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Rivista digitale di racconti di scrittori indipendenti
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#self è una rivista digitale di racconti.
#self è rivolta agli autori indipendenti (qualunque cosa voglia dire).
#self è un tentativo di mettere un . nel panorama del self-publishing.
#self aspetta i vostri racconti per issue#02.
#self ringrazia Narcissus per la diffusione dell’iniziativa e Francesco
De Carli per la grafica di copertina.
#self
issue#01
ISBN 978-88-98285-12-9
Copertina: Francesco De Carli
www.iltuoebook.it
#self
issue#01
INDICE
Giuseppe Gottardi - MARTE MIO
Simone Tempia - Lo Stage
Giovanni Vannozzi - Mangiati la polvere bastardo!
Beppe Vergara - Il Messaggio
Michele Orti Manara - Un posto vivibile
Antonio Fanelli - Rubami l'anima
Francesco Satanassi - Cinque tipi di neve
Gianni Agostinelli - Il girocollo di lana
Biografie
Giuseppe Gottardi
MARTE MIO
CHANDOR CHASMA,
47° giorno del mese di Marzo 2081.
Atti della IIª Commissione Lessicografica Martiana.
Lettura Accademica
del Presidente
Nicholaus Tommasieus IV.
Signori,
mi pregio di riferirVi con questo mio breve excursus, lo stato attuale dell’arte.
Come ben sapete, l’incarico da noi assegnato alla nostra perillustre
Commissione Accademica, ha portato a compimento la prima possente stesura
del Lessico Martiano.
Si trattava, invero, di lavoro arduo e complesso che dovrà godere della nostra
più ampia benevolenza.
Le soluzioni prospettate per il superamento di difficili problemi linguistici ci
vedono particolarmente soddisfatti, specialmente in tanti ambiti sia classici che
scientifici.
Nel complesso, dunque, si può, senz’alcuna remora esternare il nostro grazie
per l’immane lavoro prodotto.
Tuttavia, mi sia permesso esplicare quest’unica perplessità.
All’interno del vocabolario c’è stata, non saprei dire con quali inderogabili
motivazioni, una furia quasi iconoclasta nel cercare di far scomparire il termine
terra.
È pur vero che qui siamo su Marte e che il ricordo delle nostre origini,
specialmente nelle nuove generazioni, ha ormai subito quelle ch’io chiamo
devastanti metastasi ma questo non mi esime dal sottolineare che alcune
trasformazioni linguistiche mi lasciano assai perplesso se, non fosse altro, che
addirittura muovono al riso.
Vedere termini, solo per fare qualche esempio, come: interramento,
interrazziale, senzaterra, terracotta, terrazzamento, zappaterra subire una
radicale trasformazione al punto da divenire incomprensibili, ci lascia
oltremodo perplessi. Termini come: inMARTEmento, inMARTEzziale,
senzaMARTE, MARTEcotta, MARTEzzamento, zappaMARTE, non credo si
possano accettare senza alcun fremito.
A nostro avviso un’unica eccezione riteniamo sia possibile ammettere e
quindi consigliamo d’introdurre, quasi come d’obbligo, nei corsi primari; che
non si usi più le frase terra mia ma bensì MARTE MIO.
N. T. IV.
Simone Tempia
Lo Stage
“Prego può sedersi lì”. La stanza misurava quattro passi in larghezza e sei in
lunghezza. Aveva le pareti grigie. Il soffitto grigio. Non c’erano finestre. Sul
pavimento uno spesso strato di moquette croccante. Anch’essa grigia. La luce
proveniva da un neon appeso al soffitto. Michele Pintossi si guardò un poco
intorno e chiese con voce malferma al collega: “Lì?” indicando una sedia in
legno posta al centro della stanza. Il collega, con tono sbrigativo disse: “Sì lì”.
Michele Pintossi si accomodò quindi sulla sedia di legno. Appoggiò la valigetta
a fianco di una gamba della sedia. “E ora?” chiese. Ma il collega era già uscito
dalla stanza chiudendosi dietro la porta.
Michele Pintossi, 39 anni, una laurea presa tardi e un lavoro perduto presto,
aveva firmato il contratto di stage la mattina stessa. Full time, ampia flessibilità,
lavoro in team, problem solving, mansioni non definite, rimborso spese. O così
o niente, purtroppo, per il Pintossi che non lavorava ormai da sei mesi e per cui
gli occhi della fidanzata (per un soffio quasi moglie ma poi la crisi sai com’è)
erano davvero diventati troppo troppo pesanti. Specie al mattino, sulla porta di
casa, quando lei usciva per andare al lavoro e lui no.
Il Pintossi tenne una posizione composta per una ventina di minuti. Fissando
il muro si chiedeva, non senza un accenno di agitazione, cosa gli avrebbero fatto
fare. Fotocopie? Portare il caffè? Assistere qualcuno in qualche mansione
umiliante? Era psicologicamente pronto ad affrontare lo stage. Galleggiando nel
pessimismo arrivò quasi senza accorgersene all’ora della pausa pranzo. Attese
per una decina di minuti che qualcuno lo venisse a chiamare, poi aprì la porta
della stanza. Trovò tutti gli uffici vuoti e silenziosi. Camminando per le
scrivanie mute prese l’ascensore. Scese in strada. Mangiò un panino speck e
brie al bar con mezza di naturale e un caffè non zuccherato.
Quando rientrò, dieci minuti prima della fine della pausa, trovò che erano
tutti quanti già al lavoro. Camminò stringendo forte il manico della sua valigetta
fino all’ufficio del collega che, come gli era stato riferito, sarebbe stato il suo
referente per lo stage. Bussò anche se la porta era aperta. Quello si destò dalle
sue carte, lo fissò, guardò l’orologio e poi sospirò rumorosamente. Si alzò dalla
sedia e con un secco “vieni” lo precedette fuori dall’ufficio. “Ma la pausa
pranzo dura fino alle due vero? Mi avevano detto fino alle due... o era prima,
scusi se sono arrivato tardi”. Le parole del Pintossi arrancavano per raggiungere
le orecchie del referente dal passo veloce. “Sì... sì... alle due... sì... alle due”
rispondeva quello. Arrivarono di nuovo davanti alla stanza, lui aprì la porta, gli
disse “ecco, la strada spero che tu l’abbia imparata”. Pintossi entrò e quello
chiuse la porta senza nemmeno aspettare che si fosse seduto. Passò il
pomeriggio così. Seduto.
A cena risero molto, il Pintossi e la fidanzata, di quello strano giorno passato
a fare nulla. “Forse cercavano qualcuno che testasse la robustezza delle sedie”
disse la fidanzata. Il Pintossi parlò del suo referente, ne fece l’imitazione
piccata, lo definì uno “stronzo” e, dall’alto della sua laurea in ingegneria edile,
abbozzò anche un infondato profilo psicologico del soggetto. Mangiarono degli
straccetti di pollo al limone, un’insalata di lattuga poco condita e finirono una
bottiglia di merlot aperta il giorno prima. Dopo cena non parlarono più di
lavoro.
Il giorno seguente il Pintossi si recò in ufficio di buona mattina, comprò il
giornale e diede venti centesimi all’anziano signore seduto sui gradini
dell’uscita del metrò. Il tonfo della moneta che si adagiava sul fondo nel
bicchiere schiacciato e sporco della Coca Cola, gli diede una vaga sensazione di
benessere. Entrò nello stabile aziendale, prese l’ascensore, arrivò negli uffici.
Camminò lungo il corridoio, si affacciò dal referente lo salutò. Quello ricambiò
con cordialità il suo buongiorno e quando Pintossi chiese allegro “cosa c’è da
fare oggi?”, quello rispose un altrettanto cordiale “il solito, vada pure nel suo
ufficio”. Si diresse quindi fino alla sua stanzetta. La sedia di legno sempre e in
mezzo alla spessa moquette. Decise di lasciare accostata la porta. Si sedette.
Dopo una quindicina di minuti qualcuno chiuse la porta.
Il secondo giorno al bar non avevano fatto i panini speck e brie. Quindi prese
un panino con cotto, fontina e maionese. Bevve una bottiglia di naturale e un
caffè in cui mise mezza bustina di dolcificante dalla consistenza farinosa.
Ritornò dalla pausa pranzo con quindici minuti di anticipo e trovò l’ufficio già
in piena attività. A parte questo, la giornata trascorse esattamente come quella
del giorno precedente.
A casa con la fidanzata parlarono di nuovo. Ma meno. Mangiarono i
bastoncini di pesce fritti e un contorno di verdure grigliate dell’Esselunga.
Bevvero acqua. Andando a letto il Pintossi pensò che forse era ora di cambiare
il copripiumino.
Dopo una settimana il referente entrò di colpo nella stanzetta. Erano circa le
undici e un quarto. Il Pintossi stava leggendo la pagina degli esteri de La
Repubblica. Il referente lo guardò molto male. Prese fiato come per dire
qualcosa di importante ma poi espirò rumorosamente chiudendo la porta. Da
quel momento non comprò più il giornale.
Dopo quindici giorni il Pintossi chiese se poteva portare da casa il suo
computer portatile. Il referente gli chiese a cosa gli potesse servire. Non seppe
che rispondere. Il giorno dopo portò il computer al lavoro ma la rete Wi-Fi era
protetta da una password. Il computer venne lasciato per tutta la giornata seduto,
come il Pintossi. Egli non trasse nessun giovamento dal condividere la sua
condizione con un computer. Decise di non portarlo più.
“Oggi mi hanno finalmente dato una pratica da sbrigare”. Sul tavolo c’era
della pasta al sugo di nasello. Non era male, forse un po’ senza senso, ma non
male. “Ah sì? Finalmente!”, disse la fidanzata del Pintossi vagamente perplessa
per quell’esperimento culinario poco riuscito. “Come ti sembra?” aggiunse.
“Forse un po’ senza senso, ma se ci metti sopra del pepe non è male”. Disse lui.
“E che pratica era?”. “Niente di che, dovevo compilare dei campi con i dati di
un cliente. Nome, cognome, codice fiscale, indirizzo. Cose così. Ne ho
compilati una decina. Credo di aver fatto un buon lavoro.” La fidanzata annuì e
mise un po’ di pepe nella pasta. Sul tavolo c’era una bottiglia di birra Moretti.
