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DOMENICA 19 SETTEMBRE 2010 / Numero 293 D omenica La di Repubblica Sangue le tendenze Gaga style, lady del momento DOMENICO DOLCE, STEFANO GABBANA e SERENA TIBALDI l’incontro Filippo Timi, imperfezioni perfette IRENE MARIA SCALISE l’attualità Presidenti nel pallone e capitani ribelli MAURIZIO CROSETTI e GIANNI MURA in cui non si era compiuto. Come nel 1973, quando fu colpita da un’e- pidemia di colera e come nel 1980, quando la città e l’intera regione furono devastate dal terremoto. «San Genna’ si’ ’nu chiavico, San Gennà si’ ’nu santo malamente». A quelle donne che si considerano discendenti del santo — le «parenti» — è consentito provocarlo; e mi ricordo che appena il sangue iniziò a sciogliersi, le stesse che sino a un momento prima l’avevano insultato, iniziarono a pregare e fe- steggiare e ringraziare. Per capire il rapporto tra San Gennaro e Napoli bisogna come la- sciarsi andare, non farsi troppo condizionare da categorie scientifi- che o antropologiche e auscultare il battito di questa strana magia culturale. Il miracolo rimane il trionfo del mistero, dell’eccezionale. Perciò è difficile circoscrivere con qualsiasi spiegazione razionale co- sa sia il culto di San Gennaro. (segue nelle pagine successive) con un articolo di MARINO NIOLA ROBERTO SAVIANO «F accia gialluta! Ma che stai arrabbiato? Nun fa o’ fess’ San Genna’, ti vott’ a copp’ a bascie». Quel che mi aveva sconvolto la prima volta che fui portato — un 19 settembre — ad assistere allo scioglimento del sangue furono gli insulti. De- cine e decine di donne imprecavano contro il santo per provocarlo e spingerlo a fare il suo dovere. Mi sembravano tutte vecchissime, ma le loro voci flebili durante la preghiera, diven- tavano improvvisamente acute se il sangue non si scioglieva e il ve- scovo girava e rigirava inutilmente l’ampolla. È così, sempre. Più il mi- racolo ritarda, più la tensione nel Duomo di Napoli cresce, più il co- ro di lamenti e imprecazioni si fa disordinato, assordante, sboccato. Ero un bambino e mai avrei creduto si potessero pronunciare tan- ti insulti in una chiesa. Ma il miracolo non arrivava e tra la folla già si iniziavano ad elencare le sciagure che Napoli aveva subito negli anni cultura La guerra giusta del soldato Švejk PAOLO MAURI spettacoli Bossa nuova, la versione di Toquinho GINO CASTALDO e ALFREDO D’AGNESE santo del il © RIPRODUZIONE RISERVATA Le grida, gli insulti, la festa Il racconto del “miracolo” che ogni 19 settembre scuote il ventre di Napoli FOTO CONTROLUCE Repubblica Nazionale

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DOMENICA 19 SETTEMBRE 2010 / Numero 293

DomenicaLa

di Repubblica

Sangue

le tendenze

Gaga style, lady del momentoDOMENICO DOLCE, STEFANO GABBANA e SERENA TIBALDI

l’incontro

Filippo Timi, imperfezioni perfetteIRENE MARIA SCALISE

l’attualità

Presidenti nel pallone e capitani ribelliMAURIZIO CROSETTI e GIANNI MURA

in cui non si era compiuto. Come nel 1973, quando fu colpita da un’e-pidemia di colera e come nel 1980, quando la città e l’intera regionefurono devastate dal terremoto. «San Genna’ si’ ’nu chiavico, SanGennà si’ ’nu santo malamente». A quelle donne che si consideranodiscendenti del santo — le «parenti» — è consentito provocarlo; e miricordo che appena il sangue iniziò a sciogliersi, le stesse che sino aun momento prima l’avevano insultato, iniziarono a pregare e fe-steggiare e ringraziare.

Per capire il rapporto tra San Gennaro e Napoli bisogna come la-sciarsi andare, non farsi troppo condizionare da categorie scientifi-che o antropologiche e auscultare il battito di questa strana magiaculturale. Il miracolo rimane il trionfo del mistero, dell’eccezionale.Perciò è difficile circoscrivere con qualsiasi spiegazione razionale co-sa sia il culto di San Gennaro.

