GLOBAL
RIGHTSINTERNATIONAL MAGAZINE APRIL 2015 ISSUE #00
Cuba - EEUU
PRIMER PASO EN EL
RESTABLECIMIENTO DE LAS
RELACIONES ENTRE LOS DOS PAISES
Rojava
LA RESISTENCIA DE KOBANE ES LUZ
PARA UN NUEVO MEDIO ORIENTE Y UNA
NUEVA SOCIEDAD
Colombia
EL POSIBLE ACUERDO DE PAZ QUE
PONGA FIN AL CONFLICTO SE MUEVE EN
UN CAMPO MINADO
con
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KOBANE LIBRE
134 DÍAS DESPUES DEL COMIENZO DE LA BATALLA CONTRA ISIS
DE LA CIUDAD KURDA EN ROJAVA (KURDISTÁN SIRIO) LAS FUER-
ZAS KURDAS ANUNCIA SU LIBERACION
HABLA LA COMANDANTA
ENTREVISTA A MERYEM KOBANE, COMANDANTA DE LAS FUER-
ZAS DE AUTODEFENSA POPULAR DE LAS MUJERES KURDAS QUE
HAN COMBATIDO CONTRA EL EJERCITO ISLAMICO
DOPO PARIGI
TERRORISMO DI STATO E SCONTRI DI INCIVILTA’.
RIFLESSIONI DOPO L’ATTENTATO AL MENSILE SATIRICO FRAN-
CESE CHARLIE HEBDO
CUBA - EEUU
HACIA LA DISTENSION DE LAS RELACIONES ENTRE LA HABANA
Y WASHINGTON TRAS EL ANUNCIO SIMULTANEO DE LOS PRESI-
DENTES RAUL CASTRO Y BARAK OBAMA EN DICIEMBRE
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PALESTINIAN SMILES
134 DÍAS DESPUES DEL COMIENZO DE LA BATALLA CONTRA
ISIS DE LA CIUDAD KURDA EN ROJAVA (KURDISTÁN SIRIO) LAS
FUERZAS KURDAS ANUNCIA SU LIBERACION
ANNE WALDMAN
A POEM WRITTEN BY THE AMERICAN MUSE OF ALLEN GINSBERG
FOR THE POLITICAL PRISONERS ON HUNGER STRIKE IN TURK-
ISH PRISONS
LABERINTO COLOMBIANO
CUANDO COMENZARON LOS DIALOGOS DE PAZ ENTRE
EL GOBIERNO DE BOGITA’ Y LAS FARC-EP, MUCHOS SE
ASOMBRARON DEL PASO DADO POR EL PRESIDENTE JUAN
MANUEL SANTOS
HABLA IVAN MARQUEZ
EL COMANDANTE DE LAS FARC-EP Y MIEMBRO DE LA DELEGA-
CION DE PAZ DE LA GUERRILLA EN LA HABANA COMENTA LOS
PROGRESOS DE LAS NEGOCIACIONES
EL GAUCHO CANTERO
UNA LARGA ENTREVISTA CON EL ESCRITOR URUGUAYO DANIEL
CHAVARIIA EN SU CASA DE LA HABANA
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editors: sergio segio - orsola casagrande
editorial team: bibi bozzato - jm arrugaeta - berna ozgencil
simona malatesta - vroni plainer - yado uzun -
guglielmo guglielmi
photo editor: mauro guglielminotti
the growing team
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EditorialeL’indipendenza ai tempi della crisiIl progetto di Diritti GlobaliIl mondo in cui viviamo è segnato da una concent-razione globale dei poteri come mai l’umanità ave-va conosciuto. L’economia e la finanza, la politica, l’informazione e la cultura ufficiale, la forza militare, si fondono in un’unica lobby sempre più esclusiva e di mi-noranza, accaparratrice di ogni bene comune e devas-tatrice del pianeta e, con esso, delle prospettive e della qualità della vita delle future generazioni.
Da Seattle in poi, passando dalla sanguinosa repres-sione al G8 di Genova, arrivando a Occupy Wall Street e poi alla resistenza del popolo greco e ora a Blockupy, lo hanno ben indicato e documentato i movimenti so-ciali, assai più – e spesso contro – le forze politiche is-tituzionali e gli stessi sindacati, ancora incapaci di una sufficiente analisi e azione globale.
La crisi è intervenuta a riportare violentemente indiet-ro quei movimenti e a rideterminare nuove condizioni e modalità di governo mondiale da parte della grande finanza, oltre che di socializzazione delle perdite da parte del sistema bancario: si calcola che, in questi po-chi anni, siano stati impiegati almeno 20.000 miliardi di dollari per il salvataggio di quel potere e sistema, ovviamente sottraendo quel fiume immane di denaro alla collettività.
Ma la crisi, che abbiamo definito “la Prima guerra mon-diale della finanza”, non ha solo prodotto ulteriore ap-profondimento delle diseguaglianze, già enormi, e di concentrazione della ricchezza: si pensi che nel solo 2013 i più ricchi del pianeta hanno visto accresciuto di ben 320 miliardi di dollari il loro patrimonio, che ora ammonta complessivamente a 46.200 miliardi di dol-lari.
Questa nuova e particolare “guerra mondiale” è divenu-ta e sta divenendo sempre più – e in modo più acceler-ato in Europa – occasione e pretesto per una modifica in radice della democrazia, per come sinora conosciuta e realizzata in Occidente, attraverso un processo tec-nocratico che sta arrivando a svuotarla dall’interno. La Grecia è stato il primo banco di prova di questo proces-so autoritario, apertamente teorizzato dalla JP Morgan, una delle maggiori banche d’affari del mondo, oltre che tra i più diretti responsabili della crisi in corso dal 2007.
A fianco, e in modo integrato e sinergico, di questa particolare guerra globale, continuano le forme più tradizionali: il sistema industriale della morte, la guer-ra, non va mai in recessione. I conflitti armati sono in rapida crescita, quanto a numero, pericolosità e modi-ficazione degli equilibri geostrategici, in un inedito im-pasto di “guerra fredda” e guerre calde.
Guerre che, come sempre, portano con sé la sistemat-ica violazione dei diritti umani. E, così pure, il risvolto, egualmente sanguinoso e rischioso, del terrorismo, identitario e religioso, che con la strage di Charlie Hebdo e l’avanzare dell’ISIS ha infine scosso le opinioni pubbliche mondiali.
L’Iraq continua a essere un paese martoriato. Così come l’Afghanistan e il Pakistan, la Libia, l’Ucraina. Sono questi gli esiti ultimi, prevedibili e previsti, della guerra “umanitaria e infinita” voluta da George W. Bush e da Tony Blair. Guerra criminale che ha arricchito le grandi multinazionali del petrolio e delle armi, a par-tire dalla famigerata Blackwater, ora non a caso attiva in Ucraina, a perseguire la scivolosa e nefasta strategia di allargamento a Est della NATO.
Conflitti interminabili, crisi di tutti i tipi, nuove tecnol-ogie e forme di produzione e consumo, sono il nostro
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Editorialepane quotidiano e influiscono direttamente e indirettamente nei nostri sogni e aspettative umane, senza che, molte volte, ce ne rendiamo conto.
Il grande indipendentista e scrittore cubano José Martí coniò, alla fine del XIX secolo, due idee che vogliamo provare a raccogliere in questo progetto, questa piccola avventura che ci apprestiamo a cominciare: «La patria è l’umanità» e «Essere colti per essere liberi».
«La patria è l’umanità»: perché tutti noi, gli es-seri umani, viviamo già in uno stesso luogo in-terconnesso dove la difesa della libertà e della giustizia sociale in punti lontani dalle nostre case è garanzia della nostra stessa libertà. Nul-la che sia giusto e umano può esserci estraneo se non a costo di essere i prossimi in una lista infinita e crescente di vittime e di “danni col-laterali”. Però, se è vero che viviamo in una “pa-tria-pianeta” comune è anche vero che essa è piena di diverse realtà regionali, nazionali, cul-turali, religiose, sociali e linguistiche, ed è pro-prio per questo che l’idea di scambiare e condi-videre le nostre particolarità, senza negarle, è una parte essenziale dell’arricchimento uma-no e quindi anche componente essenziale del progetto che stiamo cominciando con Global Rights.
«Essere colti per essere liberi»: perché soltanto con una piena conoscenza e con una informazi-one diversa e aperta possiamo contrastare i pregiudizi ereditati e con i quali spesso con-viviamo nel nostro modo di pensare e interp-retare la realtà. I nostri modi di vedere i fatti
e i processi dell’attualità guidano direttamente le nostre azioni e impegni quotidiani, per questo avere una nostra opinione ci costringe a costruirla con informazioni accurate, a conoscere punti di vista e approcci diversi, con il rischio altrimenti di riprodurre opinioni indotte da quanti controllano e manipolano i media mainstream, che invadono sempre più, e sempre più sfacciatamente e prepo-tentemente, le nostre vite e le nostre menti.
Questo progetto di informazione sulla realtà glo-bale, e di interpretazione della realtà globale (dif-fusione, discussione, scambio, pratica), che andi-amo a cominciare è anche una “concentrazione”: in questo caso riunirà persone, pensatori, attiv-isti, sforzi e strumenti. Anche noi abbiamo questo diritto, il diritto a fare “lobbying”. Un fare rete e sinergie certo modesto ma assai determinato: per la vita, per la libertà, per la diversità culturale, per la giustizia sociale. Per pensare e agire in modo, davvero, indipendente.
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EditorialLa independencia en tiempos de crisis.
El Proyecto Global Rights
El mundo en que vivimos viaja en paralelo con una con-centración global de poderes como nunca antes había conocido la humanidad. La economía y las finanzas, la política, la información y la cultura oficial, la fuerza mil-itar… se unen en un solo lobby cada vez más exclusivo y minoritario, acaparador de todo los bienes comunes y devastando el planeta y con él las perspectivas y la cali-dad de vida de las generaciones futuras.
Desde Seattle pasando por la sangrienta represión en el G8 en Génova, Occupy Wall Street o la resistencia del pueblo griego, hasta Blockupy, los movimientos socia-les han ido precisando y documentando cada vez más sus reivindicaciones y aspiraciones, a menudo en con-tra de las fuerzas políticas institucionales y los sindi-catos tradicionales, quienes aún no han sido capaces de realizar un análisis adecuado y de articular una ac-ción global.
La crisis intervino violentamente consiguiendo ret-rotraer esos movimientos y plantear nuevas condicio-nes y términos en el ejercicio de un gobierno mundial dirigido por las grandes empresas Un gobierno mun-dial que “socializo” las pérdidas del sistema bancario: Según estimaciones en apenas unos años se han em-pleado al menos 20 billones de dólares para rescatar este sistema, sustrayendo, obviamente, este inmenso caudal de dinero a la sociedad.
Sin embargo la crisis, a la que hemos denominado “I Guerra Mundial de las finanzas” no sólo ha profun-dizado las ya enormes desigualdades sociales sino que también ha concentrado la riqueza en cada vez menos manos: Sólo en el año 2013 los más ricos del mundo consiguieron aumentar sus fortunas en 320 billones de
dólares sus riquezas unas fortunas que al día de hoy ascienden a la cantidad de 46,2 billones.
Esta nueva y peculiar “Guerra Mundial” se ha conver-tido cada vez más - y de una manera especialmente creciente en Europa - en oportunidad y pretexto para operar cambios de raíz en el sistema democrático, en su versión Occidental, para mediante un proceso tec-nocrático vaciarla de contenidos. Grecia fue el primer experimento de este proceso autoritario públicamente teorizado por JP Morgan, uno de los mayores bancos de inversión del mundo, así como responsable directo del desencadenamiento de la actual crisis que sufrimos desde el 2007.
Paralelamente, también como parte y sinergia de esta peculiar Guerra Mundial, perviven procesos de carac-terísticas más tradicionales, como el sistema industri-al de la muerte, la guerra nunca entra en recesión. Los conflictos armados crecen rápidamente en número, y la modificación del equilibrio geoestratégico se ha con-vertido en una inusual mezcla de “guerra fría” y conflic-tos calientes.
