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Anno II - Numero 20 - Maggio 2012 Spiritualized · Best Coast · Jefferson Airplane · Aſterhours · Nick Drake · Maps and Atlases · Clet feedback black dice feedbackmagazineit.wordpress.com

#20 Maggio 2012

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Maggio 2012

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Anno II - Numero 20 - Maggio 2012

Spiritualized · Best Coast · Jefferson Airplane · Afterhours · Nick Drake · Maps and Atlases · Clet

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blackdice

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alchimisti sonori

Black Dice

artista del mese

“I modelled the way I approach to everything with the band watching the way  Black Dice did it.”

Noah Lennox, Animal Collective

Tutto comincia nel 1997 a Providence, nel Rhode Island, dove 4 giovani ventenni mettono su un gruppo rock agitato che spazia fra hardcore e no-wave, Bjorn Copeland (chitarra), Hisham Bharoocha (batteria), Eric Copeland (voce) e Sebastian Blanck (basso) sono tutti prodotti farciti di grunge che diversamente dagli altri ragazzi di quel tempo hanno una strana attitudine alla sperimentazione. Niente di strano fino a qui ma poi si cresce, si va al college e si cambia città, l’aria fetida della grande mela fermenta dentro le teste e piano piano nei sottoborghi musicali di New York si comincia a parlare di un gruppo atipico, che sta sviluppando un suono strano e diverso. La forma della canzone svanisce per lasciare spazio a lunghi live set che si arricchiscono di pedali, computer ed altri marchingegni elettronici adatti allo sbriciolamento e alla rielaborazione musicale; prende lentamente forma un magma sonoro che associa il noise più estremo alla tranquillità della ambient. I Black Dice sono una fucina che fonde dentro un calderone tutti gli strumenti e tutte le armonie per potersi finalmente liberare da regole o costrizioni. Dal 1998 al 2001 escono 5 Ep che uno dopo l’altro testimoniano il grande lavoro ed anche la grande crescita di un gruppo che in pochi anni è riuscito a creare una via alternativa alla solita elettronica sbriciolandone i confini; due fra i lavori in particolare spiccano per la grande qualità: #3 e Cold Hands. Il primo ancora orientato verso il rock, riassume tutti gli anni 90 stracolmi di feedback e allunga i tempi di composizione riuscendo a creare un continuo musicale che prende la forma della suite, il secondo è la rampa di lancio per le visioni malate e distorte di un collettivo che distrugge ogni certezza grazie ad un approccio rumoristico estremo

e tanta fantasia. Nel 2002 arriva l’esordio sulla lunga distanza e della vecchia vena hardcore non c’è rimasto quasi niente; Beaches & Canyons è composto da 5 tracce, 60 minuti nei quali i quattro americani saccheggiano tutta la musica conosciuta inserendo loop, effetti elettronici e sample registrati in una inquietante cornice di ambient e noise che non sembra mai placarsi: tutto è frenetica danza, tutto sembra casuale e caotico in una specie di orgia senza capo né coda: ma non è così; gli scultori sonori riescono a controllare e programmare ogni sfaccettatura così da poterne godere a pieno e questo mix letale si insinua velocemente nell’ orecchio distruggendone ogni sicurezza perchè anche la componente ritmica oramai è stata archiviata e rielaborata. Il disco viene riconosciuto da molti critici come base di un nuovo genere musicale e nel giro di poco escono altri due mini album che contengono esperimenti techno retrò e collaborazioni prestigiose (Yamatsuka Eye dei Boredoms remixa Endless Happiness); la band trova perfino il tempo per dedicarsi a progetti paralleli e in due anni escono due collaborazioni con Wolf Eyes.Il secondo full-lenght della loro carriera esce nell’estate del 2004 e si intitola Creature Comforts; simile come struttura al precedente, ha il grande merito di tracciare una linea di continuità fra le molte uscite precedenti e quelle successive, progettato per piacere dell’ascoltatore riesce a placare le furie elettroniche solo in parte anche grazie ad un innato ma efficace ordine di sottofondo che raddrizza ogni grinza e recupera ogni singolo rumore alla ricerca di nuove prospettive e nuovi sviluppi sempre all’insegna del caos. Un progetto solista all’orizzonte incrina i pensieri del batterista Bharoocha e così consensualmente i ragazzi del Rhode Island si separano diventando ufficialmente un trio. Annullato il tour con gli Animal Collective per la promozione del mini-disco di split Wastered (i migliori si incontrano sempre), i tre si rimettono subito

al lavoro perchè le idee sono tante e c’è da compensare la mancanza della batteria, diminuiscono al minimo gli strumenti e invadono il palco di pedali ed effetti di ogni genere cercando di raggiungere l’armonia sonora che avevano scacciato nei primi anni di carriera. La Dfa assiste le session infernali di registrazione con stupore e meraviglia, nel 2005 esce Broken Ear Record, un monolitico magma sonoro che inghiotte tutti e due gli album precedenti riuscendo ad intrecciarli e ottenendo così un suono che sbriciola ogni fondamenta ma riesce ad essere ascoltabile. Si perde la concezione sonora e anche la strada sulla quale si era inizia ad apparire confusa, i Black Dice masticano e risputano la cultura indie in un grande boccone che coinvolge i vecchi maestri del rumore frastornante, l’industrial, la kosmiche-music e perfino i ritmi tribali della Afrobeat, rivisitando tutte le possibili sfaccettature di un elettronica mai traviata fino a questo punto ma che assume lentamente una forma più pop. Il tour mondiale e i leggendari live set non fanno che incrementare la loro fama di veri scultori sonori e dopo un Ep non molto riuscito (remix piuttosto scadenti) si preparano al cambio di etichetta abbandonando la Dfa per passare alla Paw Tracks degli amici Animal Collective. Con questa licenziano due album, Load Blown nel 2007 e Repo nel 2009, che non sono lavori scadenti ma evidenziano una certa ripetitività, il primo è una sottospecie di continuo di materiale precedente ma conferma il cambio di direzione che vira verso sample e suoni meno caustici ed una forma canzone pop, il secondo è un vero e proprio flop che cerca di riproporre un passato selvaggio all’acqua di rose. Oramai l’arte ha preso il posto della musica e fra esposizioni visual, performance nei musei e mostre fotografiche i tre di Providence si fermano per tre anni.Adesso sono tornati ed il caos regna di nuovo.

- w

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Neo-psychedelia

SPIRITUALIZED Sweet Heart Sweet Light[Fat Possum, 2012]

disco del mese - recensioni

Hip-Hop

KILLER MIKE R.A.P. Music[Williams Street, 2012]

Math-Rock/Indie Rock

MAPS AND ATLASES Beware and be grateful [Barsuk/Fat Cat, 2012]

Nostalgia canaglia che ti prende e non ti lascia, potrebbero essere queste le parole di Jason Pierce mentre tenta di descrivere cosa ha ispirato questo suo settimo disco, perchè è proprio mentre se ne andava in giro per l’America con la sua band a riproporre live e senza interruzioni il capolavoro del 1997 Ladies and Gentleman We Are Floating in the Space che ha capito come doveva proseguire la sua carriera. Registrato in due anni fra tre diverse città e riassemblato alla perfezione in casa Pierce Sweet Heart Sweet Light è il perfetto mix fra le trascendenti cavalcate degli anni novanta e la necessità melodica di questo periodo, riuscendo ad unire dei testi cupi e senza speranza a schitarrate blues e ballate psichedeliche. Il front-man racconta tutti i suoi problemi con la serenità di chi non può risolverli e come ha sempre fatto li sbatte in faccia all’ascoltatore nella speranza di farlo sorridere di fronte allo schifo che si ha intorno: il rapporto meraviglioso ma allo stesso tempo delicato con la figlia (che ha anche collaborato in una traccia), il dolore come vera paura della malattia (negli ultimi anni ha sofferto di disfunzione al fegato e polmonite), la violenza che dilaga (guardate il discusso video di Hey Jane) e la visione di un Dio al quale si chiede aiuto invano; tutto è impregnato di tragica ironia e la musica sembra seguire a dovere ogni comportamento del suo autore. Le 11 tracce sono allo stesso tempo semplici ed efficaci senza sembrare mai troppo celebrali o innovative, così si passa in poco tempo da opere orchestrali che

innalzano la voce del cantante a coro angelico a melodie spoglie di ogni elettronica che duettano con cembali e campane per concludere il viaggio in mezzo alle sfuriate post-rock dal sapore lisergico e lampi di delta blues. La sensazione straniante che si ottiene ascoltando questo album e conoscendo anche la storia di un genio del rumore come Jason Pierce è quella di equilibrio precario tra una fin troppo abbondante componente pop (ci sono momenti in cui sembra di ascoltare gli Oasis) e un vortice di frastuono e rumore sempre innescato e pronto ad esplodere che però non trova mai le condizioni adatte a farlo; questo strano effetto, che non so se sia voluto o no, riesce a tenerti attento e concentrato ma in capo a 60 minuti di musica diventa stancante e deludente e la mancanza di punti di sfogo forse è l’unico neo di un disco che prima di ogni considerazione piace all’orecchio perchè curato nei minimi dettagli e dispersivo quanto basta per riconoscere la sapiente

mano di un ex Spacemen 3 intento a rinchiudere in un lamento gli autori americani dell’ultimo mezzo secolo. Sia ben chiaro che questo non è il naturale seguito del capolavoro del 1997; anzi, di quel viaggio interstellare riporta alla mente poco o nulla ma potrebbe rappresentare una lenta evoluzione e confermare ancora una volta quanto un disco importante del passato possa e debba ispirare le generazioni future spronandole all’ascolto e alla rielaborazione.