(segue nelle pagine successive)con un articolo di MARINO NIOLA

ROBERTO SAVIANO

«Faccia gialluta! Ma che stai arrabbiato? Nun fao’ fess’ San Genna’, ti vott’ a copp’ a bascie». Quelche mi aveva sconvolto la prima volta che fuiportato — un 19 settembre — ad assistere alloscioglimento del sangue furono gli insulti. De-cine e decine di donne imprecavano contro il

santo per provocarlo e spingerlo a fare il suo dovere. Mi sembravanotutte vecchissime, ma le loro voci flebili durante la preghiera, diven-tavano improvvisamente acute se il sangue non si scioglieva e il ve-scovo girava e rigirava inutilmente l’ampolla. È così, sempre. Più il mi-racolo ritarda, più la tensione nel Duomo di Napoli cresce, più il co-ro di lamenti e imprecazioni si fa disordinato, assordante, sboccato.

Ero un bambino e mai avrei creduto si potessero pronunciare tan-ti insulti in una chiesa. Ma il miracolo non arrivava e tra la folla già siiniziavano ad elencare le sciagure che Napoli aveva subito negli anni

cultura

La guerra giusta del soldato ŠvejkPAOLO MAURI

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Bossa nuova, la versione di ToquinhoGINO CASTALDO e ALFREDO D’AGNESE

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34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 SETTEMBRE 2010

(segue dalla copertina)

Inapoletani vedono nel miracoloquell’accadimento unico cheperò si ripete da secoli, ogni an-no, sempre uguale e sempre nel-lo stesso giorno, a significare l’ec-cezionale oltre le abitudini quo-

tidiane. E questo accadimento squarciacon tutta la sua forza l’opacità della vita.In una città disperata, dove spesso la vo-lontà e l’individuo vengono schiacciatidall’impossibilità all’azione, il Santo è lasperanza, la sciorta, la certezza che pri-ma o poi qualcuno interverrà con unaforza superiore e qualcosa andrà bene.Sulla relazione tra il miracolo mancato ele disgrazie esiste persino uno studioscientifico — o quasi — risalente al 1924.Il miracolo di S. Gennaro di GiovanniBattista Alfano e Antonio Amitrano ri-porta che negli anni in cui non si è com-piuto, Napoli sarebbe stata colpita da 22epidemie, 11 rivoluzioni, 3 siccità, 1 in-vasione dei turchi, 13 morti di arcive-scovi, 3 persecuzioni religiose, 7 pioggedisastrose, 9 morti di pontefici, 11 eru-zioni del Vesuvio, 19 terremoti, 3 care-stie, 4 guerre. Per i non credenti, natu-

ralmente, esiste una spiegazione razio-nale. La rivista Nature riporta i risultatiottenuti da un’équipe di ricercatori cheha riprodotto in laboratorio la composi-zione del sangue del santo, utilizzandosolo materie reperibili nel Trecento: gu-sci d’uovo, sale da cucina e carbonato diferro. Lo scioglimento avviene agitandoil composto coagulato, per un fenome-no conosciuto col nome scientifico ditissotropia. Resta però il problema chein genere tale composto dopo qualcheanno scade. L’unica risposta potrebbevenire analizzando il liquido contenutonelle ampolle, ma la Chiesa non accon-sente al prelievo che potrebbe arrecaredanno al liquido.