Guerras que como siempre conllevan una violación sistemática de los derechos humanos así como el aumento de un peligroso y sangriento terrorismo de carácter identitario y religioso, con consecuencias como la masacre del semanario francés Charlie Hebdo o el avance de ISIS, hechos que has sacudido reciente-mente la opinión pública mundial
Irak es un país devastado, lo mismo que Afganistán, Pakistán, Libia, Ucrania... Son resultados, predecibles y previstos, de la denominada guerra “humanitaria e infinita” construida por George W. Bush y Tony Blair. Una guerra criminal que ha enriquecido a las grandes multinacionales del petróleo y del complejo militar-
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Editorial
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Editorialindustrial, comenzando por Blackwater, no es sorprendente por lo tanto que sea precisa-mente esta compañía quien hoy en día sea la encargada de poner en práctica, en Ucrania, la resbaladiza y nefasta estrategia de expansión hacia el Este de la OTAN
Los conflictos interminables, las crisis de todo tipo, las nuevas tecnologías y formas de producción y consumo, son el pan nuestro de cada día y afectan directa e indirectamente nuestros sueños y expectativas humanas, sin que muchas veces nos demos cuenta de ello.
El gran independentista y escritor cubano José Martí acuño a fines del siglo XIX, con notable previsión, dos ideas que de alguna manera in-spiran las bases mismas de este proyecto que iniciamos: “Patria es humanidad” y “ser cultos para ser libres”.
“Patria es humanidad”, porque todos los seres humanos vivimos ya en un mismo lugar inter-conectado, la defensa de la libertad en puntos a veces muy distantes a nuestras casas es ga-rantía de nuestra propia libertad. Nada justo y humano nos puede ser ajeno si no es a costa de ser los siguientes en un listado interminable y creciente de víctimas y “daños colaterales”. Pero si bien es cierto que convivimos en una patria-planeta común también es verdad que la misma está llena de diferentes realidades regionales, nacionales, culturales, religiosas, sociales e idiomáticas, por eso mismo la idea de compartir nuestras particularidades es par-te esencial del enriquecimiento humano y por lo tanto también eje esencial de este proyecto.
Y “ser cultos para ser libres”, porque solo desde el conocimiento pleno y desde una información diversa y abierta podemos contrarrestar los prejuicios que heredamos y con los que convivi-mos en nuestra forma de pensar e interpretar la realidad. Nuestra manera de ver los hechos y procesos de la actualidad guían directamente nuestras acciones y compromisos cotidianos, por eso mismo tener una opinión propia nos obliga a construirla con información veraz, conociendo puntos de vista y enfoques diferentes, a riesgo si no de reproducir opiniones “inducidas” por qui-eres controlan y manipulan los grandes medios que invaden cada vez más descaradamente nues-tra vidas y nuestras mentes.
Este proyecto informativo (de difusión, debate e intercambio) que comenzamos es también una “concentración” en este caso juntando personas, promotores, esfuerzos y herramientas. Nosotros también tenemos ese derecho, el de hacer lobby, un modesto pero incansable lobby por la vida, por la libertad, a favor de la diversidad cultural y de la justicia social, en pro de un mundo diferente y justo, para poder pensar por nosotros mismos y actuar en consecuencia con plena independencia.
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EditorialIndependence in a time of crisisThe Global Rights ProjectThe world we live in is marked by a concentration of global powers as we have never known before. The economy and finance, politics, information and offi-cial culture, military force, merge into an increasingly exclusive and minority lobby, hoarder of all common goods and devastating the planet and, with it, pros-pects and quality of life of future generations.
From Seattle on, passing by the bloody repression at the G8 in Genoa, coming to Occupy Wall Street and then to the resistance of the Greek people right through Blockupy, the social movements have well-specified and documented, much more - and often against - in-stitutional political forces and the unions themselves, yet incapable of sufficient analysis and global action.
The crisis intervened violently to bring back those movements and to restate new conditions and terms of world government by big business, as well as a sociali-sation of losses by the banking system: it is estimated that, in these few years, at least 20 trillion dollars have been used for the rescue of the power and the system, obviously subtracting resources to the immense river of money belonging to the community.
But the crisis, which we have called “the First World War of finance”, has not only produced further deepening inequalities, already huge, and the concentration of wealth: only in 2013 the richest in the world have in-creased by as much as 320 billion dollars their assets, which now amounts to 46.2 trillion dollars.
This new and unique “world war” has become and is becoming more and more - and in a more accelerated way in Europe - an opportunity and pretext for a change in the root of democracy, as it is known and developed
in the West, through a technocratic process that is coming to empty it from the inside. Greece was the first test of this authoritarian process openly theorized by JP Morgan, one of the largest investment banks in the world, as well as the most directly responsible for the current crisis since 2007.
Alongside, and in an integrated and synergistic way, this particular global war, we find more traditional forms: the industrial system of death, war, never goes into re-cession. Armed conflicts are rapidly growing in number, hazard and modification of geostrategic balance, in an unusual mix of “Cold War” and hot wars.
Wars that, as always, carry with them the systematic violation of human rights. And, likewise, the lapel, equally bloody and risky, of terrorism, identitarian and religious, that with the massacre of Charlie Hebdo and the advancement of ISIS has finally shaken the public around the world.
Iraq continues to be a battered country. As well as Af-ghanistan and Pakistan, Libya, Ukraine. These are the results, predictable and predicted, of the “humani-tarian and infinite” war built by George W. Bush and Tony Blair. A criminal war that has enriched the large multinational of oil and weapons, beginning with the infamous Blackwater, now not surprisingly active in Ukraine, to pursue the slippery and nefarious strategy of eastward expansion of NATO.
Interminable conflicts, crises of all kinds, new tech-nologies and forms of production and consumption, are our daily bread and affect directly and indirectly our dreams and human expectations, often without us realising it. The great independence and Cuban writer José Martí coined in the late nineteenth century, with remarkable foresight, two ideas that somehow inspire
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Editorialthe very foundations of this project: “Home-land is humanity” and “be cultured to be free”.
“Homeland is humanity,” because all of us, human beings, we already live in the same in-terconnected place where the defense of free-dom and social justice in places far from our homes is the guarantee of our own freedom. Nothing that is right and human can be alien to us if not at the cost of being the next in an end-less list of victims and growing and “collateral damage”. However, if it is true that we live in a common “homeland-planet”, it is also true that it is full of different regional, national, cultural, religious, social and language realities, and it is for this reason that the idea of exchanging and sharing our particularity, without denying them, is an essential part of human enrich-ment and therefore also an essential compo-nent of the project that we are starting with Global Rights.
“To be cultured to be free”, because only with full knowledge and with a diverse and open information we can counter the prejudices in-herited and with which we live in our thinking and interpreting reality. Our ways of seeing the facts and processes directly drive our actions and daily commitments, which is why to have our opinion compels us to build it with accu-rate information, knowing views and different approaches, to avoid the risk of reproducing opinions induced by those who control and ma-nipulate the mainstream media, which invade more and more, and more and more boldly and forcefully, our lives and our minds.
This information project on the global reality, and interpretation of the global reality (dissemination, discussion, exchange, practice), is also a “concen-tration”: in this case it will bring together people, thinkers, activists, efforts and instruments. We too have this right, the right to “lobbying”. A making network and synergies perhaps modest but very determined: for life, for freedom, for cultural di-versity, for social justice. To think and act, indeed, with independence.
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GlobalPERCHÉ
Perché ci sembrano necessari:
• un luogo di informazione, scambio, incontri, proposte, produzioni culturali e politiche sul mondo che cambia, tenendo come baricen-tro i diritti globali, vero termometro delle trasformazioni politiche-economiche-sociali-culturali-ambientali-geopolitiche che il piane-ta sta attraversando;
• una mappa per provare a individuare rotte verso l’autodeterminazione (di soggetti, di nazioni, di comunità, di popoli e minoranze);
• una bussola per tentare di raggiungere anche gli angoli più re-moti, che spesso nascondono interessanti e inedite esperienze;
• una cassetta degli attrezzi per novelli e/o stagionati naviganti ca-paci di raccontare storie, di captare quel che si muove a ogni lati-tudine, spinti dalla curiosità e dalla consapevolezza che il dialogo e lo scambio sono fondamentali;
• una lente che rifletta e racconti quello che accade e come le co-munità/genti/territori si (auto)organizzano;
• una fucina dove le idee vengono plasmate e dove possano nas-cere sguardi nuovi sul mondo che cambia, radiografie del nuovo pianeta in tutte le sue declinazioni;
• un megafono poliglotta per chi sta immaginando e praticando nu-ove forme di auto-determinazione basata sul concetto del diritto a decidere (baschi, kurdi, valsusini, irlandesi, catalani, boliviani, greci...);
• una sede e uno strumento in grado di promuovere iniziative ed eventi (in continuità di esperienze già realizzate, come sono state a Venezia Planet K, il padiglione Kurdistan alla Biennale del 2009 e le due Conferenze internazionali di pace del 2009 e 2011).
COME
• Attraverso un sito web dinamico con aggiornamenti continui e
una rivista sfogliabile su web, stampabile on demand e fruibile anche da dispositivi quali tablet e smartphone.
• Il sito e la rivista on line avranno una struttura definita con ampi reportage/inchiesta, servizi video e fotografici. Sezioni del sito saranno dedicate all’analisi, all’approfondimento, al confronto di idee con interlocutori ed esperti internazionali.
• Il sito sfrutterà le potenzialità di piattaforma multimedia del web.
• I materiali saranno proposti in più lingue, a sottolineare la necessità dello conoscenza e dello scambio, rifiutando logiche e gerarchie di lingue dominanti.
• Il sito avrà uno spazio aperto alla community dei lettori che potranno intervenire e intera-gire.
CHI
• Il progetto nasce dall’esperienza del Rapporto sui diritti globali, un volume annuale realizzato da 12 anni in Italia dall’Associazione Società IN-formazione, promosso da una rete delle prin-cipali organizzazioni sociali italiane: CGIL, Arci, ActionAid, Antigone, Coordinamento Nazionale delle Comunità di Accoglienza, Fondazione Le-lio e Lisli Basso, Forum Ambientalista, Gruppo Abele, Legambiente;
• Il sito rappresenta l’integrazione e l’evoluzione di siti preesistenti: www.dirittiglobali.it, www.globalrights.info, www.talkingpeace.org, che da molti anni producono informazione sui temi in argomento.
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RightsQueremos: Ser un lugar de información, inter-cambio, propuestas, políticas y producciones culturales a nivel global, a partir de la defensa de los derechos humanos, individuales y col-ectivos. Difundir y reproducir información, pensamiento, puntos de vistas y acciones en favor de la auto-determinación (entendida esta como derecho de individuos, naciones, comunidades, pueblos, minorías). Ser lugar de debate e intercambio sobre las realidades de un mundo cambiante y en pugna. Convertir la diversidad idiomática en un punto de encuen-tro y no de diferencia, traduciendo materiales, tanto por sus propios medios como por la co-laboración multiplicadora de sus lectores, que son parte esencial de este proyecto.-Ser her-ramienta que sirva de base a iniciativas y ac-ciones, políticas, sociales y culturales concre-tas de acuerdo a los objetivos propuestos. Como: Sitio web dinámico con actualizacio-nes continuas y una revista navegable (que se puede imprimir bajo demanda) y a cual tam-bién se pueda acceder desde diversos disposi-tivos (tabletas y teléfonos Smart…) Un conteni-do definido por reportajes e investigaciones, vídeos y servicios fotográficos. Las diferentes secciones del sitio se dedicarán al análisis, profundización e intercambio con los lectores y expertos internacionales en cada materia. El sitio web explotará además el potencial de las plataforma multimedia. El contenido se ofrecerá en varios idiomas, para enfatizar la necesidad del conocimiento diverso y el inter-cambio, rompiendo en lo posible la actual jer-arquía de las lenguas dominantes. Contará con un espacio abierto a la comunidad de lectores. Quien: Este proyecto parte del Informe sobre los Derechos Globales, realizado en los últimos 12 años por Società INformazione.
We want to be: a place of information, exchange, meetings, proposals, policies and cultural produc-tions on the changing world, keeping global rights as a center of gravity, because global rights are the real thermometer of the economic, social, cultur-al, environmental, geopolitical policies the planet is going through; a map to try to identify routes to self-determination (of individuals, nations, com-munities, peoples and minorities);a compass to try to reach even the most remote corners, which often hide interesting and unusual experiences; a toolbox for novice and/or seasoned sailors able to tell stories, to capture what moves at all latitudes, driven by curiosity and the realization that dia-logue and exchange are fundamental; a lens that reflects and tell what happens and how communi-ties / nations / countries (self)organize; a forge where ideas are shaped and where new looks on the changing world can be born, radiographies of the new planet in all its forms; a multilingual megaphone for those who are imagining and practicing new forms of self-determination based on the concept of the right to decide. a home and a tool able to promote initiatives and events. How: Through a dynamic website with continu-ous updates and a magazine browsable on the web, available for print on demand. The site and the online magazine will have a defined structure with extensive reportage/investigation, video and photographic services. Sections of the site will be dedicated to the analysis, features, to exchange ideas with the community of readers and interna-tional experts. The site will exploit the potential of the web platform multimedia.The materials will be offered in multiple languages, to emphasize the need of knowledge and exchange, rejecting the logic and hierarchy of dominant languages. There will be a space open to the community of readers.
