spaziale del corpo e degli elementi visibili e sonori che ci circonda-no. Queste aree sembrano contenere una mappa di dove si trovano i nostri arti, e di dove sono situati obiettivi interessan-ti intorno e rispetto a noi. Danni a queste aree, ad esempio dopo un ictus, possono causare una perdita dell’abilità di rag-giungere un oggetto o persino non riusci-re a vedere o percepire una parte di ciò che ci sta attorno. Pazienti che soffrono di un cosiddetto neglect parziale non riescono a notare la presenza di oggetti

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“... i neuroni specchio faranno per la psicologia quello che il DNA ha fatto per la biologia: forniranno una visione unificata e aiuteranno a spiegare una quantità di capacità mentali che sono ancora misteriose e inaccessibili alla sperimentazio-

ne” V.S. Ramachandran

(spesso se posti alla loro sinistra) ed al-cuni ignorano persino la parte sinistra del proprio corpo.

I Gangli della Base

I gangli della base sono un agglomerato di aree interconnesse localizzate al di sotto della corteccia nelle profondità degli emisferi cerebrali. Essi sono cru-ciali per poter iniziare un movimento, an-che se il modo in cui agiscono è ancora poco chiaro.I gangli della base sembrano agire come un complesso filtro, che seleziona le in-formazioni nella mischia dell’enorme nu-mero di diversi impulsi che ricevono dalla metà anteriore della corteccia (le regio-ni sensoriale, motoria, prefrontale e lim-bica). Ciò che è analizzato dai gangli del-la base viene rispedito alle aree della corteccia motoria.

Una malattia piuttosto diffusa del si-stema motorio umano, il morbo di Par-kinson, è caratterizzata da tremori e dall’inabilità ad iniziare un movimento. È come se il filtro selettivo nei gangli della base fosse bloccato. Il problema è iden-tificato nella degenerazione dei neuroni in un’area del cervello chiamata substan-tia nigra (il nome deriva dal fatto che appare di colore molto scuro), i cui lunghi assoni rilasciano il neurotrasmettitore dopamina nei gangli della base (vedi la casella Frontiere della Ricerca). La pre-cisa disposizione degli assoni che rila-sciano dopamina sui neuroni bersaglio nei gangli della base è piuttosto intrica-ta, suggerendo un’importante interazione fra diversi neurotrasmettitori. Il trat-tamento con il farmaco L-Dopa, che è convertito in dopamina nel cervello, ri-pristina i livelli di dopamina e consente nuovamente il movimento (vedi Capitolo

16).

I gangli della base sono anche ritenuti importanti per l’apprendimento, consen-tendo la selezione di azioni che portino ad una gratificazione.

Il Cervelletto

Il cervelletto è essenziale per i movi-menti che richiedono abilità e coerenza. Si tratta di una meravigliosa

macchina neuronale la cui intricata ar-chitettura cellulare è stata mappata con grande dettaglio.

Come i gangli della base, esso è intercon-nesso estensivamente con le aree corti-cali coinvolte nel controllo del movimen-to, ed anche con le strutture del tronco cerebrale. Danni al cervelletto causano una riduzione della coordinazione moto-ria, perdita dell’equili-brio, difficoltà di parola, ed anche un certo numero di dif-ficoltà cognitive. Tutto questo suona familiare? L’alcol ha un potentissimo ef-fetto sul cervelletto.

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Il cervelletto è inoltre vitale per l’ap-prendimento motorio e l’adattabilità dei movimenti. Quasi tutte le azioni volonta-rie si basano sul controllo fine dei circui-ti motori, ed il cervelletto è importante per la loro regolazione ottimale – ad esempio nel caso della temporizzazione

dei gesti. La sua struttura corticale è molto regolare, e sembra essersi evoluto per far conver-gere grandi quantità di informazioni dal sistema sensoriale, le aree corticali motorie, il midollo spinale

e il tronco cerebrale.

L’acquisizione di abilità motorie dipende da un meccanismo di apprendimento cel-lulare chiamato “depressione a lungo termine” (LTD), che riduce l’intensità di alcune connessioni sinaptiche (vedi il ca-pitolo sulla Plasticità).

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Cellula del Purkinje del cervelletto, con la estesa “arborizzazione” dei suoi dendriti. Essa serve a ricevere la mi-riade di impulsi necessari per la preci-sa temporizzazione dei movimenti di abilità che impariamo.

Frontiere della ricerca

Una storia inaspettata sulla dopamina.

La chimica che sottostà alle azioni e alle abitudini coinvolge il neurotrasmettitore dopamina, che è rilasciato sui neuroni dei gangli della base, dove agisce su recettori metobotropici (cap. 3). Viene utilizzato sia come incentivo all’azione che come ri-compensa per le azione svolte in modo ap-propriato. Una scoperta inaspettata è che il rilascio di dopamina è maggiore quando la ricompensa è imprevista. In altre paro-le, l’attività dei neuroni dopaminergici è molto elevata a uno stadio dell’appren-di-mento quando è particolarmente utile fornire un forte rinforzo al sistema mo-torio per aver prodotto la giusta attività. I movimenti possono così essere raccolti insieme nella sequenza appropriata trami-te la liberazione di successive ondate di dopamina. Successivamente, in particolare se movimenti complessi diventano abitudi-nari, il sistema lavora liberamente senza più la ricompensa dopaminergica. A questo punto, sopratutto se il movimento deve essere accuratamente temporizzato, ini-zia il ruolo del cervelletto.

Esistono molte teorie sulla funzione del cervelletto: alcune esprimono l’idea che esso generi un “modello” di come il si-stema motorio lavora – una sorta di si-mulatore di realtà virtuale del vostro corpo nella vostra testa. Il cervelletto costruirebbe questo modello usando la plasticità sinaptica che è intrinseca al suo complicato intreccio.

Allora, prova ad afferrare nuovamente il pallone, e capirai che quasi tutti i livelli della tua gerarchia motoria sono coinvol-ti – dalla pianificazione dell’azio-ne in re-lazione all’obiettivo visivo, alla program-mazione del movimento degli arti, alla corretta posizione del braccio. A tutti questi livelli, avrai certamente bisogno di integrare l’informazione sen-soriale con il fiume di segnali che vanno ai tuoi muscoli.

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8 - Lo Sviluppo del Sistema Nervoso

La struttura di base del cervello è virtualmente identica da persona a persona ed è abbastanza simile in tutti i mammiferi. È determinata principalmente da fattori genetici, ma i piccoli dettagli delle connessioni sono influenzati dall’attività elettrica del cervello, specialmente nei primi anni di vita. La sua complessità è tale che siamo ancora lontani da una comprensione completa di come il cervello si sviluppi, anche se delle chiare indicazioni sono emerse in anni recenti grazie alla rivoluzione genetica.

Prendi un uovo fertilizzato e segui le istruzioni

Il corpo umano ed il suo cervello si sviluppano da una singola cellula: l’uovo fertilizzato. Ma come fanno? Il principio cardine della biologia evolutiva è che il genoma è un insieme di istruzioni per creare un organo del corpo, non un progetto dettagliato. Il genoma è l’insieme di circa 40.000 geni che orchestrano questo processo. Eseguire queste istruzioni è un po’ come piegare un foglio secondo l’antica arte cinese – un limitato numero di operazioni di piegatura produce una struttura che per essere descritta nel dettaglio con un disegno richiede-rebbe un gran numero di fogli. Iniziando dall’embrione, un insieme comparabilmente limitato di istruzioni genetiche è in grado di

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La placca neurale si piega per formare il tubo neurale. A: Un embrione umano a tre settimane dal concepimento. B: La placca neurale forma la parte superiore (dorsale) dell’embrione. C: Pochi giorni dopo, l’em-brione sviluppa le pie-ghe più ampie per la testa all’estremità frontale (anteriore). La placca neurale resta aperta sia all’estremi-tà in testa sia in coda ma si è chiusa nella parte centrale. D, E, F: I differenti livelli dell’asse dalla testa alla coda eviden-ziano diverse fasi della chiusura del tubo neurale.

generare l’enorme diversità di cellule e connessioni del cervello durante lo

sviluppo. Sorprendentemente, abbiamo molti geni in comune con il moscerino della frutta, la Drosofila. In verità, la maggior parte dei geni importanti per il sistema nervo-so umano è stata scoperta inizialmente grazie a studi sul moscerino della frutta. Per studiare lo sviluppo del cervello i neuroscienziati esaminano una gran varietà di animali – il pesciolino zebra-fish (danio rerio o pesce juventino), la rana, il pulcino e il topo – ciascuno dei quali è vantaggioso per esaminare parti-colari eventi molecolari o cellulari. L’embrione di zebrafish è trasparente, e questo consente di vedere al microscopio ogni cellula

durante lo sviluppo. I topi si

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Morfogenesi del cervello umano fra 4 (A) e 7 (D) settimane dal concepimento. Differenti regioni si espandono e vi sono varie piegature lungo l’asse testa-coda.

riproducono rapidamente, ed il loro ge-noma è stato mappato e sequenziato qua-si completamente. I pulcini e le rane sono meno utili per gli studi genetici, ma i loro embrioni di grosse dimensioni con-sentono manipolazioni microchirurgiche – come la sperimentazione su cosa succede se alcune cellule vengono spostate in po-sizioni diverse da quelle originali.

Primi passi…

Il primo passo nello sviluppo del cervello è la divisione cellulare. Un altro passo fondamentale è la differenziazione cel-lulare durante la quale alcune cellule smettono di dividersi ed assumono speci-fiche caratteristiche – ad esempio, i neuroni o le cellule gliali. La differenzia-zione causa una riorganizzazione spazia-le. Differenti tipi di neuroni migrano verso le loro varie collocazioni in un processo noto come “formazione della trama”, come un tessuto. Il primo evento saliente della formazione della trama inizia nell’embrione umano durante la terza settimana di gestazione, quando l’embrione è costituito solo da due fogli di cellule che si stanno dividendo. Una piccola toppa di cellule sulla superficie superiore di questo doppio strato ha le istruzioni per creare l’intero cervello ed il midollo spinale. Queste cellule formano una struttura simile ad una racchetta da tennis, detta placca neurale, la cui parte anteriore è destinata a formare il cervello, la parte posteriore il midollo spina-le. I segnali che segnano il destino di queste cellule provengono dallo strato sottostante che andrà a formare lo scheletro e i muscoli dell’embrione.

Molte regioni del sistema nervoso primordiale esprimono diversi sottogrup-pi di geni, che preparano la formazione delle aree cerebrali – cervello anteriore, bulbo e ponte – con architetture cellulari e funzioni distinte.

Rotoliamo oltre

Una settimana dopo, la placca neurale si arrotola su se stesso chiudendosi come un tubo ed inserendosi nell’embrione, do-ve viene avvolta dalla futura epidermide. Nelle settimane immediatamente successive avvengono ulteriori profondi cambiamenti, incluse variazioni nella forma delle cellule, divisioni, migrazioni e adesione fra cellule. Ad esempio, il tubo neurale si piega in modo tale che la regione della testa sia curvata ad angolo retto rispetto alla regione del tronco. Questo modellamento prosegue con livelli sempre più raffinati di risoluzione, fino a conferire un’identità individuale ai giovani neuroni. A volte le cose vanno male. Un’errata chiusura del tubo neurale porta alla spina bifida, una condizione che generalmente riguarda solo il tratto finale del midollo spinale. È certamente disabilitante, ma non mette in pericolo di vita. Al contrario, un’errata chiusura del tubo neurale dalla parte della testa può portare alla completa assenza di un cer-vello organizzato, una condizione nota come anencefalia.

Conosci il tuo posto nella vita

Il principio non dichiarato del modella-mento è che le cellule vengono a sapere qual è la loro posizione rispetto agli assi

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principali del sistema nervoso – antero-posteriore e dall’alto verso il basso. In effetti, ciascuna cellula misura la propria posizione rispetto a queste coordinate ortogonali come chi consulta di una map-pa determina la propria posizione misu-rando la propria distanza da alcuni punti fissi. Questo funziona a livello molecola-re grazie al fatto che l’embrione crea un certo numero di zone polarizzate che so-no localizzate nel tubo neurale e secer-nono molecole che fungono da segnale. In ogni caso, queste molecole diffondono dalla loro sorgente creando dei gradienti di concentrazione che dipendono dalla distanza. Un esempio di questo meccani-smo dipendente dalla posizione è l’asse dorsoventrale (dall’alto in basso) del mi-dollo spinale. La parte inferiore del tubo neurale secerne una proteina con un no-me fantastico – Sonic hedgehog, il nome di un popolare porcospino superve-loce dei cartoni animati. Questo porco-spino si propaga dal pavimento della plac-ca e interagisce con cellule poste sull’as-se dorsoventrale in maniera proporzio-nale alla loro distanza dal pavimento della placca stessa. Quando si chiude su se stesso, il porcospino Sonic induce l’es-pressione di un gene che crea un partico-lare tipo di interneurone. In seguito, la concentrazione ora ridotta di porcospini Sonic induce l’espressione di un altro ge-ne che crea i motoneuroni.

Resta dove sei o sappi dove vai

Quando un neurone acquisisce la propria identità individuale e smette di dividersi, inizia a prolungare il suo assone a partire da una punta allargata detta cono di cre-scita. Quasi come un’agile guida di mon-tagna, il cono di crescita è specializzato nello spostamento lungo il tessuto, usan-

do le sue capacità per scegliere una via

favorevole. Nel fare questo, si tira die-tro l’assone come un cane con un guinza-glio estendibile. Quando raggiunge il suo obiettivo, il cono di crescita perde la ca-pacità di muoversi e forma una sinapsi. Il controllo (o guida) assonale è una for-midabile proprietà di navigazione, accu-rata per distanze sia brevi che lun-ghe. È inoltre un processo decisamente ben pensato, poiché non solo la cellula bersa-glio viene raggiunta con gran pre-cisione ma, per arrivarci, il cono di cre-scita può dover superare altri coni di crescita che si stanno muovendo in di-verse direzioni. Lungo il percorso, oppor-tuni suggerimen-ti direzionali che at-traggono (+) o re-spingono (-) i coni di crescita li aiutano a trovare la loro stra-da, anche se i mecca-nismi molecolari che sono responsabili di regolare l’espressione di questi suggeri-menti re-sta poco compreso.

Scolpire con l’attività elettrica

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Vari tipi di guide che i neuroni (in blu) incon-trano estendendo i loro assoni e i coni dicrescita (attività elettrica alle estremità).Sostanze sia locali che distanti possono at-trarre (+) o respingere (-) il cono di

Anche se si è già raggiunto un notevole grado di precisione sia nella sistemazio-ne spaziale dei neuroni sia nella loro con-nettività rispetto alle fasi iniziali, in una fase ulteriore la connessione di alcune parti del sistema nervoso è soggetta a un raffinamento dipendente dall’attivi-tà, come la potatura di assoni e la sop-pressione di neuroni. Queste perdite potrebbero sembrare uno spreco di ri-sorse, ma non è sempre possibile o desi-derabile creare un cervello completo e perfetto solo seguendo i piani di costru-zione. L’evoluzione può sembrare un po’ maneggiona, ma è anche uno scul-tore. Per esempio, la mappatura punto per punto fra i neuroni negli occhi ed il cer-vello, assolutamente indispensabile per una corretta visione, si ottiene in parte grazie al fatto che l’attività elet-trica nella retina avviene punto per pun-to co-me fosse la trama di un tessuto. Inoltre, un insieme inizialmente esube-rante di connessioni viene scolpito du-rante un periodo critico, dopo il quale la struttura di base del sistema visivo è completa, all’incirca nell’ottava settimana di vita nelle scimmie, forse dopo un ano negli esseri umani. Una questione intri-gante è se questi programmi iniziali di sviluppo possano mai essere riattivati nel caso di perdita neuronale a causa di una patolo-gia (come nelle malattie di Parkin-son e di Alzheimer) o in caso di danneg-gia-menti del midollo spinale che possono portare a paralisi. Nel secondo caso, gli assoni possono già ora essere indotti a crescere nuovamente recuperando così il danno, ma il modo in cui farli riconnet-tere appropriatamente resta un’area di intenso studio.

La rivoluzione genomica

Stiamo rapidamente costituendo un ca-talogo completo de geni necessari a co-struire un cervello. Grazie al potere pro-

digioso dei metodi della biologia moleco-lare, possiamo testare la funzioni dei ge-ni modulando la loro espressione quando e come vogliamo durante lo sviluppo. Il maggior impegno ora è lavo-rare sulla ge-rarchia del controllo gene-tico che con-verte un foglio di cellule in un cervello che funziona. Questa è una delle grandi sfide delle neuroscienze.

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Frontiere della ricercaLe cellule staminali sono cellule del corpo che possiedono la po-tenzialità di diven-tare qualsiasi altro tipo di cellula. Alcune, chiamate cellule staminali embrionali, prolife-rano molto preco-cemente durante lo sviluppo. Altre si trovano nel midollo osseo e nel cordone ombe-licale che connette il neonato alla madre. I neuroscienziati statto cercando di capirese le cellule staminali possono essere utilizza-te per riparare i neuroni danneggiati del cer-vello adulto. La maggior parte del lavoro, al momento. Viene svolta sugli animali, ma la spe-ranza è di poter riparare parti del cervellodanneggiate da malattie come il morbo di Parkinson.

9 - La Dislessia

Vi ricordate quanto è stato difficile imparare a leggere? Al contrario della capacità di parlare, la cui origini evo-luzionistiche sono antichissime, leggere e scrivere sono invenzioni umane rela-tivamente recenti. Circa un migliaio di anni fa, le diverse comunità sparse per il mondo hanno capito che la mi-riade di parole che possono esse-re pronunciate è formata da un piccolo numero di suoni distinti (nella lingua Inglese sono 44) e che questi possono essere rappresentati da un numero persino più piccolo di simboli grafici. Imparare questi simboli richiede tem-po, ed alcuni studenti incontrano diffi-coltà notevoli. Questo non è dovuto ad alcuna mancanza di intelligenza, ma al fatto che il loro cervello trova dif-fi-cile maneggiare la particolare fa-coltà della lettura. All’incirca una per-sona su dieci può trovarsi in questa condi-zione, oggi nota con il suo ter-mine neurologico, dislessia nello svilup-po.

La dislessia è molto comune, e può es-sere causa di sconforto per quei bambini che ne soffrono e che non riescono a ca-pire il perché trovino così difficile la lettura mentre sanno di essere altret-tanto intelligenti dei loro amici che non hanno questa difficoltà. Molti bambini perdono la fiducia, e questo può portare ad una spirale discendente di fru-stra-zione, ribellione, aggressione e per-

sino delinquenza. In molti casi però i di-sles sici mostrano talenti notevoli in al-tre sfere – sport, scienza, computer, com-mercio o arti varie – sempre che i pro-blemi iniziali che hanno incontrato con la lettura non li abbiano portati a perdere la speranza e l’autostima. Capire le basi biologiche che portano alla disles-sia non è dunque soltanto importante di per se, ma è anche un contributo per prevenire una situazione di infelicità. Capire il pro-cesso che porta a leggere meglio può fornire un metodo per risol-vere o trattare adeguatamente il pro-blema.

