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Alice Fantastic - Maggie Estep

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Se una giocatrice d'azzardo di professione, esperta in corse di cavalli, vuole chiudere il suo rapporto con il ragazzo, ironicamente chiamato il "grande tonto", cosa fa? Naturalmente chiede ad un suo amico di scommesse, abituale frequentatore dell'ippodromo, di aiutarla in questo compito. Ma la cosa, apparentemente semplice, prenderà una strana piega. Altre due donne affiancheranno Alice in questa "favola urbana", Eloise, la sorella che di professione crea strambi giocattoli e il cui ragazzo ha perso la vita in uno strano incidente, e Kimberly, la loro poco convenzionale madre, che vive a Woodstock con 17 cani e con una bella e confusa assistente. Sarà la scoperta di un terribile segreto a mettere insieme i pezzi di questa bizzarra, surreale, storia fatta di donne eccentriche, amanti vivi e morti, cani, e naturalmente cavalli.

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Maggie Estep

ALICE FANTASTIC

traduzione di claudia antonucci e giordano bruno raggi

Casini Editore

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Titolo originale dell’opera: Alice Fantastic.Copyright © 2009 by Maggie Estep.

This edition has been published in agreement with Akashic Books trough Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency.

www.akashicbooks.com

© 2010 Valter Casini Edizioniwww.casinieditore.com

ISBN: 978-88-7905-175-0

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Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi sono il prodotto dell’immaginazione dell’autore oppure sono stati rielabo-rati attraverso la fantasia.Qualsiasi analogia con persone vere, vive o morte, eventi o località è del tutto casuale.

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1. ALICE

Erano diciassette settimane che cercavo di liberarmi del grande tonto, ma lui continuava semplicemente a tornare. Sentivo suonare il campanello, guardavo fuori dalla finestra e lo trovavo davanti alla porta con l’aria da cane bastonato. Non so cosa avrei potuto farmene di un altro cane bastona-to visto che avevo già preso la bastardina bianca con delle chiazze marroni che mio cugino Jeremy aveva trovato ab-bandonata in un parcheggio per camion nel Kentucky. Non potendola tenere, il cugino Jeremy mi aveva chiamato e in qualche modo mi aveva convinto a dare una casa alla bestio-lina. Dopo averla portata dal veterinario per l’antirabbica e la sterilizzazione, Jeremy le aveva trovato un passaggio grazie a uno dei suoi amici strambi che faceva regolarmente il viaggio dal Kentucky al Queens per trasportare sigarette da due soldi. Una notte l’amico di Jeremy aveva fermato il furgone davanti al mio palazzo, appena prima di mezzanotte, e la cucciola era saltata fuori ed era rimasta a fissarmi, con addosso la puzza di sigarette e l’aria da cane bastonato. Non che pensassi che quel tipo strambo l’avesse bastonata davvero. Il punto è che avevo già un cane bastonato. A cosa mi sarebbe servito un uomo con lo stesso aspetto?

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Non ne avevo bisogno. Ma ogni volta che suonava il cam-panello lo facevo entrare e anche se avessi avuto addosso l’ac-cappatoio sporco del mio defunto padre e non mi fossi fatta la doccia per cinque giorni, mi avrebbe detto «Sei fantastica, Ali-ce». Sapevo che diceva sul serio, che vedeva qualcosa di mera-viglioso nei miei capelli castani spettinati, nella mia faccia gon-fia e nei foruncoli che mi erano spuntati all’improvviso all’età di trentasei anni. Era tutto così imbarazzante. I foruncoli, il fatto che lasciassi che un grande tonto entrasse in casa e strofinasse il naso sulla mia carne non lavata, il cagnolino che si sedeva sul bordo del letto e mi guardava mentre ci davo dentro con Clay-ton, il grande tonto.