- w

Folk-Rock

DIRTY THREE Toward The Low Sun[Drag City, 2012]

sono potuti permettere un lusso ancora maggiore: non solo hanno lasciato trascorrere lunghi anni di silenzio, ma si sono congedati dal loro pubblico con Cinder, album del 2005 che fu molto poco apprezzato, per non dire peggio. Nonostante tutto, quando si sparse la voce che Warren e compagni stavano per ritornare in studio e che intendevano ritrovare la libertà espressiva dei loro primi lavori, la notizia suscitò l’entusiasmo di molti. Il giorno in cui poi, finalmente, abbiamo potuto mettere le mani sul sospirato disco, l’effetto delle prime note di Toward The Low Sun è stato a dir poco scioccante. Pazientando un attimo, però, oltre il muro di suoni distorti si colgono facilmente echi del meraviglioso Ocean Songs. C’è qualcosa di fisiologico che porta a ricercare l’atmosfera del superlativo disco del 1998 in ogni nota prodotta da Warren e compagni, ma qualsiasi attesa di questo genere riguardo a Toward The Low Sun è destinata a rimanere delusa. I fasti del passato sono relegati sullo sfondo e l’insolita Furnace Skies rimane l’unico esperimento, per altro ben riuscito. Proprio la convivenza tra il classico stile ballad di ampio respiro e la chitarra

Prendete chiunque abbia un buon successo sulla scena musicale e fatelo sparire per sette anni. Poi conducete una piccola indagine: in quanti riusciranno ancora a ricordare il suo nome? I Dirty Three si

di Turner, insolitamente aggressiva, rappresentano l’elemento di novità dell’album. Nel complesso il trio australiano si limita a riproporre il proprio modo di concepire la musica. Sono emblematiche a questo proposito Rain Song, Rising Below e That was was. Quello che ancora c’è di straordinario, ed è molto più di quanto altri si possano mai sognare, è l’intramontabile intensità e l’assoluta capacità di coinvolgere chi ascolta.

- comyn

anni, ma sopratutto perchè si tende a pensare l’evoluzione come un processo che può soltanto riguardare l’aspetto sonoro di un disco (Shabazz Palaces) lasciando da parte le liriche, ma stavolta è diverso. Killer Mike è nell’ambiente da più di dieci anni e grazie a tutte le collaborazioni e gli album nel quale a messo lo zampino è riuscito a costruirsi un bagaglio di esperienze che gli ha permesso di portare a compimento un progetto ambizioso come non se ne vedeva da anni, riportare il Rap a

Era molto tempo che non ascoltavo un disco così, è stato il mio primo pensiero; e non soltanto perchè la scena Rap è probabilmente una di quelle che ha maggiormente perso la strada negli ultimi

vero strumento di protesta e dare voce alla gente come facevano negli anni 90 Ice Cube e Public Enemy. Politicamente tagliente ma mai troppo sopra le righe, il disco riesce ad essere critico e riflessivo trovando spunti intelligenti che vanno dalla situazione americana attuale fino a quella di 30 anni fa, elencando una ad una tutte le piaghe di una società in continua decadenza che non riesce a rialzarsi e infondendo nell’ascoltatore una certa passione per la gente che ci circonda anche e sopratutto perchè non è più tutta questa grande denuncia a stupire, ma la convinzione con cui viene lanciata. Prodotto da El-P, il sesto lavoro del rapper di Atlanta presenta una sacco di novità interessanti anche sotto l’aspetto sonoro che vanno a pescare nel folto paesaggio underground delle periferie e fanno decollare i testi a veri e propri manifesti di lotta. R.A.P. Stand for Rebellious African People.

- w

Perch Patchwork, il debutto su lunga distanza dei Maps and Atlases, è stato il mio album preferito del 2010: l’approccio cervellotico del math/prog messo finalmente al servizio di un songwriting

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Garage Rock

TY SEGALL & WHITE FENCE Hair[Drag City, 2012]

Stoner/Alternative Rock

TORCHE Harmonicraft[Volcom Entertainment, 2012]

Beach-Pop

BEST COAST The Only Place[Mexican Summer, 2012]

recensionimalinconicamente folk, deliziosamente pop. Rispetto a quella folgorazione, il nuovo Beware and be grateful delude un po’.Intendiamoci: i chicagoani hanno ancora talento da vendere, che si dispiega tanto nella composizione stratificata quanto nelle miracolose armonie vocali di Dave Davison, capace da solo di reggere molti brani del disco. Lascia perplessi, però, una serie di canzoni che sembrano scialbi numeri FM-Rock di qualche reduce dell’era progressive (cose come Remote and dark years fanno pensare al peggior Peter Gabriel). Anche quando la proposta si fa più intima non sempre il gioco funziona – spicca però l’apertura di Old and Gray, inaudito esperimento di textures vocali e lirismo disperato. Per il resto, sono i pezzi più world a mostrare i Maps and Atlases in gran spolvero: l’Africa prende in Beware and be grateful il posto che nello scorso album era occupato prevalentemente dall’America rurale – un’Africa sbiancata e cerebrale, che complica la lezione di Talking Heads e, perché no, Vampire Weekend (Be three years old, Silver Self).In definitiva, i Maps and Altases sembrano ricadere a tratti nell’incubo dal quale ci avevano svegliati: da math-band con le canzoni, si presentano adesso come un gruppo dal sound sopraffino e in continua evoluzione, che però non sempre riesce a trasformare le proprie intuizioni nei gioiellini pop di Perch Patchwork. Vale comunque la pena seguirli, perché raramente cuore e cervello convivono così armoniosamente dentro un progetto musicale.

- carisma

con risultati mediocri e quelli che si limitano a riproporre la stessa zuppa all’infinito con risultati un po’ migliori. Tanto per dire, le decine di imitatori del folk intimista à la Nick Drake mai eguaglieranno il modello, perchè Drake si muoveva all’interno di suggestioni e idee musicali che sue erano e sue rimarranno. Al contrario, qualsiasi ragazzo che, insieme a qualche altro ragazzo, pigli in mano una chitarra e la maltratti un po’ può fare del buono, anzi ottimo, garage rock, e quel garage rock suonerà esattamente come mille prima di lui, senza che nessuno gliene faccia una colpa. Questo perchè col garage-rock ci si diverte, e di divertimento non ne abbiamo mai abbastanza: se, al contrario, ce la dobbiamo far pigliar male, è opportuno farlo con una certa qual “dignità e classe” (cit. Woody Allen). Tutto questo per dirvi che è perfettamente legittimo che al dì presente esistano dischi come Hair, è perfettamente legittimo che li ascoltiate, e, infine, è perfettamente legittimo che vi piacciano. L’ultimo, forse, più che un permesso, è un obbligo. Sì, perchè – sarà il caldo che mi fa sragionare – come si fa a non cadere nella trappola perfettamente congegnata da Ty Segall e dagli White Fence? Revisionista fin dal titolo, Hair è sporco fino al midollo, acido come i 13th Floor Elevators; soprattutto, è terribilmente fuori moda, un po’ come il taglio dei capelli della zia nelle foto sgualcite dell’album della nonna, ma evoca la stessa simpatia, la stessa dolcezza, la stessa sincerità disarmante.

- samgah

I generi cosiddetti “intramontabili” si dividono – secondo un procedimento un po’ sommario ma tutto sommato appropriato – tra quelli che si limitano a riproporre la stessa zuppa all’infinito

e Hard Rock, hanno dalla loro un’immediatezza compositiva che rasenta incredibilmente i confini del pop. Il nuovo Harmonicraft (titolo azzeccatissimo!) non sconvolge il loro universo sonoro, lo ma ripropone con una compiutezza finora mai sentita: la band di Miami manipola la durissima materia stoner/sludge fino a trasformarla in canzoni che fanno pensare addirittura a dei Foo Fighters “involuti”, compressi nel respiro melodico e nel minutaggio. Tra sfuriate punk (Sky trials e Walk it off, adeguato biglietto da visita del nuovo chitarrista Andrew Elstner) e fanghiglia melvinsiana (In pieces, la lunga chiusura di Looking on), i Torche costruiscono un ottimo lavoro di Hard Rock moderno e intelligente, che intrattiene chi ascolta senza pregiudicarsi sfumature e contaminazioni.Kicking svetta come prototipo e insieme vertice dell’album: due minuti e mezzo di affondi e distese quasi psichedeliche, la sintesi perfetta per un gruppo che non ha bisogno di approcci arty per inventarsi un suono personale a partire da elementi classicissimi.

- carisma

I Torche hanno delle ottime chances di piacere a chiunque. Ancorati saldamente a un’ipotetica galassia “pesante”, che sembra aver annullato ormai ogni confine tra le infinite declinazioni di Metal, HC

di una hipstamatic: una foto che è carina, mai bella, però solo in virtù di quella patina vintage, che la fa assomigliare a un ricordo di un’estate che vorremmo fosse così, retrò e solo un po’ stucchevole; una foto che fondamentalmente non dice niente di più. E su questo i Best Coast non mentono e non peccano di pretenziosità: il disco è esattamente quello che è, canzoni carine, bittersweet e divertenti: materiale per compilation estive che mettiamo via a settembre, con un po’ di nostalgia. Nel complesso però The Only Place arriva più stanco dove il precedente Crazy for you (2009) era molto più fresco e azzeccato: è fin troppo pulito, preciso, ogni canzone contiene tutti i cliché del caso, senza sbagliare niente, e finendo per risultare troppo detto, cheesy. E anche Bethany Cosentino ci sembra solo una ragazza che ha fatto del suo essere appena fuori dai giusti canoni un tratto così familiare da rientrare perfettamente nelle aspettative di tutti, il suo «non sono come vogliono che io sia, non voglio niente, voglio tu che non mi vuoi» è fin troppo (un)cool, un’etichetta qualunque. In fondo, però, va bene così e la perdoniamo: il disco è piacevole, e tutti, tutti, abbiamo bisogno di una colonna sonora per i pomeriggi lunghi.