Imparare a leggere

La lettura dipende dall’abilità di ricono-scere i simboli visivi alfabetici nel loro giusto ordine – l’ortografia di qualunque lingua un bambino stia imparando – e di sentire i singoli suoni in una parola nel loro esatto ordine. Ciò coinvolge la capa-cità di estrarre quella che è chiamata struttura fonetica, che consente di tra-durre i simboli nei suoni corrispon-denti corretti. Sfortunatamente, la maggior parte dei dislessici è lenta ed non accu-rata nell’analizzare le carat-teristiche sia ortografiche sia fonolo-giche delle parole. L’abilità nel mettere in sequenza le parole e i suoni in maniera accurata dipende da meccanismi tanto visivi quan-to uditivi. Per le parole incon-suete, e tutte le parole sono inconsuete quando si

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inizia a leggere, tutte le let-tere devono essere identificate e poi messe nel giu-sto ordine. Questo pro-cesso non è così semplice come sembra, perché gli occhi fanno piccoli movimenti passando da una lettera all’altra. Le let-tere vengono identificate durante cia-scun istante di fissazione dell’occhio ma il loro ordine è dato dal punto in cui l’occhio guardava quando ciascuna lette-ra veniva vista. Quello che gli occhi ve-dono deve essere integrato con i segnali motori provenien-ti dall’apparato motorio dell’occhio; i di-slessici hanno dei proble-mi proprio con

questa integrazione visuo-motoria. Il controllo visivo del sistema motorio del-l’occhio è dominato da una rete di neuro-ni di grandi dimensioni nota come siste-ma magnocellulare. Il nome deriva pro-prio dal fatto che le cellule sono molto grandi (magno). Questa rete si dipana dalla retina, attraverso il per-corso ver-so la corteccia cerebrale e il cervelletto, fino ai motoneuroni dei mu-scoli oculari. Essa è specializzata nel rispondere par-ticolarmente bene agli stimoli in movi-mento ed è pertanto importante per rin-tracciare oggetti in moto. Una caratteri-stica importante di questo sistema è che

esso genera segnali motori durante la lettura, causando uno spostamento degli occhi dalle lettere che dovrebbero stare fissando. Questo segnale di errore del movimento è ri-spedito al sistema di mo-vimento oculare per riportare gli occhi sul giusto obiet-tivo. Il sistema magno-cellulare gioca un ruolo cruciale nell’aiu-tare a posizionare l’occhio saldamente su ciascuna lettera in sequenza, e dunque nel determinare il loro ordine. I neuro-

scienziati hanno sco-perto che il sistema visivo magnocellula-re è parzialmente inabile in molti disles-sici. Un modo per verificarlo consiste nel guardare diret-tamente il tessuto cere-brale (vedi Figu-ra); inoltre, la sensibilità del sistema vi-suomotorio nei dislessici è minore di quella dei soggetti che leggono normal-mente e le risposte elettriche cerebrali agli stimoli motori sono anomale. Le tec-niche di visualizzazione cere-brale hanno inoltre rilevato delle altera-zioni negli schemi di attivazione funzio-nale in re-gioni sensibili alle operazioni visuomoto-rie (vedi il Capitolo 15 sulla visualizzazio-ne del cervello). Il controllo degli occhi nei dislessici è meno forte; perciò questi tendono a lamentarsi del fatto che le lettere sembrano muoversi e cambiare posto mentre stanno cercando di legge-

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La parola DOG (cane) viene analizzata letteraper lettera (in alto) e tutta intera (inbasso). Nel primo caso si ha una analiso fonologica delle singole lettere, nel secondocaso l’analisi visiva diretta dell’intera parola.I due processi portano quindi all’attribuzionedel significato (semantica) della parola.

Registrazione dei movimenti oculari durantela lettura. Spostamenti della penna versol’alto e verso il basso corrispondono a movi-menti verso sinistra e verso destra, rispetti-vamente. I tracciati si riferiscono a un soggetto dislessico (in alto), a un cattivolettore (in centro) e a un lettore normale(in basso).

re. La confusione visiva è pro-babilmente il risultato di un fallito ten9 tativo del sistema magnocellulare di sta-bilizzare gli occhi così come avviene nei buoni let-tori.

Mettere i suoni nel giusto ordine

Molti dislessici hanno inoltre problemi nel mettere i suoni delle parole nel loro esatto ordine e tendono dunque a sba-gliarne la pronuncia (ad esempio, “neca” anziché cane) e non sono bravi ne-gli scioglilingua. Quando devono leggere, sono più lenti e meno accurati nel tra-durre le lettere nei suoni corrispondenti. Le loro difficoltà fonologiche, come nel caso di quelle visive, sono probabilmente radicate in una ridotta capacità delle fa-coltà uditive di base. Le persone dis-tin-guono i suoni associati alle lettere, detti fonemi, individuando le sottili dif-feren-ze nella variazione di frequenza ed in-tensità del suono che li caratterizzano. La capacità di rilevare queste modulazio-ni acustiche è consentita da un sistema di grossi neuroni uditivi che rintracciano

i cambiamenti di intensità e frequenza dei suoni. Vi è una crescente evidenza del fatto che questi neuroni non si svi-luppano nei dislessici quanto nei buoni lettori e che i confini che separano i suo-ni simili, come “b” e “d”, sono più difficili per loro da individuare (vedi Figura). In molti dislessici si evidenzia uno sviluppo ridotto di alcune cellule cerebrali, esten-dendo ulteriormente le difficoltà visive ed uditive che hanno nella lettura. Si tratta di problemi nei neuroni che forma reti estese in tutto il cervello che sem-brerebbero essere specializzate nel rile-vare le variazioni temporali. Tutte le cel-lule hanno la le stesse molecole sulla su-perficie, attraverso le quali si ricono-scono e creano connessioni l’una con l’al-tra, ma che possono renderle vulnera-bili all’attacco di anticorpi. Il sistema ma-gnocelluare fornisce un flusso di infor-mazioni decisamente rilevante al cervel-letto (vedi Capitolo 7 sul Movimen-to). È interessante notare che alcuni dis-lessici sono piuttosto maldestri e la loro grafia nello scrivere è spesso imprecisa. Le tecniche di visualizzazione cerebrale e gli studi metabolici sul cervelletto han-no indicato che la sua funzione può esse-re ridotta nei dislessici, e ciò potrebbe essere alla base della loro difficoltà nel-la scrittura. Alcuni neuroscienziati ri-tengono che il cervelletto sia coinvolto in molto di più della sola esecuzione del movimento, come la scrittura, le capacità verbali, e persino alcuni aspetti delle ca-pacità cognitive. Se tale ipotesi fosse corretta, disfunzioni del cervelletto po-trebbero riflettersi in problemi nella ca-pacità di imparare a leggere, scrivere e parlare.

Che si può fare?

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Sezioni istologiche del nucleo genicolato laterale, con evidenti i due strati parvo-cellulare (cellule piccole, in alto) e magno-cellulare (cellule grandi, in basso). A sini-stra, preparato di un soggetto normale (controllo); a destra preparato in una forma di dislessia, dove si vede la disorganizzazio-ne dello strato

Ci sono numerosi trattamenti specifici per la dislessia, ciascuno in relazione con la diversa ipotesi sulla causa sottostan-te. Alcuni mettono sotto accusa il sis-tema magnocellulare, altri tengono conto

della distinzione fra diverse forme di dislessia, dette superficiale e profonda, che potrebbero richiedere diversi tipi di trattamento. Tutti i trattamenti sono favoriti da una diagnosi precoce. Non sempre gli scienziati sono d’accordo su tutto, e l’individuazione della migliore cura per la dislessia appartiene a que-st’area di disaccordo. Recentemente è stato ipotizzato che i problemi nella ana-lisi dei suoni spingano alcuni dislessici ad apprenderli in modo sbagliato, usando i normali meccanismi di plasticità del cer-vello. L’idea è che si possa attuare una correzione nei bambini incoraggian-doli a giocare al computer a giochi in cui i suoni siano rallentati al punto in cui la separa-zione fra i fonemi è più chiara. Questi suoni verrebbero poi gradual-mente ac-celerati. Si ritiene che questo metodo possa essere molto efficace, ma esperi-menti indipendenti sono ancora in corso. Quello che è scientificamente interes-sante di quest’idea è che i pro-cessi di

un cervello assolutamente nor-male in-teragiscano con un’anomalia gene-tica allo stadio iniziale fornendo un ef-fetto enorme. È un esempio calzante di possi-bile interazione fra i geni e l’am-biente. È importante rimarcare il fatto che i di-slessici possono avere capacità persino migliori dei buoni lettori in ope-razioni di discriminazione dei colori e nella perce-zione globale anziché fram-mentata del-le forme. Questo spinge ad una possibile spiegazione del perché molti dislessici siano in grado di fare associazioni a lun-go raggio, associazioni del tutto inattese e possiedano in gene-rale un “pensiero olistico”. Basti ricor-dare che Leonardo da Vinci, Hans Christian Andersen, Edi-son, Einstein e molti altri inventori ed artisti creativi erano dislessici.

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10 - La Plasticità

Il nostro cervello cambia continuamen-te durante la nostra vita. Questa ca-pacità del cervello di cambiare è detta plasticità - si pensi ad un modellino di plastilina le cui componenti interne possano essere costantemente rimo-dellate. Non è il cervello nella sua to-talità a poter essere modificato bensì i singoli neuroni e per diverse ragioni: durante lo sviluppo nella fase giovanile, se sopravviene un trauma, e durante l’apprendimento. Esistono vari mecca-nismi di plasticità, il più importante dei quali è la plasticità sinaptica – la scienza che studia come i neuroni mo-difichino le loro capacità di comunicare l’uno con l’altro.

Plasmare il nostro avveni-re

Come abbiamo visto nel capitolo prece-dente, le connessioni fra i neuroni nei primi anni di vita richiedono una regola-zione fine. Quando interagiamo con l’am-biente circostante, queste connessioni sinaptiche cominciano a cambiare – ne vengono create di nuove, vengono rese più forti quelle più utili, mentre le con-nessioni meno usate si fanno più deboli o vengono persino eliminate. Le sinapsi at-tive e quelle che cambiano attivamente vengono mantenute, quelle inattive ven-gono eliminate. Il nostro cervello viene allora modellato attraverso una sorta di criterio di usa o getta. Le trasmissioni sinaptiche coinvolgono il rilascio di un

neurotrasmettitore chimico che poi atti-va specifiche molecole proteiche dette recettori. La normale risposta elettrica al rilascio del neurotrasmettitore è una misura della forza sinaptica. Essa può variare ed il cambiamento può durare

pochi secondi, alcuni minuti o persino una vita intera. I neuroscienziati sono parti-colarmente interessati dai cambiamenti di lunga durata nella forza sinaptica che possono essere prodotti da brevi periodi

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I recettori NMDA (in rosso) sono le mac-chine molecolari per l’apprendimento. Il neurotrasmettitore è rilasciato sia a riposo che durante la induzione della LTP (in alto a sinistra). Il sito dove Mg2+ (piccoli cerchi neri in alto a destra) blocca i canali al Ca2+ si trova all’interno della membrana cellulare e si sposta in seguito a una forte depolariz-zazione (schema successivo, sotto). Questo si verifica qando i neuroni modificano le lo-ro connessioni con altri neuroni. La LTP può essere espressa sia con un maggior numero di recettori AMPA (in giallo in basso a sini-stra) che con recettori AMPA più efficienti (in basso a destra).

di attività neuronale, individuabile in due processi noti come potenziamento a lungo termine (LTP), che causa un aumento della forza, e depressione a lungo termine (LTD), che ne causa una diminuzione.

Il sapore della plasticità

Il glutammato è un comune amminoacido che viene impiegato in tutto il nostro corpo per costruire le proteine. Potreste essere incappati in questo elemento sot-to forma di ingrediente per esaltare i sapori noto come monoglutammato di so-dio. È il neurotrasmettitore che funziona nelle sinapsi più plastiche del nostro cer-vello – quelle che manifestano LTP e LTD. I recettori del glutammato, che sono posizionati soprattutto nella parte ricevente della sinapsi (terminazione post-sinaptica), sono disponibili in quat-tro varietà: tre di esse sono recettori ionotropici, detti AMPA, NMDA e kaina-to. Il quarto tipo è un recettore metabo-lico ed è detto mGluR. Anche se questi quattro tipi di recettori per il glutamma-to rispondono tutti allo stesso neurotra-

smettitore, essi hanno funzioni diverse. I recettori ionotropici per il glutammato usano i loro canali ionici per generare un potenziale eccitatorio post-sinaptico (epsp) mentre i recettori metabolici per il glutammato, come le operazioni neuro-modulatorie descritte in precedenza, modulano la dimensione e la natura della risposta. Tutti questi tipi sono importan-ti per la plasticità sinaptica, ma i recet-tori AMPA e NMDA sono quelli su cui si hanno più informazioni, e vengono spesso ritenuti essere delle molecole della me-moria. La maggior parte di queste cono-scenze è derivata dai lavori per sviluppa-re nuovi farmaci che agiscono su questi recettori per modificare le loro attività.I recettori AMPA sono i più rapidi ad entrare in azione. Quando il glutammato si lega a questi recettori, essi aprono rapidamente i loro canali ionici per pro-durre un potenziale transiente eccitato-rio postsinaptico (gli epsp sono descritti nel Capitolo 3). Il glutammato resta le-gato ai recettori AMPA solo per una frazione di secondo e, quando si distacca e viene rimosso dalla sinapsi, i canali io-nici si chiudono ed il potenziale elettrico ritorna al sui stato di quiete. Questo è

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Il glutammato viene liberato dalle terminazioni presinaptiche, attraversa lo spazio sinapti-co e si lega ai diversi recettori (AMPA, NMDA e mGLUR) che si trovano sulla membrana della terminazione postsinaptica dell’altro neurone. In alcune sinapsi, oltre ai recettori per il glutammato se ne trovano anche per il kainato.

ciò che accade quando i neuroni nel cer-vello si inviano informazioni l’un l’altro velocemente.

I recettori NMDA: mac-chine molecolari che av-viano la plasticità

Il glutammato si lega anche ai recettori NMDA sul neurone postsinaptico. Questi sono delle importanti macchine molecola-ri che danno l’avvio alla plasticità neuro-nale. Se la sinapsi è attivata lentamente, i recettori NMDA non giocano alcun ruo-lo o quasi. Questo avviene perché appena i recettori NMDA aprono i loro canali ionici essi vengono riempiti da un altro ione presente nella sinapsi, il magnesio (Mg++). Invece, se le sinapsi vengono at-tivate da un gran numero di impulsi che arrivano molto velocemente ad un insie-me di punti d’ingresso sul neurone, i re-cettori NMDA rilevano immediatamente questa eccitazione. Questa aumentata attività sinaptica causa una notevole de-polarizzazione nel neurone postsinaptico e questa causa l’espulsione di Mg++ dai canali ionici dei recettori NMDA con un processo di repulsione elettrica.

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I recettori NMDA (in rosso) sono le mac-chine molecolari per l’apprendimento. Il neurotrasmettitore è rilasciato sia a riposo che durante la induzione della LTP (in alto a sinistra). Il sito dove Mg2+ (piccoli cerchi neri in alto a destra) blocca i canali al Ca2+ si trova all’interno della membrana cellulare e si sposta in seguito a una forte depolariz-zazione (schema successivo, sotto). Questo si verifica qando i neuroni modificano le lo-ro connessioni con altri neuroni. La LTP può essere espressa sia con un maggior numero di recettori AMPA (in giallo in basso a sini-stra) che con recettori AMPA più efficienti (in basso a destra).

I recettori NMDA sono allora immedia-tamente in grado di partecipare alla co-municazione sinaptica, e lo fanno in due modi: anzitutto, come i recettori AMPA, portano Na+ e K+ che causano la depola-rizzazione; secondo, consentono al calcio (Ca++) di entrare nel neurone. In altre parole, i recettori NMDA percepiscono le attività neuronali intense e inviano un segnale al neurone sotto forma di un’on-data di Ca++. Questa ondata di Ca++ è pe-raltro breve, dura non più di un secondo, mentre il glutammato è legato ai recet-tori NMDA. Il Ca++ è un componente cru-ciale poiché segnala al neurone anche l’istante in cui i recettori NMDA sono stati attivati.Una volta entrato nel neurone, il Ca++ si lega a proteine situate molto vicine alle sinapsi nelle quali i recettori NMDA sono stati attivati. Molte di queste proteine sono fisicamente connesse con i recetto-ri NMDA con cui costituiscono una mac-china molecolare. Alcune sono enzimi che sono attivati dal Ca++ e questo causa la modificazione chimica di altre proteine all’interno della sinapsi o nelle sue vici-nanze. Queste modificazioni chimiche sono la prima fase della formazione della memoria.

Apparato sperimentale per registrare i minus.coli voltaggi elettrici che si trovano nelle sinapsi

I recettori AMPA: mac-chine molecolari per im-magazzinare i ricordi

Se l’attivazione dei recettori NMDA av-via la plasticità sinaptica nella connetti-vità fra i neuroni, che cosa causa la va-riazione nella forza? Si potrebbe pensa-re che venga rilasciato un ulteriore tra-smettitore chimico. Questo può accade-re, ma siamo abbastanza sicuri che vi sia una serie di meccanismi che coinvolgono i recettori AMPA sul lato post-sinaptico della sinapsi. Ci sono molti modi in cui questo può accadere. Un modo potrebbe consistere nel far funzionare i recettori AMPA in maniera più efficiente, ad esempio facendo passare più corrente nel neurone a seguito dell’attivazione. Un secondo modo potrebbe essere quello di consentire che un maggior numero di re-cettori AMPA siano inseriti nelle sinapsi. In entrambe i casi si ottiene un epsp più grande: è il fenomeno della LTP. La va-riazione opposta, una riduzione di effi-cienza o del numero di recettori AMPA, può causare una LTD. La bellezza di que-sto meccanismo per causare LTP e LTD sta nella sua semplice eleganza: può av-venire in una singola spina dendritica e in tal modo alterare la forza sinaptica in maniera altamente localizzata. La memo-ria potrebbe essere organizzata in que-sto modo: un argomento sul quale ritor-neremo nel capitolo successivo.

Esercitare il cervello

Le variazioni nel funzionamento dei re-cettori AMPA non sono tutta la storia. Quando le memorie diventano più perma-nenti, avvengono dei cambiamenti strut-turali. Le sinapsi contenenti un maggior

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numero di recettori AMPA in seguito al-l’induzione di LTP cambiano forma o pos-sono aumentare di dimensioni, oppure nuove sinapsi possono comparire da un dendrite cosicché il lavoro di una sinapsi possa ora essere svolto da due. All’oppo-sto, le sinapsi che hanno perso recettori AMPA in seguito all’induzione di LTD possono rimpicciolirsi e morire. La mate-ria di cui il nostro cervello è composto si modifica in risposta all’attività cerebra-le. Ai cervelli piace esercitarsi: esercizi mentali, naturalmente! Come i nostri mu-scoli si fortificano quando facciamo esercizio fisico, così ora sembra che le nostre connessioni sinaptiche diventano più numerose e meglio organizzate quan-do le usiamo molto.

La mente sulla memoria

La possibilità di apprendere bene è grandemente influenzata dal nostro sta-to emozionale – tendiamo a ricordare eventi associati ad esperienze partico-larmente allegre, tristi o dolorose. Inol-tre, impariamo meglio quando stiamo at-tenti! Questi stati della mente coinvol-gono il rilascio di neuromodulatori, come l’acetilcolina (durante l’attenzione più elevata), dopamina, noradrenalina ed or-moni steroidei come il cortisolo (durante eventi inattesi, stress e ansia). I modu-latori agiscono sui neuroni in diversi modi, molti dei quali riguardano modifi-cazioni del funzionamento dei recettori NMDA. Altre azioni coinvolgono l’attiva-zione di speciali geni associati specifi-camente all’apprendimento. Le proteine che vengono così prodotte aiutano a sta-bilizzare il fenomeno LTP ed a farlo du-

rare più a lungo.