La mia vita era un disastro.Quindi avevo promesso a me stessa di farla finita con Clay-

ton. Me l’ero promesso alle sette di mattina di un martedì in cui mi ero svegliata con un insolito senso di chiarezza. Avevo aper-to gli occhi e avevo visto la sottile luce del sole invernale che attraversava le finestre della casa che il mio defunto padre mi aveva lasciato. Candy, la cagnolina del parcheggio per i camion, era seduta sul bordo del letto e aspettava educatamente che mi svegliassi perché la cosa migliore dei randagi è che sono così grati di essere stati accolti che si adattano a qualsiasi abitudine o bisogno dei loro padroni. Quindi, Candy era sul bordo del letto e il sole entrava dalle finestre della casa del mio padre defunto sul-la 47th Road nei sobborghi del Queens, New York. E mi sentivo lucida. Chissà perché. Mi sentivo lucida e basta. E sentivo che dovevo rimettermi in sesto. Farmi la doccia più spesso. Smettere di fumare così tanto. Riprendere le lezioni di yoga e di kick bo-xing. Evitare di consumare in un lampo i modesti guadagni che facevo come modesta giocatrice d’azzardo. Dare una scossa alla mia vita. E per farlo avrei dovuto per prima cosa liberarmi del tonto, Clayton. In ogni caso, chi ha mai sentito parlare di un tipo che si chiama Clayton che non abbia almeno novantasette anni?

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Alice

Entrai nella doccia e mi strofinai per bene lavando anche i miei folti capelli unti. Mi misi dei vestiti puliti presi dall’arma-dio invece di pescare a caso qualcosa dal cesto come avevo fatto nelle ultime settimane. Indossai un paio di jeans neri e un ma-glione verde. Mi guardai allo specchio. I capelli quasi asciutti erano a posto e anche il gonfiore del viso era attenuato. Perfino i foruncoli erano meno appariscenti. Avevo un aspetto vagamente vivo.

Presi il cappotto dal gancio, misi il guinzaglio a Candy e uscii per portarla a camminare lungo l’East River, a due passi dai condomini che si affacciano su Manhattan. Il mio defunto padre adorava la città di Long Island. Si era trasferito lì negli anni Settanta, quando la zona era quasi interamente industriale, per vivere con qualche puttana ubriacona, subito dopo che mia madre lo aveva lasciato per mettersi con il musicista rock che sarebbe diventato il padre della mia sorellastra. Mio padre era rimasto nel quartiere molto tempo dopo che la puttana lo aveva mollato — tutte le donne mollavano di continuo mio padre — e alla fine aveva comprato una casetta di legno a due piani che de-cise di lasciare a me, la sua unica figlia, quando il cancro lo uc-cise l’anno scorso, a cinquantanove anni. Mi piace Long Island. È tranquilla e ci sono tanti posti in cui comprare dei tacos.

— Sei proprio bella, mammina — mi disse un tipo mentre passavo con Candy davanti al distributore di benzina.

Gli lanciai un’occhiataccia.Mentre Candy annusava in giro, faceva i suoi bisogni e cerca-

va di mangiare un po’ di spazzatura, io fumavo qualche Marlbo-ro e guardavo Manhattan. Era bella da quella distanza.

L’aria era così fredda da sembrare quasi pulita e iniziai a pen-sare a come liberarmi di Clayton. Ci avevo provato così tante volte. Lo avevo convinto a non chiamarmi più. Ma ogni volta tornava a suonare il campanello nel giro di due giorni. Allora lo avrei fatto entrare. Mi avrebbe guardata con quei grandi occhi

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marroni e mi avrebbe detto quanto ero bella: «Alice, sei fantasti-ca». Lo aveva ripetuto così tante volte che ero arrivata a pensare a me stessa come a Fantastica Alice, anche se non ci sarebbe sta-to niente di fantastico nella mia vita finché non mi fossi liberata di Clayton.

Avrei iniziato con il ritornello che ripetevo da diciassette set-timane: «La nostra relazione non funziona più, Clayton». Lui avrebbe assunto un’espressione ferita e le sue spalle sarebbero crollate al punto che avrei dovuto toccarlo e una volta che lo avessi toccato saremmo corsi a letto e il sesso sarebbe stato piut-tosto bello, bello quanto può esserlo con una persona da cui si è attratti fisicamente nonostante il fatto, o forse proprio grazie al fatto, che non c’è nient’altro in comune e, siccome il sesso sarebbe stato bello, avrei considerato l’idea di vedere Clayton in modo più o meno regolare e immagino che fosse questo lo sba-glio che avevo sempre fatto. Avrebbe visto quell’idea nei miei occhi e ci si sarebbe aggrappato e avrebbe provato dei sentimenti e quei sentimenti lo avrebbero reso un amante prodigioso al pun-to da farmi restare così colpita dal sesso che avrei stupidamente risposto “Sì” quando mi avrebbe chiesto di passare la notte con me e avrei stupidamente risposto “Sì” la mattina dopo, quando avrebbe chiesto di potermi chiamare.