Proprio la Chiesa, però, per anni è sta-ta dubbiosa sul miracolo. Durante ilConcilio Vaticano II, decise persino didepennare San Gennaro dal calendario.Ma si scontrò con la comunità napole-tana pronta alle barricate se il suo santonon avesse riavuto il posto che gli spet-tava. Così la Chiesa dovette tornare suisuoi passi, degradandolo — in pochi losanno — al rango di santo locale. Maquesto poco cambia per i napoletani.Norman Lewis in quel capolavoro che èNapoli ’44(Adelphi) scrive: «Da quattor-dici secoli, a partire dal giorno del suo

martirio a Pozzuoli, san Gennaro limitala sua attività miracolosa a Napoli, e si èconvinti che non alzerebbe un dito persalvare il resto del mondo dalla distru-zione». San Gennaro, come scrivevaMatilde Serao, «è un amico del cielo» enon ha quasi nulla dei santi cui la tradi-zione cristiana ci ha abituati. San Gen-naro è colui a cui può essere richiestodavvero qualsiasi cosa. Che un furto va-da a buon fine, o che la pastiera vengabuona. Gli viene chiesto di guarire o diavere un figlio (anche se per ottenerequesto miracolo i napoletani si rivolgo-no spesso anche a Santa Maria France-sca), di fermare la lava, di pulire le stra-de dalla peste e dal colera ma anche diindovinare i numeri al lotto. Invocarlonon è una risorsa estrema cui si ricorresolo per le questioni più importanti,perché San Gennaro accoglie tutto esente tutti. E soprattutto non giudica.Sta a sentire e provvede. Non impone aisuoi devoti una rigida osservanza prati-ca. È un santo capriccioso che proteggela città e i suoi abitanti, non in quantobuoni cristiani o fedeli meritevoli ma inquanto napoletani e basta. E poi ce l’haa morte col resto della regione che lo hatradito, lo ha ucciso. San Gennaro erastato decapitato il 19 settembre del 305

a Pozzuoli. Il racconto narra che subitodopo la decapitazione una devota di no-me Eusebia raccolse il sangue del marti-re e lo conservò in due ampolle. Le spo-glie di San Gennaro furono rubate daibeneventani nel 315, perché i sanniti loritenevano loro concittadino essendostato vescovo di Benevento, e solo nel1497 tornarono a Napoli. Il primo mira-colo del quale si ha notizia avvenne nel1389; nel 1631, quando le ampolle con lareliquia furono esposte mentre era incorso un’eruzione del Vesuvio, la lava siarrestò al Ponte dei Granili senza entra-re in città. Norman Lewis, ufficiale bri-tannico di stanza nel sud Italia, descriveil comportamento degli abitanti di SanSebastiano, piccolo comune ai piedi delVesuvio, che per fermare la lava utilizza-vano l’effigie del loro santo patrono. Madi riserva e ben nascosto sotto un len-zuolo — perché San Sebastiano non sioffendesse — conservavano anche unastatua di San Gennaro, l’asso nella ma-nica che avrebbero sfoderato solo in ca-so di pericolo estremo perché chiederela grazia al santo fuori le mura di Napoliè sempre un rischio, data la sua atavicaavversione per la provincia.

Uno dei racconti più belli sul santo ela città l’ha scritto Matilde Serao nel pic-

colo capolavoro San Gennaro nella leg-genda e nella vita(Palomar). Ricorda cheNapoli ha 50 patroni, visto che per unacittà così grande e difficile ci voglionomolti santi. Un patrono per ogni tipo didisgrazie. Ma è solo San Gennaro a rice-vere tutte le richieste, tutti i ringrazia-menti e tutti i doni. I doni che nobili, bor-ghesi e popolani hanno portato e conti-nuano a offrirgli hanno creato un tesorofamoso in tutto il mondo. È nel tesoro diSan Gennaro che c’è quello che vieneconsiderato un artefatto dal valore ine-stimabile: la mitra, il copricapo vescovi-le creato da un orafo del Settecento con3700 rubini, smeraldi e diamanti inca-stonati, per la cui realizzazione furonoraccolti ventimila ducati fra il popolo, ilclero, gli artigiani, i nobili e il sovrano.Ma il pezzo più pregiato è la collana diSan Gennaro, probabilmente il gioiellopiù prezioso al mondo. Una collana congrosse maglie in oro massiccio alla qua-le sono appese croci tempestate di zaffi-ri, diamanti e smeraldi donate da Carlodi Borbone, dai principi di Sassonia, daMaria Carolina d’Austria, da GiuseppeBonaparte, da Vittorio Emanuele II diSavoia. Persino il fratello di Napoleonenon poteva fare a meno di rendereomaggio alla città attraverso il dono al