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LibreKobane
134 DÍAS DESPUES DEL COMIENZO DE LA BATALLA DE KOBANE, CIUDAD ESTRATÉGICA SITUADA
EN LA ZONA AUTÓNOMA DE ROJAVA (EN EL KURDISTÁN SIRIO), LIMÍTROFE CON TURQUÍA, LAS
FUERZAS KURDAS HAN ANUNCIADO LA RECONQUISTA DE SUS TERRITORIOS.
Text: Orsola Casagrande José Miguel Arrugaeta Photo: Mauro Guglielminotti
Han pasado 134 días desde el comienzo de la batal-
la de Kobane, una ciudad estratégica situada en
la zona Autónoma de Rojava (en el Kurdistán sirio),
limítrofe con Turquía. Tras una encarnizada y tenaz
auto-defensa el pasado lunes las unidades del
Ejército Islámico abandonaron derrotadas el cas-
co urbano de Kobane, y lo que aparentemente de-
bía haber sido un paseo militar para el arrogante e
“invencible” ISIS se ha convertido finalmente en un
fracaso, dejando al descubierto al mismo tiempo
la inconsistencia de la supuesta “alianza interna-
cional” que dice combatirlos.
Crónica de una liberación, con muchas consecuen-
cias
Las milicias populares, YPG (Unidades de defensa
del pueblo) y las YPJ (unidades de defensa de las
mujeres) retomaron, a lo largo del el lunes 26 de
enero, varios barrios de la ciudad de manera con-
secutiva, tras haber rechazado los últimos inten-
tos de las fuerzas de ISIS por hacerse con la zona
central de la urbe. El día anterior por la mañana
los milicianos ocuparon el emblemático barrio
de Kanya Kurda, una victoria también simbólica y
moral pues fue precisamente en la gran colina que
domina esta barriada donde fue izada la bandera
negra del Estado Islámico en los primeros días de
asalto, que todo el mundo pudo ver en directo por
televisión cuando la caída de Kobane en manos del
ISIS parecía “inminente e irremediable”.
Tras la toma de Kanya Kurda las unidades de auto-
defensa fueron reconquistando progresivamente
el control de Qesra Bozan Beg y posteriormente
del distrito de Miktel. Los combates más duros se
produjeron el día anterior en la zona este de la ciu-
dad, en los cuales murieron al menos 41 militantes
de ISIS, según informaciones proporcionada por
el comandante de las YPG, Mazlum Kobane, este
mismo jefe militar subrayaba que los militantes de
ISIS en retirada se estaban refugiando en territorio
turco, una muestra más de la complicidad del Go-
bierno turco con el Estado Islámico.
Las Unidades de Defensa del Pueblo (YPG) emiti-
eron la pasada noche un comunicado subrayando
que “la victoria en Kobane será de gran estímulo
también para otras victorias: podemos decir que
en Kobane se ha celebrado el inicio del fin de ISIS”.
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Las mujeres y los hombres de las milicias
kurdas han liberado su ciudad de los
militantes del Ejercito Islamico
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Un anuncio que en estos días sin duda será necesario analizar pues la liberación de Kobane puede
ser efectivamente el inicio de un cambio en la correlación de fuerzas en la región del Medio Ori-
ente.
Mensajes desde el frente
Sin embargo por el momento lo que prevalece en el terreno en estas horas es la alegría.
Desde la ciudad recién liberada Sedat Sur, periodista de ANF, trasmite en directo por nuestro Skype
“la conmoción y felicidad son incontenibles, todos los milicianos están celebrando”. Desde el mis-
mo centro de la ciudad cuenta que los milicianos están en las calles y señala que “hay que ser muy
cuidadoso porque todavía estamos en peligro. De hecho esta noche como siempre la guardia y la
vigilancia serán altísimas”.
Los mensajes se acumulan sin cesar en el ordenador, son las palabras de esos héroes comunes
y corrientes en que se han convertido los milicianos y milicianas de las fuerzas de defensa (YPG
y YPJ) quienes eufóricos por el final de la batalla nos mandan un comentario, una frase para com-
partir su sentimientos…”Esa victoria es para todos los milicianos que han caído en la lucha para la
liberación de nuestra ciudad” escribe Rozerin. Sehit añade “a nuestra ciudad, a nuestro pueblo, al
mundo, le hicimos una promesa: expulsar el ISIS de Kobane. Y esa promesa hoy la hemos cumplido.
Hoy Kobane es libre y el ISIS no va a entrar aquí nunca más”.
El poder de las nuevas tecnologías se ha puesto en esta jornada al servicio de la gente. No podemos
ver las caras de los amigos y amigas con los cuales en esos meses hemos estado en precario con-
tacto después del inicio del ataque de ISIS, pero es fácil sentir su felicidad. “Queremos agradecer a
todos los que nos han animado y apoyado en esos largos, larguísimos 134 días - escribe Heval - esa
victoria no es solo de y para la gente de Kobane, sino para toda la humanidad”. Barzan se suma a la
satisfacción por este día memorable “quiero decir que todo el mundo hoy es un poquito más libre”.
Los kurdos cantan y bailan por la victoria, pero la guerra sigue presente.Son solo algunas muestras
del ambiente en el frente de Kobane, una fiesta y alegría que llegó inmediatamente a los asenta-
mientos de la numerosa población local refugiada y desplazada en Turquía, a todo el Kurdistán
turco y a Rojava. Nada más conocerse la noticia de la liberación de Kobane miles de personas
ocuparon las calles de Diyarbakir (Amed), “capital” del Kurdistán turco, para celebrar la victoria
frente a la sede del BDP (Partido de la Paz y Democracia), lo mismo ocurrió en Urfa, Mardin, Cizre.
Igualmente en Anakara y Estambul los residentes kurdos y la izquierda turca celebro en las calles
la noticia, lo mismo sucedió en los otros dos cantones de Rojava (Afrin y Cezire) a pesar de que
la situación en sus territorios sigue siendo de guerra. Los fuegos artificiales, cantos y bailes que
llenas el Kurdistán en estos momentos son también un homenaje al sacrificio de los numerosos
milicianos que han muerto defendiendo su ciudad de Kobane.
Por teléfono Asya Abdullah, co-presidenta del PYD (Partido Democratico del Kurdistan) señala en
medio de la alegría que “esta noche volverá a ser una noche de alerta. Kobane hoy es una ciudad
liberada, pero no olvidemos que las fuerzas de ISIS fuera siguen organizándose. La lucha continua
porque otras zonas alrededor de Kobane todavía no son libres”. Sus palabras son el recuerdo de
que aún quedan batallas por librar y que la guerra continúa.
Turquía en la mirilla
En medio de la alegría kurda el Gobierno turco encargó a su vice-primer ministro, Bulent Arinç la
desagradable tarea de dar la cara, y sus cínicas palabras no dejan de ser sorprendentes :”El apoyo
proporcionado por Turquía a Kobane no puede ser olvidado” , ha afirmado ante una audiencia de
atónitos periodistas que hasta ahora solo han podido constatar este “apoyo” en la cobertura que
Turquía brinda al ISIS (incluido el recoger a los combatientes islámicos que hoy huyen de Kobane),
la represión en contra de los refugiados y la población desplazada de Kobane, la obstinación en su
rechazo a abrir un corredor humanitario hacia la ciudad o su permanente vigilancia para evitar la
incorporación de voluntarios a las autodefensas de Rojava, un curioso “apoyo” sin duda.
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MERYEM
Text: O. C. - JM A. Photo: Sedat Sur
Tras ciento treinta y cuatro días de incesantes combates en la ciudad de Kobane, finalmente las fuerzas de autodefensa del Cantón de Rojava, el Kurdistán sirio, consiguieron el pasado lunes expulsar a los combatientes del Estado Islámico de la ciudad. Voluntad, determinación, la defensa de su tierra y de su gente han sido sus armas secretas, con ellas y su entrega personal numerosos jóvenes, hombre y mujeres a partes iguales, han con-seguido conjurar el destino al que muchos les habían condenado de antemano, en aras de calculados intereses geo-estratégicos. Kobane no solo no ha caído en manos del ISIS, como anunciaron los “profetas”, sino que sus defensores, y toda la población que los ha apoyado, han dado un ejemplo que pone en evidencia a algunos Gobiernos que siguen prometiéndonos una campaña larga, tenaz y muy difícil en contra del Estado Islámico. Un anuncio que frente a la reciente liberación de Kobane, parece ocultar secretos intere-ses para justificar una “intervención prolongada” en todo el Medio Oriente. Los combatientes del Estado Islámico ni son tan terribles,
ni inmunes a las balas y al miedo y mucho me-nos invencibles, eso han demostrado los de-fensores de Kobane que celebran estos días la victoria con mayúsculas, con cantos y bailes, arropados por ese pueblo que defienden y que tanto cree en ellos. Quizás la lección principal de este acontecimientos sea un nueva ley de la física-social que, tomando a Arquímedes como base, puede proclamar “dadme una buen causa y moveremos el mundo.” La coman-dante de las YPJ (Unidades de defensa de las mujeres) en Kobane, Meryem Kobane nos con-testa al teléfono con energía. Su voz no revela cansancio, es firme y no es difícil imaginarla sonriente. “¿Cansancio? Bueno - dice riendo - si pero es que todavía estamos de pie gracias al entusiasmo”. Detrás de su voz se oyen otras voces de hombres y mujeres charlando y rien-do. Kobane es ya una ciudad libre y sus jóvenes defensores siguen celebrando en voz alta. Su alegría es compartida, muy compartida, los kurdos han llenado las calles de sus aldeas y ciudades, la fiesta ha llegado hasta lejanas ci-udades europeas donde habita una numerosa diáspora, propia de un pueblos sin estado. “La verdad que ha sido emocionante ver a toda nuestra gente celebrar - dice la comandante Meryem - ha sido como un gran abrazo”. Y ese abrazo es lo que se percibe en la satisfacción que transmite su voz. “Habíamos dicho que Kobane se había trasformado en un infierno para el ISIS y así ha sido. Le decimos al mundo desde Kaniya Kurda [el primer barrio liberado] que nuestra ciudad es libre”. “Ahora nuestro esfuerzo será liberar los pequeños pueblos alrededor de Kobane, hasta que toda la zona
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MERYEM KOBANEsea completamente libre”. La conversación se interrumpe en varias ocasiones, Meryem atiende al mismo tiempo compromisos y ob-ligaciones propias de su grado, tiene que orga-nizar muchas cosas, una rueda de prensa de milicianos para que den detalles de los últimos combates, una delegación política del Kurdis-tán turco que acaba de llegar. Le pedimos que nos comente como fue retomado el barrio de Kaniya Kurda, en cuya alta colina los combati-entes del ISIS clavaron su bandera negra los primeros días de la batalla, unas imágenes que la TV difundió al mundo en directo, y en cuya cima hoy ondea orgullosa la bandera de Rojava. “La operación de nuestras milicias con-tra los militantes de ISIS empezó en las prim-eras horas de la mañana del lunes. Fueron tres horas de enfrentamientos. Golpeamos duro a los de ISIS y perdieron muchos hombres. Final-mente los que quedaban huyeron. Así comple-tamos la liberación del barrio”.