Il medico interno

La plasticità sinaptica ha un’ulteriore funzione importante nel nostro cervello: può aiutarlo a guarire da un danno. Ad esempio, se i neuroni che controllano particolari movimenti vengono distrutti, come capita in caso di infarto o di un grave colpo alla testa, non tutto è neces-sariamente perso. Nella maggior parte dei casi, i neuroni stessi non ricrescono. Accade invece che altri neuroni si adat-tano ed a volte assumono funzioni simili a quelle dei neuroni persi, formando un’al-tra rete simile alla precedente. Questo è un processo di ri-apprendimento e mette in luce determinate capacità riabilitative

del cervello.

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Jeffery Watkins, un chimico medico che ha dato uno straordinario impulso allo studio della trasmissione sinaptica eccitatoria nel cervello sviluppando molecole come la AP5 (sotto) che agiscono su specifici recettori per il glutammato.

11 - Apprendimen-to e Memoria

I ricordi sono al centro della nostra individualità. Quello che ciascuno di noi ricorda è diverso dai ricordi di chiunque altro, anche nel caso di esperienze in comune. Comunque, cia-scuno a modo proprio, tutti noi ricor-diamo eventi, fatti, sentimenti, emo-zioni e capacità - alcune per breve tempo, altre per tutta la vita. Il cer-vello ha molti sistemi per la memoria con diverse caratteristiche e mediati da reti neuronali differenti. Si ritiene ora ampiamente che la formazione di nuovi ricordi dipenda dalla plasticità neuronale, come descritto nel capitolo precedente, ma siamo ancora poco certi dei meccanismi neurali di richia-mo delle informazioni. Anche se tutti noi ci lamentiamo sempre della nostra memoria, nella maggior parte dei casi essa è abbastanza buona, tendendo a diminuire solo con l’avanzare degli anni o in caso di certe malattie neurologi-che. Potrebbe essere una buona cosa tentare di migliorare la memoria, ma facendo così si potrebbe avere l’incon-veniente di ricordare anche cose che forse sarebbe meglio dimenticare.

L’organizzazione della memoria

Non esiste una sola area del cervello in cui tutte le informazioni che apprendia-mo non passino per essere immagazzina-te. La memoria a breve termine (o me-moria di lavoro, working memory) man-tiene le informazioni nella mente per un breve tempo in uno stato attivo di co-scienza. Il magazzino più grande di in-formazioni, che le immagazzina passiva-mente, è detto memoria a lungo termi-ne.

La memoria a breve ter-mine

Come una lavagna sulla quale scrivere nomi e numeri di telefono che ci servono solo per poco tempo, il cervello ha un si-stema che contiene ed utilizza una picco-la quantità di informazioni molto accura-tamente. Utilizziamo questo sistema per ricordare una conversazione sufficien-temente a lungo da comprenderne il sen-so, per fare le operazioni aritmetiche a mente, e per ricordare dove e quando abbiamo messo le chiavi appena un istan-te fa. Il punto centrale del sistema è la sua affidabilità – una caratteristica che si paga con una limitata capacità di con-tenimento e persistenza. Si dice spesso che si possono ricordare 7 ± 2 oggetti nella memoria a breve termine; questo è il motivo per il quale la maggior parte dei numeri di telefono ha 7 o 8 cifre, ma ri-

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cordarli accuratamente è essenziale. Si può dimostrare la limitata capacità e persistenza della memoria a breve ter-mine con un piccolo esperimento che si può fare con gli amici (vedi casella).

Un sistema esecutivo centrale controlla il flusso di informazioni, aiutato da due ulteriori magazzini per la memoria. Uno di essi è un magazzino fonologico, che opera un ciclo silenzioso di prova – la piccola parte del cervello che si usa per dire le cose a se stessi. Anche leggendo parole o numeri, ciò che viene visto è un’informazione che sarà trascritta in un codice fonologico e immagazzinata per un breve periodo in questo sistema a due compartimenti. Esiste anche una lavagna per il sistema visivo, che può contenere le immagini degli oggetti per il tempo ne-cessario affinché i nostri occhi interiori possano manipolarlo.

Un esperimento sulla memoria a breve termine

Un test molto semplice sulla memoria a bre-ve termine, o memoria di lavoro, è noto come “letter spam”. Servono almeno due persone, anche se funziona meglio con l’intera classe.Senza che gli altri vedano, uno scrive una serie di lettere, cominciando da 2, facendo attenzione che non compongano una parola. La stessa persona scriverà poi altre serie di lettere, ogni volta con una lettera in più (ad esempio, una serie di cinque lettere potreb-be essere QVHKZ e una di dieci potrebbe essere DWCUKQBPSZ). L’esperimento inizia quando tutte le serie sono preparate. L’altra persona (o la classe) ascolta, una alla volta, le serie di lettere e, dopo 5 secondi, prova scrivere le lettere nell’ordine corretto, ri-chiamandole dalla memoria. Cominciando dal-la facile serie di due lettere, il test della memoria va avanti con serie sempre più lun-ghe. Molte persone possono eseguirlo cor-rettamente fino a 7 o 8 lettere, poi gli erro-ri aumentano sempre di più. La capacità della memoria a breve termine è stata descritta come “il magico numero 7 più o meno 2”.

La memoria a breve termine è localizzata principalmente nei lobi frontale e pa-rietale. Gli studi di brain-imaging (vedi più avanti) usando la PET e la fMRI indi-cano che le aree uditive della memoria a breve termine sono generalmente latera-lizzate nei lobi frontale e parietale sini-stri, dove interagiscono con le reti neu-ronali coinvolte nella parola, nella pianifi-cazione e nella presa di decisioni. Queste sono attività per le quali una buona me-

moria a breve termine è essenziale. La lavagna per il sistema visivo è invece la-teralizzata nell’emisfero destro (vedi la Casella al termine di questo capitolo).

Come si è evoluta la memoria a breve termine? Gli animali, persino la maggior parte dei mammiferi, probabilmente non hanno lo stesso tipo di sistema per la memoria a brave termine che hanno gli esseri umani, e certamente questa non si è evoluta per consentire ai primi ominidi di ricordare i numeri di telefono! Gli studi su bambini molto piccoli individuano un ruolo fondamentale per la memoria a

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Il sistema della memoria di lavoro, a breve termine, del cervello

breve termine nell’apprendimento del linguaggio, suggerendo che questo siste-ma possa essersi evoluto con la capacità di parlare. La precisione richiesta per ricordare le parole pronunciate e il loro ordine in una frase è un fattore critico per ottenere un significato corretto in modo accurato.

La memoria a lungo ter-mine

Anche la memoria a lungo termine è sud-divisa in differenti sistemi localizzati in reti che si estendono ampiamente nel

cervello. Le differenti reti eseguono o-perazioni molto diverse. Sommariamente, possiamo dire che l’informazione entra attraverso il sistema sensoriale e prose-gue attraverso percorsi sempre più spe-cializzati per elaborarla. Ad esempio, l’informazione proveniente dal sistema visivo attraversa la cosiddetta “via ven-trale” dalla corteccia striata al lobo temporale mediale attraverso una casca-ta di interconnessioni responsabili del riconoscimento della forma,dedl colore,

La cascata di aree cerebrali attraverso le quali le informazioni visive sono prima elabo-rate percettivamente e poi per la memoria

dell’identità dell’oggetto e se esso sia o meno familiare, fino a quando viene for-mato un qualche tipo di memoria di quel particolare oggetto e di dove e quando è stato visto.

Ci sono molti modi di pensare a que-st’analisi a cascata. Anzitutto, nella cor-teccia si trovano aree che estraggono una rappresentazione percettiva di quello che stiamo guardando. Questa è usata per immagazzinare e successiva-mente riconoscere gli oggetti che ci cir-condano. La nostra capacità di rico-

noscere personaggi familiari nelle vi-gnette satiriche dei giornali, come i per-sonaggi politici, è conseguenza di questo sistema. Un sistema strettamente cor-relato a questo è quello della cosiddetta

Ciò che conosciamo degli animali è organiz-zato in una struttura ad albero. Non sap-piamo, ancora, come la rete di neuroni del cervello lo faccia.

Gli schimpanzè hanno imparato a racco-gliere le termiti usando un ramoscello. I giovani scimpanzè imparano guardando i genitori.

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memoria semantica – il grande super-mercato della conoscenza di tutti gli eventi che abbiamo accumulato riguardo al mondo. Sappiamo che Parigi è la capi-tale della Francia, che il DNA contiene il codice genetico sotto forma di una se-quenza di coppie di elementi di base, e così via. La particolarità di questo siste-ma è che i fatti sono organizzati in cate-gorie. Ciò è vitale per poter ricordare, poiché il processo di ricerca può andare avanti e indietro lungo diagrammi ad al-bero che percorrono questo supermerca-to per trovare le cose in modo efficien-te. Se la memoria semantica fosse orga-nizzata come molte persone immagazzi-nano le cose nella soffitta di casa – piut-tosto casualmente -, avremmo enormi problemi nel ricordare qualunque cosa. Fortunatamente, il cervello separa in ca-tegorie le informazioni che elaboriamo, sebbene sia utile avere anche un inse-gnante abile per imparare le cose com-plesse che si insegnano a scuola. In veri-tà, i bravi insegnanti riescono a costruire queste strutture nei loro studenti senza sforzi.

Tutti noi impariamo inoltre delle abilità per le cose ed acquisiamo sentimenti emotivi. Sapere che un pianoforte è un pianoforte è una cosa, saper suonare è un’altra. Sapere andare in bicicletta è utile, ma sapere che certe situazioni sul-la strada possono esser pericolose non lo è di meno. Le abilità si acquisiscono at-traverso una pratica prolungata e volon-taria, mentre l’apprendimento emotivo tende ad essere più rapido. Spesso è ne-cessario che sia rapida, ad esempio per imparare le cose dalle quali stare in guardia. Questi due modi di apprendere sono detti condizionamenti. Sono coin-volte aree specializzate del cervello: i gangli della base ed il cervelletto sono molto importanti per l’apprendimento

delle abilità, mentre l’amigdala è coinvol-ta nell’apprendimento emotivo. Molti animali apprendono proprie abilità – ciò è molto utile alla loro sopravvivenza.

Gli errori della memoria e la localizzazione della memoria episodica nel cervello

L’ultimo tipo di sistema di memoria nel cervello è detto memoria episodica. È il sistema nel quale si mantiene il ricordo delle esperienze personali. Ricordare gli eventi è diverso dall’imparare i fatti del mondo in un senso molto importante: gli

eventi accadono una volta sola. Se avete dimenticato quello che avete mangiato a colazione oggi (forse no) o quello che è successo il Natale scorso (forse sì) o tutto quello che vi è successo il primo giorno di scuola (probabilmente sì), non potete ripetere nessuno di questi eventi come se fosse la ripetizione di una lezio-ne in classe. Questo sistema apprende

I pazienti amnesici (A) possono anche ve-derci molto bene e copiare accuratamente disegni complessi come questo, ma non possono ricordarli a lungo come i soggetti normali (NC)

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velocemente perché è necessario che lo faccia.

Si è capito molto di come funziona la memoria episodica studiando i pazienti neurologici che, in seguito ad infarto ce-rebrale, tumore cerebrale, infezioni vi-rali come encefalite da herpes, a volte hanno carenze specifiche in questo tipo di memoria. Lo studio attento di questi pazienti e` stato il modo più utilizzato per ricavare l’organizzazione anatomica di questo ed altri sistemi della memoria.

Le persone affette da una condizione nota come amnesia non riescono a ricor-dare di aver incontrato altre persone appena mezz’ora prima. Non possono ri-cordare se hanno mangiato di recente o se lo hanno solo desiderato, o persino le semplici necessità della vita quotidiana come il posto in cui hanno appoggiato re-centemente qualcosa in casa propria. Fa-cendo vedere loro un disegno complicato – come quello nella casella – sono in grado di ricopiarlo accuratamente ma non rie-scono a riprodurlo bene come altre per-sone se devono disegnarlo a memoria ap-pena 30 minuti dopo. Spesso non riesco-no a ricordare le cose avvenute prima che si ammalassero. Questa è chiamata

Per la memoria episodica sono molto im-portanti due strutture: la corteccia peri-rinale (PRH) che media il senso della fami-liarità verso il passato e l’ippocampo (HIP-PO) che codifica i fatti e i luoghi

amnesia retrograda.

Queste persone mancano delle strutture di tempo e posizione, e la loro vita è sta-ta descritta da un paziente amnesico a lungo studiato come una condizione di continuo “risveglio da un sogno”. Questa stessa persona mantiene comunque le proprietà linguistiche, il significato delle parole, ed una memoria a breve termine sufficientemente estesa da sostenere una conversazione sensata. Il devastante isolamento della sua vita non viene svela-to fino a quando qualcuno non ripete esattamente la stessa conversazione con lui qualche minuto dopo.

Incredibilmente, i pazienti amnesici pos-sono imparare alcune cose che non rie-scono ricordare consciamente! Ad essi si possono insegnare abilità motorie o a leggere al contrario molto velocemente.

Imparare a leggere al contrario veloce-mente richiede un po’ di tempo. Questo è vero per gli amnesici tanto quanto per noi ma, mentre noi ricorderemmo di ave-re imparato questa facoltà, loro non lo ricorderebbero. Questo rappresenta un’affascinante dissociazione nella loro attenzione cosciente. Gli amnesici sono certamente consci mentre stanno impa-rando, ma poi non si rendono conto di aver imparato. Non riescono a recupera-re questa coscienza dal passato. Il danno che causa questa condizione debilitante può avvenire in un certo numero di cir-cuiti cerebrali. Le aree del diencefalo chiamate corpi mammillari (nell’ipotala-mo) ed il talamo sembrano essere criti-che per la memoria normale, così come una struttura nel lobo temporale mediale detta ippocampo. I danni in queste re-gioni sembrano influire particolarmente

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sulla formazione della memoria episodica e di quella semantica.

Altri sistemi di memoria

Danneggiamenti in altre aree del cervello hanno ripercussioni su altri sistemi della memoria. Le condizioni degenerative, come certi tipi di demenza semantica (una forma di Malattia di Alzheimer), possono provocare curiosi malfunziona-menti della memoria semantica. Inizial-mente, i pazienti saranno abbastanza abili nel dire se i disegni che vengono mostrati in un esperimento rappresenti-no un gatto, un cane, un’automobile o un treno. Con l’avanzare della malattia, po-trebbero esitare nel chiamare topo il di-segno di un topo, dicendo invece che si tratta di un cane. Ciò conferma che le informazioni sui fatti sono organizzate per categorie, in cui le informazioni sulle entità animate sono immagazzinate as-sieme in un posto ben lontano dalle in-formazioni sulle entità inanimate.

La neurobiologia della memoria

Studiare a fondo i pazienti neurologici ci aiuta a scoprire dove siano situate le funzioni nel cervello, ma scoprire come esse funzionino in termini di neuroni e trasmettitori chimici richiede ricerche condotte attentamente usando animali di laboratorio.

I neuroscienziati ritengono ora che molti meccanismi di regolazione fine delle con-nessioni neuronali durante lo sviluppo ce-rebrale siano usati anche durante le fasi iniziali dell’apprendimento. L’attacca-

mento che si sviluppa fra un neonato e la madre è stato studiato nei pulcini in un processo detto imprinting. Oggi sappia-mo dove questo processo di apprendi-mento inizia nel cervello dei pulcini e co-nosciamo i trasmettitori chimici che vengono rilasciati per agire sui recettori coinvolti nell’immagazzinamento di un qualche tipo di “immagine” della madre. Questa immagine è abbastanza precisa, cosicché il pulcino seguirà la propria ma-dre e non quella di un altro. Gli animali giovani hanno inoltre bisogno di scoprire quali cibi siano commestibili, assaggiando un piccola quantità di cibo alla volta e scoprendo quali hanno un cattivo sapore. Questo non può essere lasciato solamen-te ad una qualche forma di generica pre-disposizione: i meccanismi di apprendi-mento modulati dallo sviluppo si mettono al lavoro. A valle dei recettori attivati durante l’imprinting o l’assaggio del cibo, una cascata di secondi messaggeri chimi-

Sezione di ippocampo colorata con il metodo di Golgi. Sono evidenti, in nero, vari tipi di neuroni

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ci trasmettono il segnale al nucleo delle cellule cerebrali dove vengono attivati dei geni per la produzione di speciali proteine che possono letteralmente fis-sare la memoria.

Le place cells (cellule di posizione) sono un’altra importante scoperta. Si tratta di neuroni dell’ippocampo che producono potenziali d’azione solo quando un anima-le sta esplorando un luogo a lui familiare.

Cellule diverse codificano diverse parti dell’ambiente circostante, cosicché una popolazione di cellule riesce a mappare un’intera area. Altre cellule in una zona attigua del cervello elaborano la direzio-ne in cui l’animale si sta muovendo. L’uso combinato di queste due aree – la mappa dello spazio ed il senso della direzione – aiutano l’animale ad imparare a trovare la sua strada in giro per il mondo. Questo è chiaramente molto importante per gli animali, per trovare cibo ed acqua e tor-nare poi alla loro tana, nido, o qualunque dimora sia utile alla loro sopravvivenza. Questo sistema di apprendimento della

Registrazioni da quattro elettrodi nell’ippo-campo. Due di esse (wire 1 e 2, occasional-mente anche 4) mostrano impulsi nervosi che rappresentano la scarica di neuroni quando l’animale si trova in un punto partico-lare (spot rosso nel cerchio grande). Espan-dendo la scal scala del tmpo (cerchio rosso) si vede bene la forma del potenziale d’azione del cervello.

navigazione è in relazione sia con il si-stema della memoria semantica sia con quello della memoria episodica. Gli anima-li si fanno una rappresentazione stabile di dove sono le cose nel loro territorio – come gli umani acquisiscono una cono-scenza dei fatti nel loro mondo. Questa mappa dello spazio fornisce uno schema di memoria nel quale ricordare gli eventi – ad esempio, ricordare dov’è stato visto per l’ultima volta un predatore. Le place cell potrebbero elaborare forse qualcosa di più della posizione – potrebbero aiuta-re gli animali a ricordare dove un evento è accaduto.Come si formano queste mappe e gli altri elementi della memoria? Un punto di vi-sta emergente ipotizza il coinvolgimento della plasticità sinaptica basata sui re-cettori NMDA. Nel capitolo precedente si è visto come l’attivazione della plasti-cità neuronale cambia la forza delle con-nessioni in una rete di neuroni e che que-sto è il modo in cui vengono immagazzi-nate le informazioni. La funzione di ap-prendimento delle mappe spaziali è inibi-ta quando un farmaco che blocca i re-cettori NMDA giunge all’ippocampo.

Ad esempio, topi e ratti possono essere allenati a nuotare in una vasca piena d’acqua alla ricerca di una piattaforma sommersa sulla quale trovare riposo. Essi usano le place cells e le cellule che indi-cano la direzione della testa per riuscire a trovarla, e fissano nella memoria l’esatta posizione della piattaforma usando la plasticità avviata dai recettori

Il ratto ha nuotato nella piscina fino alla piattaforma sommersa su cui si è messo

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NMDA. In questo esperimento sono stati utilizzati anche animali a cui è stata sop-pressa geneticamente la presenza dei recettori NMDA nell’ippocampo. Questi animali apprendono con difficoltà ed hanno anche place cells poco precise.Nel precedente capitolo, è stato spiega-to che le variazioni nell’influenza delle sinapsi sono espresse attraverso altera-zioni dei recettori eccitatori AMPA. An-cora non si sa se questo sia vero anche per la memoria – è un argomento molto attuale e di intensa ricerca.