Il mio San GennaroROBERTO SAVIANO

IL CARRO. I portantini del carro con la statua di San Gennaro L’OSTENSIONE. Fedeli davanti alla sacra ampolla in Duomo

I FEDELI. L’emozione di uno dei fedeli di fronte allo scioglimento del sangue L’ATTO. Un fedele posa la fronte sulla teca in segno di devozione

Dopo secoli, anche oggi, come ogni 19 settembre,il patrono di Napoli è chiamato a compiere il miracoloI fedeli in Duomo lo incitano: il sangue si scioglierà?

la copertina

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 19 SETTEMBRE 2010

suo santo. A Napoli anche le piante cheornano gli ingressi degli alberghi o deinegozi di lusso devono essere incatena-te e chiuse con lucchetti enormi per evi-tare furti, eppure il tesoro di San Genna-ro non è mai stato toccato. Il furto del te-soro non andò a segno nemmeno inOperazione San Gennaro divertentissi-mo film di Dino Risi, in cui il Dudù (Ni-no Manfredi) avrebbe dovuto, in com-butta con una banda di americani e suindicazioni di Totò, rubare il tesoro.Dudù, chiede il permesso al santo, pri-ma di accettare con gli americani di ru-bare il tesoro e scorge in un raggio di so-le che illumina la statua del santo, il suoassenso. Durante la guerra affidaronol’oro al vaticano. La città era continua-mente sotto bombardamento. Il 4 apri-le 1943 una bomba aveva colpito il Duo-mo. Finita la guerra, i napoletani chiese-ro di riavere il tesoro. Ma era impossibi-le trasportare un carico di preziosi dalvalore stimato all’epoca in tre miliardi dilire, attraverso strade distrutte, infesta-te di malviventi, senza poter contare supoliziotti o carabinieri, perché non ce neerano abbastanza. Si offrì Giuseppe Na-varra, piccolo camorrista ex palombarodal fisico massiccio, chiamato «il re diPoggioreale», che si era arricchito traffi-

cando prima a Marsiglia e poi a Napoli,dove girava con una Alfa 2880 apparte-nuta a Mussolini. Navarra partì per Ro-ma accompagnato solo dal novantenneprincipe Stefano Colonna di Paliano, vi-cepresidente della Deputazione di SanGennaro. Al ritorno li bloccò prima unapiena del Garigliano e poi due malin-tenzionati. Ma Navarra riuscì nell’im-presa e rifiutò la ricompensa offertaglidal cardinale: «Mi basta l’onore di averreso un servizio a San Gennaro e a voi, ildenaro datelo ai poveri».

La festa di San Gennaro è quel miste-ro dentro cui c’è Napoli. Una terra che siliquefa e si ricoagula, che ha una consi-stenza indefinibile, mai certa, solida. Eche pure gronda di vita vera, contagiosa.Più cade nell’abisso senza regole, cru-dele, più sembra in grado di rinnovarsi.San Gennaro c’è anche se non lo meriti.Non devi conquistarlo. Sei amato e for-se aiutato. Il mistero di San Gennaro ètutto qui. In questa incredibile ambi-guità. Nella disperazione di una cittàdalla vita così dura, così caotica, che de-ve rivolgersi ad un santo per immagina-re di trovare una regola.

© 2010 Roberto Saviano/Agenzia Santachiara

© RIPRODUZIONE RISERVATA

LA PROCESSIONE. La statua di San Gennaro portata in processione per le strade di Napoli

IL RITO. L’Arcivescovo di Napoli, Crescenzio Sepe, mostra la teca con il sangue liquefatto

L’autore di “Gomorra” ricorda il suo stupore di bambinoE racconta: “In una città disperata questa magia è l’unica

speranza. Per capirla bisogna ascoltarne il battito”