La Comandante Meryem no espera nuestras preguntas para seguir hablando con esa voz que desborda satisfacción. “Justamente hoy (27 de enero) se celebra el primer aniversario de la declaración del Cantón de Rojava, pero a partir de hoy celebraremos dos veces, el 26 la liberación de la ciudad y el 27 la proclamación del Cantón. Les hemos dado un mensaje fuerte y claro a los de ISIS, estamos aquí para defend-er nuestra libertad y nuestros territorio a cu-alquier precio”.Sin embargo toda victoria tiene un alto costo humano y la liberación de Kobane no es una excepción, decenas de voluntarios, hombre y mujeres en la flor de la vida, han
muerto defendiendo la ciudad. Muchos de ellos kurdos pero también turcos, árabes sirios, caldeos cristianos. Porque la defensa de Rojava es el em-peño de diversas comunidades por convivir, como lo han hecho desde hace siglos, con respeto y en igualdad (en contra de los numerosos prejuicios que se difunden desde la ignorancia y el descono-cimiento occidental). Meryem no olvida referirse a ellos, “todo el rato lo que nos ha inspirado y dado fuerza han sido nuestros mártires. Cuanto le hab-ría gustado llegar a ver ese día. Si estamos aquí hoy es por el sacrificio de muchos compañeros y compañeras”.Le recordamos que en una ent-revista anterior, en medio del fragor de los com-bates y cuando el resultado no estaba tan claro, ella misma nos dijo que su lucha no era solo por Kobane sino por toda la humanidad. Las palabras viajan lejos cuando le decimos que hoy todo el mundo está celebrando con ellos. Su contestación es clara, “y nosotros con ellos. Quiero enviar un saludo y agradecer primero a todos los que en esas largas semanas nos han acompañado orga-nizando vigilias en la frontera. Para nosotros saber que estaban allí ha sido muy importante. Y luego también queremos agradecer a todas las mujeres y los hombres que en varios lugares del mundo nos han apoyado”. La interrogante de qué sigue a la liberación de Kobane es casi obligada, sus pal-abras reiteran la enorme tarea que les espera, “es evidente que nuestra lucha no ha terminado. Aún hay muchos sitios que deben ser liberados fuera de Kobane, pero igual que cuando prometimos lib-erar Kobane ahora prometemos liberar las aldeas, e ir donde haga falta. Expulsaremos al ISIS, empe-zando por nuestros propios pueblos”
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Aveva ragione Oriana Fallaci o, vicever-
sa, i suoi ultimi libri hanno alimentato
la spirale dell’odio? Le manifestazioni
a Dresda di Pegida, vale a dire dei “Pa-
trioti europei contro l’islamizzazione
dell’Occidente” e il crescere di nazion-
alismi e destre estreme in Europa sono
una conseguenza o una concausa
dell’affermarsi dei radicalismi islami-
ci? Il Front National, la Lega Nord e le
Case Pound sono soluzioni accettabili
o parte del problema? Le provocazioni
dei Borghezio o le t-shirt dei Calderoli
sono servite a sensibilizzare sul peri-
colo o hanno cinicamente e strumen-
talmente buttato benzina sul fuoco?
La figura dell’oltranzista islamofobo
Anders Breivik va ora rivisitata oppure
la strage, ancora più ampia, di cui è
stato responsabile in Norvegia è una
Terrorismo di Stato e scontro di inciviltà
Text: Sergio Segio Photo: Mauro Guglielminotti
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PLANETS PARIGILa produzione di morte somiglia ormai
a un videogame, per i terroristi di Parigi
così come per i piloti dei droni che ne
distribuiscono a piene mani, a distanza e
con meno coinvoglimento emotivo,
manifestazione speculare, oltre che precedente,
di quanto accaduto a Parigi e altrove? Le associ-
azioni antirazziste e il volontariato accogliente
sono illusi buonisti e utili idioti oppure il vero bal-
uardo e il più robusto antidoto ai fondamentalisti
della jihad? E infine: nasce prima la guerra o il ter-
rorismo?
In un momento in cui si fanno indiscutibili
le certezze, come spesso avviene quando
l’emotività supplisce all’analisi e alla ragione,
conviene abbondare nei dubbi e con le doman-
de. E poi occorre, come sempre bisognerebbe
fare, guardare il più possibile ai fatti – e anche
alla Storia – e metterli al centro della scena e del
ragionamento.
Si dice che gli attentatori siano reduci dalla per-
durante guerra in Siria; da tempo i servizi di si-
curezza occidentali indicano il pericolo costituito
dai miliziani di ritorno, venuti alla ribalta con i vid-
eo delle decapitazioni a opera dei seguaci del Cal-
iffato. Secondo la stampa, su un totale di 12.000
foreign fighters provenienti da nord Africa e paesi
occidentali, sarebbero almeno 700 quelli con
passaporto francese andati a combattere con lo
Stato Islamico in Siria. Anche se tali cifre appaio-
no forse esagerate e comunque ovviamente non
comprovabili (più credibile e definito il numero di
quelli arrivati dall’Italia, fornito dal nostro min-
istero dell’Interno: 53), l’allarme ha sicuramente
fondate ragioni e si basa su elementi concreti.
Occorre peraltro ricordare che molti dei gruppi
ribelli anti Assad, che poi hanno dato vita all’Isis,
erano stati inizialmente sostenuti da governi oc-
cidentali nonché armati dalla CIA statunitense.
Più o meno lo stesso era successo ai tempi della
prima guerra in Afghanistan, con Bin Laden e la
nascita di Al Qaeda.
Tuttavia, degli attentatori di Parigi colpisce la
confidenza con la morte, più che la professional-
ità militare, forse acquisita in campi di addestra-
mento ovvero nei tanti teatri di guerra in corso,
ma comunque dubbia. «Gli assassini gli sono
addosso di corsa, uno copre dal centro della
strada, l’altro gli dà il colpo di grazia, con una na-
turalezza meccanica, come in un’esercitazione
ripetuta cento volte, come in un videogioco»,
scrive Adriano Sofri su “la Repubblica”.
La produzione di morte somiglia ormai a un vid-
eo game, per i terroristi di Parigi così come per
i piloti dei droni, che ne distribuiscono a piene
mani, per giunta a distanza, con ancora minore
coinvolgimento emotivo e con nessun rischio
fisico. Ma quest’oscena rappresentazione viene
percepita come virtuale il più delle volte anche
dagli spettatori, che facciano il tifo per gli uni o
per gli altri. Il numero di pattuglie di droni arma-
ti americani è cresciuta del 1200% tra il 2005 e
il 2011. Anche nel 2013, mentre il bilancio della
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difesa statunitense vedeva tagli in diversi settori, quello dei sistemi d’arma senza equipaggio è aumentato del 30%.
Parafrasando von Clausewitz, la guerra con i droni diventa non la continuazione, bensì la sostituzione della politica
con altri mezzi: «la dronizzazione delle forze armate altera, come qualsiasi processo di esternalizzazione dei ris-
chi, le condizioni della decisione guerriera. La soglia del ricorso alla violenza armata si abbassa drasticamente,
tendendo a presentarsi come un’opzione, in assenza d’altro, della politica estera» (Grégoire Chamayou, Teoria del
drone, DeriveApprodi, 2014).
Tutti noi siamo frequentemente bombardati da immagini di guerre e devastazioni. Quasi tutti noi siamo protetti
dal filtro emotivo dello schermo televisivo o del monitor. Per una quota non piccola di popolazione mondiale quel
contatto è invece diretto e quotidiano. Generazioni di palestinesi vi hanno preso familiarità dalle finestre di casa
o dalle tende dei campi profughi dove sono cresciuti; lo storico vulnus di terra e di diritti che colpisce quel popolo
continua, infatti, a essere il padre e la madre della destabilizzazione a livello mondiale. Intere aree del Medio Orien-
te e dell’Africa hanno un’incolpevole abitudine all’orrore e alle mattanze umane, resa atavica dalle guerre coloniali
prima e, poi, dalle tante forme, solo in apparenza meno sanguinose, che quella stessa rapace pratica di spoglia-
mento e di rapina – di materie prime come di culture – ha assunto nel nuovo secolo.
Si può e si deve inorridire, ma non ci si può stupire se quella confidenza si traduce a volte – per fortuna poche
rispetto a quel che sarebbe pensabile e possibile – nell’odio sconfinato e nel mortifero desiderio di rivalsa e di af-
fermazione che arma le mani dei nipoti delle vittime di quei colonialismi o comunque di persone che si convincono
di essere giustizieri, prima che assassini.
Per la comune sensibilità occidentale le immagini della strage di Parigi suscitano immedesimazione. Je suis Char-
lie, come nel secolo scorso ci si diceva berlinesi. Eppure, anche allora, non tutti gli europei si sentirono vicini a
Berlino Ovest, sulla scia di John Fitzgerald Kennedy. Con la capitale tedesca divisa in due e nel mondo bipolare la
sensibilità, la politica e la cultura si spaccarono come una mela, tra chi stava con gli Stati Uniti e chi parteggiava
per l’altro impero, quello sovietico, e per l’altro schieramento, quello del Patto di Varsavia. Altri tempi e altre guerre
fredde, ma di cui bisognerebbe ricordarsi allorché le attuali geostrategie occidentali, attraverso l’allargamento
a Est della NATO e le guerre per il petrolio, con sullo sfondo il confronto finale con la Cina, destabilizzano di nuovo
pericolosamente il quadro, rinfocolando anche sentimenti nazionali e volontà di potenza della Russia. Sono anche
questi gli occhiali di lettura di quanto successo a Parigi, mentre nell’immediato e giustamente si dichiarava indig-
nazione per i giornalisti uccisi.
Ci sentiamo vicini e possiamo riconoscerci nelle vittime, non negli aggressori. Ma le cose non sono mai semplici,
come i sentimenti pure ci spingono a credere. Spesso anche gli aggressori si percepiscono come vittime e non
sempre le vittime sono del tutto innocenti; non fosse che, di sovente, per la loro indifferenza al dolore degli altri. E
allora, come a Berlino, rischia di diventare prima di tutto una scelta di campo. Ma, in questo modo, si partecipa alla
logica del “noi” e “loro” – e contemporaneamente si condanna l’altro a essere effettivamente e irrimediabilmente
tale.
In questo caso gli altri sono appunto quei figli e nipoti accecati dall’odio per le ingiustizie di ieri o per le umiliazioni
di oggi, oltre che dalle invasature religiose. Fino a che l’occidente continuerà a non riconoscere la loro cultura e
umanità e a soffocare le loro eventuali ragioni storiche, come avviene da decenni per la Palestina, contribuirà a
rinfocolare il loro odio. Fino a che le grandi potenze continueranno a fomentare squilibri mondiali e soluzioni bel-
liche – com’è stato in Somalia, nei Balcani, in Afghanistan, in Iraq, in Libia, in Siria, in Ucraina –, quasi sempre per
nascosti interessi geopolitici e per inconfessabili avidità economiche, nessuno avrà il diritto di dire, per davvero,
Je suis Charlie. Sinché fingeremo di non accorgersi che quello in atto è uno scontro di inciviltà, tra gli Stati predoni
e quelli aspiranti tali, avremo contribuito a moltiplicare le mani assassine e a irrigare l’odio. Se è vero che il ter-
rorismo polarizza, per effetto o per strategia, da questo scontro è possibile e doveroso chiamarsi fuori, provando
invece a costruire ponti tra popoli, religioni e culture, sfuggendo a ogni arruolamento coatto tra seguaci della Fal-
laci o della Le Pen. Le loro indignazioni non possono essere le stesse nostre.
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CUBA EEUU
Los pasados miércoles y jueves, 21 y 22 de
enero, delegaciones de los Gobiernos de
Cuba y los EE.UU han celebrado su primer
encuentro oficial en la capital cubana,
tras el anuncio simultáneo del pasado 17
de diciembre en el que los Presidentes
Raúl Castro y Barack Obama hicieron públi-
co un acuerdo, referido a la liberación de
diversos prisioneros y el restablecimiento
oficial de las relaciones diplomáticas, ro-
tas hace casi 55 años.
En un tema tan delicado y esperado como las
relaciones entre Cuba y los EE.UU nada está
sujeto al azar y casi tan importante como los
contenidos resultan las puestas en escena,
ante las expectativas y cámaras de docenas
de periodistas ansiosos de titulares.
Aprovechando las reuniones semestrales que
ambos Gobiernos mantienen desde 1994,
referidas al análisis y evaluación de su básico
acuerdo migratorio, consecuencia directa de
la llamada crisis de los “balseros”, en esta oc-
asión el encuentro regular adquiría sin duda
connotaciones muy especiales, tras la noticia
del 17 de diciembre del restablecimiento de
relaciones diplomáticas, que cogió por sor-
presa a muchos, a pesar de haberse “coci-
nado” durante casi año y medio.
Una primera lectura provisional
Haciendo una primera lectura provisional
sobre lo que se ha hecho público en cuanto a
temas y resultados de esta reunión, estos pa-
recen tímidos teniendo en cuenta la expec-
HACIA LA NORMALIZACIÓN DE LAS RELACIONES ENTRE LOS DOS
PAISES DESPUES DE LOS ANUNCIOS DE LOS PRESIDENTES RAUL
CASTRO Y BARAK OBAMA EL PASADO 17 DE DICIEMBRE.
Text: JM A. Photo: Orsola Casagrande
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PLANETS CUBA-EEUULa Revolución cubana mantiene por delante retos fundamentales de cara a su renovación y modernización como proyecto nacional.
tación que había levantado, aunque tampoco
es de descartar otros “contenidos” si tenemos
en cuenta el precedente de contactos secre-
tos que dieron lugar al anuncio conjunto del
pasado diciembre.