- mars

we’ve got the waves |This is the only place for me»: la didascalia a una foto qualsiasi di quest’estate alle porte. The Only Place, il nuovo album dei Best Coast è quanto di più vicino alla versione musicale

Noise-Rock

PUTIFERIO Lov Lov Lov[Robotradio/MacinaDischi, 2012]

Ate Ate quattro anni or sono, è qui nelle vesti di produttore e bassista in alcune tracce. Nonostante il paio di cambi di formazione, la ricetta resta sempre la stessa: batteria secca, basso roboante e chitarrine noise che volteggiano in arpeggi graffianti prima di esplodere in assordanti frecciate. Non manca l’impronta delle influenze, a partire da quei Jesus Lizard a cui tanto si sono richiamati anche i primi Teatro degli Orrori (tralasciando la loro ultima robaccia, s’intende), arricchite però da un tocco

I Putiferio incarnano un’ottima definizione di noise, in perfetta sintonia col filone veneto emerso negli ultimi anni. Il suo capofila Giulio Ragno Favero, che aveva ricoperto il ruolo di batterista nell’esordio Ate

MICHAEL NYMANN15/5/12 Teatro Luciano Pavarotti, Modena

Dopo averci dato lezioni di piano, si è rimesso alla prova anche dietro l’obiettivo. Molto più che autore di musica da film (quella che lo ha reso celebre, a partire proprio dal lavoro con Jane Campion del 93) da camera e sinfonica, Michael Nyman è inoltre direttore d’orchestra, pianista, musicologo e ora fotografo e regista. È anche in questa veste di film-maker che abbiamo conosciuto l’artista inglese al Teatro Comunale di Modena per “L’Altro Suono”, il festival che ha celebrato i 50 anni del Minimalismo con il debutto italiano del duo Labéque e affidato la sua chiusura a colui che di “Minimalismo”, oltre a esserne indiscusso maestro, ha parlato in musica per la prima volta. Ecco allora “The Piano Sings”, il progetto con cui Nyman cerca di tornare all’origine della sua arte, rivisitando il proprio repertorio e spogliandolo di qualsivoglia valenza orchestrale. Uno Steinway e un retroproiettore, quindi, gli unici mezzi a disposizione del 68enne compositore inglese: è quello che basta, a lui e a un pubblico in religioso silenzio ma pronto ad accendersi in fragorose ovazioni dopo ogni esecuzione. Esecuzioni im-precise -Nyman non è certo il miglior pianista sulla piazza, ma che traggono la loro carica emozionale proprio da ogni piccola sbavatura tecnica, da quel tocco sempre un po’ incerto e quella pedalatura nervosa. Sul telo, davanti agli occhi assorti del musicista e di un pubblico stregato, le immagini di una musica che zoppica insieme a un vecchio, che scimmiotta una coppia litigiosa al bar, che prende le distanze dai festosi cortei di una città instupidita dall’industria. E’ così che Nyman ci racconta di una realtà malata e di un’umanità in crisi, basandosi su un realismo puro, senza alcun tipo di filtro, ma che si rifiuta di scendere a compromessi con quell’afasia che sempre più ci contraddistingue. Lo ringrazia-mo soprattutto di questo.

- visjo

«We’ve got the ocean, got the babes |Got the sun,

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Alternative Rock/Indie Rock

AFTERHOURS Padania[Germi/Artist First, 2012]

recensioni

BRUNORI SAS24/4/12 Teatro Metastasio, Prato

Dove sono finiti i baffi? Ci spiega Brunori Sas, nella persona di Dario Brunori, che sono stati sacrificati sull’altare del tour acustico, per il quale gli sarebbe stato richiesto un maggiore contegno. Questi propositi di serietà vengono, fortunatamente, traditi già nei primi minuti, quando Brunori esordisce domandandoci “se proprio non avevamo nient’altro da fare stasera”. L’accorato avviso della “pallosità estrema” che noi pubblico saremo costretti a sopportare per tutta la serata è l’introduzione perfetta per l’umoristica Italian Dandy, che apre energicamente il concerto. Voi vi chiederete: comincia subito con Italian Dandy? Ebbene sì. Dario Brunori è un tipo premuroso che coccola il suo pubblico eseguendo esattamente quelle canzoni per cui tutti hanno pagato il biglietto. E’ un vero piacere starlo a sentire mentre infila uno dopo l’altro tutti i pezzi più belli del suo repertorio che, pur non essendo vastissimo, è sicuramente variegato al punto giusto. Il pomposo Teatro Metastasio si colloca agli antipodi di quello che potremmo definire il suo ambiente naturale, po’ piano bar e localino intimo. Tuttavia il cantautore calabrese, sostenendo convinto che “un tempo qui ci facevano i rave”, riesce perfettamente ad adattare le sue sonorità alla location. La formazione acustica vede Brunori affiancato da due talentuosi polistrumentisti. “C’è crisi - si giustifica - così almeno pago solo due musicisti”. Mentre i suoi “dipendenti della Brunori Sas” passano dal violoncello, al synth, al clarinetto, Bruno, accompagnato dalla fida chitarra, usa parole semplici e motivetti orecchiabili per trattare temi complessi, talvolta tragici. Il Giovane Mario, Rosa, Una domenica notte costituiscono scorci preziosissimi di problematiche comuni, a cui la poeticità dei testi riesce comunque a restituire la giusta dignità. Il tutto senza dimenticare i “nananà” che sono, lo sappiamo bene, “fondamentali nella poetica brunoriana”.

- comyn

live report

post-hardcore che li accomuna ad altri colleghi e connazionali come The Death of Anna Karina e Dead Elephant. I Putiferio possiedono tuttavia una marcia in più. Grazie alle aggiunte dubstep-industrial di Can’t stop the dance, you chicken!, Loss loss loss o True evil black medal, dove fa capolino anche il violino di Rodrigo d’Erasmo, un sottobosco di elettronica scura si instaura alla base e germoglia nelle liriche. Tra i pezzi più riusciti campeggiano Amazing disgrace, evoluzione incupita del sound degli Scratch Acid, e la lunga Hopileptic!, comprendente un intermezzo di improvvisazione fischiante e spaccatimpani: un miscuglio di chitarre stritolate e colpi sordi che rinascono nuovamente grazie al violino e restano infine la miglior definizione della musica dei Putiferio.

- fp

quando la Ribbon Music rilascia il loro sesto album, sono prontissimo a farmi massacrare i timpani per 46 minuti; i miei orecchi però stanno ancora bene ed è il primo segno innegabile che il gruppo ha definitivamente completato la sua trasformazione. Si percepiva sempre di più negli ultimi lavori, quando un piccolo ruscello pop si gettava nella fiumana del caos, che i ragazzi di Providence stavano perdendo la loro proverbiale vena anti-musicale dopo tanti anni passati a disintegrare e rielaborare ogni traccia del passato, ma è ancora più evidente in questa ultima fatica come il piccolo ruscello sia diventato l’affluente principale.Le nove tracce conservano ancora qualche piccola impronta del suono marcio e malato che li aveva innalzati a scultori sonori degli anni 2000 ma le distrazioni extra-musicali ed il cambio di etichetta non hanno giovato alla loro carriera; sembra quasi che non riescano a controllare l’evoluzione del genere musicale da loro stessi creato e questo

Electro-Noise

BLACK DICE Mr. Impossible[Ribbon Music, 2012]

Tre anni di silenzio musicale e la vana speranza di gustarsi una delle loro monumentali performance live sono ottimi elementi per rendermi eccessivamente affamato di Black Dice. Così il 10 Aprile 2012,

costringe loro a trovare soluzioni banali e frettolose che portano tutte le canzoni a morire in ritmi e ritornelli accattivanti desiderosi di attenzione. Non voglio assolutamente chiudere le porte ad un possibile sviluppo della loro musica, anche perché le menti futuristiche sono sempre in vena di sperimentazioni; tuttavia, la preoccupazione che il caos di cui erano padroni gli si sia ritorto contro svuotandoli di ogni ambizione è grande.

- w

XL. I primi due brani estratti dal disco La tempesta è in arrivo e Padania sono stati inoltre utilizzati in anteprima nella colonna sonora della mini serie televisiva Faccia D’Angelo. ll frontman del gruppo, Manuel Agnelli, ha dichiarato che il nome dell’album non ha alcun significato politico, ma si tratta di «un titolo provocatorio che usa una terra, che peraltro non esiste, per parlare di una condizione interna, esistenziale dell’individuo». Il disco contiene improvvise esplosioni di suoni che danno indicazione di un profondo malessere; è di certo il lavoro più ambizioso e assurdo che gli After abbiano mai realizzato. Spesso si fanno richiami al passato della musica italiana, dagli Area a De Gregori (nel brano “Padania” che da il titolo al disco) e poi si rituffano nel futuro con un continuo uso di effetti, rumori, chitarre grattuggianti e un sax baritono, che sembra centrare poco col resto, che si unisce a voci urlanti di bambini( in Io so chi sono, un brano che richiama molto lo stile dei Nine Inch Nails per le continue variazioni che presenta).Giu nei tuoi occhi sembra richiamare pezzi dell’era velvettiana, come Andy’s Chest o All Trough The Night per i sax free jazz.Il ritorno di Xavier (chitarrista) sicuramente ha contribuito a rendere il disco ancora più strano

e sperimentale, ma ogni membro del gruppo sembra aver messo il meglio di sé in “Padania”. L’album sicuramente verrà colpito da una valanga di critiche, ma di certo verrà ricordato come un album coraggioso, ricco di contenuti, all’altezza di un classico. Il tour per la promozione dell’album partirà in estate ed è stato anticipato da un concerto simbolico e gratuito ha avuto luogo il 19 Maggio in piazza del Duomo all’Aquila, cui hanno partecipato anche i Teatro degli Orrori.