Ethos e pathoscodici di una modernità liquida

MARINO NIOLA

Urbs sanguinum, la città dei sangui. Così veni-va chiamata Napoli nell’Europa del Seicentograzie al suo iperbolico catalogo di ampolle

e fiale contenenti il sangue di santi e martiri di cuiSan Gennaro era il modello, tanto imitato quantoinimitabile. Erano più di trecento le liquefazioniprodigiose. San Giovanni Battista, Santo Stefano,San Lorenzo, San Pantaleone, Sant’Andrea Avelli-no. Per finire in bellezza con Santa Patrizia, la metàfemminile del cuore di Napoli, il cui sangue si scio-glie ancora oggi ogni settimana nella chiesa di SanGregorio Armeno. Una autentica lista di effetti spe-ciali. Che non si limitava al sangue. Se è vero che il 14agosto, vigilia dell’Assunta, alcune gocce del lattedella Madonna conservate nella chiesa di San Luigidei Minimi si scioglievano prodigiosamente.

Alla base di queste credenze c’è un intreccio se-colare tra cristianesimo e paganesimo, tra il simbo-lismo della passione di Cristo e la potenza delle lin-fe vitali presente già nelle antiche religioni mediter-ranee. Sta di fatto che il sangue, insieme alle lacrime,è da sempre il grande codice dell’ethos e del pathospartenopei.

Sono almeno quattro secoli che i migliori spiritid’Europa, da Berkeley a Montesquieu a Nietszche,si interrogano sull’enigma del sangue che rivive.Charles de Brosses definì il miracolo un graziosissi-mo, quanto astuto, esperimento di chimica. Goethelo interpretò come un esorcismo collettivo contro la

morte. E a tutt’oggi il fenomeno resta inspiegato.San Gennaro è il vero Dio di Napoli, diceva Ales-

sandro Dumas. Con un’esagerazione che coglieperò una profonda verità. Perché il santo patrono èda sempre l’idolo supremo del pantheon napoleta-no, un autentico Maradona della devozione. Ma èanche uno straordinario logo identitario, un emble-ma civico a metà fra religione e politica. Al punto chele ampolle con il sangue miracoloso sono tuttora af-fidate a una deputazione laica, nominata dal presi-dente della Repubblica e guidata dal sindaco.

Proprio perché il santo rappresenta la città inte-ra, la vox populiha sempre letto il miracolo come unavvertimento soprannaturale. Da interpretare allastregua di un antico oracolo. Se non si scioglie è cat-tivo segno. Se si scioglie San Gennaro ha detto sì. Fi-nendo per fare del santo uno spione di Dio, come di-cevano con un certo disprezzo gli illuministi parte-nopei. Spione forse è una parola grossa, ma certa-mente il dio di Napoli è un sismografo degli umoricollettivi. Il protagonista di un grande gioco socialeche unisce credenti e non.

E adesso grazie all’applicazione i-sangennaro ilmiracolo ciascuno se lo fa sull’i-phone. Muovendoil telefono il volume delle litanie aumenta, i cristallisi sciolgono e compare la scritta miracle. Così la li-quefazione diventa liquida, proprio come la mo-dernità.

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assione e vanità, competenza e furore, denaro e tecnica, ragione e senti-mento. E numeri. È il presidente del pallone. Non più un “ricco scemo”, co-me nel lontano calcio dei nababbi, di certo non più scemo e neanche più tan-to ricco. C’è chi si è rovinato, per quella poltrona imbottita (anche di chiodi)in tribuna centrale. E poi si è capovolto un mondo. Giocatori che minaccia-no sciopero neanche fossero tornitori o assistenti di volo, sponsor che scap-pano (58 milioni di euro investiti per questo campionato, appena un annofa erano 75), tifosi che s’arrabbiano (per la tessera che vorrebbe schedarli) eche non s’abbonano più (meno venti per cento complessivo), un mercatomeno obeso (200 milioni di euro di scambi, l’anno scorso erano stati 464),un Everest di debiti (due miliardi di euro per la sola serie A), stadi decrepiti eniente legge per diventarne padroni (il provvedimento è fermo alla Camerada due anni). Solo una risorsa sicura, finché dura, i diritti televisivi: 930 mi-lioni di euro per questo campionato, 965 per il prossimo. E dopo?

Il presidente può incarnarsi in svariate figure. Ci sono il magnate, il ty-coon, il petroliere, insomma i miliardari vecchio stile. I volti noti e le facce ar-rivate ieri. Ne abbiamo scelti due: un’icona, Maurizio Zamparini, Palermo,e una novità, Igor Campedelli, Cesena. Due modi, e due mondi.