Los enemigos de la normalización de relacio-
nes, al interior de los EE.UU, son poderosos e
influyentes, lo que sin duda fuerza al Gobier-
no Obama a actuar con cautela y precaución,
meditando bien sus pasos, para no dar argu-
mentos a la “contra” cubano-americana en su
estrategia declarada de sabotaje
Sin embargo, si efectivamente los temas del
encuentro han sido solo emigración y condi-
ciones para la trasformación de sus respec-
tivas Oficinas de Intereses (que existen desde
el Gobierno de Jimmy Carter) en Embajadas
propiamente dichas, el saldo resulta más
bien escaso.
Y en este mismo sentido se podría subrayar el
Los gobiernos han aprovechado las reuniones que mantienen desde 1994
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que en el último momento la delegación norteamericana haya bajado su nivel, siendo encabezada
por el sub-Secretario de Asuntos Hemisféricos y no por su superior, la Secretaria Adjunta Roberta
Jacobson, tal y como estaba previsto inicialmente.
En cualquier caso más allá de los resultados o balances que se puedan hacer de esta primera
reunión seguramente resulta más orientativo recopilar cuales pueden ser durante este año los
temas que se incluyan en una agenda común aún en construcción.
Temas para una posible agenda común
A los ya señalados inicialmente, es decir emigración y condiciones para establecer sedes diplomáti-
cas con rango de Embajadas, se les puede añadir, sin temor a mayores equivocaciones la posible
cooperación y/o coordinación en las áreas del combate al narcotráfico, y a aspectos sustanciales
referidos a la seguridad nacional de ambos países. Si bien en este último aspecto Cuba mantiene
diferencias respecto a los EE.UU en cuanto a definición y matices sobre el denominado “terrorismo
internacional”, ambos gobiernos mantienen también muchas preocupaciones compartidas por lo
cual, exceptuando algunos temas concretos y determinados, este puede ser perfectamente otro
de los puntos previsibles de agenda compartida, claro que para ello resulta imprescindible que
Obama cumpla efectivamente su promesa de eliminar a Cuba del listado unilateral y selectivo, que
anualmente hace público el Departamento de Estado, de países que según ellos “apoyan o prom-
ueven el terrorismo”. Un listado que además, y no está de más señalarlo, conlleva serias represal-
ias económicas y de otra índole.
A listado de temas de agenda a corto plazo hay que añadirle casi de oficio los que se derivan de las
decisiones anunciadas la pasada semana por el Gobierno norteamericano y que se manera gen-
eral se pueden sintetizar en: La ampliación de licencias de viaje para que ciudadanos de este país
(sin vínculos familiares) viajen a Cuba, una apertura moderada de las posibilidades para que Cuba
pueda adquirir, bajo licencias del Departamento del Tesoro, medicinas y alimentos en los EE.UU, el
aumento al triple de las remesas familiares autorizadas , la posibilidad de que las personas que
viajen desde Cuba hasta los EE.UU puedan importar hasta 400 dólares en productos cubanos, y la
autorización a firmas norteamericanas de comunicaciones de establecer contratos de servicios
con Cuba.
Y aquí en necesaria una nota aclaratoria pues el proceso de “normalización de relaciones” al que
nos referimos no se ha establecido como “unilateral” y por lo tanto resulta lógico que el Gobierno
cubano exprese sus opiniones sobre estos gestos de “buena voluntad” y sobre la manera en que
piensa regularlos al interior de su país, sobre la base, reiterada en diversas ocasiones por el Presi-
dente cubano, de que las conversaciones pueden ser sobre cualquier tema pero en pie de igualdad,
es decir entre dos países independientes y soberanos.
Los retos para Cuba
Así las anunciadas posibilidades de ampliación del turismo norteamericano de carácter académi-
co, cultural y de intercambio entre organizaciones civiles, el aumento de flujos financieros y de
importación o la posibilidad de acordar servicios de comunicación serán seguramente sujeto de
intercambio de posiciones, e irán engrosando una agenda bilateral por hacer, donde la parte cu-
bana buscara claramente una aplicación paulatina, selectiva y ordenada para evitar desestabili-
zaciones internas indeseadas y el aumento de las cada vez más marcadas desigualdades sociales
al interior de la sociedad cubana.
La Revolución cubana mantiene por delante retos fundamentales de cara a su renovación y mod-
ernización como proyecto nacional y si el restablecimiento de relaciones con los EE.UU es noticia
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trascendental mucho más estratégico resulta para Cuba la evolución y resultados de las trasfor-
maciones economías internas. Una vieja asignatura aún pendiente sobre la base programática
de que cualquier crecimiento económico debe venir acompañado de justicia social y de una re-
distribución equitativa de la riqueza, en aras de evitar que lo que los Gobiernos de los EE.UU no
consiguieron con su política de “estrangulación” pueda suceder en esta nueva etapa de “abrazos”.
Y para ser conscientes de la importancia de las repercusiones en la economía “interna” de las
medidas preliminares anunciadas la semana pasada por la administración Obama solo hay que
señalar que las mismas pueden suponer, en un cálculo muy por encima, más de tres mil millones
de dólares de ingresos adicionales a Cuba desde los EE.UU (en remesas familiares, aduana, expor-
taciones minoristas de turistas y ahorro en importaciones, más otros renglones menores)
De la reunión de enero en La Habana al encuentro de Presidentes en mayo en Panamá
Este primer encuentro gubernamental Cuba-EE.UU, tras el restablecimiento oficial de relaciones,
ha sido nada más que una primera toma de contacto de cara a ir estableciendo una agenda, otros
puntos mucho más políticos y de fondo llevaran bastante más tiempo y negociaciones
Para el Gobierno y la sociedad cubana la economía seguirá siendo tema central y estratégico
a lo interno, pero si Cuba tiene su “enemigo potencial” en el desarrollo económico, el Gobierno
norteamericano también tiene el suyo, un lobby político cubano-americano con notable influencia
en los aparatos legislativos (en cuyas manos está el desmontar el bloqueo) contrario de cualquier
tipo de relaciones bilaterales, una postura que también tiene sus ramificaciones al interior de
Cuba, en forma de una “oposición interna” financiada desde fuera, que si bien se ha quedado bas-
tante descolocada en esta nueva etapa sin duda seguirá “dando de qué hablar”.
Durante este año Cuba en sí misma, y los pasos y acciones hacia una nueva relacion Cuba-USA van
a ser fuente de noticias, este nuevo camino apenas acaba de comenzar, en estos momentos las
interrogantes son más numerosas que las respuestas, así que la única brújula posible será seguir
y valorar los acontecimientos paso a paso.
La reunión acontecida estos días en La Habana tendrá continuidad regular y seguramente de las
mismas irán derivándose sub-comisiones que vayan adelantando condiciones técnicas en cada
punto, sin embargo todo indica que la cita que sin duda aportará “luz y contenido” sobre la concre-
ción a futuro de esta “normalización de relaciones” será el encuentro personal que mantendrán
Barack Obama y Raúl Castro en la próxima Cumbre de Las Américas que tendrá lugar el próximo
mayo en Panamá.
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smiles Palestine
When you are coming back to your home, think of the
others
Don’t forget the camp people
When you are sleeping and counting stars think of
others
There are people don’t have place to sleep
Mahmoud Darwish
When we study the modern architectural
models, full of all excitement and suspense
elements, where all the modern planning
theory are applied, where there are important
green areas, surrounded by home-gardens,
models which are so suitable environmen-
tally, we always got confusing answers about
the size of the people belonging for the place.
Therefore many times we found that citizens
of the modern sustainable cities don’t belong
very well for these spaces, and they have ma-
jor problems in their ability to fully integrate
there. On the other hand when we take a look
to places where poverty, deprivation and suf-
fering reign, we are totally surprised by the
ability of the people there: they belong to
those places fully.
The refugee camps in Palestine are consid-
ered to be one of the places suffering from
poor architectural and environmental condi-
tion. Something which makes it so hard to de-
scribe them as liveable places. The humanity
situation is so bad. Those areas that have high
tendencies to survive and to increase, the av-
erage of the family members is 7 people per
family, and they live in 80 meter square ar-
chitectural places, the neighborhoods there
so close together, the linking roads narrow
enough mostly one meter, with no home gar-
dens.
When you are walking along these camps con-
fusing emotions touch you. That’s for differ-
ent reasons, things you hear, see and smell.
All of these senses play an important role in
that. You see a group of children playing on
one side, and they reflect the absolute inte-
gration. You can see in there eyes certain tol-
erance with full love, you can figure by their
كريغب ركف ،،كتيب ,, تيبلا ىلإ دوعت تنأو
مايخلا بعش سنت ال
كريغب ركف ،،بكاوكلا يصحتو مانت تنأو
مانملل زيح دجي مل نم ةمث،
”شيورد دومحم”
Text: Murad Tamimi Photo: Mauro Guglielminotti
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PLANETS STORIESThe refugee camps in Palestine are considered one of the places suffering from poor architectural and environmental conditions making it difficult to define them as liveable.
smiles Palestine
Text: Murad Tamimi Photo: Mauro Guglielminotti
shapes that they belong to different families.
They wear different kind of clothes worn by the
poor. One of them is barefoot, clearly because
his father cant buy shoes for him, so he plays
without it. Different smells and you could not
establish from which home they come from,
because they are too much close to each other.
When you see a young man besides his poor
home you also see a nice amazing smile shap-
ing his lips: this smile reflects an absolute be-
longing for the space. this smile again shows
that the young poor feels like he is living in one
great palace not a small poor apartment, there-
fore you get confused: how can he keep smiling
despite being so poor?
One door opens in the narrow roads can take
you to multiple houses belonging to many fami-
lies, and when you visit this camp for the first
time, you are not able to establish which home
does this window belongs to. Its so close togeth-
er it seems like all the families in the area are
in fact living in one big home divided between
them in strange geographical method. Just the
people living inside can realize it, once you visit
one of these houses they tell you that they are
living in this house for years, since its not com-
pletely finished yet.
How is it that those who are sleeping on the
floor can compete with the richest people when
it comes to happiness? Their answer is always
that “despite everything you see, we all know
each other”. “Who needs help? We all can help
him”, “all of them love each other”. The mean-
ing of loving the space in this universe is a
wonder that justifies the power of the society
in creating relationship between the one and
the space. However in these places one can
“through his relation” make space relevant so
that it substitutes many of the relevant mate-
rial spaces such as the beauty and richness of
architecture.
This young man who is planning to get married
“which is not a trivial project in term of his cul-
A door opens in a narrow road revealing multiple houses belonging to many families
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ture”. Despite his poverty you could not see that it is very difficult to decide it. Because he knows
clearly that the community could help him, so that building of adjacent home, which is attached
to the main family house, doesn’t have the same meaning for other societies, thus he can, de-
spite everything, supply the minimum necessary raw material, on the other hand you will see many
friends from the camp would help him in the construction of his small house, which will probably
not be bigger than 20 square meter. And at same time this house has not the essential properties
and features needed by others in their future house. Just a single bedroom with a small bathroom,
converts a complicated life to a logical simple life. this logic neither needs a complete warm full
winter nor absolute protection against the rain.
At the same time, this community carries inside its architecture several social drawbacks; many
times this architecture causes several problems and confusion between its citizens ,sometimes
being too much close to each other stresses the people and make them escape from the neighbors
disturbance by replying the same disturbance , make them fight with each other but at the end
they can control these problems since the environment where they occur is surrounded, and they
don’t want to pollute these environment which is cumulated through years, and they clearly know
that breaking these social relations drives to feel that the space is too narrow and the conditions
are difficult.
Some people of Palestinian camps worked hardly and gained a high scientific certificates, many of
them became successful business men and got rich, many of them could visit many cites all over
the world, and when they decide to build their modern houses, they decide to do that near their
camps and the main elevation of this architecture is directed to the camp, many of them have sev-
eral explanation for that. Some of them said “We love the smell of this space, others said “when we
go back to our real home we will destroy it with the camp at the same time”, while others said” we
could not feel the happiness out of this space”. Near our loved one and community.
Its so difficult for any researcher to analyze all the events that are faced in places of this kind; gen-
erally the poor architecture reflects complete poor life. At the same time who lives inside saves his
right to have the happiness at the maximum. The father refuse that his kids sleep without painting
a nice smile on their faces. and always he promises them of their right of getting a beautiful future
but that needs sacrifices, love of life, love of each other, and enhancing the ethics, to sleep beside
each other even they are a lot, he asked them to forgive, living peacefully, the simple father asked
them to be the most wonderful human being that can be shown to the world, and remind them to
think with other pitiable people living in rich places who cant smile, and many birds cant find their
homes yet.