Ma il troppo è troppo. Non volevo che Clayton si convincesse che saremmo diventati una coppia fissa e che saremmo invec-chiati insieme in un parcheggio per camper in Florida.

Al momento Clayton vive in un parcheggio. Nel suo furgone. L’ho scoperto quando, quella prima notte, dopo che lo avevo incontrato al taco bar e avevo passeggiato con lui lungo il fiu-me, godendomi la sua semplicità e la sua lunga e lenta andatura, lo avevo portato a casa e gli ero saltata addosso nell’ingresso chiedendogli di scoparmi da dietro in cucina per poi condurlo in camera da letto dove per un po’ ce n’eravamo stati tranquilli finché, quando era di nuovo duro, indossando un paio di calze

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Alice

gli avevo chiesto di strapparmele; dopo tutto ciò, quando stavo pensando a un modo educato per chiedergli di andarsene, si era appoggiato su un gomito e mi aveva detto quanto gli piacessi. — Mi piaci davvero, voglio dire, mi piaci davvero — mentre mi guardava con quegli occhi grandi come lune e, anche se deside-ravo solo leggere un libro e mettermi a dormire, non avevo avuto il coraggio di buttarlo fuori di casa.

Aveva piagnucolato tutta la notte, raccontandomi le sue di-sgrazie. Sua madre aveva l’Alzheimer e suo padre era in prigio-ne per contraffazione. La moglie lo aveva lasciato per un idrau-lico, aveva perso il lavoro al negozio in cui fabbricava gabinetti e viveva in un parcheggio e si faceva la doccia nel blocco Y.

— Devo lasciare il Queens, in fretta — aveva detto.— Per andare dove?— In Florida. Non mi piace il freddo. Mi entra nelle ossa.— Sì. La Florida — avevo detto. C’ero stata. Agli ippodromi

di Gulfstream Park, Calder Race e Tampa Bay Downs. Però non glielo avevo detto. Avevo detto solo “Sì, la Florida”, come se non fossi stata contraria alla Florida, come se volessi fargli pen-sare che la Florida potesse piacermi, cosa che lo avrebbe proba-bilmente portato a pensare che fossi disposta a trasferirmi con lui. Forse volevo solo essere gentile.

— Un semplice camper andrebbe bene. Mi piacciono i cam-per — aveva detto Clayton.

— Già — avevo detto. Poi avevo fatto finta di addormentarmi.Era successo diciassette settimane prima. E ancora non mi

liberavo di lui.Camminai con Candy per quasi un’ora prima di dirigermi ver-

so casa. Passai di nuovo davanti al distributore di benzina dove l’idiota sentì il bisogno di ripetere «Sei proprio bella, mammi-na». Mi fermai, lo fissai, e cercai le parole per spiegargli quanto fosse disgustoso farsi chiamare “mammina” perché sentendolo mi immaginavo quel tipo che faceva sesso con sua madre, in-

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dubbiamente una vecchia con un’infinità di rotoli di grasso e con le ragnatele fra le gambe. Ma non trovavo le parole e siccome quel tipo stava iniziando a sorridere, probabilmente convinto di avermi colpita, ripresi a camminare.

Tornata a casa diedi a Candy gli avanzi della cena della sera prima e mi misi seduta al tavolo della cucina davanti al compu-ter, al “Daily Racing Form” e al mio blocco per gli appunti. Ini-ziai a lavorare sulle corse del giorno successivo all’ippodromo di Aqueduct. Per quanti cambiamenti volessi fare nella mia vita, avevo comunque bisogno di lavorare. Non c’erano grandi even-ti, anche per gli standard di un mercoledì di febbraio, quindi non avrei puntato grosse somme. Avrei comunque osservato. Preso appunti. Ascoltato. Mi sarei goduta il mio lavoro. Lo faccio sem-pre. Non importa quanti colpi di sfortuna devo sopportare, non importa quante volte il buon senso mi ha detto di cercare un impiego più stabile e una vita priva di aritmie causate dalla ten-sione. Sono una giocatrice d’azzardo.