Passa per un cannibale di allenatori, per un Hannibal Lecter dello spo-gliatoio, perché in carriera ne ha spolpati 28, però Maurizio Zamparini èmolto di più e molto meglio. Sessantanove anni, cinque figli, 3.500 dipen-denti, costruttore di ipermercati, presidente prima di Pordenone e Venezia,ora del Palermo (dal 2002: 12 allenatori in 8 anni), e stava per comprarsi il Ge-noa. Friulano di Sevegliano, 1269 anime in provincia di Udine, uffici a Ver-giate, Varese, dove Zamparini va una volta a settimana col jet privato. Co-manda come un faraone, lo dicono sensibile e magnetico, facile alla com-bustione e sensitivo. Vede prima, e più in là degli altri. Prende giocatori qua-si sconosciuti e li rivende campioni: Toni, Cavani, Barzagli, Zaccardo, Kjaer,Amauri. Il prossimo sarà “El Flaco”, al secolo Javier Pastore, 21 anni. E poi ilnuovo stadio trasparente allo Zen, e lo “Zampacenter”, il centro commer-ciale che sorgerà a Fondo Raffo, Palermo, con quel nome da Ufo Robot.

Maurizio Zamparini, chi è il presidente di calcio?«Un personaggio che si è trovato preso in mezzo, però gli piace da matti.

È ambizioso, ama apparire. Un godimento che si paga carissimo, perchéquesto mestiere costa soldi e se non stai attento ti manda sul lastrico: bastauna retrocessione. Io ho messo sul tavolo 90 milioni di euro per prendere ilPalermo e, dopo, neanche un centesimo, perché ci autofinanziamo. Il no-stro bilancio 2009 è stato definito il migliore della serie A. I grandi club han-no i soldi, ma a volte i ricchi sono flaccidi, non possiedono arguzia e fanta-sia. Io, modestamente, sì. Mi ritengo tra i pochi che capiscono davvero di cal-cio: come me Cellino, Pozzo, Luca Campedelli e mica tanti altri. I giocatori liscelgo dopo averli visti in cassetta. Quando mi hanno mostrato Pastore, hoordinato: salite sul primo aereo, e se tornate senza di lui vi licenzio. La svol-ta per il calcio in crisi saranno gli stadi di proprietà, se il Parlamento si deci-

de a varare una legge che conviene a tutti. Non voglio poliziotti in curva e gab-bie per tifosi, non sono rottweiler ma persone, e se i miei ultrà fanno dannine risponderò io. Il meridione è la parte migliore d’Italia, qui investirò sem-pre di più. Lo sciopero dei giocatori? Devono vergognarsi dei loro stipendi,e la colpa è anche nostra: troppo potere ad atleti e procuratori. È folle consi-derarli lavoratori dipendenti, sono autonomi a tutti gli effetti. Io folcloristi-co? Scemenze, non mi infurio mai. Vedo le cose, capisco di calcio e decido».

Igor Campedelli ha 36 anni, tre figli, ed è presidente del Cesena dal 2007.Ha appena battuto il Milan sborsando 8,3 milioni di stipendi per tutta la suasquadra, meno della paga annuale di Ibrahimovic. Imprenditore immobi-liare («Medio, niente di più») ed ex calciatore, ha scelto giocatori di 17 na-zionalità diverse («Metto il becco e so farlo, sono cresciuto a pane e pallo-ne»). Chi guadagna di più, prende 350 mila euro lordi all’anno (Jimenez),mentre la media della serie A è 900 mila. Nomi come Schelotto e Giaccheri-ni sono già futuro. Igor Campedelli (non parente di Luca, presidente delChievo miracoloso) ha inventato il calciatore a cottimo (incassi se vinci), haappena risistemato lo stadio “Manuzzi” (23.900 posti) e gli abbonati conti-nuano a salire, come se Cesena non fosse in Italia.