Possiamo migliorare la memoria?

Tutti noi crediamo che sarebbe una bella cosa poter migliorare la capacità o la persistenza della nostra memoria. Le persone anziane spesso si lamentano del-la loro memoria. Comunque, migliorare la memoria richiederebbe certamente un prezzo da pagare. Questo perché una buona memoria è in realtà frutto di un equilibrio fra il ricordare ed il dimenti-care. Se volessimo migliorarla, avremmo poi difficoltà a dimenticare tutte le cose banali che ci sono accadute durante il giorno e che non ci serve ricordare. La regola dello “yin e yang” di una buona memoria consiste nel ricordare ed orga-nizzare nel cervello le cose che servono, ma nel dimenticare le cose che si riten-gono poco importanti. Non sembra che si avrà mai una qualche pillola che magica-mente possa aumentare la memoria, al-meno nelle persone normali. L’evoluzione si è assicurata di fornirci un sistema ot-timamente bilanciato.

Detto questo, le forme di dimenticanza grave possono essere alleviate mediante farmaci che migliorano il lavoro dei re-

cettori NMDA e AMPA, o farmaci che stimolano la cascata dei segnali dai se-condi messaggeri chimici che sono stati identificati negli studi sull’apprendimen-to di giovani animali. Sarebbe utile anche trovare qualche modo di bloccare sul na-scere malattie neurodegenerative che colpiscono la memoria come il Morbo di Alzheimer. Una delle avventure più inte-ressanti nelle neuroscienze di oggi, per gli scienziati nelle università, negli isti-tuti di ricerca e nelle compagnie farma-ceutiche, è lavorare su progetti di que-

sto tipo. Con una popolazione demografi-ca di praticamente tutte le nazioni svi-luppate che tende fortemente ad una

Frontiere della ricerca

In un guidatore di taxi che sta immagi-nando un percorso si verifica un aumento di attività cerebrale dentro e vicino l’ip-pocampo.

I tassisti di Londra devono conoscere la cit-tà molto bene prima che venga loro permes-so di lavorare. Quando ricercatori hanno fatto entrare un guidatore di taxi in una macchina per la risonanza magnetica funzio-nale e gli hanno chiesto di immaginare il per-corso da Marble Arc a Elefant e Castle, hanno osservato un aumento di attività nella corteccia para-ippocampale (aree in rosso). L’analisi strutturale del cervello dei tassisti ha mostrato cambiamenti nelle dimensioni relative di alcune parti dell’ippocampo, pos-sibilmente collegabili a quanta parte della città essi sono in grado di ricordare, anche se l’osservazione potrebbe essere altret-tanto dovuta ad altre cause.

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grande preponderanza di persone anzia-ne, le cure che potrebbero aiutarle a condurre una vita indipendente più a lun-go verrebbero molto apprezzate.

Nel contempo, alcuni scienziati ritengono che una progettazione cognitiva sarebbe utile accanto alla cura farmacologia. Non si sente molto parlare di progettazione cognitiva nei giornali tanto quanto dei nuovi farmaci, ma non è meno importan-te. L’idea è di trarre frutti da quanto si è appreso su come le informazioni siano codificate, immagazzinate, consolidate (il processo di “fissaggio”) e poi recupe-rate. Alcuni esempi su come aiutare il processo di “fissaggio” sono: fare atten-zione, incrementare le sessioni di ap-prendimento, fare frequenti richiami alla memoria . Alcuni pazienti anziani con problemi di memoria stanno usando un sistema di agenda quotidiana noto come “NeuroPage” e lo trovano piuttosto utile. Il sistema ricorda loro la prossima cosa che devono fare e questo consente di strutturare la loro giornata in un modo che altrimenti rischierebbero di dimen-ticare. Un altro fattore importante è il saper riconoscere i differenti principi operativi della memoria episodica e della memoria legata all’abilità: non si impara mai a fare qualcosa sentendone soltanto parlare, anche se questo agisce sulla memoria episodica. Chiunque voglia impa-rare a fare qualcosa deve fare spesso pratica, come gli studenti di ogni corso di musica si sentono ripetere in conti-nuazione.

Alan Baddeley ha sviluppato l’idea della memoria di lavoro, che consiste in un certo numero di si-stemi diversi che in-teragiscono fra loro.

Il magazzino fonologico, la mappa visuo-spaziale e le regioni decisionali sono situa-ti in parti diverse del cervello

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12 - Lo Stress

Lo stress colpisce anche le vite appa-rentemente più tranquille. Tutti lo proviamo – durante un esame, in una gara sportiva, o quando litighiamo con un amico o un avversario. Perché si ha questa spiacevole sensazione e cosa la provoca? Serve a qualcosa? Cosa suc-cede se le cose vanno male? I neuro-scienziati stanno iniziando a compren-dere come il cervello genera e coordi-na le risposte chimiche allo stress.

Cos’è lo stress e perché ne abbiamo bisogno?

Lo stress è qualcosa di difficile da tene-re a bada. Non è solo l’essere sotto pressione – perché non sempre questo è un fatto stressante – ma una sorta di in-comprensione fra ciò che il corpo ed il cervello si aspettano e le sfide che in quel momento stiamo affrontando o sen-tendo intimamente. Molte delle avversità che affrontiamo sono psicologiche – ri-flettono le difficoltà di interazione con gli altri quando ci diamo da fare negli studi, competiamo per entrare in una squadra sportiva o, più avanti nella vita, per un lavoro. Altre forme di stress sono fisiche, come una malattia acuta o una gamba rotta in un incidente stradale. La maggior parte delle cause di stress è mi-sta: il dolore ed altre afflizioni fisiche di una malattia sono associati a preoccupa-zione e tensione.

Lo stress è un processo fondamentale. Esso colpisce ogni organismo, dal più semplice batterio e protozoo ai più com-

plessi eucarioti come i mammiferi. Negli organismi unicellulari e nelle singole cel-lule del nostro corpo, si sono sviluppate molecole che forniscono una serie di si-stemi di emergenza che proteggono fun-zioni chiave della cellula da eventi inat-tesi dall’esterno e da ripercussioni sul-l’interno. Ad esempio, delle speciali mo-lecole dette heat-shock proteins guida-no le proteine danneggiate in un luogo in cui possono essere riparate o distrutte senza sofferenze, proteggendo così la cellula da tossine o disfunzioni. In orga-nismi complessi come noi siamo, i sistemi dello stress si sono evoluti come proces-si altamente sofisticati che aiutano a fronteggiare le sfide che possono pre-sentarsi fuori dall’ordinario. Essi usano i meccanismi di protezione cellulare come muri di cinta in una più larga rete di pro-tezione dallo stress.

Stress e cervello

Quando lo stress viene percepito, la ri-sposta viene coordinata dal cervello. La nostra valutazione cognitiva della situa-zione nel cervello interagisce con i se-gnali corporei dello stress nel flusso sanguigno come ormoni, nutrienti e mole-cole infiammatorie, e con informazioni dai nervi periferici che tengono d’occhio gli organi vitali e le sensazioni. Il cervel-lo integra tutto ciò e produce una serie di risposte specifiche e misurate. La no-stra comprensione di come questo av-venga ci viene dallo studio dell’endocri-nologia. Gli ormoni che circolano nel san-

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gue sono controllati dal cervello per con-sentire al corpo di fronteggiare lo stress.

Combattere o fuggire?

La più semplice reazione da individuare è l’immediata attivazione di quello che è chiamato – teneramente – il sistema nervoso simpatico. Dopo essere stato sottoposto ad una situazione stressante ed aver formulato una risposta adeguata, il cervello attiva velocemente i nervi che partono dai centri di controllo nel tronco cerebrale. Questo causa il rilascio di no-radrenalina in un gran numero di struttu-re e di adrenalina dalle ghiandole surre-nali (situate immediatamente sopra il re-ne). Il loro rilascio sostiene la risposta combatti o fuggi, la classica ed imme-diata reazione che bisogna avere in ri-sposta ad un pericolo. Tutti noi ci ren-diamo conto dell’iniziale sensazione di formicolio, sudorazione, aumento del-l’attenzione, pulsazioni rapide, aumen-to della pressione sanguigna e un gene-rale senso di paura che percepiamo nei momenti immediatamente successivi ad una situazione stressante. Questi cam-biamenti avvengono a causa di recettori per la adrenalina e la noradrenalina che si trovano nella muscolatura liscia dei va-sie ne causano la costrizione, cosicché la pressione sanguigna aumenta e il cuore accelera, e producendo la sensazione di battito amplificato noto come palpita-zioni.

Ci sono anche recettori nella pelle che causano il raddrizzamento dei peli (pelle d’oca) e nell’intestino a causare quelle fastidiose sensazioni addominali che identifichiamo come stress. Questi cam-biamenti servono a prepararci a combat-tere o a darcela a gambe levate, ed a

concentrare il flusso sanguigno negli or-gani vitali: i muscoli e il cervello.

L’asse ipotalamo-ipofi-si-surrene

La seconda più intensa risposta neuroen-docrina allo stress è l’attivazione di un circuito che connette assieme l’ipotala-mo, l’ipofisi, la corteccia surrenale e l’ippocampo attraverso un percorso del circolo sanguigno che trasporta ormoni specializzati.

L’ipotalamo è l’area chiave del cervello per la regolazione di molti dei nostri or-moni. Riceve fibre dalle aree del cervello che elaborano le informazioni emotive, inclusa l’amigdala, e dalle regioni del tronco cerebrale che controllano le ri-sposte nervose del simpatico. Esso inte-gra tutto ciò per produrre un’emissione coordinata di ormoni che stimola la parte successiva del circuito – l’ipofisi (o

L’asse ipotalamo-ipofisi-surrene. L’ipotala-mo, al centro, controlla la liberazione di or-moni da parte dell’ipofisi (ghiandola pituita-ria) che, a sua volta, agisce sulla ghiandola surrenale (adrenalica). La liberazione degli ormoni determina un feedback (controllo a tergo) negativo a vari livelli dell’asse.

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ghiandola pituitaria). In risposta, questa rilascia un ormone chiamato adrenocor-ticotropina (ACTH) nel sangue. L’ACTH stimola poi una parte della ghiandola sur-renale per la secrezione del cortisolo.

Il cortisolo è un ormone steroideo che è la chiave per comprendere il passo suc-cessivo della risposta allo stress. Esso innalza il livello degli zuccheri nel sangue ed altri carburanti metabolici come gli acidi grassi. Questo spesso succede alle spese di proteine che vengono scisse in carburanti richiesti immediatamente – una sorta di “barrette di cioccolato” istantanee per i muscoli ed il cervello. Il cortisolo inoltre aiuta l’adrenalina ad elevare la pressione sanguigna e, nel breve termine, fa sentire bene. Nella si-tuazione di dover cantare da soli su un palco ad un concerto scolastico, l’ultima cosa che vorreste fare e` rimuginare idee preoccupanti. Volete solo fare del vostro meglio con quel minimo di autoco-scienza che vi rimane.

Il cortisolo blocca inoltre la digestione, le infiammazioni, e guarisce persino le ferite – chiaramente cose che possono essere fatte in seguito. Inibisce anche l’attività sessuale. L’ultimo passo del cir-cuito è l’azione del cortisolo sul cervel-lo. La più alta densità di recettori per il cortisolo è nell’ippocampo, una struttura fondamentale per l’apprendimento e la memoria, ma il cortisolo agisce anche sull’amigdala, che elabora la paura e l’an-sia. L’effetto pratico è di attivare l’amigdala, per consentire l’apprendimen-to delle informazioni riferibili alla paura, e di disattivare l’ippocampo, per assicu-rare che le risorse non vengano sprecate

LO STRESS È INEVITABILE, TUTTI POSSIAMO SPERIMENTARLO TALVOL-TA. PUÒ ESSERE PSICOLOGICO, FISI-CO, O (QUASI SEMPRE) DEI DUE TIPI

in un numero maggiore di aspetti com-plessi ma non necessari dell’apprendi-mento. Il cortisolo è l’ingrediente per concentrarsi.

La favola dei due recet-tori per il cortisolo e l’ip-pocampo sfuggente

L’ippocampo ha alti livelli di due recetto-ri per il cortisolo – li chiameremo recet-tori basso MR e alto GR. Il recettore basso MR è attivato ai livelli della nor-male circolazione del cortisolo nel circolo sanguigno dell’asse ipotalamo-ipofisi- surrene e mantiene regolare il funziona-mento del nostro metabolismo generale e dell’attività cerebrale. Tuttavia, se il li-vello del cortisolo cresce, specialmente al mattino, il recettore dell’alto GR di-venta progressivamente più occupato.

Quando ci stressiamo, i livelli di cortiso-lo diventano veramente molto alti, l’atti-vità di questi recettori è molto sostenu-ta e l’ippocampo viene infine spento da un programma controllato geneticamen-te. Mettete assieme tutto questo ed ot-terrete quella che si chiama curva a campana. Questa è la classica curva che descrive lo stress in relazione alla fun-zione cerebrale – un po’ va bene, un po’ di più va anche meglio, ma il troppo è trop-po!

La depressione e l’iperat-tività del sistema dello stress

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Un eccesso di cortisolo nel sangue si os-serva in alcune malattie croniche del

cervello. In particolare, nella depressio-ne grave il cortisolo viene prodotto in eccesso ed un recente studio suggerisce che l’ippocampo si ritira anche in questa condizione. Queste scoperte hanno por-tato gli psichiatri a pensare alla depres-sione grave come ad una forma di stress a lungo periodo. Non è del tutto certo che l’aumento di cortisolo sia la causa principale di questa grave malattia o se possa essere solo una conseguenza di una insostenibile condizione psicologica e dello stress ad essa associato. Comun-que, i pazienti possono essere notevol-mente aiutati bloccando la produzione o l’azione del cortisolo, specialmente colo-ro per i quali i normali trattamenti con farmaci antidepressivi non funzionano.

I farmaci antidepressivi usualmente aiu-tano a normalizzare l’iperattività dell’as-se Ipotalamo-Ipofisi-Surrene. Un’ipotesi è che riescano a farlo, in parte, perché regolano la densità dei recettori MR e GR nel cervello, specialmente nell’ippo-campo. I neuroscienziati che lavorano in questo settore sperano di poter svilup-pare cure più efficaci per le malattie da stress che funzionino riportando alla norma il sistema di controllo del feed-

La curva a campana per lo stress. Un po’ di stress (low MR) può migliorare le funzioni cognitive, ma troppo (high MR) le peggiora

back e riducano le eccessive risposte ormonali allo stress.

Stress e invecchiamento

L’invecchiamento del cervello è accompa-gnato da una generale diminuzione delle sue funzioni, ma è un declino che varia notevolmente da individuo a individuo. Alcune persone mantengono buone capa-cità cognitive con l’età (buon invecchia-mento), mentre per altre non va altret-tanto bene (cattivo invecchiamento). Possiamo dare una spiegazione molecola-re a questo? I livelli di cortisolo solo più alti nel cattivo invecchiamento e più bas-si in quello buono. Questa crescita pre-cede la perdita delle capacità mentali che sono associate alla diminuzione delle dimensioni dell’ippocampo che si può os-servare nelle scansioni cerebrali. Espe-rimenti su ratti e topi hanno mostrato che se si mantiene basso il livello del-l’ormone dello stress dalla nascita, o an-che da un’età intermedia, si previene la comparsa degli difetti sulla memoria che si osservano nei soggetti non trattati.

Sembra quindi che gli individui con una eccessiva risposta ormonale allo stress – non necessariamente quelli più stressati, ma quelli che hanno maggiore risposta agli eventi stressanti – sono quelli che hanno maggiori perdite della memoria ed altri disagi cognitivi con l’avanzare degli anni. Se questo fosse altrettanto vero negli esseri umani, potremmo essere in grado di ridurre il fardello di questi ef-fetti, ad esempio sviluppando farmaci antidepressivi che mantengano il sistema Ipotalamo-Ipofisi-Surrene dello stress sotto controllo. Lo stress è una compo-nente rilevante della vita moderna.

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In questa storia c’è ben di più, ma per descriverlo abbiamo bisogno di introdur-re il sistema immunitario.

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13 – Cervello e Sistema Immunita-rioFino a pochi anni fa, si credeva che il cervello fosse una sorta di “organo immune privilegiato” perché non veniva colpito da risposte immunitarie o in-fiammazioni. È pur vero che esso è protetto in qualche misura dagli agenti esterni grazie alla “barriera emato-encefalica”. In realtà questa non è una barriera, ma una categoria di cel-lule endoteliali specializzate che sono relativamente resistenti al passaggio di grosse molecole o cellule immunitarie che dal sangue vorrebbero passare al cervello. Comunque, questa visione di un cervello privilegiato è cambiata drasticamente negli ultimi dieci anni, grazie ai risultati degli studi sulle in-terazioni fra cervello e sistema immu-nitario. La neuroimmunologia è oggi una branca molto attiva della ricerca.

Le difese del corpo

Il sistema immunitario è la nostra prima linea di difesa contro i crudeli invasori. Questi invasori, virus, batteri e sostanze fermentanti, possono essere comuni o poco pericolosi, come per una banale febbre, o aggressivi e rischiosi per la stessa vita, come l’HIV, la meningite o la tubercolosi.

Le nostre difese agiscono in molti modi. Il primo è localizzato all’interno del tes-suto che viene infettato, colpito o in

fiammato, causando rigonfiamento, dolo-re, variazioni del flusso sanguigno ed il rilascio locale di molecole infiammatorie. Più genericamente, l’attivazione del si-stema immunitario attiva classi di cellule dette leucociti, macrofagi e proteine della fase acuta che viaggiano fino al sito sotto attacco per identificare, ucci-dere ed infine rimuovere gli agenti pato-geni invasori. Inoltre, la risposta alla fase acuta attiva quei sintomi che noi tutti abbiamo prova-to (febbri, dolori e patimenti, sonnolen-za, perdita dell’appetito o degli interes-

si). Ciascuna di queste risposte aiuta a

Molti meccanismi cerebrali collaborano per coordinare il cervello e il sistema immunita-rio.

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combattere l’infezione, risparmiare le energie ed aiutare la guarigione, ma se vengono attivate troppe volte o troppo a lungo possono essere molto dannose. Pertanto, devono essere accuratamente controllate.

Il cervello e le risposte immunitarie

La visione del cervello come organo im-munologicamente privilegiato ha lasciato il posto ad una concezione molto diffe-rente delle sue relazioni con il sistema immunitario. Questo perché ora è noto che il cervello può, e lo fa, rispondere ai segnali provenienti dal sistema immuni-tario e dai tessuti lesionati. Le vecchie credenze sono state rivoluzionate. Gli esperimenti hanno rivelato che il cervello è in grado di esibire una vasta gamma di risposte locali infiammatorie ed immuni-tarie, ed è veramente un importante controllore del sistema immunitario e della reazione durante la fase acuta. Molte reazioni alla malattia, come la febbre (amento della temperatura cor-porea), il sonno e l’appetito sono regolate principalmente dall’ipotalamo.

Il cervello riceve dai tessuti colpiti o in-fettati una serie di segnali che possono essere di origine nervosa (attraverso i nervi sensoriali) o umorale (attraverso le molecole in circolo). I segnali nervosi sembrano passare attraverso le fibre C (che comunicano anche il dolore, vedi Ca-pitolo 5), ed attraverso il nervo vago dal fegato – un luogo chiave per la produzio-ne delle proteine della fase acuta. La na-tura dei principali segnali circolatori al cervello non è completamente nota, ma si ritiene che coinvolga le prostaglandine (che vengono inibite dall’aspirina) e pro-

teine del complemento (una cascata di proteine importanti per sopprimere le cellule invasive). Ma forse il segnale più importante è dato da un gruppo di pro-teine che sono state scoperte solo negli ultimi 20 anni, note col nome di citochi-ne.