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CULTURES
POETRY
Anne Waldman wrote this poem “Mother
Tongue” for the Kurdish political
prisoners who went on hunger strike in
November 2012 claiming their right to
speak their language
AnneWaldman
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When they rip out your Mother Tongue
They rip our the heart
For the tongue speaks from the heart
against oppression
Against coercion
Against propaganda
Against death
Against sorrow
When they rip out the Mother Tongue
You’re like a child lost in the darkness
May the child always speak and under-
stand its primordial sound
Its power, its infection, its wit, its wis-
dom, its luminous history
And grow in this
May the child not be in perpetual exile
May the weak be defended in the lan-
guage of their own psyche
May all rights be respected, and the lead-
ers who struggle
Never cease speaking in the language
that moves mountains
That moves the spirit
That attests to the love and beauty of a
people, strong in their heritage
This inalienable right, what they are born
with, a cosmology, a poetry
Birthed in mother’s milk....
MOTHER TONGUE
FOR THE KURDISH POLITICAL PRISONERS WHO ARE ON A HUNGER STRIKE,
NOVEMBER 2012
The author of more than 40 collections
of poetry and poetics, Anne Waldman is
an active member of the Outrider experi-
mental poetry movement, and has been
connected to the Beat movement and the
second generation of the New York School.
Her publications include Fast Speak-
ing Woman (1975), Marriage: A Sentence
(2000), and the multi-volume Iovis project
(1992, 1993, 1997).
Her work as a cultural activist and her
practice of Tibetan Buddhism are deeply
connected to her poetry. Waldman is, in
her words, “drawn to the magical effica-
cies of language as a political act.” Waldman An
un
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LABERINTO
Ahora el gobierno Santos debe declarar el alto el fuego, respondendo al cese de las Farc-EP
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TALKING PEACECuando comenzaron los diálogos de paz
entre el Gobierno de Bogotá y las FARC-EP,
muchos se asombraron del paso dado por
el Presidente Juan Manuel Santos
PAZ DIFICILEl posible acuerdo de paz y normalización
que ponga fin al conflicto que sacude
Colombia desde hace más de seis décadas
se mueve constantemente en un campo
minado
La reciente captura de un general colombiano por
las FARC, ha tenido como consecuencia la “suspen-
sión” temporal de las negociaciones de Paz. Más
allá de este serio incidente y de sus consecuencias
finales, el posible acuerdo de paz y normalización
que ponga fin al conflicto que sacude Colombia
desde hace más de seis décadas se mueve con-
stantemente en un campo minado.
Cuando comenzaron los diálogos de paz entre el Gobi-
erno de Bogotá y las FARC, muchos se asombraron del
paso dado por el Presidente Juan Manuel Santos, pero
la decisión era previsible si se tienen en cuenta los re-
sultados de más de diez años de estrategia netamente
belicista, ejecutada por el tándem Alvaro Uribe-Santos,
y es que hay que subrayar que durante los ocho años de
la presidencia de Uribe, Santos fue
su Ministro de Defensa, y la política
de ganar la guerra a cualquier pre-
cio, continuó durante los primeros
dos años del mandato de Santos.
Sin embargo más allá de los impor-
tantes golpes mortales que sufri-
eron los principales cuadros diri-
gentes de la guerrilla (organizados y
ejecutados directamente por fuer-
zas especiales de los EE.UU como se
conoció posteriormente), las fuer-
zas insurgentes acabaron por adap-
tarse a las nuevas circunstancias
bélicas, aunque sin duda perdieron
en el trayecto parte de sus efectivos
además de la iniciativa militar y la
vitalidad que les permitió ocupar
amplias zonas rurales en la década
de 1990, y que condujeron a las ne-
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gociaciones del Cagüan.
Negociar la paz, conclusión de una década infame
Los ocho años del Gobierno Uribe, más su continuidad durante parte de la etapa de Santos, no fuer-
on sino un arrogante y sangriento intento de acabar con el conflicto colombiano sin importar las
consecuencias, apoyados firmemente por un Gobierno norteamericano, que solo sopeso aspectos
militares y de inteligencia, en la creencia de que tal objetivo era posible.
En 12 años de guerra total la cuantificación en términos de víctimas y asesinatos, desplazados,
violaciones masivas a los derechos humanos y sociales, corrupción institucional, e implicación es-
tatal en crímenes de lesa humanidad, como los falsos positivos (más de cuatro mil jóvenes asesi-
nados impunemente por las Fuerzas Armadas como supuestos guerrilleros), o el abierto apoyo del
Ejército a los narco- paramilitares, convertían a esta década larga en una de las más infames de la
historia de Colombia, lo cual tratándose de ese país es bastante decir.
A pesar de todo la insurgencia no desapareció sino que se replegó a lo profundo del país, mientras
que los movimientos sociales se refugiaron al interior mismo de la sociedad colombiana. Lo cual
en la práctica anunciaba el enquistamiento de un conflicto desgastante y sin salidas.
Cambios que ayudaron a una decisión razonable
Pero el desarrollo de la guerra civil colombiana en esta última etapa estaba totalmente desacom-
pasado de los tiempos que vivían sus vecinos latinoamericanos, empeñados en transformaciones
y reformas democráticas, donde los gobiernos progresistas y de izquierda jugaban un papel cada
vez más protagónico, en detrimento de la tradicional influencia de los EE.UU. El entorno regional de
Colombia cambiaba a ojos vista mientras que la deriva de su confrontación interna comenzaba a
desbordar sus fronteras hacia Venezuela, Ecuador, Brasil y Panamá, cada vez con más asiduidad.
Las condiciones internas y externas se fueron alineando poco a poco, incluyendo la convicción
norteamericana de que el balance costos-resultados tampoco garantizaba sus importantes in-
tereses de seguridad y económicos, así que finalmente el Gobierno Santos decidió que si no se
podía ganar la guerra habría que negociar la paz.
Avances y asignaturas pendientes de una negociación
A partir de esta conclusión las negociaciones de La Habana se pueden valorar dependiendo del
punto de vista. Así en cuanto a resultados se refiere se pueden constatar avances significativos en
puntos esenciales como son el fundamental tema de la tierra, la participación política inclusiva,
el combate al cultivo y contrabando de drogas, y adelantos en el tratamiento de reparación a las
víctimas y reconstrucción de la verdad histórica. De la misma manera si uno quiere referirse a las
carencias y debilidades hay que resaltar que ninguno de estos puntos se ha cerrado al completo y
numerosos matices y divergencias siguen ausentes de los documentos acordados, y hechos públi-
cos hasta el momento.
El arribo a La Habana recientemente de importantes jefes militares de las FARC y de una delegación
de alto rango del Ejército colombiano anunciaba el comienzo de las conversaciones sobre el deci-
sivo punto de desmovilización y desmilitarización y es precisamente en medio de esta expectativa
que acontece la captura del General Rubén Darío Alzate, precedida además por el anuncio de las
FARC, unos días antes, de haber hecho prisioneros dos soldados en combate.
Un proceso de paz atípico
Las negociaciones de paz que acaban de cumplir dos años en La Habana fueron desde un inicio
bastante atípicas, un Gobierno que se sienta casi en igualdad de condiciones con una organización
guerrillera, y dilata al mismo tiempo “sine die” el inicio de conversaciones con la otra organización
insurgente (el ELN). Unos diálogos con amplio soporte, acompañamiento y garantías internaciona-
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les, y finalmente la inflexible y riesgosa decisión del Gobierno Santos de negociar la paz en medio
de la guerra, es decir sin un alto el fuego, lo que consecuentemente exponía el proceso de dialogo
a los avatares de cualquier incidentes grave, y un buen ejemplo es sin duda el hecho al que nos
referimos.
En cualquier conflicto la semántica juega también un papel de herramienta de confrontación, así
las declaraciones del Ejecutivo y del Ejército denunciando el “secuestro” o “rapto” del General Al-
zate por parte de las FARC, y la repetición de este término por parte de los grandes medios inter-
nacionales no son sino una prueba de cinismo. Este alto oficial fue hecho prisionero, junto a sus
dos acompañantes (un cabo y una abogada trabajadora de las Fuerzas Armadas) en una zona con-
trolada por las FARC. El General es además el Jefe de la unidad de tarea Titán, compuesta por más
de 2.500 efectivos de tropas especiales, que son precisamente las que combaten en el selvático
Departamento del Chocó, fronterizo con Panamá, contra tres bloques guerrilleros, dos de las FARC
y uno del ELN.
Historia de un General. Los costos de hacer la guerra mientras se habla de paz
Por supuesto que el citado General no es ningún angelito sino que con 31 años de servicio, cuenta
con un amplio curriculum de mando en tropas antiguerrilleras, y por supuesto allí por donde ha
pasado sus fuerzas han sido acusadas de manera reiterada de violación de derechos humanos y
convivencia con los paramilitares.
Más allá de las extrañas circunstancias del hecho, pues el General de adentró intencionalmente,
vestido de civil, sin escolta y sin atender a advertencias en una zona guerrillera, hay que pregun-
tarse ¿cuál es exactamente la queja del Gobierno? ¿Que se supone que deberían haber hechos los
miembros de las FARC? ¿matarlo para no “secuestrarlo”? ¿haberle invitado a un café y mandarlo
de vuelta para el cuartel? Hicieron lo que cualquier unidad armada haría cuando se encuentra, ni
más ni menos, que con el Jefe que comanda las tropas que los combaten diariamente. Tomarlo
prisionero, era lo único lógico.
Sin embargo este incidente pone en evidencia que la posición gubernamental de negociar la paz al
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tiempo que continúan los combates es un sinsentido y una incongruencia de impredecibles conse-
cuencias. La reiterada negativa de Santos a un alto el fuego razonable es la causa primaria y real,
no solo de este hecho que comentamos, sino también por ejemplo de los 639 policías y militares
que han muerto en enfrentamientos durante los dos años de negociaciones de paz, a los que hab-
ría que sumar la numerosa cifra de civiles, militantes sociales y políticos, y guerrilleros muertos
también en este periodo.
Los poderosos sectores guerreristas, que encabeza Alvaro Uribe, por supuesto no pierden la oca-
sión para atacar el proceso de paz y pedir un regreso a la guerra total. A ellos no les interesa ver si
el vaso de las conversaciones está medio lleno o medio vacío, su objetivo es sencillamente romper
el vaso de cualquier manera.
Un escenario que obliga a definiciones
Escribiendo estas líneas se hizo público el acuerdo entre las FARC y el Gobierno, por mediación de
los países garantes en las negociaciones, por él cual la fuerza guerrillera procederá a la liberación
de las cinco personas capturadas recientemente (el General Alazate, tres soldados y una abogada
trabajadora de las FF.AA), mientras que el Gobierno se compromete a volver a la mesa de dialogo
cuando se produzca la entrega de estos prisioneros, sin duda un gesto de buena voluntad y prueba
de compromiso con la paz por parte de la organización guerrillera. Sin embargo más allá de lo im-
portante de la noticia hay que seguir subrayando que las contradicciones del Gobierno colombiano
van a seguir siendo la principal amenaza a la esperanza de paz del pueblo colombiano.
El Presidente Santos y los sectores que lo apoyan nadan entre dos aguas, su recién renovado man-
dato presidencial se lo deben al medio millón de votos que les prestó la izquierda institucional
colombiana, con un solo objetivo, que logre un acuerdo de paz y se aleje por siempre la amenaza
de retorno de esa pesadilla que se nombra Alvaro Uribe, en cualquiera de sus modalidades, pero
al mismo tiempo Santos y Uribe son hijos de una misma madre, una oligarquía autoritaria que ha
gobernado por más de dos siglos Colombia como si fuese una hacienda.
Por eso son tiempo de definiciones en Colombia, o el Gobierno de Juan Manuel Santos apuesta por
la paz, decididamente y sin complejos ni miedos al influyente y poderoso uribismo, lo cual debe
incluir un alto el fuego permanente y la urgente revisión de su negativa a convocar una Asam-
blea Constituyente para fundar las bases de una nueva Colombia (única manera de colocar contra
las cuerdas al partido anti-paz que encabeza Alvaro Uribe), o por el contrario las expectativas del
pueblo colombiano podrían verse condenadas a seguir vagando en su laberinto, sin encontrar
salidas de justicia, paz y una democracia real.
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FARC SPEAK
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Peace and political normalization in Colombia
are now up in the air. Ivan Marquez is mem-
ber of the secretariat higher command of the
FARC-EP and one of the guerrillas’ negotiators
in Havana. The FARC-EP and the Colombian
government have been holding talks for a year
in Cuba. In this interview we conducted in Ha-
vana, Marquez assesses the progress, diffi-
culties and the real possibilityof a peace with
justice prevailing in a conflict that has been
continuing for over five decades.