Dopo parecchie ore cominciai a sentire un po’ di fame e guar-dai nel frigorifero. Della lattuga agonizzante, un po’ di succo d’arancia e un uovo. Pensai di bollire l’uovo, visto che ci sono dei giorni in cui niente mi rende più felice di un uovo bollito, ma decisi che quello non era uno di quei giorni. Sarei andata al taco bar. Misi il guinzaglio a Candy, indossai il cappotto ed ero quasi alla porta quando squillò il telefono. Risposi.

— Ciao, Alice. — Era la voce bassa di Clayton.Mi scappò un gemito.— Tutto a posto? Ti senti male?— Più o meno.— Che significa? Cos’hai? Arrivo subito.— No, Clayton, non venire. Sto male solo perché non accetti

un no come risposta.— No, riguardo a cosa?— Riguardo al continuare così.

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Alice

Ci fu un silenzio di tomba.— Dove sei? — chiesi.— Nel parcheggio.— Ah — dissi. — Clayton, so che pensi di essere un tipo a

posto ma non è bello che continui a farti vedere nonostante ti abbia chiesto ripetutamente di non farlo. Mi sento perseguitata.

Di nuovo il silenzio. — Ho bisogno di vivere tranquilla.Silenzio. Poi, dopo qualche minuto: — Non ti piace più come

ti tocco?— Nella vita ci sono anche altre cose.— Uh? — disse Clayton. — Non ne avevo idea, visto che

tutto quello che mi permetti di fare è venire a casa tua e scoparti.Clayton non aveva mai usato la parola “scopare”. Era cre-

sciuto in un qualche tipo di ambiente religioso.— La mia vita è vuota, Clayton, vado all’ippodromo. Scom-

metto, prendo appunti e fumo una sigaretta dopo l’altra per non vomitare dalla paura. Parlo con qualche altro giocatore. Torno a casa e preparo la cena o vado a comprare qualche taco. Porto il cane a passeggio. Tutto qui. Non c’è niente nella mia vita, Clay-ton, niente da vedere.

— Allora fammi venire con te.— Venire dove?— All’ippodromo.— Ti sto chiedendo di non chiamarmi mai più e di uscire dal-

la mia vita. Perché dovrei portarti all’ippodromo?— Voglio solo vedere una piccola parte della tua vita. Me

lo merito. Consideralo un po’ come se mi stessi passando gli alimenti.

Non vedevo perché avrei dovuto fare qualcosa per lui. Co-munque accettai. Almeno lo convinsi a riattaccare il telefono.

Andai con Candy al taco bar. Tornai a casa e mangiai la mia cena, dandone metà al cane.

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• • •Avevo detto a Clayton di incontrarci la mattina successiva

alle undici per poi prendere la metropolitana. Si era offerto di ac-compagnarmi ma avevo paura che quel suo mostruoso furgone potesse cadere a pezzi a metà strada. Suonò il campanello e scesi le scale trovandolo con uno sguardo colmo di speranza. Come se vederci alla luce del giorno implicasse il matrimonio e l’im-minente arrivo di un bambino. Non che gli avessi mai chiesto qualcosa di simile ma lui era quel genere d’uomo, il genere che sembro attirare fin troppo spesso, il genere che vuole sistemarsi e mettere su famiglia. A quanto si dice, ci sono milioni di donne alla ricerca di uomini così, quindi non capisco perché vengano tutti a bussare alla mia porta. Immagino sia come una sfida. Que-sto li rende uomini.

— Ciao Alice — disse sorridendo, — sei fantastica.— Grazie — dissi. In effetti, mi ero sistemata. Avevo una

gonna nera stretta lunga fino al ginocchio e un morbido maglio-ne nero che lasciava le spalle scoperte — se avessi tolto il cap-potto, cosa che non avevo intenzione di fare perché se Clayton avesse visto un solo centimetro di pelle avrebbe cominciato a farsi delle idee.

— Lo faccio solo perché me lo hai chiesto — dissi mentre camminavamo verso la linea G, — ma devi capire che questo è il mio lavoro e non puoi interferire o farmi troppe domande. Guar-davo dritta davanti a me per non vedere nessun segno di dolore nei suoi occhi, perché quello era uno dei suoi trucchi, lo sguardo ferito, lo sguardo da cane bastonato che cominciava veramente a stancarmi.