Insieme alla versione standard dell’album è stata messa in commercio anche una versione deluxe dotata di: CD in edizione limitata (con copertina alternativa), libretto in formato A4 con 6 foto inedite, chiave usb contenente la versione digitale dell’album e un video, coupon per l’ingresso gratuito ad un concerto del tour estivo e gadget esclusivo.

- brizio

Padania, ecco come si intitola il decimo album in studio degli Afterhours, che è stato preceduto dall’ EP Meet Some Freaks On Route 66, uscito un mese prima dell’album in allegato al mensile La Repubblica

comprendente tredici tracce viene anticipato dal singolo Love Interruption.«Sarà un album come mai prima ne ho realizzati», ha dichiarato Jack.Blunderbuss, che significa “colubrina”, arma da fuoco settecentesca, richiama le sonorità e i potenti riff dell’ultimo album delle Strisce Bianche, Icky Thump del 2007. Le sonorità prog rendono incredibile il brano Missing Pieces , e l’elegante country di Blunderbuss (che da il titolo all’intero lavoro) che è colmo di riferimenti al recente divorzio di Jack, anche se lui nega ogni cosa. Anche Love Interruption parla della fine di un amore con la voce femminile di Ruby Amanfu , pop-soul singer di Nashville, originaria del Ghana.Un geniale polistrumentista come Jack White non può far mancare improvvisi cambiamenti di sonorità, come nella brillante introduzione di Hypocritical Kiss che presenta frammenti di musica classica; l’incredibile rockabilly swing di I’m shoking e lo stile soul di Trash Tongue Talker. Con Freedom at 21 si avvicina ai Black Keys e in Guess I Should Go To Sleep mescola il raffinato jazz con il popolare ( con un coro a tre voci tipico del bluegrass).Il rock atmosferico di On And On And On e Take Me Whit You chiudono quello che resterà per sempre un incredibile e potente disco rock’n’roll.

- brizio

Rock/Garage Rock/Blues

JACK WHITE Blunderbuss[Third Man Records, 2012]

Chi pensa che il rock sia finito, che sia morto per sempre deve fare i conti con Blunderbuss, il primo album solista dell’ex cantante e chitarrista dei White Stripes, Jack White. L’album è stato rilasciato il 23 aprile 2012

UK Bass/Dubstep

LHF Keepers Of The Light[Prologue, 2012]

Gli LHF sono un collettivo oscuro, che ingrassa le nostre orecchie da 3 anni a questa parte, alcuni li definiscono i salvatori del dubstep, gli altri degli abilissimi gourmet di suoni passati da Londra.

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recensioni

Elettronica Lo-Fi/Narrazione Omerica

ACTRESS R.I.P.[Honest Jon’s Records, 2012]

JAMES BLAKE DJSET + LONE31 Marzo 2012, TPO, Bologna: James Blake djset + Lone live.“Ragazzi, chi è Lone? Chiude la serata, sarà bravo!”

Matthew Cutler, alias Lone, è un produttore di musica elettronica, inglese di Nottingham. Ha pubblicato cinque album e cinque EP negli ultimi cinque anni. Certamente due frasi banali, ma il tono della recensione si adatterà a quello dell’album. Le differenze rispetto al passato sono eclatanti: il nostro amico ha aumentato (di poco) i bpm, ha inserito delle (banalissime) voci maschili nel sottofondo e ha intensificato le collaborazioni. Gli aspetti positivi sono invece i soliti synth ambientali e le (abusate) melodie, diventati ormai unico vero tratto distintivo.Cutler si è rifugiato dietro al suo stile consolidato, rinnovando poco e male una musica fondata su elementi non più in grado di attirare l’attenzione (prendete un pezzo qualsiasi della tracklist).Lying In The Reeds sarebbe l’unico episodio veramente positivo, se solo si arrestasse dopo i primi quaranta secondi, o se fosse il singolo d’esordio di un debuttante, smanettatore di Fruity Loops su di un Vaio malfunzionante (chi ha assistito - e si è effettivamente reso conto di cosa sia successo - alla performance al TPO capirà). Non si riesce a capire cos’abbia in testa Lone (né cosa c’abbia visto Bibio, che all’uscita di Lemurian dichiarò che il disco fosse addirittura in grado di causare reazioni sinestetiche nell’ascoltatore). Il Lone che ci piace è quello che collabora con Keaver & Brause al progetto Kona Triangle, se non proprio originalissimo, perlomeno di gusto. Soliti beat, soliti synth, solite percussioni.La classe è intatta, il fascino no.

1° Aprile 2012, treno regionale 6547.“Ragazzi, che schifo Lone.”

- carnera

live reportE proprio Londra può essere uno dei punti di partenza. I 7 cavalieri dell’Apocalisse sono riusciti a creare un soundscape che consiste nella perfetta fusione dell’ecosistema che ha gravitato intorno a Londra e al Regno Unito negli ultimi anni; la sacra pozione è formata dalla rave music, il primo dubstep, l’UK bass, la cultura urban, aggiungendovi ancora coordinate più o meno immaginabili, un certo retrogusto hip hop potenziato da elucubrazioni jdilliane. Di questi sette oscuri personaggi, due sono quelli che hanno più spazio e occupano in misura maggiore le 26 tracce e i 145 minuti di musica. Sono Double Helix e Amen Ra che occupano la scena con suoni ibridi che tanto devono anche alla tradizione dell’etichetta che li pubblica, quella Keysound dei Dusk + Blackdown, sempre con grandi interessi etnografici (vi prego, ascoltate Margins Music). Entrare nel dettaglio è come cercare di descrivere un fondale marino colorato di mille sfumature, con vari livelli di intensità e di ricchezza. Si viaggia tra segnali lo-fi di una radio indiana con No Fixed Above, tra modifiche dubstep di RZA con Double Helix e riflussi hauntologici in essenziali tagli garage con Amen Ra che chiude il primo cd con due suoi pezzi: un grime melodico (Simple Things) e un campo minato di percussioni tagliuzzate (Low Maintenance). Il secondo disco dopo deviazioni jungle, percussioni dub/shcakletoniane e bassi hardcore arriva ai sei pezzi finali di Double Helix. Discorsi fluidi, liquidi, in bilico tra presente e remoto, tra blues e garage 2000, che portano un flusso di passioni che fa scendere i brividi lungo la schiena. Emozione pura. Uno scrigno di gioielli.

- matmo

soffuse, quasi ambientali, con un piglio house piuttosto accattivante (Iwaad e The Lord’s Graffiti). In realtà questo non è vero.L’anima del disco è rappresentata da una serie di bozzetti sperimentali, tratteggiati sottilmente su panorami astratti. Caves of Paradise è una gentile introduzione nel mondo bucolico tizianesco e Uriel’s Black Harp, lo strumento dell’arcangelo con cui Actress ci ipnotizza fino a Jardin, micro-esperimento silenzioso-estatico (Alva Noto ne sa qualcosa). Ma non è nemmeno qui che possiamo cristallizzare l’arte quasi magica di Cunningham. Serpents se ne esce fuori con un beat antico che riporta al primo Aphex Twin. Tree of Knowledge abbandona l’ascoltatore dentro a suoni metallici paranormali (cfr. Autechre), aprendo nuove strade conoscitive. Glint è un brevissimo schizzo di cristalli intrisi di misticismo. Forse questa può essere la parola chiave. Come dichiara lo stesso Cunningham si tratta di un concept album, ispirato da “giardini, serpenti e caverne mitologiche” e bisogna ammettere che è proprio questa la sensazione che traspare: un monolite di marmo che significa mistero insondabile della conoscenza attraverso la parola intesa come racconto epico e quindi, linguaggio, si rimane paralizzati, in preda al dubbio. Darren si lascia così alle spalle un repertorio

Forse ai meno avvezzi al lo-fi questo disco farà un po’ storcere il naso. O forse no. In realtà in questo disco Actress (nome d’arte del londinese Darren Cunningham) riesce a coniugare melodie

più club-oriented e segue la scia del sogno di tramutarsi in perla: che non brilla dall’interno, ma si fa ammirare nella sua elegante perfezione. Quanta classe.

- carnera

Dark Ethereal Wave

LOWER DENS Nootropics[Ribbon Music, 2012]

parola, texano -, in una nuova dimensione di band: un ritorno all’insegna di un dream-dark-pop dalle strutture allo stesso tempo semplici e ardue. Due anni dopo, l’obiettivo – chiaro, chiarissimo – di Jana è soci è quello di innovare la proposta dei Lower Dens pur rimanendo nel solco della propria comune ispirazione. Se poi, in corso d’opera, salta fuori qualcosa di vendibile con profitto, ancora meglio. Se, infatti, i leitmotif dell’opera sono ancora le pallide nenie cantate dalla Hunter con la sua vocina flebile in uno stato di pseudotrance, le atmosfere si fanno più convenzionali e meno cupe. In particolare, si attenuano quegli strati di fischi e accordi dissonanti che costituivano l’ossatura dei pezzi e si dà più spazio a strutture ritmiche dal sapore kraut: è impossibile non pensare al motorik-beat dei Neu ascoltando Brains, ma suggestioni di tal genere popolano gran parte dei pezzi, tra i quali spiccano per suggestività e intelligenza compostiva Propagation e Lion in the snow Pt.2. Più simili alla forma tipica del disco precedente appaiono Lamb e Lion in the snow Pt.1. Il problema è che l’assorbimento del kraut-rock, come quello della ethereal wave che discende dai pionieri Cocteau Twins, è assolutamente esteriore e superficiale. In Nootropics ci sono architetture sonore piuttosto ingegnose; c’è mestiere e – se vogliamo – classe; sopra tutto, però, predomina il

Nootropics è il diretto discendente di quel Twin-hand movement che nel 2010 rappresentò il ritorno sulle scene di Jana Hunter, in precedenza interprete di un freak-folk acido e suggestivo – in una

distacco di un sound dove non c’è quasi mai spazio per una briciola di sentimento.