Le citochine come mole-cole difensive

Le citochine sono i vendicatori del no-stro corpo. Oggi ne conosciamo più di un centinaio, e se ne scoprono continuamen-te di nuove. Queste proteine vengono normalmente prodotte dal corpo in pic-cole quantità, ma si attivano velocemente in reazione ad un danno. Esse includono gli interferoni, le interleuchine, i fattori di necrosi tumorale e le chemochine. Molte vengono prodotte localmente al-l’interno del tessuto lesionato ed agisco-no sulle cellule circostanti, ma alcune en-trano nel flusso sanguigno da dove man-dano segnali ad organi distanti incluso il cervello. Sono le citochine a provocare la maggior parte delle risposte alla malat-tia e all’infezione.Gli elementi che attivano la produzione di citochine includono i prodotti di bat-teri o virus, il danno alle cellule o minac-ce alla sopravvivenza cellulare come le tossine o la carenza di ossigeno. Un altro importante regolatore della produzione di citochine è il cervello che, attraverso l’invio di segnali nervosi alle cellule (so-prattutto attraverso il sistema nervoso simpatico), oppure attraverso gli ormoni (come il cortisolo dalla ghiandola surre-nale) può attivarle o disattivarle.

Le citochine sono molecole proteiche multifunzione, specialmente sul sistema immunitario. Molte stimolano il sistema

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immunitario e le componenti chiave del-l’infiammazione come il rigonfiamento, la variazione del flusso sanguigno ed il rila-scio di una seconda ondata di molecole infiammatorie. Esse agiscono su quasi tutti i sistemi fisiologici, incluso il fega-to nel quale stimolano le proteine della fase acuta. Inoltre, benché abbiano mol-te funzioni in comune, svolgono anche funzioni notevolmente diverse. Alcune sono anti-infiammatorie ed inibiscono i processi pro-infiammatori; molte agisco-no localmente sulle cellule vicine al sito in cui vengono prodotte, mentre altre vengono immesse nella circolazione, come gli ormoni.

Lo Stress e il Sistema Immunitario

Tutti noi abbiamo sentito dire che lo stress può mettere in pericolo le nostre difese e può farci ammalare. Ora comin-ciamo a capire non solo come lo stress può colpire il cervello direttamente atti-vando l’asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene (descritto nel capitolo precedente), ma anche come può influire sul sistema im-munitario – e non sorprende che lo faccia anche attraverso una via indiretta, ossia lo stesso cervello. Lo stress può influen-zare il sistema immunitario e la vulnera-bilità alle malattie, ma dipende dal tipo di stress e da come reagiamo – ci sono persone che palesemente prosperano su questo fatto. Lo stress che può inibire le nostre risposte di difesa è quello al qua-le non possiamo porre rimedio, come il lavoro eccessivo o tragedie incolmabili. I meccanismi esatti responsabili del nesso fra lo stress ed il sistema immunitario non sono completamente noti, ma sap-piamo che una componente importante è data dall’attivazione dell’asse ipotala-

mo-ipofisi-surrene. Una delle principali risposte del cervello allo stress è l’au-mento della produzione di una proteina nell’ipotalamo chiamata fattore di rila-scio di corticotropine (CRF). Il CRF at-traversa la breve distanza dall’ipotalamo all’ipofisi per rilasciare un altro ormone, il fattore di rilascio di adrenocortico-tropine (ACTH). Questo ormone viaggia attraverso la circolazione verso la ghiandola surrenale per rilasciare ormoni steroidei (cortisolo negli esseri umani), che sono fra i più potenti soppressori delle funzioni immunitarie ed infiamma-torie. Ma la storia sembra essere più complessa di così perché ci sono altri elementi ormonali e nervosi, e sappiamo inoltre che alcune forme di stress lieve possono migliorare attivamente le nostre funzioni immunitarie.

La risposta immunitaria ed infiammatoria nel cer-vello

Una recente ricerca ha mostrato che molte molecole difensive come le cito-chine danno un contributo attivo alla ma-nifestazione di malattie cerebrali come la sclerosi multipla, l’ictus e la malattia di Alzheimer. Sembra che una sovrap-produzione di queste molecole all’interno del cervello stesso possa danneggiare i neuroni – specialmente alcune citochine. Nuovi protocolli di cura per le malattie cerebrali sono ora in fase di sviluppo con l’idea di inibire le molecole immunitarie ed infiammatorie. In tal modo la neu-roimmunologia, un nuovo ingresso nel campo delle neuroscienze, potrebbe for-nire alcune indicazioni e possibili cure per le più grave patologie del cervello.

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Non preoccuparti: le citochine verranno a salvarti!

14 - Il Sonno

Ogni sera andiamo nella nostra stanza, ci mettiamo a letto e scivoliamo nello stato di incoscienza del sonno. La maggior parte di noi dorme per circa 8 ore, il che significa che passiamo al-l’incirca un terzo della nostra vita in uno stato di incoscienza – in una parte del quale si sogna. Se proviamo ad evitare di dormire per usare questo tempo prezioso per altre attività, co-me tirare tardi ad una festa o passa-re la notte sui libri quando si prepara frettolosamente un esame, il nostro corpo ed il nostro cervello presto ci avvisano che non dovremmo farlo. Pos-siamo resistere per un po’, ma non troppo a lungo. Il ciclo di sonno e ve-glia è una delle tante attività ritmiche del corpo e del cervello. Perché esi-stono questi cicli? Quali parti del cer-vello sono coinvolte e come funzionano?

Un ritmo per vivere

Il ciclo sonno-veglia è un ritmo interno che gradualmente si fissa sul ciclo not-te-giorno durante il primo anno di vita. È quello che chiamiamo ritmo circadiano – ossia, circa una volta al giorno. Esso è importante per tutta la nostra vita: i neonati dormono e si svegliano continua-mente durante il giorno e la notte, i bambini spesso fanno un pisolino dopo mangiato, mentre gli adulti dormono ge-neralmente solo di notte. “Dormire fa bene” – si narra che dicesse Winston Churchill, il Primo Ministro britannico durante la seconda guerra mondiale, e

pare facesse continui riposini di una manciata di minuti, magari durante le ri-unioni ufficiali!

La normale presa d’abitudine di svegliarsi ed addormentarsi durante il ciclo giorno-notte è parzialmente controllata da un piccolo gruppo di cellule nell’ipotalamo, in una zona appena al di sopra del chiasma ottico, detta nucleo soprachia-smatico.

I neuroni di quest’area, che mostrano la particolarità inusuale di avere un gran numero di sinapsi fra i loro dendriti per sincronizzare la loro attività tutti as-sieme, sono parte dell’orologio biologico del cervello. Negli esseri umani, questo orologio fa un po’ meno di un ticchettio al giorno, ma è usualmente mantenuto in orario attraverso gli stimoli che arrivano

dagli occhi e ci dicono quando è giorno equando è notte. Sappiamo questo grazie ad esperimenti sul sonno svolti su perso-ne che hanno accettato di passare lunghi periodi in profonde caverne, lontani da ogni indicazione sul reale scorrere del tempo, e che hanno evidenziato che in

Il nucleo soprachiasmatico è l’orologio del cervello

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queste condizioni una persona adotta un ciclo libero di sonno-veglia di circa 25 ore.

Le fasi del sonno

Dormire non è esattamente il processo passivo che sembra. Se una persona vie-ne tenuta sotto controllo con degli elet-trodi sul capo in un laboratorio per il sonno – che è dotato di comodi letti -, l’elettroencefalogramma (EEG) del suo cervello passa attraverso più fasi distin-te. Quando siamo svegli, il nostro cervel-lo manifesta un’attività elettrica di bas-sa ampiezza. Quando ci addormentiamo, il tracciato EEG inizialmente si abbassa ma poi, gradualmente, mostra un aumen-to dell’ampiezza ed una diminuzione della frequenza mentre entriamo in diverse fasi del sonno. Queste fasi sono dette sonno ad onde lente (SWS). La ragione di questi cambiamenti nell’attività elet-trica non sono ancora completamente chiare. Si ritiene però che quando i neu-roni nel cervello diventano non reattivi ai normali stimoli che arrivano, si sincro-nizzino gradualmente l’uno con l’altro. Si perde il tono muscolare, poiché i neuroni che controllano il movimento muscolo-scheletrico vengono attivamente inibiti ma, per fortuna, quelli che controllano la frequenza cardiaca e respiratoria conti-nuano a funzionare normalmente!

Durante la notte, passiamo ripetutamen-te attraverso questi diversi stadi del sonno. Durante uno di essi il tracciato EEG diventa come quello dello stato di veglia ed i nostri occhi cominciano a muoversi avanti e indietro sotto le pal-pebre abbassate. Questa è la cosiddetta fase del movimento oculare rapido (REM) del sonno, e si ritiene che sia in questa fase che si sogna. Se veniamo

svegliati durante una fase REM, quasi sempre siamo in grado di raccontare i nostri sogni – anche quelli che abitual-mente dichiarano di non sognare mai: provate a fare una prova con qualche membro della vostra famiglia! Di fatto, la maggior parte di noi ha circa dalle 4 alle 6 brevi fasi REM nell’arco di una notte. I neonati hanno un maggior nume-ro di fasi REM e persino gli animali mani-festano un sonno REM.

La privazione del sonno

Alcuni anni fa, un ragazzo americano che si chiamava Randy Gardner cercò di en-trare nel Guinness dei Primati evitando di addormentarsi per il periodo più lungo mai registrato. Il suo obiettivo era di resistere 264 ore senza dormire, e vi riuscì! Fu un esperimento estremamente controllato e supervisionato da medici della Marina Militare Americana. Si sconsiglia vivamente di provarci! Sorprendentemente, riuscì a venirne fuori in buona salute. I suoi problemi più evidenti (a parte il fatto di sentirsi in-credibilmente stanco) erano la difficoltà nel parlare e l’incapacità di concentra-zione, vuoti di memoria ed allucinazioni ad occhi aperti. Ma il suo corpo rimase in eccellenti condizioni fisiche e non mo-

Il normale sonno di 8 ore di una notte consi-ste di differenti stadi, con brevi periodi di sonno REM (aree rosse) che si verificano circa 4 volte in ogni notte

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strò mai segni di psicosi o distacco dalla realtà. Quando l’esperimento finì, mo-strò qualche segno di ripercussione, dormendo per quasi quindici ore la prima notte e per brevi periodi aggiuntivi le notti seguenti. Questo e molti altri esperimenti simili hanno convinto i ricer-catori del sonno che è soprattutto il cervello a guadagnarci davvero dal dor-mire, non il corpo. Conclusioni simili sono giunte da altri studi, inclusi esperimenti altamente controllati su animali.

Perché dormiamo?

Molti fenomeni nelle neuroscienze re-stano un enigma, ed il sonno è uno di que-sti. Alcuni hanno pensato che il sonno sia soltanto un modo di restare immobile e dunque fuori pericolo: conveniente per gli animali. Ma deve esserci certamente dell’altro. Gli esperimenti di privazione del sonno portano a ritenere che il sonno REM ed alcune fasi del sonno SWS con-sentano al cervello di rimettersi a posto. Abbiamo questo tipo di sonno durante le prime 4 ore della notte. Forse è un me-todo per ripristinare le funzioni ottimali del cervello, ed il momento giusto per farlo è, in analogia con una barca che viene portata in cantiere per la manu-tenzione, quando il cervello non sta ela-borando nessuna informazione sensoria-le, non è vigile o attento, non deve con-trollare le nostre azioni. La ricerca sug-gerisce inoltre che il sonno è il periodo in cui consolidiamo quello che abbiamo im-parato il giorno prima – un processo es-senziale per la memoria.

Come funzionano i ritmi?

Un grande progresso è stato fatto nel-l’apprendimento dei meccanismi nervosi delle attività ritmiche come il sonno, grazie alla registrazione dell’attività dei neuroni in varie aree cerebrali durante la transizione fra diverse fasi del sonno stesso. Queste osservazioni hanno evi-denziato un sistema di attivazione del tronco encefalico che coinvolge vari neu-romodulatori, incluso uno chiamato ade-nosina, una sorta di reazione molecolare a catena che ci accompagna durante le varie fasi del sonno. I meccanismi di sin-cronizzazione consentono alle reti di passare da uno stato di sonno all’altro.

Un notevole passo avanti è stato fornito dalla neurogenetica. Sono stati identifi-cati vari geni che, come ruote dentate ed ingranaggi di un orologio, sono i com-ponenti molecolari del nostro metronomo ritmico. Molto di questo lavoro è stato svolto sulla Drosofila (il moscerino della frutta), in cui si è trovato che due geni – PER e TIM – producono proteine che in-teragiscono per regolare la loro stessa sintesi. La sintesi del mRNA e delle pro-teine inizia di primo mattino, le proteine si accumulano, si legano l’una con l’altra ed alla fine questo processo interrompe la loro stessa sintesi. La luce del giorno aiuta a demolire le proteine il cui livello eventualmente supera un punto in cui i geni che producono le proteine PER e TIM ricomincerebbero a lavorare. Que-

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sto si ripete in continuazione, e può pro-seguire persino se i neuroni vengono mantenuti in vita su un vetrino da labo-ratorio. L’orologio nei mammiferi come noi opera in maniera molto simile a quello del moscerino. Essendo i ritmi circadiani molto antichi in termini evoluzionistici, forse non sorprende che lo stesso tipo di molecole regolano l’orologio in organismi tanto diversi.

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Frontiere dell Ricerca

Per cercare di capire meglio i meccanismi molecolari dei cicli circadiani, i neuroscienziati hanno geneticamente ingegnerizzato dei topi in modo che i geni espressi nel nucleo soprachiasmatico fosse “knocked out”. Questi topi VIPR2 vivono bene e modificano la proprio attività di giorno e di notte proprio come i topi normali. I punyi neri nei diagrammi riportati sopra mostrno quanto i topi sono attivi: un ritmo giornaliero dove l’attività si manifesta di notte (aree grigie). Ma quan-do il momento in cui le luci vengono spente è bruscamente spostato verso le 8 (circa al 25° gior-no), i topi normali mostrano un “jet-lag”, necessitando di alcuni giorni per modificare la tempo-rizzazione della propria attività. I topi ingegnerizzati, invece, la modificano immediatamente. Studi come questi potranno aiutarci a capire meglio i meccanismi molecolari tramite i quali la luce interagisce con i geni responsabili dei cicli circadiani.

15 - Visualizzazio-ne del cervello (Brain Imaging)I frenologi erano convinti di poter ca-pire il cervello guardando i bernoccoli sulla superficie del cranio. Se questo può sembrare oggi fuorviante, la loro ambizione di capire il cervello osser-vandolo dall’esterno del cranio ha incu-riosito molte persone nel corso dei tempi. Oggi possiamo farlo davvero – grazie all’avvento delle moderne tecni-che di visualizzazione cerebrale. I to-mografi moderni usano una gran varie-tà di metodi per fornirci immagini splendide di strutture neuronali e per-corsi di fibre, flusso ematico e meta-bolismo energetico nel cervello, e delle variazioni dell’attività neuronale che avvengono quando compiamo operazioni diverse.

Il cammino verso le tec-niche moderne

Nel tentativo di mettere in relazione le strutture con le funzioni, una grande spinta è stata data dai neurologi e dagli neuropsicologi che correlano ogni stra-nezza della mente e del comportamento con misurazioni delle strutture cerebrali post-mortem.È stato così che le aree legate alla paro-la sono state identificate da Broca. Questo approccio ha dato molti successi, ma ha anche alcune limitazioni. Non si può formulare semplicemente l’ipotesi che la perdita di una funzione in seguito

ad una lesione in un’area specifica del cervello leghi indissolubilmente quella funzione a quell’area. Ad esempio, una disfunzione può essere dovuta al fatto che quell’area si ritrova isolata o discon-nessa da altre regioni con le quali nor-malmente comunica. È anche possibile che aree del cervello non danneggiate possano prendersi carico delle funzioni che in circostanze normali vengono svol-te da aree ora danneggiate; ciò è noto come plasticità. Infine, solo poche lesio-ni patologiche sono confinate in una pre-cisa area funzionale. Infine, potrebbe passare molto tempo fra lo studio di un paziente quando è in vita ed un’indagine del cervello dopo la morte.

Le tecniche di visualizzazione delle strutture cerebrali (brain imaging) co-minciarono ad essere ideate circa 30 an-ni fa. Il recente sviluppo dei metodi di visualizzazione funzionale da parte dei fisici medici ha attratto particolarmente l’attenzione. Tali metodi consentono – letteralmente – di vedere all’interno del cranio e così scrutare nel cervello umano mentre pensa, impara o sogna.

Come funziona

Le tecniche elettrofisiologiche per os-servare l’attività neuronale sono basate sulle variazioni nel potenziale di mem-brana dei neuroni attivati. Le tecniche di visualizzazione del cervello sfruttano

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l’osservazione delle variazioni nel meta-bolismo energetico richiesto per attiva-re i neuroni. I gradienti elettrochimici che spostano gli ioni carichi dentro e fuori dai neuroni (e che sono all’origine dei potenziali si-

naptici e d’azione) hanno bisogno di e-nergia per funzionare. Il glucosio e l’os-sigeno vengono rilasciati nel cervello at-traverso la circolazione cerebrale. Gra-zie alla connessione neurovascolare, (la correlazione positiva fra metabolismo e flusso ematico), si ha un aumento locale del flusso sanguigno cerebrale nelle aree attive. Questo avviene molto velocemen-te. I moderni apparati per il neuroima-ging misurano queste variazioni del flus-so sanguigno cerebrale locale e le utiliz-zano come indice dell’attività neurale.La prima tecnica funzionale ad essere sviluppata è stata la Tomografia ad Emissione di Positroni (PET). Questa procedura richiede l’iniezione, nel sog-getto, di traccianti radioattivi che sono attaccati ad un composto di interesse biologico (come un farmaco che si lega al recettore di un neurotrasmettitore). Una serie di anelli di rilevatori circonda la testa del soggetto e registra l’istante e la posizione delle emissioni gamma che

Immagine dei vasi ematici del cervello. Le variazioni del flusso ematico possono esse-re riconosciute ed utilizzate come indice di attività nervosa.

vengono prodotte dall’isotopo nucleare mentre attraversa il cervello e decade. La PET può essere utilizzata per produr-re delle mappe di variazioni locali nel flusso sanguigno cerebrale (CBF). Que-ste misurazioni hanno portato all’indivi-duazione delle funzioni cerebrali senso-riali, motorie e cognitive negli esseri

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Grazie al computer, le immagini ottenute dalle scansioni PET e MRI mostrano esatta-mente dove, nel cervello, si siano verificate variazioni di flusso ematico.

A una persona dentro lo scanner può essere mostrata una grande varietà di immagini. Tutte “accenderanno” le aree visive primarie della corteccia cerebrale: la V1 e la V2. L’utilizzo di opportune tecniche di sottra-zione ha svelato che l’analisi dei colori (a si-nistra) viene effettuata nell’area V4, men-tre quella del movimento (di punti casuali che si spostano sullo schermo, a destra) at-tiva l’area V5.

umani. La PET ha però diversi svantaggi, il maggiore dei quali è il fatto che sia ne-cessaria l’iniezione di un tracciante ra-dioattivo. Ciò implica che non tutti pos-sono sottoporsi ad un’indagine PET, ad esempio i bambini e le donne in stato di gravidanza, ed il numero di misurazioni che possono essere fatte durante una sessione è limitato.