“Non mi stupirei se mi chiedessero di lavorare anche il weekend” aggiunse poi
lui. “Speriamo di no” rispose lei. “Ma sì, dai, speriamo di no”. Andarono a
dormire. In realtà anche quel giorno il Pintossi lo aveva trascorso seduto sulla
sua sedia. Nella sua stanza grigia. Dalla moquette grigia. Con la luce che
proveniva dal neon.
Il 21 di quel mese arrivò la prima busta paga da 400 euro. Il Pintossi la tenne
nascosta ai suoi genitori affinché continuassero a versargli, almeno ancora per
qualche mese, parte della loro pensione per il pagamento dell’affitto e delle
bollette. Con lo stipendio portò la fidanzata a cena in un buon ristorante. Lui
prese un antipasto di mare tiepido e un secondo (tagliata di controfiletto con
riduzione all’aceto balsamico). Lei un primo (paccheri al sugo di gorgonzola e
noci). Come dolce presero entrambi una crème brûlée alla lavanda e sembrò,
almeno al Pintossi, di mangiare una bustina di antitarme della nonna. Bevvero
una bottiglia di nero d’Avola. Non parlarono molto. Rientrando a casa
vagamente ubriaco il Pintossi pensò che aveva pagato un po’ troppo rispetto a
quello che aveva mangiato.
Fece il passacarte, poi l’assistente, il consulente, il portaborse, il segretario,
l’assistente di un segretario, il segretario di un assistente, il compila-moduli, il
responsabile di area, il formatore, ancora il segretario, ancora il compila-moduli,
il consulente, il praticante, il suggeritore. Riempì campi, scrisse lettere, tradusse
missive, corresse errori, fece fotocopie, scrisse resoconti al posto di altri, “parò
il culo” a un paio di colleghi, fece straordinari, si trattenne oltre l’orario di
lavoro, uscì prima e chiese un permesso, fece delle slide, dei layout, delle
presentazioni con Powerpoint, insegnò alla vecchia segretaria un trucchetto con
il computer, riparò una stampante, rispose al telefono, mise il bigliettino del
parcheggio sulla macchina del responsabile e partecipò addirittura a un progetto
di caratura internazionale. Conobbe colleghi e colleghe, praticanti e stagisti
come lui, vide licenziare un anziano collaboratore e promuovere al suo posto un
giovane arrivista senza scrupoli, fece pranzi di lavoro, meeting con buffet,
pranzi in piedi a base di finger food. Mangiò salatini giapponesi, arachidi salate,
patatine al gusto pizza, tartine al caviale (vero), e patè francese (vero), assaggiò
la torta alla panna multistrato inviata da un cliente soddisfatto come
ringraziamento all’intero ufficio. E poi pranzi saltati a base di tarallini e snack
comprati alla macchinetta dell’ufficio con il caffè troppo acquoso. O troppo
amaro. Perse due volte la chiavetta elettronica delle macchinette ma un collega
gentile gli diede la sua tanto ne aveva due. Tutto questo e ancora di più faceva,
con grande sforzo, tutti i giorni il Pintossi dalle 20.00 alle 20.15 quando la
fidanzata gli chiedeva come era andata la giornata. Per il resto del tempo stava
seduto sulla sua sedia, in mezzo alla moquette grigia. Alle pareti grigie. E al
neon che faceva luce dall’alto.
Un lunedì il referente lo venne a chiamare intorno alle tre del pomeriggio.
“C’è bisogno di te” gli disse con tono assolutamente impersonale. Il Pintossi
dovette quindi smettere di immaginarsi il lavoro della giornata (che avrebbe
raccontato con dovizia di dettagli durante la cena) e si alzò dalla dalla sedia.
Non ne fu molto contento in realtà. Seguì il referente che, ad ampie falcate,
percorreva tutto il lungo e stretto corridoio. Arrivarono fino all’ascensore. Lo
presero. Salirono di un piano. Altro corridoio, altre porte, altri uffici. Fino a che
non sbucarono (e il termine è quanto più azzeccato, visto la sensazione
cunicolare di quella struttura fatta di angusti open space) in una grande sala
riunioni vuota. Oltre la sala riunioni un ulteriore grande ufficio pieno di persone
indaffarate intorno a un’altra impassibile figura. “Sarà il direttore” pensò
rammaricandosi del fatto che era molto diverso da come, la sera di qualche
settimana prima, l’aveva descritto alla fidanzata quando si inventò di essere
stato mandato a portargli alcuni urgenti documenti. Mentre il Pintossi stava già
cercando di inventarsi qualche buona scusa nel momento in cui, disgrazia
volesse, la fidanzata avesse visto sul giornale la foto del VERO direttore, il
referente bussò con una nocca alla porta e, con tono forzatamente informale, lo
annunciò. Il direttore fece un cenno del capo del tutto annoiato e il Pintossi
venne condotto, dal referente, davanti al direttore e poi fatto accomodare su un
divanetto di pelle color bordò. Lui si sedette.
Vide passargli davanti collaboratrici dalle lunghe gambe fasciate da calze
velate che si infrangevano su scarpe ballerine color senape, giallo canarino, blu
notte, verde pisello, rosso rossetto della nonna del Pintossi. E poi fior di
assistenti, alcuni molto in forma, un paio in sovrappeso, tutti impegnati a
“buttare lì idee” che alla fine di idee buttate ce n’erano davvero così tante che il
Pintossi che si propose per raccoglierle e metterle tutte in un cestino. “Per
carità, non si muova, davvero, lasci fare” uno sciame di creativi e operatori della
penna gli strappò dalle mani il mucchietto di idee e, ronzando “suggestioni
emozionali”, scomparve oltre la porta del dirigente. Il quale impassibile
continuava a fissare un punto indefinito di quello spazio che era tutto suo. Il
Pintossi provò a chiedere, sommessamente, se poteva rendersi utile in qualche
modo a una giovane assistente dalle ballerine color carta da zucchero. Quella gli
rispose con un risolino dal retrosuono isterico e ricominciò a frullar intorno alla
stanza. Dalle tre e un quarto all’ora di uscita rimase seduto sul divanetto di pelle
color bordò. Poi tornò nella sua stanza, prese la valigetta e se ne tornò a casa.
Un martedì il Pintossi si presentò con un pettinino. Entrato nella stanza iniziò
a riordinare, filo per filo, la moquette. Dopo un’ora irruppe nella stanza una
signora di bassa statura ma dalle spalle e i fianchi molto larghi. Aveva capelli
neri, legati con una coda di cavallo e folte sopracciglia che, a vederle, parevano
della consistenza delle setole di una spazzola levapelucchi di quelle che la
mamma gli passava addosso prima di farlo uscire dicendogli “datti una
sistemata”. Indossava un abito azzurro che sembrava una tovaglia. Con la mano
guantata di gomma gli tolse il pettine dalle mani e gli disse con tono bonario
“Ma cosa fa cosa fa, mica deve fare questi lavori lei? È una cosa che dobbiamo
fare noi. Che dobbiamo fare noi. Noi. Mica lei”. E poi uscì chiudendo dietro di
sé la porta.
Un giovedì si recò a passo spedito nell’ufficio del referente e disse “Non ce la
faccio più. Mi licenzio”. Il referente, con la testa immersa nella schermo del
computer alzò lo sguardo verso di lui e gli chiese “È successo qualcosa?”. Il
Pintossi lo guardò negli occhi e disse: “No, non è successo niente”. “Allora
come mai si vuole licenziare se non è successo niente?” chiese con tono molto
cordiale il referente. Anche il Pintossi, a quel punto, si pose la domanda.
“Perché mi dovrei licenziare se non è successo niente?”. Rimase rimuginando
sulla faccenda alcuni secondi, mentre l’attenzione del referente rimaneva appesa
a una sua risposta come un quadro mal fissato al muro. Il Pintossi non ragionava
mai troppo bene sotto stress e quindi, nonostante avesse un lungo lunghissimo
discorso già pronto, non riusciva ad afferrarne il bandolo. Era lì come un
musicista che, perso il filo dello spartito, deve raccapezzarsi di dove è arrivata
l’orchestra per rinfilarsi nel discorso musicale; ma quando trova il punto, ecco
che quella è già passata oltre. E così, incespicando sui pensieri, disse solamente
un approssimativo “Mi sento inutile”.
Se il Pintossi fosse stato un buon osservatore avrebbe visto un brivido correre
lungo la schiena del referente. Invece tutto quello che poté osservare fu un
grosso sorriso. L’uomo lo fissò e gli disse con un afflato di gentilezza sincero
“Ma lei non è inutile!”.
Ecco che il Pintossi ritrova il filo. “Non faccio niente dalla mattina alla sera,
mi lasciate chiuso in una stanza, io sono inutile!”. Il referente si alzò, si
avvicinò al Pintossi, lo prese sotto braccio e uscendo dall’ufficio disse: “Vede
lei non è per nulla inutile...”. Si avventuravano tra scrivanie e sedie, tra
macchinette e poltroncine. “Lo vede? Vede tutte queste persone? Ecco tutte
queste persone lavorano grazie a lei”.
“A me?”.
“Sì, certo. Grazie a lei. Lei è per loro un esempio, la sua assoluta” si fermò
per qualche secondo come a cercare la parola giusta “staticità. La sua staticità è
per noi una specie di monito.”
Passeggiavano tra sedie girevoli e schedari, scatoloni e piante d’arredo.
“Sa qual è stato il problema che ha reso le nostre imprese poco competitive
all’estero in tutti questi anni?”.
“No” sussurrò il Pintossi.
“La sicurezza”.
“Scusi?”
“La sicurezza. La sicurezza del posto di lavoro. La gente era sicura che
nessuno l’avrebbe licenziata e allora si lasciava andare. Faceva pause. Si
ammalava Pintossi! Si ammalava!”.
“Non capisco”
“Vede, da quando c’è la crisi, da quanto tutti siamo diventati traballanti e il
lavoro non è più sicuro, allora... beh... insomma... siamo tutti più “attaccati” al
nostro lavoro. Capisce Pintossi? Siamo tutti molto più desiderosi di farci vedere
“indispensabili” per l’azienda”.
“Sì ma io che c’entro?”
Camminavano tra computer e dispense, cestini di design e poltroncine color
fumé.
“È come il gioco della sedia? Se lo ricorda? Quello dove c’era la musica e si
girava intorno alle sedie e c’era una sedia in meno rispetto al numero di bambini
che giocavano. Se lo ricorda no? E alla fine quando la musica si fermava
bisognava sedersi tutti quanti e quello che rimaneva in piedi era fuori”.
“Sì, sì, me lo ricordo”.