— Certo — disse Clayton. Entrammo nella stazione e, mentre aspettavamo un’eter-

nità come sempre succede con la linea G, Clayton restò a fissarmi, così intensamente che ero sicura mi avrebbe trasfor-mato in pietra.

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Alice

Alla fine arrivò il treno che ci portò alla stazione di Hoyt–Schemerhorn a Brooklyn dove prendemmo la linea A, decisa-mente più efficiente. L’idea di andare all’Aqueduct mi sollevava il morale. Ci sono ben poche persone a cui piace l’Aqueduct e io sono una di quelle. Il Belmont è bello e spazioso mentre il Sara-toga è imponente se si riesce a sopportare la folla, ma io adoro l’Aqueduct. All’Aqueduct puoi incontrare allenatori in rovina abbandonati sugli spalti, degenerati, ubriachi che si scambiano consigli e qualche giocatore professionista pieno di esperienza che si occupa stoicamente dei propri affari. Il mio posto ideale.

Dopo trenta minuti, il treno arrivò alla fermata Aqueduct. Scendemmo. C’eravamo io, Clayton, un paio di bianchi di mez-za età, dei tipi con i rasta leggermente più giovani e un elegante uomo sulla cinquantina proprietario di qualche cavallo o che fin-geva di esserlo.

— Oh, che bel posto — mentì Clayton mentre uscivamo dal tunnel sotto i binari.

La struttura appariva come il set di un film di zombie de-gli anni Settanta, con i colori sbiaditi e sfumati, l’onnipresente grigio newyorkese e gli aeroplani diretti al JFK che volavano così bassi che sembrava quasi che stessero per atterrare su di un cavallo.

— Andiamo al ristorante a mangiare qualche omelette — dis-si a Clayton quando fummo dentro. — Il caffè fa schifo ma le omelette sono buone.

— Va bene — disse Clayton.Prendemmo le scale mobili fino alla cima e, arrivati alla gran-

de porta in vetro dell’Equestris, Manny, il maître, mi salutò e ci diede un tavolo con vista sulla linea d’arrivo.

Poi Clayton iniziò con le domande. Non era mai stato un tipo da troppe domande, né, in effetti, un tipo loquace, ma all’im-provviso voleva sapere la storia dell’Aqueduct, e la mia storia con l’Aqueduct, e cos’altro avessi mai fatto per guadagnarmi

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da vivere e cosa pensasse la mia famiglia del fatto che fossi una giocatrice professionista, eccetera eccetera…

— Te l’ho detto, devo lavorare. Basta con gli interrogatori. Ecco il modulo delle corse — dissi dandogli la copia in più che avevo stampato, — studialo e lasciami in pace.

Il poveraccio fissò il modulo ma ovviamente non aveva idea di come si leggesse. A volte dimentico che non tutti sanno que-ste cose. A me sembra di aver sempre saputo cosa implicasse andare all’ippodromo, da quando mi ci portava mio cugino Je-remy, che all’epoca viveva ancora nel Queens e si occupava di me quando mio padre era fuori città per qualche lavoro edile. Ho iniziato a scommettere a nove anni e mi sono dimostrata ragionevolmente scaltra nel gestire i soldi e nel valutare i ri-schi, sin dall’inizio. Quel primo giorno avevo accumulato un buon profitto, con Jeremy che piazzava le scommesse per me e nonostante le serie sfortunate che ho subito da allora, i pe-riodi vertiginosamente alti continuano a compensare i periodi negativi. Ho tirato avanti. Per qualche tempo ho avuto un lavo-ro come supplente di liceo dopo essermi diplomata all’Hunter College, ma era incredibilmente noioso. Così avevo ripreso a giocare d’azzardo. Pochi resistono più di qualche anno ma io ero riuscita a farne un lavoro con cui guadagnarmi da vivere. Principalmente perché l’idea di fare qualsiasi altra cosa è in-sopportabile. Mi sentirei una semplice cittadina. Un ingranag-gio. Una pecora.

Clayton mi stava facendo pena e stavo per spiegargli come leggere il modulo quando Arthur arrivò e si sedette al tavolo con noi.