Poco tempo dopo è stata sviluppata una tecnica completamente differente, chiamata Imaging a Risonanza Magne-tica (MRI), che ha il vantaggio di essere assolutamente “non invasiva” e di non richiedere l’uso di sostanze radioattive. Ciò consente di sottoporre ad esame persone di ogni età. La MRI può essere usata per produrre immagini molto parti-colareggiate delle strutture cerebrali, ed il recente sviluppo di un’ulteriore tec-nica detta Imaging a Tensore di Diffu-sione (DTI) consente di avere ricostru-zioni minuziose delle fibre della materia bianca che connettono le regioni del cer-vello.

Una delle applicazioni più entusiasmanti della tecnologia MRI è il metodo per ot-tenere immagini delle funzioni cerebrali, chiamato Imaging a Risonanza Magne-

tica funzionale (fMRI). Questa tecnica è basata sulla differenza delle proprietà magnetiche dell’ossiemoglobina e della desossiemoglobina nel sangue (ecco per-ché il segnale nella fMRI è detto dipen-dente dal livello di ossigenazione del sangue – BOLD). Poiché l’aumento del-l’attività neuronale causa il movimento di ioni che attivano pompe ioniche affamate d’energia, c’è un aumento nel metaboli-smo energetico e nel consumo di ossige-

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A sinistra: i profitti ricavati dalla E.M.I. per la vendita dei dischi dei Beatles contribuirono allo sviluppo della prima macchina per la visualizzazione del cervello. Questi ed altri strumenti hanno consentito ai neuroscienziati di guardare dentro il cervello in modo nuovo.A destra: una moderna macchina per la MRI. Il soggetto è disteso su un ripiano che viene spo-stato dentro gli anelli dei magneti. L’acquisizione delle immagini può richiedere da 30 minuti a un’ora.

L’attivazione dell’area V5 riflette la perce-zione del movimento. Le informazioni a quest’area provengono dall’area V2 della corteccia cerebrale e dal Pulvinar (Pul), un nucleo profondo del cervello. La corteccia parietale posteriore (PPC) controlla il flus-so di informazioni. L’analisi dello connessio-ni effettivamente operative consente di conoscerne il contributo relativo.

no; questo porta ad un incremento del-l’emoglobina deossigenata e ad un calo del segnale di magnetizzazione. Tuttavia, l’aumentato consumo di ossigeno è segui-to entro pochi secondi da un incremento locale del flusso sanguigno cerebrale. Tale incremento supera quello del con-sumo di ossigeno; si ha dunque un aumen-to relativo della quantità di ossiemoglo-bina e, conseguentemente, dell’entità del segnale. L’esatto meccanismo che porta all’aumento del flusso sanguigno cerebra-le non è ancora chiaro, ma si crede che la causa sia un segnale legato ad un neuro-trasmettitore.

Come si fa

Probabilmente siete molto bravi a sot-trarre i numeri; ma avete mai provato a sottrarre i cervelli? Non c’è dubbio che il ragazzo della vignetta sia confuso. Sottrarre immagini del cervello a due e a tre dimensioni è un fattore critico per

l’analisi dei dati. La maggior parte degli studi di fMRI consiste nel misurare il segnale BOLD mentre un soggetto è im-

pegnato in un compito attentamente su-pervisionato. Durante la scansione, il soggetto è disteso all’interno di un foro al centro di un magnete, e viene rilevato il suo comportamento in reazione ad una serie di stimoli. Gli stimoli possono esse-re di vario tipo, stimoli visivi proiettati su uno schermo visibile dal soggetto, stimoli uditivi attraverso delle cuffie. È possibile esaminare fenomeni non evi-denti come la percezione, l’apprendimen-to, la memoria, il pensiero o la program-mazione.

Frontiere della Ricerca.

Nikos Logothetis è un giovane ricercatore che ha prodotto contributi importanti alla comprensione delle relazioni fra l’attività dei neuroni cerebrali e i segnali rilevati ne-gli esperimenti di brain imaging.Esperimenti recenti nei quali la registrazio-ne elettrica dell’attività cerebrale è stata associata alla fMRI hanno mostrato una correlazione fra attività sinaptica e il se-gnale BOLD maggiore di quanto non si abbia per le scariche di potenziali d’azione. Il se-gnale BOLD è quindi un indice di attività si-naptica cerebrale più realistico di quanto sia la produzione di potenziali d’azione. Ciò ha importanti applicazioni per l’interpreta-zione del segnale BOLD in termini di localiz-zazione delle funzioni.

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16 - Reti Neurali e Cervelli Artifi-ciali

Il cervello è una sostanza molle. I suoi neuroni, i vasi sanguigni, ed i ventricoli pieni di liquido sono composti da mem-brane lipidiche, proteine e una gran quantità d’acqua. Si può sfaldare con un dito, tagliare con un microtomo, in-serire elettrodi nei suoi neuroni e guardarvi il sangue pulsare. Gli studi sul cervello sembrano ancorati ferma-mente alla biologia e alla medicina. C’è tuttavia un altro modo di immaginarlo che ha attratto l’attenzione di mate-matici, fisici, ingegneri ed informatici. Essi pensano al cervello scrivendo equazioni, creando modelli al computer e persino apparecchiature elettroniche che simulano i veri neuroni nella nostra testa.

Il cervello reale è altamente adattativo. È capace di fare cose come leggere una scrittura manuale che non abbiamo mai visto prima e capire il discorso di un per-fetto sconosciuto.

E riesce a tollerare che qualcosa non va-da. Funziona ragionevolmente bene per la

Il tuo cervello ha 100.000.000.000 di cellu-le e 3.200.000 chilometri di cavi, con 1.000.000.000.000.000 di connessioni si-naptiche, tutto in un volume di 1,5 litri e del peso di 1,5 kg. Ciò nonostante, consuma più o meno quanto una lampadina da notte

durata di tutta una vita anche se le cel-lule muoiono e, anche in tarda età, il cer-vello è ancora capace di imparare nuovi espedienti. I robot di oggi sono molto bravi ad eseguire un ristretto numero di compiti per i quali sono stati progettati, come costruire un pezzo di automobile, ma sono molto meno tolleranti quando qualcosa non funziona.

Tutti i cervelli reali sono costituiti da reti neuronali altamente interconnesse. I loro neuroni hanno bisogno di energia e le reti hanno bisogno di spazio. Il nostro cervello contiene approssimativamente 100 miliardi di cellule nervose, 3,2 chilo-metri di “cavi”, un milione di miliardi di connessioni, il tutto contenuto in un vo-lume di circa 1,5 litri, ma che pesa solo 1,5 chilogrammi e consuma appena 10 watt. Se provassimo a costruire un cer-vello simile usando circuiti al silicio, con-sumerebbe circa 10 megawatt, la poten-za necessaria ad alimentare un’intera piccola città. Tanto per peggiorare le co-se, il calore prodotto da questo cervello al silicio lo farebbe fondere! La sfida è scoprire come il cervello possa operare in maniera così efficiente ed economica, ed usare simili principi per costruire macchine come cervelli.

Costruire circuiti cere-brali al silicio

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Il costo energetico dell’invio dei segnali da un neurone ad un altro è stato proba-bilmente uno dei fattori principali nel-l’evoluzione del cervello. Circa il 50-80% di tutto il consumo energetico del cer-vello è richiesto per la conduzione dei potenziali d’azione lungo le fibre nervose e per la trasmissione sinaptica. Il resto è utilizzato per la costruzione e la manu-tenzione di ogni sua parte. Questo è ve-ro tanto per il cervello di un’ape quanto per il nostro. Tuttavia, se comparato alla velocità di un computer digitale, l’impulso nervoso è molto lento – solo qualche me-tro al secondo. In un processore seriale come un computer digitale, questo ren-derebbe il lavoro impossibile. I cervelli biologici però sono costruiti come reti altamente parallele. La maggior parte dei neuroni e` connessa direttamente con molte altre migliaia. Per fare questo, il cervello sfrutta il suo volume tridimen-sionale per impacchettare ogni cosa – piegando i fogli di cellule in solchi e ri-unendo strettamente assieme le connes-sioni in fasci. In contrasto, la creazione di connessioni anche fra un numero mo-desto di neuroni di silicio è limitata dalla natura bidimensionale dei circuiti e delle schede elettroniche. Pertanto, al con-trario del cervello, nei neuroni di silicio la comunicazione diretta è fortemente limitata. Comunque, sfruttando l’eleva-tissima velocità dell’elettronica conven-zionale, gli impulsi provenienti da più neuroni di silicio possono essere “molti-plicati” – un processo di trasporto di più informazioni diverse assieme lungo lo stesso filo. In tal modo, gli ingegneri in-formatici possono iniziare ad emulare la connettività delle reti biologiche.

Per ridurre il consumo ma aumentare la velocità, gli ingegneri ispirati dalla neu-rologia hanno adottato la strategia bio-

logica di usare una codifica analogica anziché digitale. Carter Mead, uno dei “guru” della Silicon Valley in California, ha coniato il termine “progettazione neu-romorfa” per descrivere il trasferimen-to della neurobiologia alla tecnologia. Anziché codificare le informazioni digi-talmente in termini di “0” e “1”, come fanno i computer, i circuiti analogici co-dificano mediante continue variazioni di voltaggio, così come fanno i neuroni nel loro stato sotto-soglia (vedi Capitolo 3). I calcoli possono allora essere fatti con un numero minore di passi, perché si sfrutta la fisica di base dei circuiti di silicio. La computazione analogica forni-sce facilmente le operazioni elementari del calcolo: addizione, sottrazione, espo-nenziali ed integrali, operazioni che sono tutte molto complicate per le macchine digitali. Quando i neuroni – siano essi biologici o di silicio – calcolano e “pren-dono una decisione”, essi trasmettono impulsi lungo gli assoni per comunicare la risposta ai neuroni bersaglio. Poiché la codifica dei picchi di potenziale è ener-geticamente sconveniente, una codifica efficiente massimizza la quantità di in-formazioni rappresentata da un treno di picchi riducendo quella che è detta ri-dondanza. L’efficienza energetica è an-che aumentata usando un numero di neu-roni attivi il più piccolo possibile. Questo metodo è chiamato codifica rarefatta e indica agli ingegneri un ulteriore princi-pio importante di progettazione per co-struire reti neurali artificiali.

Una retina di silicio

È già stata costruita una semplice ver-sione artificiale di rete biologica, che consiste in una retina di silicio che cat-tura la luce e adatta la propria risposta automaticamente alle variazioni delle

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condizioni di luce incidente. Questa reti-na è connessa a due neuroni di silicio che, come i neuroni reali nella corteccia visiva, hanno il compito di estrarre le in-formazioni sull’orientamento delle linee ed i bordi di contrasto nell’immagine re-tinica.

I neuroni di questo prototipo sono detti neuroni-integratori-ed-emettitori ed i progettisti neuromorfici li usano massic-ciamente. Il nome deriva dal fatto che essi sommano le quantità in ingresso, le codificano come voltaggi che arrivano alle loro sinapsi, ed emettono un poten-ziale d’azione solo se il voltaggio rag-giunge una determinata soglia. Gli stessi neuroni di silicio sono composti da tran-sistors ma, invece di usare questi transi-stors come interruttori e portare i vol-taggi a saturazione come nei sistemi di-gitali convenzionali, eseguono il loro lavo-ro a livelli sotto soglia. A tali livelli, fun-zionano in maniera più simile alle mem-brane cellulari dei veri neuroni. Ulteriori transistors forniscono la conduttanza attiva necessaria per emulare il voltaggio ed i flussi di corrente dipendenti dal tempo dei veri canali ionici. Questo pic-colo sistema visivo è un prototipo per un

molto più elaborato sistema artificiale per la visione che è ancora in fase di svi-luppo, ma basta per illustrare come un

Una fotocamera viene montata di fronte alla retina di silicio.

segnale estremamente rumoroso prove-niente dal mondo reale possa essere ela-borato velocemente per produrre una semplice decisione. Il bello è che riesce a fare ciò per cui è stato progettato – dire quale sia l’orientamento di una linea in un’immagine - ed i neuroscienziati stanno già usando questo semplice si-stema visivo di silicio per collaudare ap-parecchiature ed esercitare gli studenti. L’aspetto più importante riguardo le reti artificiali è che esse operano nel mondo reale, in tempo reale e utilizzano pochis-sima energia.

Le reti neurali artificiali

Le Reti Neurali Artificiali (ANN) vengo-no spesso utilizzate per studiare l’ap-prendimento e la memoria. Usualmente funzionano su computer digitali conven-zionali e consistono in un certo numero di unità semplici di processamento che sono altamente interconnesse in una rete. La più semplice forma di ANN è un associa-tore, che ha strati di unità interconnes-se di ingresso ed uscita. Una memoria associativa è realizzata modificando l’in-tensità delle connessioni fra gli strati cosicché, quando si presenta un segnale d’ingresso, il segnale immagazzinato as-sociato al segnale in arrivo viene richia-mato (vedi la Casella del rompicapo ma-tematico nella prossima pagina). Una versione più complessa di ANN è la rete neurale ricorsiva. Questa consiste in un singolo strato sul quale ciascuna unità è interconnessa ed ognuna agisce sia come ingresso sia come uscita. Può suonare un po’ strano, ma questa progettazione con-sente alla rete di immagazzinare gruppi di informazione anziché solo un paio di segnali. La decodifica di questa sorta di rete autoassociativa è affidata ad una ricerca ricorsiva degli elementi imma-gazzinati. Si è visto che in una rete di

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1000 unità si possono richiamare circa 150 gruppi di informazione prima che gli errori nel processo di richiamo diventino rilevanti.

La somiglianza delle ANN al cervello è insita nel modo in cui esse immagazzina-no e processano le informazioni. La “co-noscenza” che essi elaborano risiede nel-la rete stessa. Non hanno aree separate per la memoria come i computer digitali, nei quali il processore aritmetico e gli indirizzi di memoria sono separati. Al contrario, consentono un immagazzina-mento indirizzabile dal contenuto. In una ANN, l’informazione viene immagaz-zinata nell’intensità delle connessioni, così come le sinapsi cambiano la loro produttività durante l’apprendimento. Inoltre, le ANN non sono programmate per eseguire alcuna procedura specifica. Ciascun “neurone” al loro interno è “mu-to”, e risponde semplicemente in base alla somma delle intensità all’ingresso. E tuttavia, possono essere allenati per fa-re cose molto intelligenti. Le regole di apprendimento che insegnano alle reti riescono nell’obiettivo modificando le in-tensità delle connessioni fra i neuroni; un semplice esempio è una regola che pren-de il segnale in uscita dalla rete in base ad un certo segnale d’ingresso e lo con-fronta con un segnale da valutare. Qua-lunque “errore” nel confronto viene poi utilizzato per regolare meglio l’intensità delle connessioni per fornire un segnale d’uscita che sia più simile a quello desi-derato. La rete riduce gradualmente il segnale erroneo al minimo. Il tutto fun-ziona, anche se lentamente.

Sbagliare è importante – le reti non pos-sono imparare se non commettono errori. Questa è una caratteristica dell’appren-dimento che può essere sfruttata. In fondo, se una rete che funziona per lun-

go tempo non commette mai errori essa impara a rispondere solo ad uno specifico tipo di segnale d’ingresso. Queste reti vengono chiamate metaforicamente “della nonna”– un riferimento ad ipoteti-che “cellule per la nonna” nel cervello umano, che si attivano solo quando la nonna di qualcuno entra nel campo visivo e non devono mai sbagliare! Ma tutto questo non sarebbe molto utile nel mon-do reale, perché ogni cosa che impariamo avrebbe bisogno di una specifica rete. Al contrario, l’aspetto elegante delle ANN consiste nella loro abilità nel generaliz-zarsi rispetto ai segnali d’ingresso che arrivano per la prima volta nell’apprendi-mento. Esse osservano le differenze, colgono le associazioni e scoprono le re-golarità nei treni di segnali in arrivo. E possono sbagliare – in maniera tollerabile quanto in un cervello vero. Possono inol-tre richiamare un gruppo di segnali im-magazzinato anche quando il segnale d’ingresso è rumoroso o incompleto. Queste proprietà di lavoro sono molto importanti nel cervello biologico, e le ANN riescono a riprodurle.

Il paradosso della moder-na tecnologia di calcolo

Il paradosso delle attuali ANN è che es-se sono simulate matematicamente su computer digitali. Ciò rende la loro appli-cazione nelle situazioni del mondo reale estremamente limitato, perché le simu-lazioni richiedono tempo e pertanto le ANN non sono in grado di operare in tempo reale. Le ANN sembrano essere ben disegnate per guidare un’automobile o pilotare un velivolo, perché sono resi-stenti ai rumori nei segnali e continuano a funzionare anche se alcune loro parti si guastano. Tuttavia, i sistemi esperti che

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vengono generalmente usati nei piloti au

NOMAD è un irrequieto ma intelligente progenitore delle macchine pensanti che verranno. E’ alto due piedi ed ha un torace cilindrico con “occhi”, “orecchie”, “mani” prensili e vari sensori che lo aiutano a muo-versi. Ciò che rende NOMAD diverso dalla maggior parte dei robot è che funziona sen-za regole codificate o istruzioni. Invece, ha un cervello simulato da un computer con 10.000 cellule nervose simulate e più di un milione di connessioni fra di loro che gli consentono di percepire e reagire all’am-biente. Può gestire situazioni nuove e impa-rare dai suoi errori mentre si muove in un ambiente semplice con pochi cubi colorati. Alcuni dei cubi hanno strisce e conducono la elettricità, così da essere “gustosi”. Altri hanno cerchi e non conducono la elettricità: sono, quindi, meno “gustosi”. Osservando i cubi e “saggiandoli” con i sensori elettrici delle sue dita, NOMAD impara a trascurare i cubi con i cerchi a favore di quelli con le strisce.

tomatici sono computer digitali su cui operano programmi deterministici con-venzionali e, per sicurezza, il tutto ri-chiede continue verifiche manuali. Se le cose vanno davvero male in un aeroplano, questi sistemi non possono risolvere nul-la. Il pilota umano deve intervenire. Gli algoritmi attuali di apprendimento per le ANN sono troppo lenti per questo tipo di emergenze. Se i neuroni di silicio potes-sero imparare, il che ora non avviene, al-lora molti di questi problemi potrebbero essere risolti. Capendo di più sul funzio-namento del cervello reale, potremo ri-uscire a costruire reti neurali più sofi-sticate che consentiranno di ottenere prestazioni simili a quelle di un vero cer-vello.

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17 - Quando qual-cosa non va

Il cervello è un organo delicato. Un incidente può causare un danno alla testa e il cervello può ammalarsi e smettere di funzionare normalmente. Le malattie al cervello possono produr-re una larghissima varietà di sintomi e la loro comprensione può essere diffi-cile. La diagnosi delle malattie cere-brali richiede sia le capacità cliniche di un neurologo o di uno psichiatra sia sofisticate valutazioni biomediche e di brain-imaging. La ricerca sulle anoma-lie cerebrali richiede un campo di esperienza persino più ampio. Alcune malattie, come l’epilessia e la depres-sione, sono piuttosto comuni – anche nei bambini e negli adolescenti. Altre sono meno frequenti, come la Schizo-frenia, o sono riscontrabili solo in tar-da età, come il Morbo di Alzheimer, ma non sono meno debilitanti. Alcune hanno una forte componente genetica, e questo pone un difficile interrogativo sul fatto che ciascuno di noi possa vo-ler sapere se e` potatore di una mu-tazione che predispone ad una di que-ste condizioni.