Igor Campedelli, chi è il presidente di calcio?«Una persona con un progetto sportivo chiaro e con un imperativo asso-

luto: far tornare i conti. È un capo d’azienda: qui lavorano cento persone, piùundici in campo. Quando sento dire che il calcio è un giocattolo, vado in be-stia. Sono partito da Savignano sul Rubicone, mi occupavo del settore gio-vanile della Savignanese. Mio fratello Nicola giocava nel Cesena, si ruppe unpiede e chiuse la carriera in tre minuti, perché il calcio sa essere crudele, ol-tre che magnifico. Qui i giocatori hanno capito che la base dello stipendionon dev’essere alta, però la cifra cresce con i risultati: il rischio d’impresa selo accollano anche loro. Siccome a Cesena si vive bene, c’è chi ha deciso diguadagnare un po’ meno. Ho preso la società mentre stava retrocedendonella vecchia C, e con tanta fatica l’abbiamo rianimata e portata fin qui. Oraalziamo l’asticella. Un presidente deve anche saper dire no, altrimenti si ro-vina. Massimo rispetto per grandi club e fuoriclasse, però un altro modellodi calcio è possibile. Gli stadi di proprietà ci renderebbero meno schiavi del-le tivù. Lo sciopero? I privilegi restano troppi. Il nostro mondo sta cambian-do, esistono giovani procuratori preparatissimi, appena usciti dall’univer-sità, non solo i maneggioni vecchio stile. Anche tra i presidenti c’è movi-mento, e aria di cose nuove. Le mie parole chiave? Tre. Flessibilità, passionee lavoro. Lavorare mi piace tanto».

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 SETTEMBRE 2010

l’attualitàAutunni caldi

C’è il magnate, c’è il tycoon e c’è il petroliere. Ci sono i volti notie quelli appena arrivati. C’è chi lo fa per passione e chi per vanità,chi ci mette il denaro e chi la tecnica. Ma tipologie a parte,che cosa vuol dire far funzionare una società calcistica?All’ombra dello sciopero minacciato dai loro “ragazzi”, lo abbiamo chiesto a due patron molto diversi:Maurizio Zamparini (Palermo) e Igor Campedelli (Cesena)

Presidenteun mestierenel pallone

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MAURIZIO CROSETTI

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HERMANN BAUERGenoa (1898)Il primo scudetto

RENATO DALL’ARABologna (1934-64)Quattro scudetti

FERRUCCIO NOVOIl Grande Torino(1939-1953)

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 19 SETTEMBRE 2010

Anche i calciatori hanno fatto il SessantottoGIANNI MURA

Quel 3 luglio ’68 nel suo studio di via Fontana 22, a Mila-no, il notaio Barassi fa l’appello: Bulgarelli Giacomo(Bologna), Castano Ernesto (Juventus), Corelli Gianni

(Mantova), De Sisti Giancarlo (Fiorentina), Losi Giacomo (Ro-ma), Mazzola Alessandro (Inter), Mupo Carlo (Reggina), Rive-ra Gianni (Milan), Sereni Giorgio (Padova), più l’ex calciatore(Lanerossi Vicenza, Bologna) Sergio Campana. Assente giusti-ficato Eugenio Rizzolini (Parma). Sono 11, come una squadradi calcio, ed è nata l’Aic, il sindacato dei calciatori, subito defi-nito Sindacato Miliardari (come in questi giorni, 42 anni dopo).

Giacomino Losi, detto Core de Roma, aveva anticipato, inun’intervista dell’anno prima, problemi della categoria e iden-tikit del presidente: «Bisogna assicurare un avvenire a tutti, sia-mo degli sbandati. I miei compagni di squadra appena accen-no al sindacato dicono “bella roba” e girano le spalle. Ci vor-rebbe uno come Campana, che sa di calcio e di leggi». Di cal-cio, da attaccante, ha avuto per allenatore Scopigno che gli da-va del lei e gli diceva: «Domani stia sulla sinistra e faccia quelloche le pare». Ne aveva avuto un altro, Andreoli, che lo rimpro-verava vedendolo studiare sui testi universitari. «Non va bene,così fai soffrire la muscolatura». E quelli che stanno per ore agiocare a carte? ribatteva Campana. «Loro no, non sono inte-ressate le stesse fasce».