— Vedi quel pezzo di merda di Pletcher nella quinta gara? — chiese Arthur. Arthur, che pesava cinquantacinque chili o poco più, non era un tipo a cui piaceva scherzare. Non gli interessava che gli presentassi Clayton e probabilmente non si era neanche accorto che fossi con qualcuno. Voleva solo la conferma che il

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puledro allevato da Todd Pletcher e che partecipava alla quinta corsa fosse un pezzo di merda nonostante fosse costato quasi due milioni e mezzo di dollari all’asta di Keeneland.

— Sì — risposi, annuendo con gravità. — Lo danno 1 a 9.— È un pidocchio — disse Arthur.— Già. Be’, non lo scarterei con un Pick 6.— Io voglio scartarlo.— Va bene — dissi.— Non ha mai affrontato avversari seri e non ha mai fatto due

giri. E c’è quel bel cavallo di Nick che è favorito.— Giusto — dissi.— Voglio puntare sul cavallo di Nick. Solo su quello.— Io non scarterei il cavallo di Pletcher.— Fanculo il cavallo di Pletcher — disse Arthur alzandosi e

precipitandosi dall’altra parte del locale dove lo vidi sedersi con dei tipi del “Daily Racing Form”.

— Amico tuo? — chiese Clayton.Feci di sì con la testa. — Arthur. È un tipo a posto.— Davvero?— Certo.Di sicuro Clayton voleva arrivare a qualcosa. Voleva chieder-

mi perché pensassi che un piccoletto che si era appena seduto al nostro tavolo e aveva iniziato a insultare dei cavalli fosse un tipo a posto. Un altro motivo per liberarsi di Clayton.

Uno dei camerieri arrivò al tavolo e prese l’ordine. Visto che avevo pianificato la maggior parte delle scommesse, mi presi dieci minuti per fare a Clayton un corso introduttivo su come leggere le precedenti prestazioni dei cavalli. Mi stavo sporgendo verso di lui indicando con un dito la riga delle corse, quando Clayton mi baciò l’orecchio.

— Ti amo, Alice.— Dio mio, Clayton — dissi. — Che cazzo ti è preso?Clayton sembrava un cane bastonato.

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— Ti ho portato qui perché pensavo che fosse un bel modo di passare il nostro ultimo giorno insieme ma, cazzo, perché devi diventare ridicolo? — gli chiesi.

— Non voglio che finisca. Sei tutto quello che ho.— Non sono tua.— Che significa?— Clayton, non c’è futuro. No mas — dissi.— No cosa?— No mas — ripetei. — Basta. In spagnolo.— Sei spagnola?— No, Clayton, non sono spagnola. Merda, mi lasci lavorare?— Tutto bene qui?Alzai lo sguardo e vidi Vito che incombeva sul tavolo. Vito

era un tipo tarchiato e pieno di peli, una specie di mafioso di bas-so rango o aspirante mafioso proprietario di qualche cavallo da due soldi. Si vantava di essere un giocatore fortunato ma io ero sicura che fosse solo uno dei tanti che andavano spiattellando in giro bugie sui loro profitti.

— È tutto a posto — risposi, aggrottando le sopracciglia. Per quanto Clayton mi stesse infastidendo, non erano affari di Vito. Il problema con i tipi come Vito è che, essendo io una bella don-na sotto gli ottanta anni, una vera rarità all’Aqueduct, tendono a diventare protettivi nei miei confronti. Avrei anche potuto ap-prezzarlo, se Vito non fosse stato così viscido.

Vito aggrottò il monociglio. Sudava copiosamente anche se nel ristorante l’aria era fresca.

— Sono Vito — disse con aria aggressiva mentre tendeva la mano a Clayton, — e lei è?

— Clayton — rispose quello che a breve sarebbe stato il mio ex amante stringendo la mano unta di Vito.

— Qui ci prendiamo tutti cura di Alice — disse Vito.“Vaffanculo, Vito” pensai senza però dirlo. Un giorno avrei

potuto avere bisogno di Vito per qualcosa.

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Alice

— Oh — disse Clayton, confuso, — bene. Anche io mi pren-do cura di lei.

Vito strinse gli occhi già piccoli, spostò lo sguardo da me a Clayton e di nuovo a me, poi si voltò e se ne andò.

— Ci vediamo, Vito — dissi mentre usciva dal ristorante, probabilmente diretto al paddock per esprimere le sue opinioni sui concorrenti della prima corsa.