Segnalazioni disorganiz-zate – L’Epilessia

Durante un attacco (una scarica epiletti-ca), la persona perde conoscenza e può cadere a terra, diventando rigida e co-minciando a tremare. Quando l’attacco è finito, può scoprire di essersi morsa la

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Casella del rompicapo matematico

Una memoria distribuita col contenuto in-dirizzabile

Immagina una serie di linee orizzontali che si incrociano con quattro verticali e “interruttori” nei punti di intersezione (in alto a sinistra). Questa matrice è una memoria. Le informazioni le vengono presentate sotto forma di numeri binari, come 0011 e 1010 e decidiamo che gli interruttori saranno aperti (on) quando un 1 incontra un 1 (in rosso, in alto a destra). Questa disposizione segnala la presenza di una coppia di 1. La matrice può immagazzinare altri numeri sopra quelli precedenti, come 1010 e 0110.

lingua o essersi bagnata, e potrebbe ave-re un senso di profonda stanchezza. Molti bambini ne sono colpiti, ma gli at-tacchi possono diminuire drasticamente nella fase adulta. Per alcuni, sfortunata-mente, gli attacchi possono avvenire set-timanalmente o anche quotidianamente.

Cos’è che non va? Durante gli attacchi, c’è un aumento delle emissioni di poten-ziali d’azione da parte dei neuroni, segui-to da un periodo di riduzione dell’eccita-bilità. Il processo ciclico è modulato da neurotrasmettitori inibitori (GABA) ed eccitatori (glutammato). Quando la ridu-zione dell’eccitabilità è incompleta, gli attacchi possono essere generati da una somma di contributi provenienti dai neu-roni circostanti. Questi contributi pos-sono essere localizzati (causando un at-tacco parziale) o allargarsi all’intera cor-

teccia (causando un attacco generalizza-to). Durante un attacco generalizzato, il normale ritmo “alfa” dell’elettroencefa-logramma (EEG) è sostituito da onde sin-cronizzate di attività elettrica più ampie e lente in ambedue gli emisferi cerebrali.

Attacchi isolati sono piuttosto comuni, ma attacchi ripetuti – epilessia – sono meno frequenti e più problematici. Le cause dirette sono ancora ignote. Nelle persone epilettiche, gli attacchi possono essere provocati da stanchezza, dal sal-tare un pasto, da calo degli zuccheri nel sangue, da alcol, dallo sfarfallio di uno schermo televisivo. Le persone interes-sate facciano dunque attenzione.

La ricerca neuroscientifica ha dato due grandi contributi al miglioramento della qualità della vita delle persone epiletti-che. Anzitutto, grazie alla crescente comprensione della trasmissione eccita-toria, possiamo ora progettare farmaci che abbattono l’attività anormale degli attacchi senza abbattere nel contempo la normale attività cerebrale. I farmaci più vecchi tendevano ad agire come se-dativi generici, mentre quelli nuovi sono molto più selettivi. In secondo luogo, il miglioramento della qualità del brain-i-maging implica che, per alcune persone con attacchi fortemente debilitanti, è possibile localizzare la fonte degli attac-chi abbastanza accuratamente. È allora possibile talvolta per il neurochirurgo ritagliare questa zona di tessuto cere-brale danneggiato ed avere come risulta-to una riduzione della frequenza degli attacchi e del rischio che la malattia si diffonda in tessuti cerebrali ancora in-tegri. Il trattamento chirurgico dell’epi-lessia è a volte ritenuto essere un po’ drastico, ma è notevole pensare al gran numero di volte in cui ha successo.

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Lo stato finale della matrice dovrebbe avere 7 interruttori on, come mostrato in basso a sinistra. Se adesso si presenta nuovamente il primo numero - 0011 - allo stato finale della matrice e si fa in modo che la corrente sia indotta nei fili verticali ogni volta che un interruttore sia on (in basso a destra), la corrente uscirà dalle linee verticali, in basso, proporzionalmente al numero 2120 Questo non è il numero con cui 0011 era stato inizialmente appaiato ma, se si divide 2120 per la quantità di 1 nel numero usato come richiamo (0+0+1+1 = 2) e considerando solo gli interi (cioè non i valori decimali), si ottiene 1010. Quindi la matrice ha “ricordato” che 0011 si accom-pagnava a 1010 anche se un altro messaggio è stato immagazzinato sopra il primo.Questo è il tipo di memoria che si pensa abbia il nostro cervello. Essa non immagaz-zinerebbe le informazioni in posti specifici, come in un computer. Le informazioni, in-vece, sarebbero distribuite nella rete e immagazzinate come forza delle connes-sioni sinaptiche, così da poter essere recu-

Mal di testa e emicrania

Molte persone soffrono di mal di testa ogni tanto. Di solito questo è causato da tensione muscolare e non c’è nulla di se-rio di cui preoccuparsi. Molto raramente – specialmente se il mal di testa compare all’improvviso o è associato ad arrossa-mento della pelle o a vomito – la causa sottostante può essere seria. In queste situazioni il dolore non proviene proprio dal cervello, ma dall’irritazione o dalla sollecitazione delle meningi – la fodera del nostro cervello.

La causa più comune di mal di testa è l’emicrania. Assieme al dolore alla testa (spesso da una parte sola), le persone si sentono male, trovano fastidiose le luci intense o i suoni ad alto volume, e perce-piscono un’aura emicranica, consistente in lampi luminosi o linee frastagliate. Ge-neralmente, l’aura precede l’emicrania.

Ora si ritiene che l’emicrania abbia inizio nella parte del cervello che elabora le sensazioni dolorose che provengono dai vasi sanguigni cerebrali. Il brain-imaging rivela un aumento dell’attività in queste regioni all’inizio dell’emicrania. In con-temporanea, si ha un breve incremento dell’apporto locale di sangue (che porta a sintomi come i lampi luminosi), seguito immediatamente da una riduzione del flusso sanguigno (che si riflette in una temporanea stanchezza).

Negli ultimi dieci anni si è vista una rivo-luzione nel trattamento degli attacchi emicranici, attraverso l’avanzare della nostra comprensione dei recettori della serotonina (5-HT). È stata scoperta una nuova classe di farmaci che attivano un particolare sottogruppo di recettori del-la serotonina. Questi farmaci – i triptani

– sono molto efficaci nel bloccare il mal di testa emicranico sul nascere. Questo è solo uno dei modi in cui la ricerca neu-roscientifica ha dato un importante con-tributo al miglioramento della vita di mi-lioni di persone in tutto il mondo.

Non c’è abbastanza car-burante – l’infarto cere-brale

Quando una persona manifesta un’im-provvisa stanchezza ad un lato del corpo, questo può essere dovuto ad un infarto cerebrale (ictus) che ha colpito la parte opposta del cervello. Anche l’equilibrio, le sensazioni o il linguaggio e la capacità di parlare possono risentirne. A volte queste anomalie si risolvono con il tempo, persino restituendo le capacità iniziali, ma l’infarto cerebrale è ancora una causa molto comune di forte disabilità e morte. L’infarto si presenta in varie forme e con diversa gravità, e le conseguenze dipen-dono molto da quale parte del cervello sia stata colpita.

Il guasto che si è verificato è l’interru-zione della fornitura di energia che ser-ve al cervello per funzionare. I neuroni e la glia hanno bisogno di carburante per vivere e lavorare. Questo carburante viene distribuito attraverso i quattro maggiori vasi sanguigni che alimentano il cervello. I carburanti più importanti so-no l’ossigeno e i carboidrati – questi ul-timi in forma di glucosio; assieme, con-sentono di produrre dalla materia grezza l’ATP – la moneta di scambio per l’ener-gia delle cellule. Questa energia (vedi i Capitoli 2 e 3) è necessaria per control-lare il flusso degli ioni che inducono l’at-tività elettrica nei neuroni. Circa due terzi dell’energia dei neuroni viene usata come carburante per un enzima chiamato

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Pompa ATP-asica Sodio/Potassio, che ri-carica i gradienti ionici di sodio e potas-sio dopo l’emissione di un potenziale d’azione.

In quello che è chiamato attacco ische-mico transitorio (TIA), l’apporto di san-gue ad una parte del cervello si riduce e l’apporto di ATP si interrompe. I neuroni non possono caricare i loro gradienti io-nici e non possono più consentire la pro-pagazione di un potenziale d’azione. Ad esempio, se il flusso di sangue alla cor-teccia motoria dell’emisfero sinistro si riduce, il braccio e la gamba del lato de-stro del corpo possono rimanere paraliz-zati. Se questa ostruzione si risolve ve-locemente, i neuroni possono ricomincia-re a produrre ATP, ricaricare le mem-brane e riprendere le loro funzioni nor-mali. Fortunatamente, il TIA non provoca danni permanenti.

Un infarto cerebrale è una cosa più se-ria. Se l’apporto di sangue viene inter-rotto per un periodo prolungato, si pos-sono avere danni irreversibili. In assenza di ATP, le cellule non possono mantenere l’omeostasi e possono gonfiarsi fino a scoppiare. I neuroni possono inoltre de-polarizzarsi spontaneamente, rilasciando neurotrasmettitori potenzialmente tos-sici come lo stesso glutammato. Anche le cellule gliali, che normalmente ripulisco-no l’eccesso di glutammato attraverso una pompa ATP-dipendente, smettono di funzionare. In mancanza di energia, la vita di una cellula del cervello diventa molto precaria.

Attraverso un attento studio di ciò che avviene durante un infarto cerebrale, i neuroscienziati sono stati in grado di sviluppare nuove forme di cura. Molti in-farti sono causati da coaguli di sangue che ostruiscono i vasi sanguigni, ed un

trattamento con un farma-co anticoagu-lante chiama-to attivatore del plasmino-geno tissuta-le (TPA) può demolire il coagulo e ri-pristinare il flusso sangui-gno. Se som-ministrato sufficiente-

mente in fretta, il TPA può avere un ef-fetto notevole sulle conseguenze. Sfor-tunatamente, somministrare questo far-maco ad un paziente in tempo utile non è semplice perché per la famiglia del pa-ziente non è sempre ovvio quello che sta succedendo.

Un altro nuovo trattamento è costituito da una classe di farmaci che bloccano alcuni neurotrasmettitori, incluso il glu-tammato, che si accumulano in quantità tossiche durante un infarto cerebrale. Questi farmaci possono bloccare i re-cettori stessi per il glutammato oppure i percorsi dei segnali intracellulari che dal glutammato vengono attivati. Molti di questi farmaci sono in fase di sviluppo. Sfortunatamente, nessuno di questi ha ancora un impatto diretto sull’infarto cerebrale.

Le malattie genetiche

Per molto tempo i medici hanno ricono-sciuto e diagnosticato le malattie cere-brali usando come riferimento la regione colpita. Per molte malattie, il nome è una descrizione di quello che sembra non funzionare bene e della parte del cervel-

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lo coinvolta; spesso il nome è ispirato da termini latini o greci, come “aprassia pa-rietale” o altri. L’esplosione delle infor-mazioni genetiche negli ultimi dieci anni ha cambiato completamente le cose. Per molte malattie ereditarie, il problema risiede da qualche altra parte.

Alcune persone ereditano un problema con il controllo fine dei movimenti che causa una instabilità della posizione eretta che aumenta con l’età. Questa malattia è detta atassia spino-cerebel-lare – un nome che riflette la modalità classica di nominare le patologie – e oggi conosciamo l’esatto difetto genetico che la provoca. Molte altre condizioni posso-no oggi essere classificate in base alla loro causa e la diagnosi attraverso l’ana-lisi genetica è ormai abituale per pazien-ti con sospetta atassia spino-cerebellare

o altre patologie genetiche. La diagnosi può essere molto più veloce e con molta più certezza che in passato.

La Malattia di Huntington è una patolo-gia neurodegenerativa associata a movi-menti involontari anormali del corpo – in questo caso, il nome deriva dal medico che per primo ha descritto questa condi-zione. Essa è interamente dovuta alla mutazione ripetuta in uno dei geni più grandi del nostro genoma detto hun-tingtina.

Alcune manifestazioni iniziali del Morbo di Parkinson (una malattia che causa len-tezza, rigidità, tremori e instabilità) so-no dovute a problemi nei geni che codifi-cano la Parkina. Oltre ad aiutare nella diagnosi, le analisi genetiche possono es-sere utilizzate per informare gli altri membri di una famiglia sul rischio di svi-luppare essi stessi la malattia, o di tra-smetterla ai loro figli.

Anche se la rivoluzione genetica ha cam-biato il modo in cui i medici trattano le malattie del sistema nervoso, questo e solo il punto iniziale di un lungo percorso di scoperte. Uno stesso difetto genetico puo` causare conseguenze differenti in più soggetti, e diverse variazioni geneti-che possono causare malattie molto simi-li. Comprendere cosa definisce queste differenze, e il come il nostro codice ge-netico interagisce con il mondo in cui vi-

Argomento di discussione.Se scoprissi di essere a rischio di sviluppo di una malattia genetica, lo vorresti sapere con certezza? Sarebbe giusto identificar-ne il gene prima della nascita e abortire gli individui che svilupperebbero la malattia? Cosa ne sarebbe di tutti gli anni utili e pro-duttivi che potrebbero essere vissuti pri-

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Il disegno mostra la parte di cervello dan-neggiata da un infarto cerebrale (stroke) e la regione di “penombra” che lo circonda, a rischio di essere danneggiata.

viamo e che costruiamo intorno a noi, è una delle prossime grandi sfide per l’era genomica che stiamo attraversando.Le infiammazioni – La Sclerosi Multipla

La sclerosi multipla è una malattia che colpisce le persone nella prima fase adul-ta. È caratterizzata da episodi ripetuti di stanchezza, intorpidimento, visione doppia e poco equilibrio, che durano per alcune settimane e poi spariscono, appa-rentemente riportando ad una situazione di normalità. Il ciclo di malessere e re-missione è una caratteristica di questa malattia.

La sclerosi multipla è causata da un’in-fiammazione del sistema nervoso che si presenta e poi sparisce. Il nostro siste-ma immunitario è progettato per com-battere le infezioni causate da batteri o virus. A volte, questo si confonde e co-mincia ad attaccare parti del nostro cor-po. Queste condizioni sono dette malat-tie autoimmuni e possono colpire quasi tutti i tessuti. Se il sistema immunitario attacca la mielina che avvolge i neuroni, ci sarà un’area localizzata di infiamma-zione che causa demielinizzazione. Nel tempo, l’infiammazione tende a diminui-re, la mielina viene riparata e tutto torna alla normalità. Cosa provochi l’infiamma-zione nel primo evento non è molto chia-ro, e molte persone con casi di demieli-nizzazione hanno avuto solo un breve episodio. Peraltro, alcune persone sem-brano avere la tendenza a ricorrenti brevi periodi di attività intensa che col-piscono diverse parti del cervello.

Jacquelin du Prè - una nota musicista malata di sclerosi multipla

Poiché non conosciamo ancora cosa pro-vochi l’inizio dell’infiammazione nella sclerosi multipla, non siamo in grado di fermarla completamente. Sappiamo co-munque che gli attacchi possono essere resi molto più brevi usando farmaci come gli steroidi, che abbattono il sistema immunitario. Nel caso di pazienti con forme gravi di sclerosi multipla, alcuni medici ritengono che un beneficio po-trebbe venire dall’abbattimento perma-nente di certe parti del sistema immuni-tario con farmaci come l’azatioprina o l’interferone beta. Non si hanno però ancora certezze sul loro utilizzo.

Il sistema immunitario può anche attac-care le giunzioni che connettono i nervi ai muscoli, causando una malattia detta miastenia gravis, oppure i nervi che emergono dal midollo spinale, provocando la condizione nota come Sindrome di Guillain Barrè.

Neurodegenerazione – Il Morbo di Alzheimer

Il nostro cervello fa di noi ciò che siamo: il nostro modo di reagire in diverse si-tuazioni, le persone di cui ci innamoria-mo, le cose di cui abbiamo paura, i nostri ricordi. Questi aspetti fondamentali del-la natura umana si frantumano se il no-stro cervello cade in quella malattia de-generativa nota come Morbo di Alzhei-mer. Il Morbo di Alzheimer è una forma di demenza, una perdita globale delle fa-coltà intellettive che colpisce approssi-mativamente il 5% delle persone al di so-pra dei 65 anni ed il 25% di quelle al di sopra degli 85 anni. È una malattia cru-dele: i sintomi iniziano con perdita di memoria, e progrediscono con l’annulla-mento della personalità ed infine la mor-

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te. Vedere i propri cari perdersi così in se stessi è un’esperienza tremendamente difficile per i parenti. Nelle fasi finali, i pazienti possono non essere in grado di riconoscere le persone più care e neces-sitano di aiuto per svolgere i compiti an-che più semplici di ogni giorno come il vestirsi, mangiare, lavarsi e andare al bagno. Conseguentemente, anche la vita di chi è loro accanto cambia radicalmen-te.

Cosa sta succedendo? Quando la malat-tia di Alzheimer si sviluppa, le cellule ce-rebrali muoiono: la corteccia si assotti-glia ed i ventricoli (gli spazi nel cervello pieni di liquido) si allargano. La diagnosi

viene usualmente fatta quando la perso-na è ancora viva sulla base degli aspetti clinici caratteristici, ma può essere con-fermata definitivamente soltanto con un esame post-mortem, quando un esame microscopico del cervello rivela la perdi-ta cellulare ed il deposito assolutamente anomalo di una proteina amiloide in pic-cole e diffuse placche amiloidi degene-rative e gruppi confusi di proteine a ba-stoncino che sono normali costituenti del cervello sano – i grovigli fibrillari. Gli at-tuali progetti di ricerca stanno cercando di migliorare la diagnosi in vita con nuove procedure d’indagine neuropsicologica focalizzate sul riconoscimento dei cam-biamenti dello stato mentale nelle fasi

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Albero genealogico di una famiglia che mostra le generazioni a rischio di sviluppare diffi-coltà dell’apprendimento e schizofrenia. Si nota che queste malattie possono, a volte, salta-re una generazione.

iniziali del morbo di Alzheimer distin-guendoli, ad esempio, da quelli della de-pressione.

Anche in questo caso, la genetica ha dato una mano per iniziare a capire questa malattia, puntando a mutazioni di geni che codificano le proteine precursori dell’amiloide (di cui l’amiloide è formata) e le preseniline (che codificano gli enzimi che eliminano le proteine precursori). Un ulteriore fattore di alto rischio per la malattia e l’ereditarietà di una particola-re variante del gene apolipoproteina E (apoE) indicata con apoE-4. Comunque, i fattori genetici non ci dicono tutto: fat-tori ambientali, come tossine e altri pe-ricoli come i traumi fisici al cervello, po-trebbero giocare anch’essi un ruolo im-portante. I fattori genetici sono però sufficientemente importanti da portare alla creazione di animali da laboratorio geneticamente modificati che sviluppano le caratteristiche della malattia. La ri-cerca su di essi deve essere interpreta-ta molto attentamente, senza troppa fi-ducia, ma può aiutarci a fare luce sugli aspetti biologici del progresso della ma-lattia.Attualmente non esistono ancora cure che possano interrompere lo sviluppo del Morbo di Alzheimer sul nascere, anche se vengono ricercate con grande impegno – ed è in questo contesto che la speri-mentazione animale risulta preziosa. È noto che le cellule nervose che utilizzano il trasmettitore chimico acetilcolina so-no particolarmente vulnerabili ad attac-

Colorazione del tessuto cerebrale che mostra le placche amiloidi (co-

me nel quadrato) e i grovigli fibrillari (freccia)

chi in questa malattia. Farmaci che so-vra-stimolano l’azione dell’acetilcolina residua, bloccando gli effetti di enzimi che normalmente distruggerebbero que-sto neurotrasmettitore, hanno modesti effetti curativi sia nei modelli animali sia in alcuni casi clinici. Peraltro, questi farmaci non fanno altro che rallentare la progressione di questa malattia che è ancora incurabile. Le vie da seguire per sconfiggerla definitivamente sembrano essere il mettere l’una dietro l’altra le tracce genetiche, comprendere le rela-zioni fra la chimica cerebrale e le fun-zioni psicologiche, ed imparare di più sui meccanismi che causano il danno cellula-re.