“Ecco, vede, caro Pintossi. Con il suo ingresso in azienda, si è venuta a creare
quella sedia in meno. Lei è in più, non ha niente da fare, ma potrebbe avere
qualcosa da fare, potrebbe prendere – eventualmente – il posto di uno di noi
quando la musica dovesse fermarsi. E così tutti, me compreso, ci stiamo
impegnando a far vedere che quella sedia è nostra e solo nostra, che non
possiamo essere sostituibili da lei”.
“E funziona?”
“Sì che funziona! E alla grande! Guardi le dirò che nei quattro mesi in cui lei
è stato qui nessuno, e dico nessuno, ha chiesto la malattia. Abbiamo avuto gente
che si è fatta l’intera influenza in piedi al lavoro pur di non rischiare di tornare e
trovarla seduto sulla loro sedia. Io per primo ho scoperto alcuni rimedi
eccezionali per prevenire il raffreddore. Una meraviglia! Mai stato più sano e
più a lungo!”
Erano davanti ai finestroni che davano sulla strada. Era inverno e stava
venendo buio. Il tramonto tingeva di colori fruttati il cielo.
“E io?”
“Lei cosa?”
“Io, cosa ci guadagno in tutto questo?”
“Lo stipendio no?! E poi sta imparando una cosa importante...”
“Cosa?”
“L’importanza di non lasciare la sua sedia”.
“In che senso scusi?”
Il referente si avvicinò alle orecchie del Pintossi e sussurrò, in tono
confidenziale. “Ho sentito che sembra vogliano prendere un nuovo stagista...”
“Ma come?”
“Eh Pintossi... è la crisi! I giovani oggi hanno molte meno richieste... Io fossi
in lei mi darei da fare anche perché, insomma, lei non è più giovanissimo...”
“Oh... Grazie della dritta...” disse il Pintossi tra il grato e il preoccupato.
“Ma ci mancherebbe... se non ci aiutiamo tra di noi”.
“Grazie ancora...”
Il Pintossi tornò nella sua stanza dalla moquette grigia. Prese la sua sedia. La
collocò al centro della stanza. Vi si accomodò. Destato di colpo si voltò verso la
porta. Era socchiusa. Si alzò. La chiuse. Ritornò alla sedia. Si riposizionò. Lo
sguardo al muro. La schiena dritta. I piedi allineati. E le mani strettamente
ancorate al sedile.
Giovanni Vannozzi
Mangiati la polvere bastardo!
Questa è la prima estate che trascorro lontano dai miei amici di sempre, quelli
che sono venuti all’asilo e alle elementari con me. Le medie non le conto, mi
fanno schifo perché ci si chiama per cognome e invece della maestra ci sono i
professori che sono molto più cattivi e coi nervi a pezzi.
Davanti a me si estende uno dei monti pisani, il Castellare, e in cima c’è una
villa diroccata dove la gente ci va a fare i picnic e tutti la chiamano La Casa del
Polacco, perché alla fine dell’800 ci abitava uno studioso che veniva dalla
Polonia ed era innamorato perso della Toscana.
Qui siamo circondati dal verde, e l’aria la mattina ti punge il viso ed è densa
come un sorbetto, con il sole invece tutto si scalda e i colori divengono più
chiari, molto di più che in città.
Mi sono trasferito con i miei qua ad Asciano da pochi mesi e con Tommi ho
imparato un sacco di cose, tipo a pescare i ranocchi e a fare il lancio della canna
di bambù, e sono pure stato col Filippi fino in cima al monte Castellare, dove
abbiamo piantato una bandiera fatta con la Fruit di suo padre che è bella grande
tipo XXXL e si vede persino da Pisa.
Tommi vive con la sorella e i genitori davanti alla nostra abitazione, in una
casa intrappolata tra due pini e un campo di ortiche. Sua sorella si chiama
Azzurra e se ne va in giro con la minigonna e i tacchi anche se ha undici anni,
fuma le sigarette di nascosto e sale sempre sul motorino con i ragazzi delle
superiori. Sua mamma ha la lavanderia in fondo a Via San Rocco, e la gente del
paese le porta i panni da lavare perché dicono che lavandaie come lei si non si
trovano più, sono “ite”, estinte come i dinosauri. Suo padre invece fa il
meccanico, lo chiamano Severino il mostro delle ferraglie o il mago delle
carrozze, che poi io di carrozze ancora non ne ho viste in giro da queste parti, al
limite ogni tanto passa qualcuno a cavallo, si ferma davanti al circolino e lo fa
accarezzare ai bambini, poi scatta al galoppo verso la chiesa che la domenica è
piena di gente che appena esce bestemmia perché magari s’è messo a piovere di
brutto e si sono dimenticati di portare l’ombrello.
A noi, che poi saremmo io e i miei, ci chiamano “i forestieri”, e da quando
siamo venuti ad abitare qua la gente del paese mi fissa continuamente.
Il Filippi l’ho conosciuto qualche settimana fa, parla poco e quando parla
sputa. Lo chiamano Lama, proprio per questo motivo. È rozzo e burbero, e
quando ci giochi insieme vuole vincere sempre lui.
Ieri mi ha guardato mentre giocavamo ai soldatini, che lui ne ha davvero sei
milioni di tutti gli eserciti del mondo e di tutte le guerre dall’impero romano ad
oggi, e mentre mi sconfiggeva ha detto: “Ti ci manda il tu’ babbo a te, sul
Castellare?”.
Ho detto: “Sì, penso di sì”.
“Allora passo da te domani mattina alle otto”.
Mio padre ha detto ok, mia madre invece ha storto la bocca e detto che forse è
pericoloso e che io non sono abituato, ma lui le ha risposto che se mi sta così
addosso non cresco mai e che un po’ di aria buona mi fa solo bene.
Quando Lama arriva sotto casa, è vestito in maniera completamente diversa
da me che indosso una tuta da ginnastica, un K-Way e un paio di scarpe da
tennis. Lui veste un paio di pantaloncini corti fino alle ginocchia, una maglietta
di Sampei e scarponi alti da montagna… nella mano destra tiene saldamente
l’impugnatura di un piccone arrugginito.
Lo guardo e penso che da grande farà di sicuro il militare, tutto il contrario di
me che i militari non li posso vedere nemmeno in cartolina, con tutti quei
sissignore e sugli attenti e riposo stampati in faccia, che poi se non ci fossero –
loro e le armi – non ci sarebbero neppure i bambini in fissa con i soldatini.
Partiamo.
Dopo centocinquanta metri raggiungiamo un posto bellissimo pieno di fiori e
di piante, dove mi spiega il Filippi che “ci vengono a fare sesso le maiale del
paese, con i ragazzi grandi di Calci e Pontasserchio”.
Sul fianco del monte c’è una grande cava da dove un tempo veniva estratto il
marmo, che poi lo lavoravano e ci facevano un sacco di cose, tipo forse anche i
monumenti della mia città. Sotto questa cava c’è una baracca di legno aperta e
piena di arnesi: asce arrugginite, materassi usati, chiodi, sedie rotte e bottiglie
vuote di vino lasciate abbandonate davanti all’uscio.
Sopra la baracca il monte va su a gradini, è una grande scala fatta d’erba e
piante d’ulivo che arriva fino al cielo e sembra che una volta in cima si possano
toccare le nuvole.
Il Filippi non parla, procede con passo sicuro e ogni tanto fischietta facendo
finta di non essere stanco, ma ha le guance tutte rosse che gli stanno per
scoppiare. Io rimango in silenzio, a bocca aperta, circondato dalla natura e dagli
uccellini che volano tra i rami degli alberi.
“Se domani il mi’ babbo mi presta la carabina faccio una strage, faccio!”,
dice con lo sguardo rivolto ai rami più alti.
Quando raggiungiamo la vetta mi stendo sull’erba, le nuvole sono davvero
così vicine che mi sfiorano il petto e si disperdono nel vuoto. Sotto di noi posso
vedere San Giuliano, la mia città, e riesco persino a scorgere il porto di Livorno
e le navi attraccate che sembrano dei giocattoli.
È fantastico. Mi sento il re del mondo.
“Hai visto? Ti garba?”, mi dice il Filippi fiero, come se quel panorama gli
appartenesse, “Ora mettiamo la bandiera e poi ci si leva di torno, perché tra
poco inizia a fare buio”.
“Come inizia a fare buio, scusa, sono le due…”.
“Lo so io quando fa buio da queste parti, cosa ne sai te, e poi stasera devo
iniziare a preparare il carretto, sennò la gara non la vinco nemmeno quest’anno,
che l’anno scorso me l’ha fregato Pancino il primo posto, quel ciccione di
merda che se l’è fatto costruire dal su’ babbo!”.
“La gara dei carretti? Posso partecipare?”.
“No, seee, secondo me mica ti riesce di scendere da Via di Valle a sessanta
all’ora. Sai in quanti son fittonati nel fosso in mezzo ai rovi?”.
“Dai, per favore… ho un sacco di spazio nella nuova casa, perché non vieni
insieme a Tommi, e si costruiscono nel garage, i carretti?”.
“Hai un garage intero a disposizione? E non si arrabbiano i tuoi se mettiamo
in disordine?”.
Quando Tommi e il Filippi entrano nel garage in braccio hanno di tutto: legni,
pezzi di ferraglia, adesivi, martelli e fil di ferro.
Lo zio li guarda e ride, loro guardano lo zio e il Filippi dice: “E questo
vecchio chi è? È un segreto, non può stare qua con noi”.
“Vecchio sarà tuo nonno, CiccioWow!” gli risponde lo zio, “Quando io
costruivo carretti voi eravate ancora un’ipotesi nella mente dei vostri genitori”.
Lo zio è il più fico della terra, suona la batteria in una band che si chiama I
Senzameta, porta gli orecchini e i capelli lunghi fino alla cintura.
I Senzameta sono famosi perché qualche anno fa si sono esibiti in un concerto
dentro l’Arena Garibaldi e hanno suonato roba rock, tipo pezzi dei Pink Floyd,
dei Deep Purple e dei Led Zeppelin, e alla fine del concerto sono rimasti in
mutande e ce le avevano del Pisa, nerazzurre, e allora da quel momento tutti i
pisani gli vogliono bene e adesso c’è pure un club di ultrà che si chiama come
loro: I Senzameta Rangers Pisa.
Il Filippi è sospettoso, mi si avvicina e mi chiede se il tatuaggio che sbuca
dalla manica corta dello zio significa che è stato in galera.