- samgah

stesso momento, superandosi ancora ed aprendo un’altra breccia nel cuore dell’hip hop. La maggior parte dell’album è uno sciame di rumori alieni e ronzii spiattellati in faccia a chi ascolta. La parte “rock” è Zach Hill, batterista dalla diabolica tecnica noise (vedi Hella). Ha percorso il suo itinerario di crescita attraverso numerosi progetti, compreso il lavoro con, loro eccellenza, i Boredoms. I pezzi, smembrati e ricostruiti, di tutte queste esperienza galleggiano nell’aria pesante e appiccicosa di questo disco. Per quanto riguarda la parte rap, a farla da padrone è Stephen Burnett. Parlando di lui il significato della parola “rappare” si estende e dilata a dismisura; le sue urla, le sue imprecazioni possono far venire in mente di tutto e di più: una voce impastata come immagino sia stata quella di Demostene, un comizio interrotto da singulti grotteschi e un altoparlante distorto e gracchiante che ti riempe di ordini. I Death Grips hanno capito che le cose non vanno bene e creano un ponte tra la cultura odierna fatta di crisi, di instabilità e la musica, con un impeto non dissimile al punk degli anni ‘80. Loro hanno però un’aria di sfida ignorante, un’ironica simbologia dello stupido orgoglio americano, un realismo spaventoso. Hanno preso una svolta verso il surreale, i Dalek gli spacciano la roba e i Throbbing Gristle gliela somministrano. Il risultato è esplosivo, un’esperienza che resta come una sbucciatura sul ginocchio, un numero necessario e perfetto. Be Crazy!

- matmo

Avant Hip-Hop

DEATH GRIPS The Money Store[Ribbon Music, 2012]

I Death Grips sono pazzi. E anche molto arrabbiati. Tornano dopo il meraviglioso Ex-Military e ripropongono la stessa dose di ritmi folli, suoni squadernati a destra e sinistra e voci fuori controllo, ma, nello

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Singer/Songwriter

NICK DRAKE Bryter Layter[Island, 1970]

rovistando in soffittaCanterbury Sound

HATFIELD & THE NORTH Hatfield & The North [Virgin, 1974]

Moon) prima di morire suicida nel proprio letto per una overdose di farmaci. Questa è la “storia ufficiale” di Nick Drake. Noi, però, di essa – l’estate sta arrivando, seppur arrancando, e non ce la vogliamo far prendere troppo male – oggi vogliamo intercettare solo la parte più serena e luminosa.Dopo aver abbandonato l’ingenua inquietudine degli anni adolescenziali, prima di trasformarsi nel Giacomo Leopardi del rock realizzando quello che sarà il capolavoro di una vita, al volgere della decade il ventiduenne Nick Drake si guardò indietro e, una volta tanto, non vide nessuna luna rosa pallido che lo inseguiva. All’interno di Bryter Layter trovano spazio, piuttosto, un disincanto e un distacco del tutto nuovi: intravediamo un uomo ancora disperato, che, però, ha imparato a sorridere del suo dolore e di quello degli altri. Sul piano lirico, all’inquietudine e al gelo delle immagini naturalistiche tipiche di Five Leaves Left (Fruit tree) sottentra una malinconia ora taciuta ora addolcita. Sul piano musicale la vera rivoluzione risiede, più che nel canto di Drake, negli arrangiamenti, mai così ricchi e vari. All’aggiunta di strumenti più bandistici, come nell’intro di Hazey Jane II, si accompagna una vivacità ritmica finora sconosciuta (l’esempio perfetto sta nella tessitura ritmica finemente jazzata di One of these things first). Dei tre long-playing pubblicati in vita dal ragazzo di Tanworth – cui ho sempre trovato spontanea un’associazione ad altrettante stagioni dell’anno – Bryter Layter è sicuramente il più estivo, laddove Five Leaves Left e Pink Moon evocano rispettivamente paesaggi autunnali e invernali. Il folk da camera quasi lounge che lo compone per buona parte si sposa a meraviglia con il mood di quelle sere estive cittadine nelle quali tutto sembra finto e viene spontaneo fingere che lo sia anche il proprio dolore. Qualcosa di cui si può parlare senza troppi problemi, senza la gravezza di un tempo. Proprio questo fa Drake per quasi tutta la durata del disco (One of these things first e Hazey Jane I sono i capolavori, quelli che raggiungono la giusta misura fra tutte le facce della personalità prismatica dell’autore). Quasi. Giunto in sede di chiusura, Drake ci regala un assaggio di quel che sarà: Northern Sky, anche se ancora ricca strumentalmente, è già pregna della sconsolatezza cosmica di Pink Moon, e rappresenta allo stesso tempo l’ultimo degli idilli e la prima delle dolorose prese di coscienza che portarono Nicholas Drake a dover scegliere tra il male della vita e quello della morte. Ascoltate Bryter Layter, le sue note che tremolano di voglia di vivere, e chiedetevi quanto la sua scelta sia stata giusta.

- samgah

Inglese di Tanworth-on-Arden, folksinger dai tratti pessimistici, fece in tempo a pubblicare tre dischi, capolavori della musica moderna, (Five Leaves Left, Bryter Layter, Pink

certo senso ad una volontà di riscatto culturale, rispetto alle banali canzonette degli anni passati. Se gli anni ‘50 erano stati il decennio della musica per il corpo (Elvis il caso più eclatante) ed i ‘60 gli anni della liberazione del corpo attraverso la mente, i ‘70 tramite il progressive incarnano una volontà (paradossalmente tanto auto-referenziale quanto impregnata di elementi eterogeni) di crescita innanzitutto mentale.Per poter rievocare un disco del passato, però, è necessario che tutti i lettori lo abbiano ascoltato almeno un paio di volte. Ora che l’avete fatto, sappiamo tutti di cosa stiamo parlando, ovvero di un disco elegante, melodie e atmosfere soffuse, armonie calde e avvolgenti. Nella sua struttura asimmetrica ma ellittica, orbitante intorno ai due fuochi Son of “There’s No Place Like Homerton” e Shaving Is Boring, con i suoi crescendo silenziosi, l’album alterna momenti di manierismo canterburyano (Aigrette, Fol de Rol) ad altri di più ricercata sperimentazione sonora (l’opener The Stubbs Effect).Il gruppo, formato da quattro cavalieri della scena di Canterbury (Sinclair, Miller, Pyle e Stewart, rispettivamente ex-membri di Caravan, Matching Mole, Egg e Gong), mantiene sempre un certo distacco emotivo e non si abbandona alla nostalgia di Caravan, Soft Machine etc., piuttosto il romanticismo si stempera in un atteggiamento classico e rigoroso, testimoniato dagli arrangiamenti raffinati (la wyattiana Calyx, Lobster In Cleavage Probe, fantastico il coro femminile iniziale) in perfetto bilanciamento con le aperture più hard (Gigantic Land Crabs In Earth Takeover Bid).All’interno di un’estetica da mito tragico classico, gli Hatfield & The North si concedono il lusso di proporre citazioni passate (il Peer Gynt di Grieg) e contemporanee (la bonus track Fitter Stoke Has A Bath ricalca Moon in June dei Soft Machine, echi di melodie Gong), in giochetti modernisti che rimandano alla patafisica dei primi Wyatt e Allen.L’equilibrio però è troppo delicato per durare a lungo: dopo The Rotter’s Club (1975) il gruppo si scioglie. Stewart e Miller continuano con i National Health, ennesima band fotocopia della scena di canterbury, con pochi (e sconnessi) spunti interessanti, gli altri si defilano fino all’eccentrica reunion del 1990 (con l’assente Stewart sostituito da Sophia Domancich).In definitiva non un album particolarmente innovativo o rilevante come influenze sui posteri (di ben altra pesantezza Third, dei Soft Machine, e la trilogia dei Gong Radio Gnome Invisible), ma semplicemente bello e senza alcun momento di cedimento o banalità.

- carnera

Sul finire degli anni ‘60 nasce una delle correnti musicali più mitizzate e rese oggetto di culto maniacale: il progressive rock. Il proliferare di questo genere è dovuto in un

Psychedelic-Rock

JEFFERSON AIRPLANE Volunteers[Rca, 1969]

un buon disco in macchina è essenziale quanto il romanzo di turno sotto l’ombrellone e devono entrambi avere le stesse caratteristiche. Essere disimpegnati ma non troppo (non vogliamo fare brutta figura col vicino di sdraio), essere in qualche modo conosciuti (sempre a beneficio del vicino di sdraio, semmai avesse voglia di fare quattro chiacchiere) e, soprattutto, deve ispirarci quella briosità estiva che abbiamo atteso fin da Natale. Per questo, senza ulteriori indugi, è tempo di tornare indietro fino ai favolosi anni sessanta e più precisamente alla fine del decennio. All’epoca il Jefferson Airplane volava, forse, meno in alto rispetto agli anni precedenti, ma l’uscita di Volunteers ristabilì chiaramente le gerarchie. “Looks what’s happening out in the streets- cantava la splendida Grace Slick nella title track -got a revolution, got to revolution”. L’intero disco è un vero figlio del suo tempo, le tematiche politiche sono poste al centro e le liriche restituiscono un perfetto spaccato dei sentimenti di un’intera generazione. Abbandonati i sogni all’acido di Surrealistic Pillow, si ritorna a cercare messaggi più concreti e li si urla con rabbia e coraggio. Quaranta anni più tardi non è il caso di soffermarsi sugli ideali (alcuni dei quali, per la loro universalità, sarebbero attualissimi) quanto piuttosto sulla musica, fatta di grinta e favolose sonorità. We Can Be Together si propone come un vero e proprio inno: la chitarra sostiene la marcia mentre un coro bellicoso inneggia alla ribellione. Segue Good Shepherd: l’urlo liberatorio della chitarra si contrappone con il tono dimesso della voce solista, Marty Balin, cantore di un movimento hippie che sta inesorabilmente andando verso il declino. Le tematiche del rapporto con la natura e dell’ecologia fanno da sfondo ai ritmi country di The Farm, allegro siparietto prima di Hey Fredrik. Grace Slick prende il controllo dei giochi, la sua voce diventa protagonista e persino l’appassionato solo di chitarra si riduce ad un intermezzo fra un suo intervento e l’altro. E’ poi la volta di Turn My Life Down, sospesa tra il folk e il gospel, a cui fa seguito la delirante Wooden Ship, collaborazione con il cantante David Crosby. Prima tenue, poi esplosiva, in continuo variare di intensità che riproduce le onde marine. L’album segnò la fine delle attività dei Jefferson Airplane nella loro formazione tradizionale. In particolare Balin si allontanò dal gruppo, fuggendo dalla droga e dall’alcoolismo che stavano distruggendo sia lui che i suoi compagni. Volunteers fu, oltre che un manifesto culturale, uno straordinario successo commerciale e questa è davvero l’ultima, imprescindibile caratteristica necessaria per il perfetto disco da vacanza estiva.