La sindrome depressiva

Potreste restare sorpresi nel sapere che la depressione e la degenerazione nervo-sa sono grandi amiche, ma è ormai noto che gravi forme di depressione portano alla morte delle cellule cerebrali.

La depressione è qualcosa di molto di-verso da quello che di quando in quando ciascuno di noi sente quando è un po’ giù d’umore. Abbiamo a che fare con una condizione medica veramente seria quando l’umore resta basso per un perio-do che si prolunga per settimane o mesi.

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“In questi giorni, mio papà non sa chi sono. Sembra semplicemente che non mi ricono-sca più. Si arrabbia e si spaventa allo stes-so tempo, non credo capisca cosa succede intorno a lui. All’inizio sembrava solo un po’ smemorato e perdeva sempre le cose. Poi è peggiorato. Non voleva andare a letto, sembrava non sapere che ora fosse o nep-pure dove si trovasse. Adesso non controlla più il suo intestino ed ha bisogno di essere imboccato e vestito. Non ce la faccio più.”

Alla fine prevale su tutto, fino a quando chi ne soffre vuole morire e potrebbe cercare di uccidersi. Questi soggetti manifestano altri sintomi caratteristici: sonno disturbato, diminuzione dell’appe-tito, perdita di concentrazione e memo-ria, e perdita di interesse nella vita. Per fortuna si tratta di una sindrome alta-mente curabile. I farmaci antidepressi-vi, che aumentano gli effetti dei tra-smettitori neuro-modulatori come la se-rotonina e la noradrenalina possono ri-solvere la malattia rapidamente, in qual-che settimana. Anche una cura supporta-ta da colloqui specialistici ha effetto, e la combinazione di interventi chimici e psicologici può essere assolutamente uti-le. La condizione è sorprendentemente comune – una persona su cinque può aver sofferto durante l’arco della propria vita di una sindrome depressiva di diversa gravità.

La condizione di depressione grave e cronica ha un effetto di sbilanciamento sul controllo degli ormoni dello stress, come il cortisolo, che vengono benefica-mente rilasciati in maniera massiccia du-rante una situazione stressante (vedi Capitolo 12). Tuttavia, se vengono attiva-ti continuamente, gli ormoni dello stress possono danneggiare le cellule cerebrali, particolarmente nei lobi frontale e tem-porale del cervello. Si è recentemente scoperto che i farmaci antidepressivi favoriscono l’integrità delle cellule cere-brali ed aumentano la frequenza con cui nuovi neuroni vengono prodotti nell’ippo-campo. In tal modo, essi proteggono da-gli effetti tossici che lo stress ha sul cervello e possono persino trasformarlo in una risorsa.

La Schizofrenia

Un altro disturbo psichiatrico che unisce anomalie della chimica cerebrale e delle strutture del cervello è la schizofrenia. Si tratta di una condizione progressiva e potenzialmente molto debilitante che colpisce una persona su cento. Il distur-bo inizia generalmente nella prima fase adulta e si dice faccia più vittime del cancro.

I sintomi fondamentali della schizofre-nia sono la delusione (convinzioni anoma-le, idee considerate bizzarre con natura spesso persecutoria) ed allucinazioni (di-sturbi della percezione durante i quali un soggetto sperimenta percezioni senso-riali anomale, come il sentire una voce provenire da un punto in cui non c’è nes-

“Inizialmente, non capivamo cosa stesse succedendo a nostra figlia Sue. Aveva ini-ziato bene all’Università e non aveva dif-ficoltà con gli esami del primo anno. Poi ha cominciato a cambiare: era sempre più calma e indifferente, quando era a casa. Ha smesso di vedere gli amici e più tardi abbiamo saputo che non frequentava più le lezioni, e restava a letto tutto il giorno. Poi, un giorno, ci ha detto di aver ricevuto un messaggio speciale da un programma televisivo, secondo cui lei aveva poteri speciali e che i satelliti la controllavano con la telepatia. Rideva senza ragione e poi passava subito al pianto. A volte stava proprio male. Diceva di sentire voci, tutto intorno a lei che parlavano di tutto ciò che lei faceva. Le fu diagnosticata la schizofrenia.La prima volta è stata in ospedale per cir-ca due mesi. Adesso prende farmaci rego-larmente. Anche se ultimamente è stata molto meglio - non ha più strane idee sui satelliti - è ancora molto disinteressata su tutto. Non va più all’Università ed ha pensato di lavorare per un po’ in un nego-zio, ma è dovuta tornare in ospedale per un paio di settimane ed ha perso il lavoro. Non è più la persona di prima”.

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suno). Si ha spesso una diminuzione pro-gressiva delle abilità cognitive, le inter-azioni sociali e le capacità lavorative.

Questa condizione è molto meno com-presa: non ha nulla a che fare con lo “sdoppiamento della personalità” con cui spesso viene confusa, né con gli scatti di violenza. In verità, le persone che sof-frono di schizofrenia sono più paurose piuttosto che pericolose. Ci sono chiara-mente fattori genetici che lavorano alla

Frontiere della Ricerca

Uno studio prospettico sulla Schiofrenia

La maggior parte degli studi sulle malattie neurologiche e psichiatriche si svolge su persone che sono già ammalate. Alcuni ri-cercatori in Scozia stanno usando l’infor-mazione genetica per studiare membri di famiglie che sono a rischio di sviluppare una certa malattia. Il brain imaging e lo studio accurato delle funzioni cognitive e delle condizioni fisiche vengono effettuati a intervalli regolari allo scopo di evidenzia-re segni del prossimo manifestarsi della malattia. Le si informazioni che si potreb-bero ottenere sarebbero molto utili nello sviluppo di nuovi trattamenti.

costruzione di questa malattia ma, come per altre condizioni, l’ambiente e lo stress sono altrettanto importanti. Co-munque, a causa di tutti gli ovvi cambia-menti psicologici, questa è principalmen-te una malattia del cervello. È noto da lungo tempo che in questa patologia i ventricoli cerebrali si dilatano, e che

l’attività dei lobi frontali viene inibita.

I farmaci che bloccano i recettori della dopa-mina sono utili nel ri-durre la fre-quenza dei sintomi ed il loro impatto, ma non risol-vono la situa-zione. Le ri-cerche più

recenti indicano che, attivando la sin-drome sperimentalmente con droghe co-me l’amfetamina, è possibile rilevare le anomalie nel rilascio della dopamina nelle persone affette da schizofrenia. Molto resta da scoprire su questa patologia: gli studi post-mortem suggeriscono che il modo in cui i neuroni si sono interconnes-si durante lo sviluppo potrebbe essere anomalo, e che altri sistemi di neurotra-smettitori, come il glutammato, potreb-bero essere malfunzionanti.

I nostri sforzi per capire la natura delle malattie mentali rappresentano l’ultima grande frontiera per le neuroscienze mediche. Organizzazioni come il Medical Research Council e il Wellcome Trust hanno messo la salute mentale in cima alla loro agenda per la ricerca del pros-

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Vincent Van Gog, il famoso pittore impressionista, soffriva di una grave de-pressione

simo decennio. Un importante progetto attuale è l’integrazione delle migliori ri-sorse della conoscenza genetica e del-l’indagine tomografica cerebrale per studiare la malattia in prospettiva – nelle famiglie a rischio (vedi Casella). Coprire la distanza che separa “le molecole dal resto” resta una delle più interessanti sfide della ricerca.

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18 - Neuroetica

C’era una volta, tanto tanto tempo fa (come spesso iniziano le favole), una netta distinzione fra scienza e tecno-logia. Gli scienziati perseguivano sfre-natamente il loro obiettivo di ricerca della verità, qualunque essa fosse, per il solo ed unico “piacere di scoprire”. Gli ingegneri ed i tecnici applicavano i frutti delle scoperte scientifiche per cambiare il mondo in cui viviamo. An-che se questa netta distinzione po-trebbe sembrare seducente, è ed è sempre stata una favola. Al giorno d’oggi gli scienziati sono persino i più attenti al contesto sociale in cui lavo-rano, ed al modo in cui tale contesto può influenzare la materia del loro studio.

Le questioni relative all’impatto delle neuroscienze sulla società sono raccolte sotto i nome generico di neuroetica – l’intersezione di neuroscienze, filosofia ed etica. Essa include il modo in cui le scoperte sul cervello possono influire sulla percezione di noi stessi come esseri umani (come le basi neurali della morali-tà), si occupa delle implicazioni nell’orga-nizzazione sociale (come le potenzialità nell’educazione dei bambini) e di come la ricerca stessa viene condotta (come l’etica sulla sperimentazione animale o l’uso dell’inganno con soggetti umani). La neurotica si occupa inoltre di come i neu-roscienziati dovrebbero interagire al meglio nel comunicare quello che fanno e

condividere le idee su come dovrebbero farlo.

Il contesto sociale

Anche se alcuni neuroscienziati ritengo-no che i loro concetti siano separati dalla realtà sociale, raramente questo è vero. Nel XVII secolo, Cartesio utilizzò una metafora idraulica per spiegare come gli “umori” del cervello muovevano i muscoli, una metafora ispirata dai giochi d’acqua che aveva visto nei giardini di un castello francese. All’inizio del XX secolo, in pie-na era industriale, i neurofisiologi de-scrivevano l’intricato intreccio del cer-vello come “un telaio incantato” o più tardi come una gigantesca “centralina telefonica”. Oggi, all’inizio del XXI seco-lo, ad abbondare sono le metafore con l’informatica, come la colorita specula-zione secondo la quale “la corteccia ce-rebrale opera non diversamente da una rete internet aziendale”. Alcune di que-ste affermazioni sono scorciatoie per aiutare a trasmettere idee complesse, ma anche concetti che sono già incorpo-rati in sofisticate teorie sul cervello.

Ciò che i neuroscienziati possono fare – e fanno – è affrontare i problemi scien-tifici separatamente dal mondo di ogni giorno. Spesso questa è una fuga in un mondo astratto e gergale, nel quale si avverte qualcosa di simile ad una ricerca

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monastica della verità. Ciò vale sia che si lavori sulle correnti ioniche che portano alla propagazione dei potenziali d’azione, sia a come i messaggeri chimici vengono rilasciati ed agiscono, o sul modo in cui le cellule attive nella corteccia visiva rap-presentano gli aspetti del mondo visibile. Molti problemi nelle neuroscienze posso-no essere valutati in maniera isolata e più malleabile.

Comunque, il mondo reale non è mai molto distante. Una volta scoperto come lavo-rano i trasmettitori chimici, è naturale pensare a dei farmaci furbi che ci pos-sano aiutare a ricordare meglio. Qualcu-no potrebbe pensare addirittura di pro-gettare neurotossine (veleni nervosi) che distruggano i processi più importanti, come gli inibitori enzimatici che sono semplicemente ad un passo dai veleni di una guerra biologica.Se fosse disponibile un farmaco che po-tesse aiutarti a passare un esame, lo prenderesti? C’è forse qualche differen-za fra questo ed un atleta che usi ste-roidi per migliorare le sue prestazioni o

una persona che prende degli antide-pressivi?

Dilemmi etici meno piacevoli circondano il futuro del brain-imaging. Ad esempio, le tecniche di brain-imaging potrebbero rendere presto realizzabile – con appro-priate procedure di verifica – la capacità di distinguere i ricordi veri di una perso-na da quelli falsi.Oggigiorno i dati disponibili sono talmen-te varabili da risultare inconcludenti, ma prima o poi i tribunali potrebbero di-sporre di una tecnologia di scansione del cervello – una sorta di “impronta digitale cerebrale” - che potrebbe aiutare a ri-conoscere l’affidabilità di un testimone. Questo ispira interessanti interrogativi su quello che si potrebbe chiamare pri-vacy cognitiva.

Le nuove scoperte sul cervello mettono continuamente in discussione la nostra cognizione di noi stessi. Idee influenti sull’evoluzione del cervello ne includono molte riferibili alla cognizione sociale. C’è una crescente presa di coscienza del

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fatto che la morale e la coscienza sono strettamente correlate al cervello emo-zionale che elabora i segnali di ricompen-sa e punizione – una possibilità che qual-cuno ha iscritto sotto il nome di etica evoluzionistica. Imparare di più su que-sto potrebbe essere un’immensa fonte di benessere, aiutandoci ad essere più at-tenti ai nostri sentimenti reciproci. Co-struire queste idee nei nostri primitivi concetti attuali di plasticità neuronale potrebbe avere un impatto sull’educazio-ne ben oltre gli obiettivi accademici più immediati che sono così spesso argomen-to di discussione.

È peraltro da apprezzare il fatto che i neuroscienziati non sono d’accordo sulle future direzioni della loro materia di studio. Per alcuni neurobiologi molecola-ri, la verità ultima risiede nei costituenti molecolari del sistema nervoso, con nuo-ve tecnologie proteomiche e genomiche che promettono descrizioni ancora mi-gliori del cervello che risolveranno le questioni poste da altri neuroscienziati. Questo è il modo di agire riduzionista, le cui fioriture filosofiche e tecnologiche sono spesso celebrate dai media. Ma è giustificata tanta fiducia nel riduzioni-smo? O esiste forse una descrizione di mente e cervello a più alti livelli e non riducibile in tal modo? Ci sono forse proprietà nuove che emergono dall’orga-nizzazione cerebrale? I neuroscienziati interazionisti credono fermamente in un modo di agire diverso. Si battono per un approccio più eclettico alle moderne neu-roscienze, un approccio che esplori an-che la loro interazione con le scienze so-ciali. Questi non sono argomenti che pos-sono essere discussi agevolmente in una conferenza pubblica, ma gli interrogativi su quali tipi di ricerca dovrebbero esse-re portati avanti sono una materia sulla quale la società dovrebbe essere consul-

tata. Dopo tutto, la ricerca è aiutata an-che dalle tasse di ciascuno di noi.

La Neuroetica – alcuni esempi concreti

Alcuni aspetti delle neuroscienze supe-rano di un passo il senso comune. Suppo-niamo che la scansione cerebrale di un soggetto volontario durante un esperi-mento riveli inaspettatamente un’anoma-lia al cervello: ad esempio, un tumore. O pensiamo all’eventualità che durante uno studio genetico una persona sia trovata portatrice di una mutazione che potreb-be portare ad una malattia neurodegene-rativa. In ciascuno di questi casi, biso-gnerebbe dirlo al soggetto? Il senso co-mune suggerirebbe che la responsabilità venisse scaricata sul volontario, chie-dendogli anticipatamente di consentire o rifiutare che qualunque informazione di interesse medico scoperta durante la scansione venga utilizzata.

Comunque, il consenso informato è una materia curiosa. Supponiamo che uno studioso del cervello stia facendo delle prove per un nuovo trattamento per gli infarti cerebrali, nelle quali vengono dati veri farmaci o dosi di placebo, in maniera non dichiarata, entro alcune ore dopo l’evento. Questo protocollo casuale ri-spetta i criteri scientifici. Ma non pos-siamo sapere in anticipo chi ne sarà col-pito e potrebbe essere impossibile per queste persone dare il loro consenso in-formato una volta ricoverate. Questi pa-zienti dunque non potrebbero partecipa-re a questo esperimento, e ciò andrebbe a danno per loro stessi nel lungo termine – se l’evento si ripresenta – e per i pa-zienti futuri. I parenti potrebbero inol-tre non essere nello stato d’animo adatto per decidere al loro posto in tempo utile.

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Dovremmo allora abbandonare l’idea del consenso informato e sostituirlo con la rinuncia esplicita, per un bene superiore? Siamo su un terreno decisamente scivo-loso.

Un altro aspetto importante della neu-roetica riguarda la sperimentazione animale. Gli animali non sono nella posi-zione di acconsentire agli esperimenti invasivi che vengono condotti sul loro cervello. Per alcune persone, il solo pen-sare a queste cose è sgradevole. Per al-tre, l’offerta di progresso nella com-prensione del sistema nervoso sano e malato è tale da non far pensare che sia un metodo irrazionale. Non sono argo-menti da affrontare a cuor leggero, ma è importante discuterne – e gli scienziati ne discutono, molto e con rispetto.

Nella maggior parte dei Paesi europei, la sperimentazione animale è regolata in maniera molto rigida. I ricercatori devo-no seguire dei corsi e superare degli esami che attestino la loro conoscenza delle leggi e la loro competenza nell’assi-curare che non vengano inflitte inutili sofferenze agli animali. È largamente ac-cettata la “regola delle tre R” – ridurre, raffinare e rimpiazzare – come insieme di principi a cui gli scienziati biomedici devono sottostare. Lo fanno volentieri, all’interno dei vincoli di legge, e questo consente l’accettazione pubblica estesa se non unanime. Molte nuove scoperte in neuroscienze stanno emergendo dalle tecniche di rimpiazzo, come le colture di tessuti e la creazione di modelli compu-tazionali. Ma queste non possono sosti-tuire tutti gli studi fatti su un cervello vivo, dai quali stanno arrivando molte nuove scoperte e cure per le malattie neurologiche e psichiatriche. Ad esem-pio, l’uso della L-DOPA per curare il Morbo di Parkinson deriva da uno studio

svolto sul cervello di ratti e che ha meri-tato il Premio Nobel. Tecniche sempre nuove offrono l’opportunità di aiutare sia le persone malate sia gli animali malati.

Basta dirlo...

È un fatto strano che le nazioni in cui gli scienziati fanno del loro meglio per co-municare con il grande pubblico siano an-che le nazioni in cui ci sono i più bassi livelli di fiducia negli scienziati stessi. Ma non si prendano le correlazioni stati-stiche per spiegazioni sulle cause: è im-probabile che questo sforzo responsabi-le nel coinvolgere il pubblico nella di-scussione sull’impatto della scienza sulla società – ed il crescente senso del do-verlo fare – sia la causa di questa cre-scente sfiducia. Piuttosto, il fatto è che il pubblico interessato sta diventando sempre più sofisticato, precisamente più scettico riguardo a nuove “medicine mi-racolose” e più attento al lento ed a vol-te incerto progresso della scienza. Ri-durre la sfiducia non è un buon motivo per favorire il ritorno di una cieca igno-ranza.

Un motivo di discussione con i giovani ed il pubblico interessato alle neuroscienze è che i neuroscienziati sono ancora in di-saccordo su molti dei principi del loro campo di studio. Anziché focalizzare l’attenzione su singole scoperte, i media farebbero meglio a pensare di più ad una scienza come processo. Un processo crivellato di incertezze e dibattiti.

La neuroetica è un nuovo campo di stu-dio. È ironico il fatto che sia stato Ri-chard Feynman, un fisico teorico, ad aver descritto la ragione per occuparsi di scienza come “il piacere di scoprire”. Ironico, perché è stato proprio il teorico Feynman a gettarsi a capofitto per sco-

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prire il perché una delle navette spaziali americane Shuttle, il Challenger, era esplosa poco dopo il decollo. L’impatto della scienza sulla società ci riguarda tutti.

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