Lo zio sente e allora s’inventa che è stato in carcere dieci anni per omicidio e
che se non si cheta perde i nervi. Allora il Filippi si siede e rimane zitto per un
quarto d’ora.
Dopo un po’ abbiamo finito l’opera. Il carretto del Filippi è il più pesante di
tutti, l’ha colorato di rosso e nero e lo fissa come se fosse innamorato.
Quello di Tommi è lunghissimo perché lui ci vuole stare sdraiato sopra, così
se cade è più vicino all’asfalto e si fa meno male.
Il mio carretto si chiama Mangiati la polvere bastardo! e lo zio ce l’ha scritto
sopra con i pennelli e ci ha disegnato pure un teschio nero che è un segno dei
rocker.
Iniziamo a provarli e io arrivo sempre ultimo, ma non mi do per vinto.
La notte non dormo, e prima di andare a letto lo zio sale di sopra e mi dice
che al momento della partenza devo gridare “Rooock”, che sennò arrivo ultimo
e almeno così gli altri si spaventano che tanto non sanno neppure cosa sia, il
rock.
Pronti…
Alla gara partecipano tanti ragazzi, alcuni sono più piccoli di me ma di poco,
altri più grandi e qualcuno fuma le sigarette ai margini della strada. Quasi tutti
mi guardano, qualcuno sghignazza e mi chiama finocchietto di città.
Attenti…
Ci sono anche delle ragazze. Le più giovani fumano le sigarette insieme ai
ragazzi grandi e si atteggiano a donne adulte, sbuffano fuori il fumo dalla bocca
nascondendo un rigurgito e poi continuano a sfumacchiare. Appena le vede, il
Filippi mi guarda, si tocca i pantaloni all’altezza del pisello con la mano e tira
fuori la lingua dalla bocca. Una di loro si avvicina, fa allontanare il Filippi con
un gesto del capo e mi dice: “Te sei il bimbo nuovo? Sei bellino, speriamo che
vinci!”.
Gli dico grazie, allora lei fa ciao con la mano e si siede sul ciglio della strada
con le sue amiche.
Gli altri concorrenti sono tutti di fianco a me, fieri nei loro carretti, si
guardano, si sfottono e si sputano. I bolidi hanno nomi diversi, c’è
Ammazzavampiri, Vifaccioilculo, Vikingo2, Volpevolante, Fulmine,
Vicischiccolo, Vadosodo, Fungeabbestia, e poi ci sono io: Mangiati la polvere
bastardo!
Via!
Ci siamo: il rullio dei cuscinetti mi fa capire che sto davvero scivolando
sull’asfalto, e mentre alcuni di noi cadono e bestemmiano, io gli passo vicino e
schizzo via come un razzo impazzito gridando: “Rooock!”.
Quando mi risveglio sento dolori in tutto il corpo, mi ritrovo dentro un letto
di spine nel buio più profondo del fosso, insieme alle rane e all’ortica, qualcuno
mi ha colpito con il piede mentre facevo la curva e sono volato dentro un rovo
di pruni. Per tirarmi fuori accorrono il padre del Filippi, il mio, e altri genitori
che dicono che queste gare non si possono più fare, che sono troppo pericolose.
Nel frattempo, da là sotto, vedo il Filippi che dice sottovoce a qualcuno dei
partecipanti: “Smettetela di chiamarlo finocchietto, che suo zio è stato in galera
per omicidio. Se torna, quel matto tatuato, è capace che ci spara a tutti”.
Bravo Filippi, diglielo…
Beppe Vergara
Il Messaggio
Comparve così, all’improvviso e fu uguale per tutti. La popolazione di tutto il
mondo, senza distinzioni di razza, di età, in ogni angolo del pianeta, nello stesso
preciso momento, fu raggiunta da quello che, in seguito, fu chiamato il
“Messaggio”. Non ci fu niente di scritto né di parlato ma non ci furono problemi
di comprensione, il “Messaggio” parlava tutte le lingue del mondo e nessuna
allo stesso tempo. Entrò nel cervello di ogni abitante della terra, così,
semplicemente, come fosse un ricordo. Ma chi era stato a provocare un
fenomeno così sorprendente da risultare inspiegabile? Per gran parte
dell’umanità non c’erano dubbi, anche se l’entità soprannaturale non si era
presentata, non poteva esser altro che Dio o Allah o Yahweh o comunque la
propria divinità a seconda della propria fede.
Nonostante né la parola religione, né un concetto simile, venne mai nominato
nel “Messaggio”, nacque, con sorprendente velocità, un nuovo credo. L’autore
del “Messaggio” era sì un Dio, ma un Dio nuovo. Niente a che fare con quello
della Bibbia, del Nuovo Testamento, del Corano o della Torah. Per questi nuovi
fedeli la divinità, che aveva portato il “Messaggio” dentro le teste di tutti, non si
era mai manifestata all’uomo in precedenza e per questo motivo doveva essere
oggetto di un nuovo culto. Nacque così la “Chiesa del Messaggio”, forte anche
dell’altro inspiegabile fenomeno che accadde quel giorno. L’epifisi di ogni
essere umano iniziò a pulsare. Un battito lento, quasi impercettibile, ma
regolare. Anche in questo caso il fenomeno fu di portata planetaria e fra le
milioni di persone, che furono monitorate, non se ne trovò nemmeno una che
avesse la ghiandola pineale ferma, compresi coloro che avevano dichiarato di
non essere stati raggiunti dal “Messaggio”. Il “Dio del Messaggio” (così veniva
chiamato il nuovo Dio) non si era manifestato a pochi eletti, come nelle
credenze passate, ma all’umanità intera e nel medesimo istante, lasciando sul
corpo di tutti lo stesso segno in quella, che un tempo, era considerata la sede
dell’anima. Per questi motivi, per la “Chiesa del Messaggio”, tutti, sulla terra,
dal primo all’ultimo, a prescindere dal loro credo, erano figli del nuovo Dio.
Cinque anni dopo la comparsa del “Messaggio” Karl Glauer ebbe un
incidente con la sua motocicletta, niente di grave, ma per sicurezza gli fecero
una TAC. Karl Glauer, quel giorno, scoprì non solo che non aveva riportato
alcun danno celebrale ma soprattutto che la sua epifisi non pulsava. La notizia,
in poche ore, fece il giro del pianeta e creò sconcerto soprattutto nella “Chiesa
del Messaggio” che era ormai diventata la prima religione al mondo. I fedeli,
presi dal panico, si sottoposero in massa al test dell’epifisi per paura che il
segno divino fosse scomparso dal loro cervello e a loro si unirono molti atei,
agnostici e fedeli di altre religioni che, al contrario, speravano di avere la loro
ghiandola immutata. Ma non emerse nulla di nuovo. Le ghiandole pineali
pulsavano tutte. Karl Glauer rimase l’unica persona della terra che sembrava
realmente non essere stata raggiunta dal ‘Messaggio” come, del resto, aveva
affermato sin dal primo momento. Suo malgrado divenne un personaggio
pubblico che i media tempestavano di domande in cerca di una qualche verità.
Lui, schivo, cercava di non apparire troppo spesso ma non riuscì ad evitare di
attirarsi addosso l’odio dei “Fedeli del Messaggio”. Accadde quando dichiarò
che, in una terra che continuava a sanguinare per gli stessi mali di sempre, in
fondo, non era cambiato proprio nulla. Non sapevamo ancora perché eravamo al
mondo né cosa accadeva dopo la morte e soprattutto nessuno aveva realmente
capito il significato del “Messaggio”.
Negli anni seguenti iniziò una campagna diffamatoria nei suoi confronti e fu
accusato dei più svariati crimini commessi in gioventù, subì una decina di
processi ma fu sempre assolto per mancanza di prove. Finché, un giorno, si
svegliò in una stanza d’albergo, nel Texas, con il cadavere di una ragazzina al
suo fianco, senza sapere perché era lì e chi fosse quella tipa. La giuria del
processo, composta interamente da fedeli della “Chiesa del Messaggio” non
ebbe dubbi sulla sua colpevolezza. A nulla valsero le sue proclamazioni
d’innocenza contestate da falsi testimoni che dichiararono di averlo visto, la
sera prima, ubriaco e violento in compagnia della ragazza. Fu condannato alla
sedia elettrica. Nonostante le campagne di solidarietà e i tentativi di far riaprire
il processo da parte di molte associazioni laiche di tutto il mondo a dieci anni
esatti dalla comparsa del “Messaggio”, Karl Glauer fu giustiziato.
Era l’uomo più famoso sulla terra, più dei Beatles, più di Gesù, ma al
contrario del Messia, sacrificato poiché proclamatosi l’unico figlio di Dio, Karl
Glauer fu messo a morte perché l’unico al mondo a non esserlo.
Michele Orti Manara
Un posto vivibile
È stato verso le undici del mattino, dopo aver asciugato i piatti ed essersi
lavato le mani, dopo aver sbloccato lo scarico della doccia con lo sturalavandini
ed essersi lavato le mani, dopo aver passato l’aspirapolvere in tutto il salotto,
anche sotto divano e poltrone come da richiesta, e averlo rimesso al suo posto
nel ripostiglio, è stato allora che Wali Gupta si è reso conto che c’era qualcosa
che non andava con il gatto. Lo ha osservato sbucare con andatura sbilenca dalla
cucina, gli occhi di vetro e la coda strascicata dietro, e poi tossire un paio di
volte, una tosse secca come uno straccio asciugato al sole. Wali Gupta si è
avvicinato, il gatto lo ha inchiodato con uno sguardo per un attimo di nuovo
vigile, appuntito.
Il gatto, di cui Wali Gupta dopo un mese di lavoro non ha ancora avuto modo
di conoscere il nome e con cui non ha un rapporto che si potrebbe in alcun
modo definire affettuoso, adesso si acquatta in mezzo al pavimento del salotto,
allunga il collo come un gargoyle in agonia, tossisce, tossisce, tossisce. Stavolta
il suono è spugnoso, liquido, e a Wali Gupta ricorda qualcosa del suo passato, o
forse di un futuro che ancora non è in grado di ricordare. Allunga una mano, il
gatto sibila e trema, gonfia il pelo, riprende a tossire, sgonfia il pelo, si accascia
su un fianco e non si muove più.