- comyn

Altro che fallire la prova costume, la vera tragedia sarebbe che quest’estate arrivasse senza averci dato il tempo di ripescare il giusto classico dalla nostra soffitta. Perché

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Intervista ad

deep inside

Abbiamo incontrato i ragazzi di EM, associazione culturale che da 3 anni si occupa di produzione musicale in giro per la Toscana.

Epicentro Musicale“Epicentro Musicale nasce esattamente un mese dopo il terremoto in Abruzzo del 2009, con la prima edizione di Epicentro Festival. In questi anni l’associazione ha collaborato alla programmazione del Mèlos di Pistoia organizzando importanti eventi musicali con ospiti sia band affermate, sia band emergenti del territorio.In tre anni di attività, abbiamo realizzato tre edizioni del festival, una rassegna musicale indipendente dal nome Epicentro Night, che ha visto sul palco The Zen Circus, Zeus!, Samuel Katarro, Love In Elevator e tanti altri, in più quest’anno abbiamo organizzato alcune serate al Capanno Black Out, storico locale alternativo pratese.Il nostro festival è un evento benefico che coniuga buona musica e solidarietà. Gli incassi del festival sono donati alle popolazioni abruzzesi vittime del sisma, come per le precedenti annate. Quest’anno doneremo i proventi della manifestazione al progetto EVA, un eco-villaggio costruito nel cratere sismico aquilano.Nelle precedenti edizioni hanno suonato importanti artisti come Il Pan del Diavolo, Sadside Project, Mariposa, Ka Mate Ka Ora, Bad Apple Sons etc etc.”

E’ con queste parole direttamente rubate dalle labbra di Gianluca Danti che presentiamo l’Epicentro musicale. In fin dei conti Gianluca è l’addetto stampa del gruppo e nessuno potrebbe farlo meglio. Ma cosa ci possiamo aspettare dall’edizione 2012 dell’Epicentro Festival?Abbiamo alzato un po’ il tiro della manifestazione aumentando i giorni da due a tre. Per quanto riguarda la scelta delle band

continuiamo a portare sul palco tanto realtà affermate quanto l’eccellenza locale.Un’altra novità riguarda la location: il festival si svolgerà infatti al Parco Pertini di Agliana (Pistoia), all’interno del Giugno Aglianese, importante manifestazione che accoglie spettacoli di grande richiamo in equilibrio perfetto fra cinema musica ed intrattenimento. Ci preme ribadire che l’ingresso è gratuito e gli unici incassi, quelli del bar, verranno interamente devoluti al progetto EVA. Quindi oltre a godere di bei concerti c’è anche la possibilità di aiutare in concreto le popolazioni terremotate costruendo fisicamente case.

La musica, si sa, sta attraversando un periodo paradossale: prolifera nell’underground uno smisurato numero di band di qualità, ma allo stesso tempo è difficile per artisti e organizzatori poter contare su riconoscimento professionale ed economico. Cosa spinge sei ragazzi Toscani ad intraprendere una simile avventura?La situazione è difficile, alle fine la crisi è generalizzata, non solo nell’ambiente, e la scena artistica è una delle più vulnerabili. A peggiorare il tutto non c’è una grande coesione fra gli organizzatori di queste realtà. Spesso grandi band si lamentano di piccoli dettagli organizzativi, o richiedono cachet troppo alti.

Che progetti ha per il futuro Epicentro? Dove vuole arrivare?Diciamo che siamo già ad un buon livello, siamo molto soddisfatti di questa esperienza. Ovviamente il nostro sogno è che diventi

la nostra professione. Siamo sei ragazzi qualificati in quello che facciamo a livello professionale.Speriamo in Pistoia e nelle istituzioni, ma ci vorrebbe uno spazio per poter offrire una programmazione da settembre a giugno, per creare un ambiente musicale in questa città. Non mancano propriamente gli spazi, ma la continuità, e la collaborazione anche magari delle altre organizzazioni come noi potrebbe essere intensificata: ci sarebbero più possibilità e la gente con una programmazione continua sarebbe più invogliata a venire a vedere concerti, anche solo per abitudine.

Potendo scegliere qualche artista di spessore da portare al festival chi vorreste?Speriamo di poter prima o poi portare qualche artista di livello internazionale, anche se siamo molto contenti dei musicisti con cui abbiamo collaborato finora. Un nome in particolare non te lo saprei fare, però se dovessimo organizzare qualcosa coi Radiohead non ci tireremmo certo indietro!

Epicentro Musicale è formato da:Gianluca Danti, ufficio stampaLorenzo Cecchi, fonicoLorenzo Chiti, fonicoFrancesco Frosini, allestitoreErnesto Biagi, promozioneMarco Assente, riprese video.

Per ulteriori informazioni visitate il sitowww.epicentromusicale.it

- carnera e eightand

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Melancholiaed il suono del nulla

Sound of pictures

deep inside

Lake of beatsLa nostra kermesse di maggio respira aria di primavera, ma, come il tempo in questi giorni, rimane ancorata anche ai colori più grigi dell’inverno. Tradotto in ritmi e atmosfere sonore abbiamo ancora rigurgiti oscuri (di altissimo livello, tra cui un eccelso ritorno) e l’affiorare sempre più convinto di suoni primaverestivi. Partiamo, come la notte che pian piano si sfuma dall’oscurità verso la luce, dalla collaborazione tra Xhin e Perc. Uno split, due tracce per ciascuno, 25 minuti di paranoia urbana. La doppietta di Perc si apre con un respiro corto che gareggia con il basso sparato a mille, improvvisamente raddoppia e apre la pista a suoni alieni fino alla stasi mediana. Il silenzio. Poi riaffiora il basso accompagnato da un campanello a intermittenza e via fin alla chiusura, à bout de souffle. Xhin è Xhin. L’anno scorso ci ha regalato Sword, uno dei più bei dischi techno degli ultimi anni e qui torna con tutta la sua dose di forza ritmica. Xhin compie un viaggio; un viaggio a cavallo tra l’onirico e il cybernetico che sputa colpi di cassa regolari e profondi, linee di basso laser e rumori di sottofondo. Colpisce dritto allo stomaco. Il nuovo singolo del duo irlandese Lakker invece, ci porta al confine tra l’oscurità e la luce. Gli accordi scuri e una parete granulosa pian piano si aprono verso una grande ricchezza di dettagli: campane lontane, shacker sinuosi, melodie che appassiscono come fiori, gocce colorate sbiadite in un grigio groviglio di steli. Attraverso le quattro

tracce, colpiscono le varie atmosfere del duo: il lento e doloroso Arc, suona come una risposta al piombo allo stile delle recenti uscite Modern Love, mentre BKRO è torvo e brutale. Se siete in cerca di una dose emotiva rifugiatevi nell’agrodolce Lemon Evening, tra flauti magici e urla di bambini. Con Bicep e con il suo Make Love In Public Places, le nostre orecchie si aprono alle atmosfere house anni ‘90, un garage sudato, fruttato e selvatico. È dotato di una (???) Lady orgasmica, grugniti, percussioni nervose, pugnalate di bassi vibranti e una minacciosa nota singola in una risacca synth. La chiave del suo successo è la semplicità. Con William Kouam Djoko, nelle cui vene scorre un sangue africano per via paterna e mitteleuropeo per via materna, ci troviamo sempre allo stesso dilemma. Esiste un qualcosa di più utilizzato del vocoder? E, più in generale, esiste qualche cosa che possa dare ancora i brividi pur molto utilizzata? Con il nostro sì. In We Are Your Brothers And Sisters ci offre una traccia giocata sulle increspature della voce che fanno sia da sottofondo con una linea tenue e innaturale su cui si innesta un groove di batteria calmante e strisciante allo stesso tempo. Mentre una voce robotica ripete il mantra. Una brillantezza inquietante. Con Enforce invece siamo quasi sugli arpeggi minimalisti, il tutto però inserito in una cornice cyber-sensuale. Qui l’estate non arriverà mai, sono gli stessi robot dei Lakker. Christian Aids, in arte

Stay+, invece, ritorna dopo l’ottimo Fever del 2011. Il singolo è Dandelion, Si tratta di una traccia che vive su un impressionante barcollo continuo, non molto dissimile a un Panda Bear che ha nel bagaglio molta più house. Pezzo maestosamente sentimentale, con la musica che segue l’innalzarsi della voce, con lo scoppio dei bassi nel momento dell’esplosione vocale, con la linea tratteggiata dal synth che può essere solo quella, nient’altro che quelle note, sudate, piante. Pezzone. Stay+ si conferma ancora come produttore sopraffino, una delle best tracks dll’anno. Scommettete su questo ragazzo ora che è ancora poco quotato. Con Huxley è il momento di muoversi, tre tracce di godimento edonistico. Box Clever è un mix di rulli e cascate di pianoforte, condite da inserti di grandi bassi, Atonement è avvolto in una spirale, come un pezzo in rewind, Out of My Mind è un gioiello modern-garage. I vivi, colpi scintillanti percussivi che corrono in questi 5 minuti sono dolcificati con ampie parentesi e una bassline urticante; anche l’ormai standard acuto vocale femminile non è sgradito. Il ragazzo continua a stupire. Chiusura lampo con i singoli di Tennis, Make It Good, piglio chillwave accompagnato da una voce in odore di new wave, e di jj, jj N.4, perfetto per rientrare a casa quando l’oscurità non si è ancora dileguata del tutto. Gli svedesi stupiscono sempre.