Poi iniziarono le corse. Feci un po’ di soldi grazie a una ca-valla arrivata dal Philadelphia Park. Era stata allevata da una donna sconosciuta, era cavalcata da uno sconosciuto fantino alle prime armi e aveva corso solo al Philadelphia Park quindi, no-nostante una buona serie di prestazioni passate, era per lo più ignorata e data 14 a 1. Avevo puntato duecento dollari su di lei in una Exacta e l’avevo messa davanti a tutti i cavalli che erano meglio quotati. Me la cavai abbastanza bene, cosa che alleviò l’irritazione causata da Clayton, diventata così intensa da far-mi passare la voglia di mangiare l’omelette e farmi considerare l’idea di chiedere a Vito di toglierlo di mezzo. Non “togliere di mezzo” nel senso di togliere di mezzo. Non lo volevo morto o ferito, solo spaventato. Per farlo, però, sarei stata costretta a chiedere un favore a Vito e non volevo stabilire un rapporto di quel genere con un tipo come quello.

Iniziò la quinta corsa e la osservai con interesse per vedere come se la cavava il puledro che piaceva tanto ad Arthur. Come avevo immaginato il puledro allevato da Todd Pletcher, che Ar-thur odiava e che a inizio corsa veniva dato 1 a 9, scattò dal cancello sei e si piazzò a poca distanza dal cavallo alla testa del gruppo. Gang of Seven, il cavallo che piaceva ad Arthur, era in fondo al gruppo e si prendeva il suo tempo. A un quarto di mi-glio dalla fine, Gang of Seven iniziò a rimontare e superò tutti gli avversari fino a ritrovarsi in pari con il cavallo di Pletcher. Gang of Seven e il pupillo di Pletcher duellarono sul filo del rasoio e sembrarono tagliare insieme il traguardo.

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— Troppo vicini per dichiarare il vincitore — esclamò lo speaker.

Alcuni minuti dopo sugli schermi apparve la foto in cui si vedeva il cavallo di Pletcher battere il favorito di Big Arthur per un pelo.

— Sono un idiota! — Sentii Arthur che urlava a qualche ta-volo di distanza. Poi lo vidi alzarsi e uscire dal ristorante infuria-to, probabilmente per andare sul terrazzo a fumare una sigaretta dietro l’altra e chiamare una ventina dei suoi amici giocatori e annunciargli la propria idiozia.

— Quello ha qualche problema — disse Clayton.— No, ti sbagli. — Anche se era vero che Arthur aveva qual-

che problema a controllare la rabbia, in fondo era una brava per-sona.

Mi alzai e me ne andai, lasciando Clayton a fissarmi con quei suoi occhi grandi come piatti da portata.

Scesi verso il paddock, sperando che Clayton non mi seguis-se. Trovai Vito con lo sguardo fisso fuori della finestra e con l’enorme pancia premuta contro la vetrata. Mentre cercavo un posto più lontano possibile da Vito, mi voltai per assicurarmi che Clayton non mi avesse seguita. Mi aveva seguita. Lo vidi vagare vicino agli sportelli delle scommesse mentre scrutava a destra e a sinistra. Mi avrebbe trovata da un momento all’altro. Non mi sarei mai liberata di lui. Sarebbero passate altre diciassette settimane.

Dovevo fargli arrivare un messaggio chiaro. Così feci qual-cosa di un po’ folle.

— Vito — dissi avvicinandomi a lui.— Uh? — Si voltò.— Un favore? — chiesi.I suoi occhietti neri brillarono.— Qualsiasi cosa, piccola.Mi stavo già pentendo.

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— Puoi spaventare quel tipo con cui ero seduta? Solo render-lo nervoso? Farlo andare via?

Vito spalancò gli occhi, come se qualcuno gli avesse messo un grosso pezzo di carne sanguinante davanti al viso.

— Dici sul serio? — Si avvicinò.Esitai per un attimo. Poi ripensai alla dichiarazione d’amore

di Clayton.— Sì — risposi.— Certo. Dov’è?Mi guardai alle spalle ma non lo trovai.— È qui da qualche parte. Diamo un’occhiata.Vito s’incamminò di fianco a me. Cercammo intorno agli

sportelli delle scommesse al piano terra ma non c’era traccia di Clayton. Poi guardai fuori dalla finestra e lo vidi in piedi vicino a una panchina vuota, la schiena curva e l’aria infreddolita e spaesata sotto il cielo grigio.