Ad aprirgli la porta al suo primo giorno di lavoro in quell’appartamento si
presenta una ragazza. Bionda, magra, una delle ragazze più minuscole che a
Wali Gupta, non certo un gigante coi suoi centosessantasei centimetri di altezza,
sia mai capitato di conoscere. Ha modi gentili, lo invita a entrare con un sorriso
aperto, ma Wali Gupta non può fare a meno di notare che lo sta studiando, per
capire se la persona che ha davanti sia qualcuno su cui può contare, qualcuno a
cui affidare casa tua con la fiducia che non si intascherà gli spiccioli trovati tra i
cuscini del divano, non annuserà le tue mutandine sporche, non farà una copia
delle chiavi per poi venderle a una gilda di ladri, di folli e stupratori.
Benvenuto, dice la miniatura di ragazza, questa sarebbe la casa, e con un
movimento a ventaglio della mano accarezza l’aria del salotto, cubo splendente
in cui la luce, entrando dalla porta finestra che occupa un’intera parete, sembra
rimbalzare sul pavimento bianco e impregnare ogni cosa, piante libri mobili, e
poi venire di nuovo irradiata, ancora e ancora, in un rimbalzo perpetuo.
Sul pavimento bianco, che Wali Gupta ha finito di pulire non più di tre minuti
fa, il gatto si contorce; disteso su un fianco, è un nero batuffolo di sofferenza
che a Wali Gupta pare assorbire tutta la luce della tarda mattinata, ponendo fine
al rimbalzo perpetuo, per poi smembrarla in particelle di polvere e rimetterla in
circolo ormai spenta, un processo che in qualche modo fa sgonfiare e sgonfiare
il corpo dentro cui avviene con un ritmo in costante accelerazione.
Inginocchiato lì di fianco, con le mani abbandonate in grembo, mormorando
parole nella sua lingua che in nessun modo potrebbero essere di conforto a un
essere nato e cresciuto dalla parte opposta del mondo, e ancor meno a un
animale, Wali Gupta fatica a pensare.
Resta così, immobile, inebetito davanti allo strazio di un gatto che da lui non
si è neppure mai fatto accarezzare.
In quel primo giorno di lavoro, ormai lontano, sempre più sfocato nello
specchietto retrovisore della paranoia che Wali Gupta si ritrova a guidare con un
gatto morente come copilota, la miniatura gli mostra scope detersivi per piatti
stracci detersivi per abiti spugne detersivi per pavimenti candeggina, in file
ordinate su una mensola del ripostiglio, illustrandoli uno a uno a velocità folle e
con termini per lo più sconosciuti al suo ascoltatore, che però annuisce sorride e
non si scompone, contando sui disegni delle etichette e al limite su
un’annusatina per riuscire a capire, se e quando sarà il momento, quale sia l’uso
dei singoli prodotti.
La ragazza richiude il ripostiglio.
Tutto chiaro?, dice. Annuire una volta di più e pigolare un sì basta perché lei
getti un ultimo fuggevole sguardo a Wali Gupta nel suo complesso, dall’alto al
basso all’alto, e concluda: Bene, allora siamo d’accordo, quando potresti
cominciare?
Qualcosa è andato storto.
L’accordo non prevedeva competenze mediche né telefonate salvifiche.
Prevedeva una coreografia di gesti semplici per rendere più pulito
l’appartamento, sequenze di movimenti in grado di migliorare la vita della
miniatura e del suo fidanzato Sergio - e allo stesso tempo di soddisfare l’innata
predisposizione di Wali Gupta all’ordine. In quelle stanze di una città ancora da
conoscere, abitata da gente con cui fatica a condividere anche la gestualità, il
grado zero della comunicazione, fare le pulizie per Wali Gupta è diventato un
lavoro di più ampio respiro, quasi una missione, una tessera del grande mosaico
in cui il mondo, tutto il mondo, anche le porzioni che non hai mai visto né
abitato, è un posto sicuro, accogliente, dove le superfici sono immacolate e gli
esseri sono trasparenti.
Un posto vivibile, dove nessuna creatura ti muore sotto gli occhi senza che tu
abbia modo di avvertire chi potrebbe essere in grado di salvarla.
Il frammento di Wali Gupta per rendere il mondo più vivibile, la sua missione
di combattente contro l’entropia in terra straniera, stando all’accordo va sbrigato
in tre ore, dalle 9 alle 12 tutti i giovedì mattina, e in coscienziosa solitudine. Sia
la ragazza che Sergio - Wali Gupta non l’ha mai visto se non in qualche foto
sparsa per l’appartamento, ma una volta ne ha intercettato il calore tra le pieghe
del pigiama appallottolato sul letto - sia la miniatura che Sergio escono prima
che lui arrivi, lasciando un biglietto nel caso ci sia qualcosa di particolare o
urgente da fare. Su un altro biglietto, attaccato sul frigo con una calamita, ci
sono due numeri di telefono.
Io e Sergio, ha detto la ragazza durante quel lontano primo giorno,
picchettando col dito le due serie di cifre sul frigo, Io e Sergio, con tono assai
più rilassato di quello usato durante l’esposizione nel ripostiglio, e una specie di
nuova confidenza a scioglierle le tensione che prima le sollevava le spalle come
una gruccia.
Chiama pure se ti serve qualcosa, ha detto.
Io e Sergio
Oppure
Sergio e io
Wali Gupta, che non ha mai avuto motivi per appurare qual è il numero di
chi, su prima di oggi, proprio non se lo ricorda, e il fatto che la calamita sul
frigo raffiguri un gatto identico a quello che sta agonizzando in salotto non lo
aiuta a mettere in fila i pensieri. Certo, non è colpa sua, perché lui al gatto non
ha fatto nulla. Ma non è tanto l’attribuzione delle responsabilità a preoccuparlo,
quanto le parole per avvertire la ragazza - o Sergio? Io e Sergio o Sergio e io? -
per spiegarle, in una lingua che Wali Gupta parla ancora a malapena, che il gatto
sta male, il gatto sta malissimo, presto, il gatto non respira, il gatto forse muore.
Cosa che, a essere sinceri, farebbe fatica a esprimere anche nella sua, di lingua,
con tutta questa pena a ingolfargli la gola.
Non è la prima volta che Wali Gupta si trova di fronte un cadavere.
Nel suo paese ha visto uomini e animali morti a decine, forse a centinaia, o
migliaia - e il fatto che non saprebbe indicare quanti è di per sé indicativo del
suo rapporto intimo con la morte, e forse anche di una conseguente, ancorché
inconscia, assuefazione alla sua presenza.
Eppure c’è qualcosa di sottilmente diverso tra vedere un cadavere e assistere,
un secondo dopo l’altro, un rantolo alla volta, al processo che lo rende tale, una
crepa di differenza dietro a cui si spalanca un abisso, lo stesso che separa una
bistecca ordinata al ristorante dall’esecuzione a sangue freddo dell’animale di
cui faceva parte.
Il gatto inizia a perdere sangue dal naso. Wali Gupta non fa nulla per evitare
che una coccinella calda e densa di sangue coli sul pavimento pulito. Quando il
gatto espira, una sventagliata di macchie più piccole si sparpagliano attorno. La
coccinella adesso è attorniata dai suoi piccoli.
Difficile capire, per lo meno per chi non abbia alcuna esperienza veterinaria,
da dove provenga il sangue, e se cioè il gatto abbia mangiato qualcosa di
tossico, se abbia un’emorragia cerebrale, se la colpa sia un parassita, di un virus
contagioso, una reazione allergica, un gas invisibile.
E se anche Wali Gupta riuscisse a farsi un’idea in merito e volesse
comunicarla al telefono, non saprebbe comunque come dire tossico, emorragia,
parassita, allergia, virus, gas.
In questo mare di indecisione, la perfida ironia del caso, capace di
rimescolare infinite variabili e darti un nome che significa colui che protegge,
un cognome che nel tuo paese ha una tradizione regale, e poi farti trovare a un
crocevia tra tempo e spazio dove sei incapace di proteggere un gatto - fosse
anche solo chiamando qualcuno che lo faccia al posto tuo - e lavori come uomo
delle pulizie. E così ti ritrovi in ginocchio, seduto sui talloni, come il
condannato a morte in attesa del colpo alla nuca, senza neppure renderti conto
che il tempo passa, e che il pomeriggio inizia ad inghiottire il momento in cui
avresti dovuto lasciare l’appartamento.
Una volta Wali Gupta ha sognato che sognava di svegliarsi ma non poteva
muoversi né parlare, e dopo un terrore muto dalla durata indefinibile ha sognato
di svegliarsi di nuovo solo per riprecipitare nell’incubo dell’immobilità, e dopo
un terrore muto dalla durata indefinibile si è svegliato di nuovo, e non osava
provare a muoversi per paura di ritrovarsi immobilizzato e zitto, stavolta
davvero e per sempre. O peggio, che il ciclo risveglio-paura-risveglio-paura
sarebbero andati avanti senza fine.
Adesso ha lo stesso sguardo atterrito di quella mattina, fisso sulla macchia di
sole che entra da una finestra e striscia sul pavimento, fino a sfiorare il gatto
come una mano di luce venuta per portarselo via.
Un altro battito di ciglia, Wali Gupta torna in sé; la mano di luce ormai
sparita, il corpo del gatto ancora lì, morto o forse no, e qualcuno che è tornato a
casa - io o Sergio, io o Sergio - e il rumore delle chiavi che girano nella toppa
della porta di ingresso, secco come un osso che si spezza.
Antonio Fanelli
Rubami l'anima
Marco ormai ci aveva preso gusto. Anche le ragazze stavano dalla sua parte.
C’era quel tipo lì, un certo Sabu, che con quell’aria da sotuttoio annoiava il
gruppo con paranoie su come proteggersi dagli attacchi informatici.
– Ma quali hacker, – scrisse nel commento al post del tipo, – secondo te quelli
perdono tempo con le nostre password? A loro interessano le carte di credito,
caro mio. E qui soldi non ce ne sono… quindi non ci stressare con queste
menate, dai!
Rimase a fissare il suo commento per qualche minuto, compiaciuto per quella
risposta azzeccata, e ancor di più per la serie di like che aveva scatenato:
Alessia, Manu, Lisa, Dani, erano tutte con lui, e a quel tipo non restava che
andare a fare il professorino da qualche altra parte.
L’icona dei messaggi si illuminò: una certa Yulia voleva chattare, gli aveva
anche chiesto l’amicizia.
– Bravo Marco, hai proprio ragione, – gli aveva scritto nel messaggio, – che
noia quel Sabu, sempre a darci lezioni, ma chi si crede di essere?