- matmo

Non saprei dire bene quante possibili interpretazioni e piani di lettura possano essere date a Melancholia, ultimo capolavoro di Lars Von Trier. Tante, forse troppe. Leggere le citazioni di De Chirico e Magritte nelle inquadrature, cogliendo la scritta “Velazquez” che campeggia dalla copertina di un libro con certa insistenza in una scena. Fare parallelismi con Kubrick e con il contemporaneo Terence Malick. Poi con la vita privata, la profonda depressione di Trier stesso, che egli ripercorre in una serie di simboli, identificando se stesso nelle due protagoniste, Claire e Justine. C’è da impazzire nel cercare di decifrare ogni singolo indizio ed ogni interpretazione,

anche la più fantasiosa, sembra plausibile. Forse si dovrebbe conoscere l’intera opera di ogni singolo artista citato, ma per questo occorrebbe troppo tempo e non è il luogo adatto.C’è però un elemento che possiamo considerare e che apre un immenso piano di lettura. Lars Von Trier in Melancholia usa Wagner come Colonna Sonora. Con più precisione il Tristano e Isotta. Il preludio del primo atto dell’opera wagneriana suona durante tutto il preludio di Trier, gli otto minuti in cui il film viene mostrato all’ignaro spettatore, attraverso una serie di immagini oniriche e bellissime che riassumono l’intera opera. In slow motion, che è diventato ormai un suo tratto stilistico. Il dramma scelto da Lars per fare da sottofondo al suo racconto è un elemento molto significativo.La tradizione vuole che nel Tristano Wagner abbia voluto mettere in scena la filosofia di Schopenhauer anche se vi sono degli elementi che mettono l’opera

in contrapposizione. Se per il filosofo tedesco, riprendendo le discipline filosofiche orientali, per raggiungere la serenità occorre rassegnarsi all’impossibilità del desiderio, Tristano è letteralmente divorato da esso e non riuscirà a dominarlo.Tematiche che si intrecciano agli eventi del film in una danza di morte, come quella di Melancholia intorno alla Terra.Se si dovesse individuare una parola chiave per il film, questa sarebbe “nulla”. Il nichilismo che Trier imprime in ogni fotogramma.Il nulla che torna nella filosofia di Schopenhauer. “Nulla” come lo slogan che Justine offre al suo datore di lavoro alla fine del matrimonio. Nel nulla finirà ogni personaggio della storia di Trier. Il nulla si porta via Tristano e Isotta. Il nulla da cui sembra parlarci il regista danese. Perchè è già dai tempi di Antichrist che la malinconia continua a togliergli l’aria.

- eightand

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viaggi extrasonori

E’ difficile che non vi siate mai imbattuti, vagando nel centro di Bologna, Milano, Torino, Firenze, Londra, Parigi o Madrid, in qualche cartello stradale un po’ strano. Segnali di “strada senza uscita” che diventano una croce ai cui piedi una pietà michelangiolesca prende forma dalle figure antropomorfe che vediamo spesso sui nostri cartelli. Omini che si portano via la barra bianca del divieto d’accesso e reinterpretazioni dell’uomo vitruviano. Tutto porta la firma di Clet Abraham, artista bretone trasferitosi a Firenze, dove si trova il suo studio, a pochi passi dal Ponte Vecchio.Lavorava già come artista prima di scegliere di uscire in strada. Questo, insieme al particolare modo di intendere il suo lavoro, spiega perchè Clet è uno dei pochi street artist che lavorano a volto scoperto. Ma l’intento di Clet è diverso da quello dei “colleghi”: tenta di rimanere tanto vicino alla street art quanto lontano dal vandalismo. I suoi adesivi infatti si possono staccare. Un vandalismo politically correct.E’ figlio dello scrittore Jean-Pierre Abraham, la cui storia sembra essere il soggetto di un romanzo ottocentesco. Jean-Pierre, appena ventitreenne, per agevolare il suo lavoro di scrittore, accettò l’incarico di guardiano del faro di Ar Men, all’estremità della Chaussée de Sein, la punta della Bretagna. Uno dei fari più estremi del mondo a causa del suo carattere isolato e le enormi difficoltà di costruzione e manutenzione da parte del personale.“Armen” è l’opera partorita durante quegli anni (1959-1963), il suo lavoro più importante. Dal testo è stato tratto nel 2004 un adattamento teatrale curato da Éric Ruf, attore e scenografo della Comédie-Française.E’ proprio dal faro di Ar Men che in qualche modo inizia la storia di Clet.

“Fu costruito su una roccia che appare solo una o due volte l’anno, quando le maree sono molto basse. Vennero impiegati molti anni per posare le prime pietre.Lì mio padre conobbe mia madre. In realtà sul faro non è mai salita una donna. Entrare

Dialogo con

Clet Abrahamsul faro era una esperienza che riguardava solo i guardiani. Ci fu però una occasione in cui il faro vide visite dall’esterno: un gruppo di giornalisti vi arrivò per girare un reportage e filmarono anche mio padre. Mia madre, che a quell’epoca abitava a Parigi, lo vide alla televisione. Gli scrisse e così si sono conosciuti.”La vocazione artistica ed il modo di vivere di tuo padre quanto hanno influenzato il tuo percorso?Sicuramente avendo avuto un padre così, con cui ho vissuto poi per qualche anno su un’isola deserta (l’isola di Penfret, nell’arcipelago delle Glénan, Bretagna, dove Jean-Pierre fu guardiano dal ‘68 al ‘70. ndr), ha contribuito a imprimere in me l’amore per la libertà.Il percorso artistico non puoi anticiparlo. Io seguo delle intuizioni, delle sensazioni, ed una molto forte è proprio questa necessità di libertà. Può essere una chiave di lettura del mio percorso di vita. Nell’arte si può trovare un po’ di questo spazio libero. A dei prezzi altissimi, è chiaro.Uno spazio così importante da dover essere “rubato” se necessario, come quella volta che hai appeso di nascosto un tuo autoritratto nel museo di Palazzo Vecchio.E’ una critica alla chiusura dei musei, l’arte

non è per me un oggetto da staccare così tanto dalla realtà quotidiana, io vorrei un’arte più dissacrante, in cui si toglie la cornice, il piedistallo ed ognuno deve giudicare se è arte, nudamente.Il museo deve essere un posto vivo, un posto dinamico.Come la strada. infatti hai portato i tuoi lavori soprattutto in strada, sui cartelli stradali che possiamo vedere in tante città in giro per l’Europa. In che modo è avvenuta la conversione da “artista canonico” a street artist?La street art è un’altro strumento molto rappresentativo di libertà.Per me in questo caso l’arte è un mezzo, non una finalità. E’ il mezzo che mi permette di arrivare alle cose che per me hanno un senso. La mia esistenza ha senso nel momento in cui mi sento di migliorare in qualche modo il mondo nel quale vivo. Cos’è “il meglio” può essere un argomento molto discutibile ma credo che dare libertà all’individuo e spazio alla libertà di pensiero si possa considerare “meglio”. Di sicuro il meglio non è l’ordine. L’uomo è fatto di ordine quanto di disordine. Quindi al limite è l’armonia. Questi sono gli elementi intorno a cui lavoro.

- eightand

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Un viaggio nell’antropologiainseguendo il dono

viaggi extrasonori

Pistoia Dialoghi Sull ’Uomo 2012

fino alla periferia dell’Italia, in luoghi come la Lucania, terra di magia e riti. Un tema che si presta quindi a mille diverse elucubrazioni, che può accogliere in sé le più svariate teorie, vasto e non tutto ancora conosciuto. Ecco perchè tra i relatori ci saranno persone provenienti dai più vari campi d’indagine, per cercare di far quadrare un cerchio formato da moltissimi punti. Quindi, quello che cerco di fare con questo piccolo elenco della spesa, è una piccola (modestissima) linea che tratteggi un possibile itinerario da affrontare, una possibile scelta degli eventi a cui partecipare, dei relatori da sentire per districarsi tra i molti eventi. L’apertura è affidata a Luigi Zoja, psicoanalista, che parlerà di un volere intrinseco dentro di noi, quello di volere che una parte del nostro lavoro, del nostro sforzo sia destinato agli altri. La sua relazione verterà sull’incrocio che c’è tra questo rapporto e lo stato, che noi sentiamo più come obbligo che come dono, come dice il suo comunicato Una riflessione sulle varie forme del contributo sociale.Ciò di cui parlerà l’antropologo Marco Aime è in stretto rapporto con quel saggio, ricordato poco più sopra, di Mauss, un viaggio, una linea che lega le ricerche antropologiche in paesi estremi di Mauss alla società del computer di oggi. Sul dono tripartito, incontro utile, vista anche la colloquialità di Aime, per capire, davvero, di cosa si parla. La serata è all’insegna dell’incontro con Stefano Bartezzaghi e Anna Bonaiuto, il primo enigmista e conoscitore del linguaggio, l’altra attrice teatrale con grandi collaborazioni nel curriculum. L’incontro si