— Laggiù.— Me ne occupo io — disse Vito.Senza aggiungere altro, Vito marciò verso l’esterno. Lo vidi

avvicinarsi a Clayton. Vidi Clayton piegare la testa a destra e a sinistra come avrebbe fatto un cane confuso. Pensai a Candy. Più tardi nel pomeriggio sarei andata a casa e forse, grazie a Vito, non mi sarei dovuta preoccupare della possibilità che arrivasse il grande tonto con le sue dichiarazioni insensate. Io e Candy avremmo avuto un po’ di tranquillità.

Vito e Clayton erano rientrati e stavano camminando uno a fianco all’altro. Passarono non troppo lontani da me. Dove sta-vano andando? Pensavo che a Vito sarebbero bastate poche pa-role scelte con cura, e fine della storia. Ma sembrava che stesse portando Clayton da qualche parte.

Li seguii da lontano. Scesero le scale mobili e uscirono dal-la porta principale. Vito aveva indosso solo una camicia abbot-tonata fino al collo e non sembrava accorgersi dell’aria fredda

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di febbraio. Clayton si strinse nel cappotto fino a coprirsi anche le orecchie.

Si diressero alla banchina della metropolitana. Vidi Clayton prendere la Metrocard e attraversare il tornello. Poi diede la tes-sera a Vito che lo seguì all’interno.

Che cazzo?Mi fermai a metà della rampa che portava al tornello. I due

erano a circa cento metri davanti a me ma mi voltavano le spalle. Non c’era nessun altro sulla banchina.

Iniziarono ad alzare la voce. Non riuscivo a capire cosa si stessero dicendo. Il vento e un aeroplano a bassa quota copriva-no le voci.

Poi, il suono di un treno che si avvicinava e un movimento indistinto.

Un corpo cadde sui binari proprio mentre stava arrivando il treno. Mi preparai allo stridio dei freni. Non udii mai quel suo-no. Il treno entrò in stazione. Le porte si aprirono e si chiusero. Nessuno salì o scese. Il treno ripartì. Era rimasto solo un uomo sulla banchina. Stava guardando in basso, verso i binari.

Avevo le dita intorpidite e mi stava venendo il mal di testa.Mi avvicinai lentamente alla banchina. Presi la tessera del-

la metropolitana dal cappotto. La feci passare nella fessura e attraversai il tornello. Camminai fino al bordo della banchi-na e guardai i binari. C’era un braccio separato dal resto del corpo. Il sangue che usciva dalla spalla. La testa girata in un angolo innaturale. Come aveva fatto il conducente del treno a non accorgersi di nulla? La MTA era così fiera del suo nuovo sistema di gestione dei treni, sistema che richiedeva la pre-senza di una sola persona per far funzionare un treno. Forse non era sufficiente per controllare anche i corpi che cadono sui binari.

Sentii montare la nausea. Stavo per svenire ma lui mi so-stenne mettendomi una mano dietro la schiena.

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Alice

— Stava parlando di te — disse Clayton, fissando il corpo straziato di Vito, — di quello che avresti fatto per lui se ti avesse aiutata a liberarti di me. Stava solo cercando di farmi arrabbiare ma ti ha mancato di rispetto. Volevo solo spaventarlo ma l’ho spinto troppo forte ed è caduto sui binari.

Clayton parlava con molta calma. — Stava parlando male di te, Alice — aggiunse, alzando un po’ la voce.

— Be’ — dissi, — non è stato molto bello da parte sua, no?Clayton sorrise.Non era affatto un brutto tipo.

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Finito di stampare nel mese di novembre 2010Stampato per Casini Editore dalla Arti Grafiche La Moderna – Roma

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Mi chiedo solo perché a volte sia più facile trattare meglio gli animali che le persone.

Immagino dipenda dal pelo, ma non mi sento tanto incline a trattare bene le

persone solamente perché sono pelose.

« Maggie Estep scrive come nessun altro. Fatevi un regalo: leggetevi tutti i suoi libri. »

Sara Gran, autrice di Una del giro e La voce dentro.

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