Marco accettò l’amicizia della ragazza e si mise volentieri a chattare, pronto a
sfruttare quel momento di notorietà per far colpo su di lei. Mentre scriveva dette
un’occhiata alle foto. Yulia Olejnick, di origini polacche, era davvero uno
schianto, sembrava un fotomodella, anzi era una fotomodella che viveva a
Roma. E ora stava chattando proprio con lui. Da non crederci.
Quel pomeriggio Marco non avrebbe più studiato. Yulia era fantastica.
Chattare con lei era diverso, si poteva parlare di tutto, senza falsi moralismi; le
aveva anche proposto di vedersi in webcam, e Yulia aveva subito accettato, al
contrario delle altre che se la tiravano troppo ed erano sempre sospettose. Che
poi lui non usava mica la cam per fare certe porcherie.
Quando il video si avviò Marco rimase a bocca aperta. Di persona quella
ragazza era ancora più bella.
– Non posso crederci, – le disse, – una ragazza come te che perde tempo con
uno come me… ci deve essere qualcosa sotto. Ma chi sei in realtà?
Yulia rise. Aveva un sorriso radioso, c’era da perdersi tra quelle labbra.
– E chi potrei essere… mmm… vediamo… e se fossi il diavolo?
– Allora ti direi di rubarmi l’anima.
– Attento, potrei farlo per davvero.
– Dove devo firmare?
Yulia rise di nuovo.
– Sei comico, sai? Mi ricordi Claudio Bisio.
– Ah, ti faccio questo effetto? – disse Marco con poco entusiasmo.
– Ma guarda che è un complimento, io lo adoro Bisio, mi fa divertire così
tanto. Se anche tu vuoi rubare la mia anima non devi far altro che farmi ridere –
gli disse con espressione ammaliante.
Marco abbassò timido lo sguardo.
– E invece secondo te io a chi assomiglio? – gli chiese poi a bruciapelo.
Marco ci pensò un attimo.
– Se fossi un’auto saresti una Ferrari – le disse deciso, sperando di sortire
l’effetto desiderato.
Yulia scoppiò in una fragorosa risata e Marco tirò un sospiro di sollievo. Da
quel momento non si fermò più, non ebbe più esitazioni, ormai era un vulcano
di battute irresistibili. Era così felice, una sensazione mai provata prima. Quel
pomeriggio aveva preso la giusta direzione; poco importava che dopo cena
avrebbe dovuto rimettersi a studiare per recuperare il tempo perso.
La sveglia suonò alle sei in punto. Marco allungò il braccio sul comodino per
spegnere quel dannato aggeggio prima che svegliasse tutti. Dopo lunghi e
interminabili secondi finalmente ci riuscì, e poté sprofondare di nuovo la testa
nel cuscino. Solo due minuti, pensò.
Si risvegliò dopo un po’ di tempo e con affanno afferrò l’orologio. Caspita,
pensò, era troppo tardi, non ce l’avrebbe più fatta a ripetere storia. Si sedette sul
letto e, ancora frastornato, accese il tablet. Si collegò a Facebook nella speranza
che Yulia gli avesse scritto ancora, ma rimase deluso nel constatare che non era
arrivato alcun messaggio. Nel frattempo era giunta la notifica di una nuova
email. Era di Yulia: “C’è una cartolina per te”. D’un tratto quel torpore da
dormiveglia svanì. Preso dalla smania di aprire la cartolina, cliccò senza indugio
sul link all’interno dell’email; si aprì la posta di Gmail che gli chiedeva
l’autenticazione. Abituato a ricevere le email in automatico ebbe un attimo di
smarrimento davanti alla richiesta di login, ma per fortuna aveva anche la
consuetudine di utilizzare la stessa password per ogni sito a cui si registrava,
così non ebbe difficoltà ad accedere.
La cartolina era un’esplosione di cuoricini, bacetti e stelline. In effetti un po’
troppo romantica per i suoi gusti, ma il messaggio in essa contenuta era
intrigante:
~
Ciao bellissimo ragazzo,
sono le tre di notte e non riesco a dormire. Non so perché ma ti penso di
continuo ;)
Domani appena esci da scuola collegati su Facebook… ci sarà una sorpresa
per te.
Fai bei sogni caro,
Yulia.
PS: ho deciso di rubarti l’anima :)
~
Marco era in estasi. Lesse e rilesse quel messaggio così tante volte che
arrivarono le sette e neanche se ne accorse. La madre bussò alla porta della
camera per chiedergli se fosse sveglio. Lui saltò giù dal letto in preda a una
sensazione di gioia immensa mai provata prima. Si guardò allo specchio e si
sentì un figo, nonostante i capelli arruffati e gli occhi gonfi dal sonno. Sorrise e
fece qualche smorfia, cercando di individuare il profilo migliore da mostrare in
video.
– Ciao, bellissimo ragazzo – disse strizzando l’occhio alla sua immagine
riflessa. Ma che gli faccio io alle donne? pensò.
Andò a far colazione tutto allegro e baldanzoso. Quello sì che era davvero un
buon inizio di giornata.
Al termine delle lezioni Marco era impaziente. Accese il cellulare e si collegò
a internet mentre aspettava il padre all’uscita della scuola. Poco importava che
avrebbe speso una fortuna per la connessione dati, voleva almeno avvisare Yulia
di pazientare ancora un po’. Ma proprio quel giorno Facebook non ne voleva
sapere di funzionare. “Combinazione e-mail/password errata” veniva scritto
ogni volta che tentava di accedere. Provò a scaricare la posta di Gmail, ma
anche lì c’era un problema di connessione al server. Si innervosì e così lasciò
perdere, forse era la rete del cellulare che non andava, avrebbe riprovato più
tardi.
Arrivato a casa salutò appena la madre e si chiuse in camera sua. Lanciò lo
zaino sul letto e afferrò con trepidazione il tablet. Provò ad accenderlo, ma la
batteria era scarica. Imponendosi di mantenere la calma, si sedette alla scrivania
e accese il computer.
– Dai bello, dai – disse tamburellando impaziente le dita sulla tastiera. Non
che si aspettasse nulla di particolare, non voleva illudersi, ma comunque si
trattava pur sempre di una bella ragazza che lo stava aspettando in chat. E lui
odiava far aspettare le ragazze.
Quando finalmente riuscì a collegarsi a internet, digitò con cura la password
di Facebook, ma il messaggio era sempre lo stesso di prima: “Combinazione e-
mail/password errata”.
– Ma che diamine… – esclamò confuso.
Cliccò su “Hai dimenticato la password?” e inserì l’indirizzo email per
avviare la procedura di reset. Aprì una nuova scheda del browser e si collegò a
Gmail; inserì le credenziali di accesso, ma al posto delle email gli apparve un
messaggio inquietante: “La password o il nome utente specificato non è
corretto”.
– Ma come è possibile? Che diavolo sta succedendo?
Riprovò più volte, digitando i tasti con estrema cura e assicurandosi di non
avere il blocco delle maiuscole attivo. Niente. Sudando freddo cliccò su “Non
riesci ad accedere al tuo account?”. Alla domanda che gli apparve dopo non
sapeva come rispondere: “Hai problemi di accesso? - 1. Non so la mia password
- 2. Non so il mio nome utente - 3. Ho altri problemi di accesso”.
Scelse la prima opzione. Google lo sollecitava a inserire l’indirizzo email da
cui non riusciva più ad accedere, poi gli chiese di inserire l’ultima password che
ricordava e infine di fornire un indirizzo email alternativo dove poter essere
contattato per impostare una nuova password. Come un automa, senza riuscire
più a pensare con lucidità, Marco inserì l’indirizzo di Hotmail, e a quel punto
Google gli chiese di inserire le date di ultimo accesso e di creazione
dell’account.
– Maledizione! – E chi se lo ricordava quando aveva creato l’account? Si
passò le mani tra i capelli, in preda alla disperazione.
– Calma e riflettiamo... che cosa può essere successo? – Possibile che avesse
un vuoto di memoria e si ricordasse una password sbagliata? Ma no,
impossibile, era da sempre la stessa: G1mm3F1v3, una password a prova di
hacker.
Provò a collegarsi a Hotmail. Anche lì ottenne lo stesso risultato: “La
password non è corretta. Verifica che stai usando la password del tuo account
Microsoft.”
– Oddio no, mi sembra di impazzire – urlò battendo il pugno sulla scrivania.
– Marco, tutto bene? – gli chiese la madre dalla cucina.
– Sì, non è niente ma’ – si affrettò a rispondere.
Ormai era evidente che c’era qualcosa che non andava.
Il cellulare squillò. Era il suo amico Antonio, strano che lo chiamasse a
quell’ora.
– Dimmi Antò.
– Marco, ma sei impazzito?
– In che senso, scusa?
– Ti sei messo a pubblicare tutte quelle foto su Facebook?
– Quali foto? – chiese allarmato.
– Quelle con Martina...
– Oh mio Dio! No, non sono io Antò, c’è qualcuno che si è impossessato del
mio account.
Una notifica segnalava una chiamata in arrivo da parte di Martina.
– Ehi scusami, ci sentiamo dopo, c’è un’altra chiamata, devo chiudere, ciao...
Pronto Martina?
– Sei uno schifoso!
– No, ti prego ascolta... C’è un hacker che si è impossessato del mio account
di Facebook e non riesco più ad accedere...
– Mi stai mettendo in imbarazzo con tutti. Ti odio!
– Martina ascolta... – la implorò, ma lei ormai aveva riattaccato. Provò a
richiamarla, ma non rispose.
– Maledizione! – esclamò scaraventando il cellulare sul letto.
Pensò a Yulia che lo stava aspettando in chat con una sorpresa che
probabilmente ora si stava godendo qualcun altro al posto suo. Poteva essere
pericoloso, doveva avvisarla in qualche maniera.
Si collegò a Facebook registrandosi con un altro nome e constatò amareggiato
che tutti i suoi vecchi post erano ormai diventati pubblici, anche i messaggi
privati. L’hacker si era impossessato del suo account e si stava divertendo a
seminare zizzania tra i suoi contatti. Seicentoquindici amici che ora gli si
rivoltavano contro con insulti, minacce, sberleffi, parolacce. Una tristezza
infinita.
Il cellulare prese a segnalare l’arrivo di un sms dietro l’altro. A ogni notifica
Marco sussultava. Il numero dei contatti che gli toglievano l’amicizia su
Facebook era proporzionale a quello degli sms che riceveva; non ebbe neanche
il coraggio di leggerli.