La rassegna Pistoia Dialoghi sull’uomo è giunta alla sua terza edizione (25/26/27 maggio), dopo le due fortunate precedenti, che hanno visto relatori di caratura internazionale come Emanuele Severino, Gustavo Zagrebelsky, Olivier Roy, Amartya Sen, Jean-Loup Amselle, Virgilio Sieni e Stefanie Krauss. Il tema su cui discuteranno i relatori di quest’anno è il dono, tema carissimo agli antropologi ed etnologi. Il più celebre saggio sull’argomento è sicuramente quello di Marcel Mauss, Il Saggio Sul Dono. Il saggio apparve tra il 1923 e il 1924 e da quel momento diventò una pietra miliare degli studi sull’uomo, sullo scambio reciproco, sul dono tripartito in dare, ricevere e ricambiare, concetti basilari, ma fondamentali per il concetto di “fatto sociale totale”. Secondo il saggio di Mauss però, lo scambio non è limitato al solo circolo degli oggetti, ma si apre anche allo spirito, quello di colui che fa il dono, che circola, emigra verso il beneficiario. Si crea così una sorta di geometria fluida che lega i due protagonisti dello scambio in un rapporto potente, invisibile ma solido, una legatura che va ben al di là dello scambio economico. Per Godbout, terreno più fertile per l’ osservazione è il “legame familiare”. Nel rapporto che si crea tra i familiari è più chiara l’assenza del valore mercantile dello scambio e anche di una reciprocità che sia doverosa e obbligata. Magari si avverte il peso, la potenza di una cosa che ci è donata, ma tutto ciò non ci fa sentire in debito. Anche Jacques Derrida si concentra sul tema del dono. In Donare il tempo, ciò che cerca di fare il filosofo francese è dimostrare che se il dono è possibile, andrà inteso come una rottura, una deviazione di quella che è a circolarità economica, e del senso di debito. Lavora anche sui tre concetti basilari di Mauss, dicendo che, restando intaccato a queste tre prospettive, il dono diviene altro, diviene un’azione che non si distacca dal debito. Se un dono viene fatto perchè spinti da un obbligo, non si avvicina neanche al vero senso del gesto, che in quanto tale è scardinamento di ogni codice acquisito e consolidato, è una sorpresa, un evento di novità, di stupore. Donare vuol dire ricevere ciò che non mi aspetto, è una cosa che, per definizione, non posso né prevedere né valutare, ciò che sconvolge i miei sistemi, ciò che riesce ad introdurre in me una novità, una cosa che non ho. Allora è necessario una correzione sulla definizione del donare, che non è più un mero scambio di oggetti, ma un fiume che porta nel suo letto i sentimenti e i rapporti sociali. Tema, questo del dono, che ha trovato terreno fertile anche in Italia con le ricerche etno-antropologiche di De Martino che si concentra non sulle popolazioni primitive, come faceva Mauss, ma si spinge

snoderà tra i giochi enigmistici di Bartezzaghi (mai banali e sempre pronti ad insegnare) e le letture profonde delle Bonaiuto. Il sabato si apre con il filosofo Salvatore Natoli, che parlerà del concetto di gratuità del dono. Se la gratuità di un dono è utile, l’utile allora non contraddice la gratuità; su questa piccola dialettica si svolgerà il dibattito. L’incontro con Salvatore Settis sarà sul dono che facciamo, faremo e dovremo sempre fare a quelli che calpesteranno questa terra dopo i noi. Il bonum commune, il bene comune, nel quale dobbiamo annoverare la tutela dell’ambiente. Autore di Italia Spa, l’incontro con Settis sarà sicuramente molto stimolante, per il rapporto che instaurerà con il vivere contemporaneo, le sue tendenze e i suoi (molti) errori. Con Enzo bianchi il discorso si sposterà sul dono dell’ospitalità, caro alla comunità monastica di Bose, ospitalità è dono verso coloro che ci vengono portati dal caso, dagli accadimenti. Con Daniel Pennac e Stefano Benni, il festival giunge ad uno dei suoi incontri più importanti, con i due scrittori che parleranno del dono della scrittura. E chi meglio di loro, chi meglio di Pennac, che ha fatto del dono il modo di vivere la letteratura, del dono la sua professione (professore in una scuola); il libro che si erge come tramite tra lo scrittore e i suoi lettori, qual elemento di interconnessione girardiano, tramite del triangolo di scambio. La domenica vive dell’incontro con il sociologo più autorevole a livello mondiale Zygmunt Bauman. La sua relazione sarà una sorta di summa degli incontri precedenti, si chiederà se, nel mondo in cui ci troviamo, c’è ancora posto per quei sentimenti che ispirano il dono: la solidarietà batte le sofferenze?

- matmo

Zygmunt Bauman

Page 12: #20 Maggio 2012

Articoli, recensioni e monografie a cura di Matteo Moca, Marco Vivarelli, Michele Luccioletti, Samuele Gaggioli, Angela Felicetti, Alessia Mazzucato, Federico Pozzoni, Stefano Barone, Sara Marzullo, Fabrizio Randazzo, Roberto Beragnoli, Davide Cannella. Grafica e impaginazione a cura di Francesco Gori. Rivista autofinanziata, non a scopo di lucro, stampata in proprio nel Maggio 2012. Per informazioni, critiche e consigli: [email protected] Magazine è consultabile e disponibile in download gratuito all’indirizzo http://issuu.com/feedback.magazine oppure sul nostro sito http://feedbackmagazineit.wordpress.com.

viaggi extrasonori

L’ironia della contingenza

Richard Rorty

DIRTY THREE3 giu. Piazza Verdi, Bologna

M836 giu. Estragon, Bologna

PISTOIA BLUES FESTIVAL12 lug. B.B.King

13 lug. Paolo Nutini14 lug. John Hiatt & The Combo

INTRODUZIONE“Circa duecento anni fa iniziò a prender piede in Europa l’idea che la verità fosse una costruzione e non una scoperta”Sarebbe stato difficile per il filosofo statunistense Richard Rorty, trovare una frase più significativa come incipit al suo lavoro più importante: Contingency, Irony and Solidarity (1966), tradotto in italiano con il titolo forse meno affascinante de La filosofia dopo la filosofia. Quest’opera si inserisce all’interno del pragmatismo, pensiero in contrasto con quello che molti considerano la base della cultura occidentale: il canone Platonico-Kantiano, che dipinge il mondo come un insieme di fatti che possono sottostare ad un’unica interpretazione, capace di unire e spiegare ogni elemento del creato tramite una struttura, un disegno. La metafisica, l’essenza delle cose, il concetto di verità e di necessita fanno parte di un retaggio culturale che in numerose correnti filosofiche contemporanee viene considerato alla stregua di una superstizione, una convenzione. O, nel migliore dei casi, uno dei vocabolari. E’ proprio con queste

considerazioni che Rorty porta avanti il suo lavoro. Egli considera ogni filosofia, ogni visione del mondo come un vocabolario a sé stante, composto da definizioni arbitrarie, ma che permettono di facilitare in qualche modo la nostra permanenza al mondo, dando la possibilità di comunicare, interpretare e “comprendere” attraverso i mezzi che ci offre. Durante ogni rivoluzione del pensiero umano due o più di questi vocabolari si scontrano. Il contrasto può durare molto tempo ma in fine uno prevale, diventando il nuovo modello. Ma i vocabolari, sistemi fissi di regole e definizioni hanno come fruitore l’individuo: mutabile, creativo, imperfetto. Individuo per cui risultano incomunicabili anche i concetti che tenta di esprimere ad altri che utilizzano le sue stesse parole.Per il filosofo statunitense non esiste un vocabolario giusto o sbagliato. Ognuno di essi cerca di adempiere i precisi compiti per cui si è formato e diffuso. Risponde alle domande che esso stesso ha generato attraverso intrinseche contraddizioni linguistiche che si sono riversate nella cultura e nel modo di vivere.

Non ci sono problemi filosofici fondamentali. I problemi reali sono generati dal linguaggio che utilizziamo per guardarci dentro, intorno e per comunicare agli altri ciò che abbiamo visto.Il pragmatismo per Rorty “è semplicemente l’antiessenzialismo applicato a nozioni come ‘verità’, ‘conoscenza’, ‘linguaggio’, ‘moralità’”, una dottrina in cui si riconosce il carattere contingente dei nostri punti di partenza e l’impossibilità di uscire dagli schemi adottati dalla discussione interna alla comunità umana. Considera come funzione fondamentale dell’intelletto quello di consentire una efficace azione sulla realtà attraverso il modo in cui la si vede/comprende.Rorty offre un vocabolario in cui la parola chiave è “ironia”, ma non è ancora il momento di entrare nello specifico di questo termine.Per avvicinarsi di più a questa visione del mondo ed entrare nel vivo del pensiero rortyano è necessario chiamare in appello molti altri elementi: dal nichilismo alla Meccanica Quantistica, dai mantra a Proust.Lo faremo nel prossimo numero.

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- eightand

DIAFRAMMA4 giu. Piazza Verdi, Bologna

LO STATO SOCIALE13 giu. Piazza Verdi, Bologna16 giu. Centro Giov. Dialma, La Spezia

PIET MONDRIAN15 giu. Cinema Terminale, Prato

THE BRIAN JONESTOWN MASSACRE18 giu. Bolognetti Rocks, Bologna

CHRIS CORNELL29 giu. Nuovo Teatro Dell’Opera, Firenze

FINE BEFORE YOU CAME29 giu. Piazza Verdi, Bologna

KAKI KING3 lug. Botanique Festival, Bologna

MORRISEY11 lug. Nuovo Teatro Dell’Opera, Firenze

IL TEATRO DEGLI ORRORI12 lug. Arezzo Wave Festival

I CANI + CRIMINAL JOKERS13 lug. Bolognetti Rocks, Bologna

LUCCA SUMMER FESTIVAL29 giu. Tom Petty

4 lug. Blink 1827 lug. Laura Pausini14 lug. Norah Jones

15 lug. Kasabian18 lug. Roger Hodgson

19 lug. Gossip20 lug. Franco Battiato

29 lug. Toto

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