How are the FARC-EP assessing the progress in
the peace talks so far?
Following the indication by our commander,
Timoleon Jimenez, we have recently present-
ed a first report on the status of the peace
talks to the country, so that the public, with
more elements on the process, could contin-
ue to help with their contribution to the politi-
cal solution of the conflict. Although progress
has been made, as represented in partial
agreements, we believe that we could have
advanced much further .
In the course of the past 14 cycles of talks
we have had with the government at the ne-
gotiation table, we presented 200 proposals,
aimed at overcoming inequality in the coun-
try, at real democratization, and at the insti-
tutional changes that are required as a basis
for the construction of peace.
In which specific contents have you reached
an agreement?
We have achieved a significant partial agree-
ment on the rural issue, but at the same time
crucial matters regarding the necessary
agrarian reform are still pending. The
agrarian reform is necessary to undertake
for overcoming root-causes of the conflict
and the enormous gap in the field that af-
fects national problems so powerfully.
The second point is that regarding politi-
cal participation. This so far has witnessed
modest agreements, but we aim to remove
obstacles so that the construction of the
agreement could soon acquire an irrevers-
ible dynamic.
It is fair to say that during the last round of
talks the parties have devoted themselves
to the analysis of issues that have to do
with the remaining items on the agenda,
which is a not inconsiderable achieve-
ment, because it places us on a level of un-
derstanding concerning the strategies on
the table; something which will transform
itself into a more effective discussion on
the agenda at a later stage.
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IVANMARQUEZ
Ivan Marquez is member of the
secretariat higher command of the
FARC-EP and part of the guerrillas’
negotiation team in the Cuban
capital, Havana
nation and without humanity is coming
to an end. These elites only care about
ensuring the rights of capital and in-
creasing the profits guaranteed by their
submissive and lazy attitude in spite of
the drama of poverty which is affecting
the Colombian people.
The most unfortunate thing is that the
government, rather than correct this
course aims at exasperating the situa-
tion even further now by imposing the
application of norms intended to pun-
ish social discontent through imprison-
ment. Above all they try to hit popular
leaders who lead protest strikes, thus
violating the fundamental rights of citi-
zens.Under these circumstances we need
the solidarity of social organizations in
the world to be on the side of the Colom-
bian people, because the weak cannot
be left alone against a power using dis-
proportionate force and repression to
crush dissent.
Negotiating peace in the midst of war
seems a contradiction, in fact it is an
exceptional case in this type of process-
es. Why won’t the government agree to
what would be a logical ceasefire?
We have always considered as incon-
sequential talking of peace while in the
middle of war. For this reason, at the
very beginning of the talks in Havana,
we proposed to the government a bilat-
eral ceasefire so that the talks could ac-
tually develop in a favourable environ-
ment, but the counterpart, in a gesture
that has not ceased to amaze, rejected
that possibility.
Following this refusal we proposed to
engage in an effort to sign a treaty to
What are the current key issues which
allow dialogue to continue?
Without a doubt we need to address the
decisive issue of the renouncement by
the State of the disastrous National Se-
curity Doctrine, the concept of the inter-
nal enemy and paramiliatrism, to there-
by open the way for the creation of a
reliable democratic environment which
eliminates the reluctance towards the
political participation of the insurgency
(armed insurgents).
The Government wants a referendum to
give legal and social support to a peace
agreement. You, instead, insist on the
need for a Constituent Assembly. What
is the difference?
These two visions need to be reconciled
at some point if we are to strengthen
the process. We will need to discuss this
when we will actually address the dis-
cussion of Item Six of the Agenda which
refers to the mechanisms of countersig-
nature/ratification of the agreements.
There is no point in discussing this now.
Everything has its time. But in any case
we will need to discuss this as a result
of a consensus and never as one of the
parties’ unilateral adventure.
This seriously affects the confidence
which a road towards a final agreement
and leading to the end of the conflict
should stimulate. And another crucial
issue is that it would be wise and pru-
dent to separate a referendum and
the elections because doing otherwise
could actually end up negatively affect-
ing the peace process as a whole.
These past few weeks many areas of Co-
lombia have experienced an escalation
of tension on the basis of accumulated
social and economic claims. What are
your assessment on this?
Colombia is no doubt witnessing an ex-
traordinary manifestation of social dis-
sent against the arbitrary application of
decisions that have been favouring for-
eign investment in the context of neo-
liberal policies that have emphasized
injustice and inequality.
The patience of Colombian people for
ruling elites without any sense of the
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regulate the war, which at least would
have lessen the pain and the effects of
the war, both for the population and the
combatants. But unfortunately the gov-
ernment also rejected this initiative.
Although it is not convenient to venture
hypotheses about the reasons the gov-
ernment might have had for these re-
fusals, we would like to believe that they
would not try to push the progress of the
negotiation with bombings and military
operations against the guerrillas.
Recently the Colombian government
has opened a line of contact with the
National Liberation Army, ELN, in Uru-
guay. What is your opinion about this
initiative?The FARC have hailed this attempt as
very important for peace in Colombia
and it is not only coming from the gov-
ernment but also stems from the deter-
mination of the comrades of the ELN. We
are witnesses to a sincere desire on the
part of the Command and ELN fighters to
seek a political solution to the conflict
based on social justice, real democracy
and sovereignty.
The enemies of peace in Colombia con-
stantly try to derail the talks in Havana.
How can these warlords be neutralised?
The enemies of peace in Colombia act
openly, and therefore the country has
clearly identified them: the main one
undoubtedly being former president,
Alvaro Uribe Velez, top leader of the
paramilitary, ideologue of the “false
positives” (“falsos positivos”) and main
responsible for the “parapolitics”. To-
gether with Uribe are other lieutenants
not worth mentioning.
Uribe could not win the war by resorting
to its degradation through an excessive
use of force, nor by opening the door to
the interference of foreign powers in the
internal conflict. Still, he does not want
to allow peace to be achieved through
the civilised process of dialogue.
Surely they do not want peace because
they do not want to be called to answer
in the courts for the horrendous war
crimes for which they are responsible.
The Colombian people are wise, and it
is only the people, which has spoken
overwhelmingly in favour of a political
solution to more than half a century of
fratricidal confrontation with its dem-
onstrations, that can isolate the deliri-
ous attitude of this warmonger right.
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Elgaucho cantero
Mi conversion en escritor fue algo insolito. Inicié 14 novelas y no pude terminar ninguna
“
ENTREVISTA CON EL ESCRITOR DANIEL CHAVARRIA
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Te describes como ciudadano uruguayo
y escritor cubano ¿Nos puedes explicar
esa convivencia de identidades diferen-
tes? Y más en general ¿cómo defines la
idea de “identidad” y la representas en
tus personajes?
Por supuesto, existe la “identidad nacio-
nal” como conjunto de rasgos que defin-
en las características de los pueblos, en
tanto colectivos humanos homogéneos,
más allá de que luego se agruparan como
naciones. Yo trabajé y conviví por años
en muchos países de Nuestra América,
de cuyos habitantes adquirí cierto “color
local”, que se aprecia en mi vocabulario,
mis gustos alimenticios y otros. No sólo
me siento uruguayo y cubano, sino ar-
gentino, chileno, peruano, brasileño, bo-
liviano, venezolano, colombiano y más.
Me siento y soy latinoamericano.
El género policiaco y de espionaje se
presta a una investigación casi peri-
odística, en el sentido de una descrip-
ción del contexto político y social. ¿En
este sentido el escritor puede ejercer de
Émile Zola y reescribir su clásico artículo
“Yo acuso”?
En efecto, tu pregunta me hace notar
que he utilizado ese recurso más de una
vez. En particular recuerdo ahora dos
cuentos: Por culpa de un jodido bicho es-
pañol, donde describo a un mercenario
DANIEL CHAVARRIA HA NACIDO EN URUGUAY PERO SE DEFINE UN ESCRITOR
CUBANO. UN GAUCHO CANTERO DE NUESTRO TIEMPO QUE MEZCLA EN GEN-
ERO POLICIACO CON LA PICARESCA CUBANA DANDO VIDA A NOVELAS LLENAS
DE PERSONAJES ENCONTRADOS EN SUS MUCHOS VIAJES
CULTURES
PROFILE
Casi siempre mis protagonistas son
seres excepcionales y actúan en insólitos
ámbitos y tramas muy complejas. Pero me
impongo el veto de no violar en ningún caso
lo factible y creíble
Text: O.C. - JM A. Photo: Orsola Casagrande
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salvadoreño reclutado por Posada Carriles, que en 1997 puso varias bombas en hoteles de La Ha-
bana; y también El ángulo recto de 70 grados, sobre uno de nuestros Cinco Héroes y su empleo de
la autosugestión para resistir inclaudicable el perverso encierro en un hueco donde los presos
enloquecen por estar impedidos de toda posición que les permita el mínimo descanso. Y ambos
son un J’accuse a la tortura programática que practican los EE.UU., autoproclamados adalides de
la democracia y los derechos humanos.
En nuestra época actual, bajo el argumento de defender una civilización “elegida” que nos presen-
tan como rodeada de terribles enemigos, se construyen nuevos muros. Tú has viajado bastante,
has vivido en muchos lugares, compartes diversos idiomas… ¿Cómo percibes esta situación? ¿Qué
reflejo pueden tener estas realidades en la literatura, de acuerdo con tu propia identidad y expe-
riencia personal?
Desde los faraones y emperadores romanos hasta Hitler, los tiranos siempre se manifestaron al
frente de pueblos “elegidos” por sus dioses. Durante un tiempo se creyeron tal patraña y lograron
mantenerla con su poder económico y militar, pero todos terminaron hundidos en la catástrofe y el
horror. Si algún día yo escribiera sobre esto, contrastaría el triste destino que espera a los “pueblos
elegidos” con el benigno futuro que se está labrando América Latina al eliminar fronteras y crear la
Patria Grande, sueño de Bolívar, Martí y otros próceres nuestros..
¿Qué piensas de la reivindicación política que identifica los conceptos de libertad y autodetermi-
nación vinculadas a la noción de independencia; pero no solo referida a lo nacional, sino sobre
todo a lo personal, en tanto los seres humanos resultan protagonistas de cualquier cambio político
profundo, sólido y perdurable? ¿Crees que la literatura puede ayudar a establecer esa autodeter-
minación?
Benito Juárez proclamó que la paz se forja mediante el respeto al derecho ajeno. Este pensamiento
tan sencillo como irrefutable, de un indio mexicano al que hoy recordamos como el Benemérito,
merece que las instituciones culturales de todo el mundo promuevan premios literarios que con-
tribuyan a la urgente necesidad de predicar una libertad cimentada en el análisis,la paz y armonía,
para zanjar las diferencias entre individuos y naciones.
En las últimas décadas los cambios profundos han sido una regla en América Latina y el Caribe? ¿Tú
percibes que este dinamismo político social, económico tiene también su correspondiente en lo
cultural y literario?
Pues sí; sobre todo porque nos hemos ido conociendo mejor unos a otros. Desde Casa de las Améri-
cas, Cuba ha hecho una enorme contribución a combatir el eurocentrismo que asolara nuestro con-
tinente durante mi juventud. Y entiéndase bien que la Casa no ha intentado subvalorar la enorme
importancia de la literatura europea; pero centró sus esfuerzos en difundir la de nuestros pueblos
hermanos de la región. Así, a lo largo de medio siglo, en la misma medida en que nos fuimos descu-
briendo unos a otros, también hemos descubierto anhelos comunes, resultado de nuestra homo-
geneidad histórica, política y cultural. En eso ha consistido el impulso dinámico de la literatura: en
contribuir a que todos nos forjemos una identidad latinoamericana y caribeña y hoy demos pasos
sólidos para la creación de una Patria Grande.
La novela Los miserables de Víctor Hugo tuvo una importancia en tu formación y en tu acercarte
no solamente a la literatura sino también en tu sensibilidad social. ¿Cómo fue el encuentro con la
literatura del lector y luego del escritor?
Me convertí en lector asiduo a los nueve años, un domingo en que estaba castigado por mi mamá
a no ir esa tarde al cine y a perderme una película de Bud Abbot y Lou Costello, pésimos cómicos de
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Hollywood que en mi barrio de Montevideo los muchachos celebrábamos. Y para consolarme, un
primo mío que vivía en nuestra casa, estudiante de derecho con intereses filosóficos y artísticos,
me instó a leer las primeras diez páginas de las Aventuras de Huckleberry Fynn, y me aseguró que
luego no podría soltar el libro. Y así fue. Desde entonces, creo no haber pasado un solo día de mi
niñez y adolescencia sin leer algo de ficción.