Chi aveva potuto fargli una cosa simile? L’ex ragazzo di Martina?
Quell’invidioso del compagno di classe? La tipa che gli andava dietro e che lui
snobbava? Quel Sabu che aveva affrontato in pubblico? Già, quel Sabu...
D’istinto si collegò al gruppo su Facebook e vide che Sabu aveva risposto al suo
ultimo commento del giorno prima: “Caro Marco, certo i soldi fanno gola. Se te
li rubano ci rimani male, molto male. Ma i soldi tutto sommato sono beni
materiali, prova invece a immaginare che cosa accadrebbe se ti rubassero
l’identità. Anni di vita per costruire una rete di relazioni sociali e pochi minuti
per distruggerla. Credimi, ci rimarresti molto peggio, sarebbe come se ti
rubassero l’anima.”
Marco abbassò lo sguardo, frustrato. Non sapeva che fare, da dove
cominciare. Poteva chiedere il blocco dell’account, dirlo ai suoi genitori,
contattare le persone più care per metterle in guardia, ma ormai la gogna era
diventata virale e non poteva essere più fermata. Quelle erano foto sue, parole
sue, pensieri suoi; per quanto manipolati ad arte da qualcuno, non avrebbe mai
potuto negarne l’evidenza. Per combattere ci vuole un nemico, e il suo aveva
assunto le sembianze di sé stesso.
Il diavolo si nasconde nei dettagli, chissà perché gli era venuto d’un tratto
quel pensiero. Rialzò piano la testa e rilesse con attenzione il messaggio di
Sabu. Sarebbe come se ti rubassero l’anima…
Qualcuno aveva anche messo un “Mi piace”.
Il diavolo si nasconde nei dettagli…
Spostò il cursore del mouse sopra l’icona del like: “A Yulia Olejnick piace
questo elemento”.
Francesco Satanassi
Cinque tipi di neve
Sophie parla masticando un bastoncino di liquirizia, dice che in Svezia
bisogna mangiare caramelle a tutte le ore perché fa piuttosto freddo e nei luoghi
freddi la gente che ha freddo ha bisogno di dolcezza, ha bisogno di zuccheri.
Sophie si sente con Jean-Luc tutti i giorni, da quando è partita non passa
giorno che i due non si sentano. La connessione, però, non è delle migliori e poi
lei è sempre di fretta e lui lavora tutto il giorno. Lui, ogni giorno, lavora proprio
nel posto dove si sono conosciuti.
“Non la sapevo questa cosa dei cinque tipi di neve” pensa Jean-Luc mentre
trascorre le sue ore su internet, in ufficio.
Dicono che in Svezia, d’inverno, faccia buio alle tre di pomeriggio e tutti si
chiudono in casa per organizzare dei gran party. La mattina, invece, si ritrovano
per il momento fika, che equivale a una pausa dallo studio per prendersi un
caffè e fumare una sigaretta. Insomma, la pausa-caffè in Svezia la chiamano
pausa-fika.
“Cristo...” pensa Jean-Luc, l’unico a cui questa cosa non fa ridere per un
cazzo; pensare a uno svedese di due metri che fa una pausa-fika con Sophie
proprio non lo diverte, proprio non lo fa ridere.
“Lo sai che “maglia di lana”, in svedese si dice troja?”
No, Jean-Luc non sa neanche questo, ma immaginare uno svedese di due
metri stretto nella sua troja durante una pausa-fika proprio non lo rassicura.
Questo è l’inizio di una storia che racconta la fine di una storia finita senza
ragioni. Quando tu, Jean-Luc, pensavi che restare cinque mesi senza Sophie
poteva avere anche i suoi lati positivi. Ti facevi la barba e pensavi che in fondo,
senza barba, sembravi anche più giovane, e andavi in giro con quel giubbetto
comprato insieme a Parigi l’anno prima, quando la gente vi osserva e sorrideva.
Che carini, diceva , forse un po’ troppo amici, forse non dura.
Cinque tipi diversi di neve, pensa te, la neve di un inverno talmente denso da
non riuscire a mandarlo giù, stretti in questa merda di città dal sapore di arancia
meccanica e caffè, spazzolando le briciole della vostra storia, Jean-Luc, che
neanche te ne accorgi.
Mentre tu, Sophie, passi le ore senza vedere il sole che sorge, masticando
caramelle, nascosta sotto un metro di neve perché ti senti al sicuro, lì sotto,
convincendo te stessa di essere ancora innamorata.
Forse è la distanza che ti taglia la pancia, forse è l’amaro del caffè o quello
della liquirizia, forse è il freddo della neve.
Cinque tipi di neve per fare palline di neve per giocare a tennis con i vostri
cuori fatti di neve, quando basta l’unica ora di sole svedese per sciogliere tutto,
Sophie, con il ghiaccio che sale per le maniche del maglione e ti gela la schiena
e le ossa e scende fino a piedi.
Che piedi freddi che hai, Sophie.
“Sophie?”
Sai che dormire da soli sviluppa un senso di malinconia crescente? Lo sai?
Dimmi: lo sai o non lo sai? Con i tuoi piedi freddi fatti di neve fredda sciolta in
un caffè freddo prendi le misure di quella piccola stanza chiusa in un campus
senza ricordi, mentre tre nazioni più giù Jean-Luc si dondola come un altalena
arrugginita, come il caffè che sale dalla moka di cui odiavi l’odore, come
l’ultima sera prima di partire, quando giocavi a essere felice e ridevi con le
lacrime agli occhi.
L’ultima notte insieme non si dorme mai, lo sanno tutti, l’hai passata stretta a
Jean- Luc come un gattino infreddolito e poi, quant’è vero, l’ultimo giorno di
felicità pesa come l’ultima notte dei pianti.
Cara Sophie, che guardavi Jean-Luc e gli chiedevi “Ma tu, quando torno, mi
sposeresti?”
Perché tu, Sophie, il futuro lo vedevi solo con lui.
Questo è l’istante della storia in cui si racconta la crisi di una storia finita
senza ragioni, quando si intrecciano i ricordi di un inverno durato cinque mesi
in attesa di vedere qualcuno che era parte di te, Jean-Luc, qualcuno che era parte
di te, Sophie.
Ma guarda un po' se una persona deve stare male per un Erasmus. Dove sei?
Dentro un luogo comune, Jean-Luc? Sei dentro a ciò che tutti chiamano
l’inevitabile?
Più ci pensi e più te ne accorgi, vecchio mio, voi siete diversi, forse è per questo
che ci stai così male. Credere di essere diversi porta solo guai.
“Perché non ci lasciamo come fanno tutti?”
“No, noi non ci lasciamo” pensa Sophie, perché lei crede ancora in ciò che sta
costruendo ed è soltanto Jean-Luc ad avere paura, è lui che la guarda partire
sapendo già che la sta perdendo.
Conoscere la propria morte in anticipo non è bello come credevi, vero Jean-
Luc?
Questa è la storia di come è finita una storia, di quando Jean-Luc e Sophie
hanno deciso che il loro tempo era finito; di quando, senza motivo, qualcosa è
rotolato via.
Ci pensi mai a quello che sei diventato? Ci pensi mai? Guardati allo specchio,
Jean- Luc, hai gli occhi scuri come fondi di caffè, torbidi come un segreto.
Occhi che nascondono cose che hai negato anche a te stesso, Jean-Luc, e capita
troppo spesso che ti svegli nel cuore della notte e pensi che forse potrebbe anche
andar peggio, forse, potrebbe anche andar meglio.
A volte ti sale la sensazione del potevo fare di più, scacciare le paure,
prendere un aereo e volare da lei.
Sarebbe servito a qualcosa?
Questa è la storia di quel che è successo quel giorno, quando Sophie è partita
e tu no, Jean-Luc, hai aspettato cinque mesi con un dolore dentro che era duro
come il ghiaccio. Quel dolore, dentro, era buio come la notte, amaro come il
caffè.
“Non piangere” dice Sophie “perché se piangi comincio piangere anch’io,
mentre voglio tenere le lacrime per quando torno, per quando saremo di nuovo
felici, insieme”.
A Sophie piacciono le persone vere, vere come le lacrime che Jean-Luc non
riesce più a trattenere.
Cristo, un po’ di dignità...
Fanculo la dignità, piccola Sophie, questo è il momento dello sfogo. Questo,
lo sai bene, è il momento dell'addio.
Quando Jean-Luc si volta indietro l'ultima volta, prima che parta quel
maledetto aereo, in mezzo al blu del cielo splende ancora il sole e Sophie
sorride di un sorriso piccolo e triste, un sorriso che sembra dire “Vorrei stare per
sempre con te, Jean-Luc, però non si può”. Perché lassù, nell'inverno svedese, fa
uno di quei freddi che neanche te lo immagini, neanche lo sai che freddo farà
lassù tra poco. E il cellulare non funziona, internet va a singhiozzo e poi dimmi
la verità, Jean-Luc, nei cinque mesi senza vedervi, come pensi di sopravvivere?
Sophie studierà l'inglese e mangerà all’Ikea e tu ti trascinerai per la città
come un cane randagio. Passerai la notte a rileggere ogni suo sms sapendo di
farti solo del male. Ti colpirai con una forza tale da smettere di respirare e
cercherai una scusa per rotolare via, una costruzione mentale in cui Sophie ti
tradisce con il primo che passa e magari, speri per lei, non si sentirà nemmeno
in colpa.
Un gesto da vero signore, complimenti vivissimi. Un codardo non avrebbe
sospirato un piano migliore: sperare di essere tradito per voltare pagina in fretta.
Facile.
Forse troppo.
Ma per fortuna, o sfortuna, Jean-Luc sa che tutto ciò non accadrà mai, perché
Sophie è tutto ciò che lui ha sempre pensato di lei e di certo non cambierà per
cinque mesi di studio in Svezia.
Devi aspettare, Jean-Luc, aspettare il sole e sentire il duro della corteccia e
l’amaro della liquirizia, uscire la sera per ubriacarti come un cane e renderti
conto che non hai più un posto dove stare e dei piedi freddi da scaldare.
Guarda come è buia la notte, Jean-Luc, scura come i capelli della ragazza che
hai appena conosciuto, nera come il vino che hai buttato giù per stordire i
chilometri che ti separano dalla tua Sophie. Mi raccomando, però, non fare
l'idiota, hai aspettato talmente tanto, vecchio mio, che se scivoli adesso non ti
rialzi più.
E ti ritrovi a pensare a questa cosa, stasera, di fronte a una ragazza che
aspetta solo di essere baciata quando tu, ne hai la certezza, non lo farai mai. Ti
accorgi che hai perso qualcosa in questi mesi, ti accorgi che ci sono cose, dentro
di noi, che nonostante non si vedano si riescono comunque a perdere e spesso, il
più delle volte, non si ritrovano più. Come il sonno che hai perso pensando a
Sophie, come il tempo che non ti sei preso per chiamarla, come quella cosa che
era tutto per voi e ora non è più niente.
Forse dovresti fermarti a riflettere e cercare un nuovo lavoro, smettere di
rileggere ogni suo messaggio e decidere che in fondo, se questa è la vita, devi
voltare pagina.
La verità è che ci sono domande che è meglio non porsi. Perché se ti guardi
indietro, Jean-Luc, ti accorgi che hai cancellato il sentiero e ti sei perso in una
città in cui vince sempre l’inverno e anche se dicono che sorgerà il sole, finisce
che il sole non sorge, finisce che non ci credi più a questa storia del sole.
Esistono dei posti, d‘inverno, dove il sole non sorge mai. Posti dove il caffè è
talmente scuro che mette paura, Jean-Luc, dove lo zucchero si trova solo nelle
caramelle che diventano una droga, diventano un sostituito.
Compensazione.
Ecco ciò che stai cercando inutilmente, dimenticare un luogo dove il tempo è
fatto di pezzi di vetro che tua nonna spazzava dalla cucina quando eri bambino.
“Se passi la scopa sui piedi” diceva “poi succede che non ti sposi!”.
E non incrociare gli occhi e non bere così in fretta, che ti fa male. Tira su
quelle spalle che mi sembri un ombrellino chiuso e non correre con le forbici in
mano e non mangiare le unghie, mi raccomando. Le dita nel naso, poi, lo fanno
solo i porcellini. E non giocare vicino al pozzo perché in fondo al pozzo, lo sai
bene, c'è la strega cattiva che se ti prende ti mangia. Ti mangia come l'ostia del
prete quando facevi la Comunione in parrocchia il sabato pomeriggio, e se vai
male a scuola finisce che Gesù lo scopre e si mette a piangere.
Lo sai, vero, che Gesù piange se racconti le bugie?
“Sì, nonna, lo so” pensa Jean-Luc “grazie per i tuoi consigli, ti voglio bene
anche se non te l'ho mai detto e vorrei averlo detto al nonno, che gli volevo
bene, anche se ormai è tardi”.
Caro Jean-Luc, se vuoi bene a qualcuno devi dirglielo sempre, se necessario
anche dieci, cento, mille volte al giorno, perché nelle città dove il caffè è amaro
come il dolore, una parola in più può aprire mille sorrisi.
C'è chi ha detto che la felicità è vera soltanto se condivisa. Parole sante,
vecchio mio, però sappiamo tutti che fine hai fatto. E tu, Jean-Luc, che fine hai
fatto?
Hai fatto la fine che in fondo, detto tra noi, ora stai bene. Da quando Sophie è
tornata è tornato anche il sole, il caffè è di nuovo dolce come un tempo e
quando vi incrociate per strada capita di salutarvi come due vecchi amici, come
due persone che conoscono ognuno i difetti dell'altro. Ognuno di voi, Jean-Luc,
conosce tutto dell'altro.
Succede allora che aspetti un altra Sophie, una che passi il tempo con te a
fare le cose che ti piacciono di più, che ti porti a correre come si porta un cane
fedele, che si faccia offrire un caffè solo per il gusto di stare insieme, che ti
faccia sentire bene come in fondo sei sicuro di stare già.
Il tempo è così strano, va talmente veloce che sembra quasi primavera,
quando appena qualche mese fa, quando eri fermo a pensare, non passava mai.
Se pensi troppo a lungo, il tempo torna nero di un caffè nero che hai sempre
odiato,
Jean-Luc, a te il caffè piace dolce, e quel gusto amaro puoi lasciarlo anche
dentro di te a ricordarti che un sorriso può anche essere triste, se ci pensi,
quando fuori tira un vento che potrebbe quasi nevicare.
Prima del sole c’erano cinque tipi di neve Jean-Luc, lo sapevi? Dimmi, Jean-
Luc, lo sapevi?
Gianni Agostinelli
Il girocollo di lana
Il girocollo di lana, tirato sul ventre, aderente a una camicia dal colletto teso.
Forma rilassata, liberato su una sedia da pasto, nell’attesa di una nuova portata.
Con il sapore di ceci e olio nuovo ancora sul palato.
I commensali degli altri tavoli si domandano dove hanno sbagliato.
Quel che è era anche in corte braghe, anni addietro. Dove abbiamo sbagliato?
La sua pancia è cresciuta, molle, come la tua, amore. Dove hai sbagliato?
Il suo tavolo è il più vicino al podio. Sua moglie è identica alla mia, per
costruzione. I suoi figli preadolescenti potrebbero essere simili ai miei,
avendone. Simili a tutti gli altri, vedo.
I suoi colpi di tosse, anche. Dove ho sbagliato?
Il folto pelo scuro lo assicura ormai da incipiente calvizie, come ho invece
subìto.
Le forme che prende il suo viso sono riconducibili a quelle di tutti. La
montatura dei suoi occhiali, anche. Sono storie normali, queste? Qualcuno ha
sbagliato? Io, forse?
Il suo eloquio è migliore del mio, allenato. Costruisce con avverbi, si eleva
con aggettivi, si produce in ringraziamenti.
Di questo, non sarei capace. Nemmeno con una preparazione mirata.
Non si arrossano le gote. Continua. Posiziona alla radice del naso con l’indice
destro i suoi occhiali ovali. Guarda avanti. Un cameriere, un pubblico,
l’estintore seminascosto all’ingresso. Vicino l’appendiabiti, colmo.
Termina. Altri gli succedono. Sua moglie lo accoglie nuovamente. Problemi
comuni, mal di testa, il sogno di un divano, di ciabatte, di togliersi il trucco.
Pantaloni che tirano, ancora una portata, i dolci, i saluti. Le strette di mano.
Quelle prenderanno tutto il tempo necessario. Sono molte le mani, stasera.
Avrà anche quella di mia moglie, con le sue unghie curate, la fede, l’anello di
fidanzamento. E mentre avrà quella mano riceverà le parole. Sentirà il mio
nome. Mio marito, se lo ricorda, sicuramente. Stessa scuola. La gita a Verona.
Vuole essere tra i primi, la prima, mia moglie, a stringere la mano.
Complimenti.
Lui dirà Ricordo. Lei non si accontenterà di Vedremo. Io mi avvicinerò, un
passo indietro. Facciamo questa settimana.
Non sarà possibile.
Allora la prossima.
Vediamo.
Mercoledì prossimo. Sarà un attacco, un accerchiamento. Pensa lei di essere
originale, se non diversa. Invece nulla. L’allenamento migliora la tecnica, rende
scaltri. Non ci si improvvisa quello che non si è.
L’illusione di una conquista la perderemo velocemente, di nuovo in strada,
come il tepore di quelle stanze.
Giuseppe Gottardi nato a Rovereto nel 1951, dopo la maturità scientifica
nell’aulico Liceo Antonio Rosmini si laurea in Medicina e Chirurgia
all’Università di Padova. Esercita attualmente come medico di famiglia,
odontoiatra e CTU medico-legale c/o il Tribunale Civile e Penale di Rovereto.
Appassionato di Storia e Letteratura ha scritto alcuni romanzi e saggi storici.
Collabora alla rivista de IL FURORE dei LIBRI e cura il Giornale di Medicina
Legale sul sito www.ilportaledelctu.it
Simone Tempia è nato in provincia di Vercelli nel 1983. Scrive e ha scritto di
musica per alcune riviste con le pagine patinate e per i rispettivi siti web. Ha
scritto e scrive per il miglior sito di cinema dell’universo: i 400 calci. Ha fatto lo
stagista a dISPENSER in tempi non sospetti. Ha suonato in un complessino
jazz. Ha smesso di fumare. E scrive racconti.
Giovanni Vannozzi è giornalista. Ha pubblicato il suo romanzo d’esordio
Basta, smetto nel 2010 (ETS Edizioni). Attualmente collabora come addetto alla
comunicazione con un’azienda e allo stesso tempo svolge attività giornalistica
con alcune riviste e periodici toscani.
Beppe Vergara è nato a Trieste nel 1964.
Lavora presso la cooperativa Duemilauno Agenzia Sociale con funzioni
amministrative.
Nel 2007 ha pubblicato online il suo primo racconto sul sito del romanzo
"Manituana" di Wu Ming.
Nel 2009 ha pubblicato la raccolta di racconti Rockshort che in seguito è
diventata anche un e-book gratuito con oltre mille download.
Nel 2013 una sua breve piéce di teatro a leggio, intitolata "Il pellicano" è stata
rappresentata nell'ambito del Festival delle diversità a Trieste.
Michele Orti Manara è nato a Verona circa 35 anni fa e vive a Milano.
Legge sempre, scrive ogni tanto.
Coltiva nepente, e un blog che si chiama nepente.
Antonio Fanelli nasce a Bari nel 1972. Da quando, a dieci anni, lo zio Mimmo
gli permette di smanettare con il Commodore 64, capisce che da grande farà il
programmatore. Infatti dopo la laurea si trova un lavoro come programmatore
internet. In realtà si tratta solo di una copertura che gli permette di dedicarsi alla
sua vera passione nascosta: la pirateria informatica. Quando comincia a perdere
colpi decide però di farla finita e di dedicarsi a hobby più tranquilli, come
quello di scrivere articoli tecnici per una rivista di sicurezza informatica. Ma
dopo un po' si annoia, per cui comincia a maturare in lui l'idea di dare sfogo in
ambito letterario alle sue pulsioni piratesche. Il mondo di Lulz è il suo romanzo
d'esordio.
Francesco Satanassi
Birra, scrittura e caramelle gommose. Ma fondamentalmente tutto si riduce al
fatto che mi piacciono i Clash e non sopporto i Queen.
francescosatanassi.tumblr.com è il mio blog.
Gianni Agostinelli è nato a Perugia nel 1978. Lavora in una libreria e collabora
con Il Messaggero. Alcuni suoi racconti sono usciti su Nazione Indiana, ‘tina,
Granta, Doppiozero, Atti Impuri, Nuova Prosa e sono stati poi raccolti nell’e-
book La fine dei nostri problemi (Zibaldoni editore).