Mi conversión en escritor fue algo insólito. Quise serlo durante mis primeros 40 años. Inicié 14
novelas y no pude terminar ninguna. Cuando ya había renunciado a novelar, en un rapto por dem-
ostrar que yo podía escribir algo mejor que una gran sonsera publicada en Cuba y muy elogiada en
la prensa, escribí una novela de espionaje que resultó un bestseller mundial del campo socialista.
Y de la noche a la mañana esa obrita me catapultó como escritor de éxito y ya no quise otro oficio
en mi vida.
¿Cuándo empezaste a escribir y como se te ocurrió que eso podía ser una forma de expresarte?
Desde que empecé a leer ficción, quise escribir, pero no recuerdo haber sentido jamás, hasta bien
entrada la adultez, la necesidad de expresarme. El acto de escribir, nunca lo he mistificado. Detes-
to y evito hablar de mí mismo como un “creador”; y he constatado que cuando un escriba insiste en
mencionar su “creación”, suele ser mala. Mis intentos por escribir desde niño nacen quizá del sim-
ple impulso de hacer algo que se considera bello, como colorear o moldear figuritas de plastilina.
Ya en la adultez, cuando uno se forja una ideología y siente el ímpetu de romper lanzas en su de-
fensa, la obra literaria resulta un arma muy poderosa y uno la empuña para atacar y defenderse.
En tu obra publicada hay una clara experiencia personal, viajes, experiencias, personajes que has
conocido. ¿Cómo seleccionas lo que finalmente te resulta de interés para tu literatura?
En general, creo que me interesa lo que no entiendo en la conducta de alguien. Y al tratar de ex-
plicármelo termino por armar una trama literaria. Te pongo un ejemplo. Durante mi residencia
en un cuarto piso frente al mar, yo veía todas las tardes al atardecer, llegar a un joven de unos 25
años, y en vez de lanzar su anzuelo con una plomada para pescar a la línea, este muchacho amar-
raba un extremo del cordel a la costa y con la otra punta cogida con la mano izquierda, nadandode
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lado con la derecha, sin mojarse la cabeza, sin despeinarse, avanzaba una distancia triple a la
lograda por las líneas lanzadas desde la costa por los demás pescadores. Este proceder era objeto
de comentarios sobre su locura o su ignorancia. A nadie se le ocurría ponerse a esa hora a nadar
en aguas profundas, justamente cuando los tiburones se aproximan desde alta mar a comer en la
orilla. En realidad, los tiburones nunca hicieron eso y el tal peligro era falso; pero entre las sagas de
la pesca muchos creían en semejante fantasía. Y yo que también me la creí, terminé por escribir
la novela de un psicópata que para disfrutar del sexo se estimulaba con el peligro. De lo contrario
era impotente. Y esa novela se llamó Primero muerto que impotente. Pero nunca la publiqué así.
Terminé por cambiarla y convertirla en otra cosa. Pero su origen fue mi intento por explicarme de
modo coherente el absurdo de pescar con riesgo de la vida.
¿Por qué viniste a Cuba y qué panorama literario encontraste en este país cuando llegaste?
A Cuba vine para huir de la policía. Yo estaba colaborando con un movimiento guerrillero incipi-
ente, en la Cordillera Occidental de Colombia. Lo dirigía un obispo católico adherente a la Teología
de la Liberación; y por delaciones de un infiltrado, la policía secreta se enteró de mis andanzas.
Tuve la suerte de que me avisaran a tiempo; y como no vi otra forma factible de huir, secuestré
una avioneta y así llegué a Cuba, que desde enero de 1959 se había convertido en faro y altar de la
liberación latinoamericana. Y con Cuba yo tenía viejos vínculos, desde mi época de militante en el
Partido Comunistas uruguayo.
Dentro del panorama literario encontré a dos de mis luminarias con vida: Alejo Carpentier y Nico-
lás Guillén. De otras figuras cimeras de la literatura de esa época no tenía referencias. Y en el
panorama histórico, descollaba uno de los mayores poetas de nuestra lengua, que además fue un
brillante ensayista y un paradigma de patriota y visionario político: el héroe nacional y Apóstol de
los cubanos, José Martí.
¿Podrías resumirnos las grandes líneas de tu quehacer novelístico?
Me inicié con una novela política de aventuras (NPA), traducción de lo que los soviéticos llamaron
“novela política detectivesca”, que a diferencia de los policiacos del mundo capitalista se funda-
menta en hechos reales. En ella, la ficción ocupa todo el espacio que se desee, pero condicionada
al respeto por los inviolables marcos históricos. Es un género de gran valor formativo, sobre todo
para la juventud. De ese género fue Joy mi primera novela publicada en Cuba. Luego vinieron otras.
Cultivo también la novela histórica, la biografía y lo que llamo picaresca cubana. Pero estas cuatro
líneas están mutuamente contaminadas.
En la NPA puede aparecer la gran ambición estética y estilística de la novela histórica; y en las tra-
mas históricas se cuela siempre el suspense policíaco o el fuerte erotismo de la picaresca cubana.
Y en el género biográfico me aproximo mucho más a una ficción emblemática que al recuento
testimonial
¿Cultivas alguna forma de lo real maravilloso?
Aunque todo Carpentier y los Cien años de soledad representan a mi juicio una de las más elevadas
narrativas de la lengua española postcervantina, mis novelas pertenecen a una corriente que yo
mismo he dado en bautizar “realismo de lo excepcional creíble”.
Casi siempre mis protagonistas son seres excepcionales y actúan en insólitos ámbitos y tramas
muy complejas. Pero me impongo el veto de no violar en ningún caso lo factible y creíble. Jamás he
recurrido a escenas muy frecuentes en la literatura y el cine actuales, donde el alma de un cadáver
observa lo sucedido en torno a su ataúd durante su velatorio.
Yo no condeno estos recursos, y en algunos casos han sido estupendamente empleados; desde
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Homero y los trágicos griegos, a Dante y Shakespeare por solo citar lo más descollante.
En la picaresca cubana muchos de los protagonistas son sumamente contradictorios en sus va-
lores éticos y rozan o viven en la marginalidad. ¿Qué intención tienes para describirlos así?
Yo creo en las bondades del socialismo y en mis novelas lo defiendo. Pero mucho me cuido de no
incurrir en el eufemismo, vicio funesto y muy contraproducente. Y al tratar las realidades de Cuba,
recuerdo siempre que pese a los paternales desvelos de la Revolución por proteger a los ciudada-
nos, algunos han corrido con muy mala suerte. Cuando se ha nacido y se ha vivido en una familia
que arrastra la fatídica herencia del subdesarrollo, con lacras como el machismo, el pancismo, el
oportunismo egoísta etc.; o si un niño no ha tenido suerte en la escuela, y le han tocado maestros
inmorales, ventajeros, que maltratan a los alumnos o les exigen regalos y prebendas como lam-
entablemente ha ocurrido y ocurre en Cuba, esto hay que denunciarlo. Y como la literatura se en-
riquece con los contrastes, yo suelo apelar a ciertas virtudes congénitas del ser humano, que pese
a sus vicios heredados y el odio a la Revolución, tienen un sentido de la justicia, una gran lealtad a
los amigos, y son capaces de arriesgar el pellejo por defender una causa ajena. Esa es mi intención
para que Bini, mi protagonista de El rojo en la pluma del loro sea una joven antisocial, que no estu-
dia, ni trabaja, y sueña con irse a vivir a los EE.UU. Ya adulta se prostituye y ha estado varias veces
presa por distintas formas de delincuencia; pero es capaz de colaborar con absoluto desinterés
en la captura de un torturador que cometiera tropelías contra uno de sus clientes, cuando era un
preso político en la Argentina.
Tu obra y tú mismo, como persona, habéis mantenido una relación positiva con la Revolución Cu-
bana. ¿Has tenido que pagar un precio por ser coherente y sincero? Me refiero a las posibilidades
de editar y a que tu obra se distribuya y difunda.
Sí, decididamente. Estoy seguro de que si yo invocara mi pasado revolucionario, mi secuestro de
un avión para venir a vivir en Cuba, la sagrada tierra del socialismo, y ahora, a mis 80 años, de-
clarase en una novela que este país, al cabo de 45 años me ha decepcionado; que aquí todo es
palabrerío y un gran fraude, no dudo de que mis libros se difundirían como pan caliente y me harían
famoso a escala internacional.
A pesar de todo eres ganador de importantes premios literarios internacionales en América Latina,
Europa y los EE.UU. ¿Qué valor das a estos reconocimientos?
Reconozco que en parte me halagan la vanidad. Y para un escritor del Tercer Mundo ganarse de
sopetón 50 000 dólares en un premio, no es poca cosa. No digo que el dinero sea todo, pero ayuda
a calmar los nervios.
En tus textos literarios hay una marcada tendencia a subrayar la etimología. ¿Por qué esa insisten-
cia en buscar y señalar a tus lectores el origen y sentido de las palabras?
Por mi compulsión a recordar siempre que la civilización humana es un fenómeno planetario y una
continuidad en el tiempo. Siempre que sea posible, creo útil y bello informar por ejemplo sobre los
orígenes muy humildes y sencillos, o a veces escabrosos de algunos vocablos.
Me emociona de igual modo el descubrimiento, por los estudios del ADN, que demuestran la indu-
bitable existencia, entre 150 000 y 300 000 años atrás, de una sociedad de negros africanos que
luego abandonaron su propio continente y se dispersaron por todo el mundo. Y de esa sociedad,
resumida en la persona emblemática de una madre mitocondrial descendemos por igual todos los
que hoy pueblan la Tierra, cualquiera sea el color de su piel, cabellos u ojos.
En estos últimos años has incursionado en el cuento, y según tus palabras te ha dado mucho plac-
er. ¿Por qué?
Mi abuelo paterno era propietario de una estancia en el Uruguay. Y cuando yo era un niño de 10
años solía pasar un par de semanas durante mis vacaciones escolares. Cuando la cosecha del trigo
o la esquila de las ovejas, en aquella propiedad donde regularmente vivían una 12 a 15 personas,
solían reunirse 30 o 40 trabajadores itinerantes; y por las noches, nunca faltaba el asado al aire libre,
y un gaucho viejo, echaba cuentos junto a la hoguera, y era oído en absoluto silencio y con máximo
respeto. Y esa fue la primera profesión que yo quise para cuando fuera grande. Quería vivir intensa-
mente, llegar a viejo, y contar a los más jóvenes los sucedidos de mis vagabundeos por el mundo.
Sin embargo, contra lo que es habitual en la mayoría de los escritores, yo comencé por las novelas; y
escribir cuentos me resultaba dificilísimo. Muy viejo ya, a los 76 años descubrí el secreto de escribir
cuentos. Debía atenerme al ritmo y el lenguaje de la oralidad, como los gauchos de mi tierra.
Tu última obra publicada ha sido una biografía sobre Raúl Sendic. ¿Por qué incursionaste en este
género y con un personaje tan cercano?
Lo admiré mucho por su temple y osadía; por su enorme y memoriosa ilustración; por sus insacia-
bles lecturas; por su augural capacidad analítica e integradora de los fenómenos sociales; por haber
descubierto y difundido irrefutables verdades sobre lo mal situados que estábamos los comunistas
y socialistas uruguayos respecto al eje de nuestra lucha de clases; y por haber propiciado más que
ningún otro político del siglo XX, la relativa, insuficiente, pero aceptable bonanza que vive hoy la
República Oriental del Uruguay con su Frente Amplio.
Sin embargo, por algunos errores de Sendic como líder de masas, me resultó indefendible; hasta que
decidí elogiarlo por todo lo alto, no ya como líder, pero sí como el mayor quijote nacido en mi patria.
Y si España legó al mundo a don Quijote de la Mancha como alto paradigma humano, yo quise que
también se le reconociera su titularidad quijotesca a Don Sendic de Chamangá y así titule su bio-
grafía, con ánimo de que se divulgue, por su valor formativo para las juventudes de Latinoamérica y
en particular en los países del Alba.
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Cuba - EEUU
PRIMER PASO EN EL
RESTABLECIMIENTO DE LAS
RELACIONES ENTRE LOS DOS PAISES
Rojava
LA RESISTENCIA DE KOBANE ES LUZ
PARA UN NUEVO MEDIO ORIENTE Y UNA
NUEVA SOCIEDAD
Colombia
EL POSIBLE ACUERDO DE PAZ QUE
PONGA FIN AL CONFLICTO SE MUEVE EN
UN CAMPO MINADO