In breve la situazione è questa: un sindacato non lo vuole lamaggior parte dei calciatori e nemmeno lo vuole il Palazzo, chedetiene tutti i poteri grazie al vincolo. Non accetti il trasferi-mento? Hai chiuso col calcio. Ogni calciatore è solo a difende-re i suoi interessi, i procuratori ancora non esistono. L’unicasoluzione è coinvolgere i grossi nomi, che si fanno coinvolge-re volentieri. È nel ritiro della Nazionale che i capitani (quasitutti centrocampisti di gran talento) discutono, si parlano, but-tano giù bozze. L’ultima riunione, quasi tra carbonari, primadi andare dal notaio a Milano, è a Bologna, il 17 maggio.

Il calcio italiano è messo così: due anni dopo la fatal Coreavince l’unico Europeo della sua storia e tra due anni arriverà in

finale in Messico, dopo l’esaltante 4-3 alla Germania. Il ’68,chiedo a Campana, è una data casuale? «Forse sì ma per me no.C’erano fermenti nel nostro mondo, si cominciava a parlare didiritti, di libertà». Non molti sanno che c’è un precedente e ri-sale al 1945. L’idea è di Felice Borel II detto Farfallino, di Anni-bale Frossi detto il Dottor sottile e di Bruno Camolese, che gio-ca in A nel Vicenza, è laureato in Legge (come Frossi) e ha lo stu-dio a Bassano del Grappa, dov’è nato Campana. Nel ’50 questoabbozzo di sindacato si spegne lentamente, non essendo rico-nosciuto né dai calciatori né dal Palazzo. Ma tra Camolese eCampana si stabilirà un forte rapporto di stima e amicizia, e ilsindacato nato nel ’68 avrà più successo.

La prima battaglia vinta è quella contro la grande nemicadella categoria, la clausola del 40%. In breve: al calciatore chenon gioca almeno 20 partite su 30 in serie A e 24 su 38 in serie Bviene automaticamente tagliato il 40% dello stipendio. Nonimportano i motivi, sia infortunio o cattiva forma o insubordi-nazione. Curiosamente, molti si fermano, anche se in perfettasalute, a 19 partite in A e 23 in B, perché allenatori conniventicoi presidenti fanno loro risparmiare un bel mucchio di soldi.Nella primavera del ’69, l’Aic ha chiesto da tempo la cancella-zione retroattiva della clausola, la Lega ci sta ma a partire dallastagione successiva. I campioni si espongono in prima perso-na. Mazzola: «È importante abolirla perché tutti si rendanoconto che non siamo più a vent’anni fa». Rivera: «Abbiamo at-teso sette mesi, adesso siamo stanchi». E qui esce per la primavolta la parola sciopero, per l’11 maggio, penultima giornata diA. Il 10 maggio la Lega cede e accetta la cancellazione retroat-tiva. E poi cadrà il vincolo e ci saranno tante altre vittorie.

Oggi è tutto più difficile, i campioni ci mettono la faccia me-no volentieri, c’è meno solidarietà per le categorie più basse edesposte e la fantasia non è andata al potere nemmeno tra i ti-tolisti: Sindacato Miliardari. Che è pure una bella canzone diPaolo Conte, ma non parla di calcio.

LE PRIME RIUNIONINell’ aprile 1969 uno

dei primissimi consiglidirettivi dell’Aic,

in vista della commissioneparitetica della Lega CalcioDa sinistra in senso orario:

il presidente Campana,Bulgarelli, Rivera, Sereni,

De Sisti, Corelli, SandroMazzola e Mupo

tanto hanno investitogli sponsornel campionato in corso:nello scorso i milionidi euro investiti furono 75

58 milioni

è la montagna di debitiaccumulati nella solaserie A del campionatodalle varie societàcalcistiche

2 miliardi

unica nota positiva,i diritti tv: 930 milionidi euro per questocampionato, 965previsti per il prossimo

930 milioni

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EFISIO CORRIASCagliari (1968-71)Uno scudetto

DINO VIOLARoma (1979-91)Uno scudetto

GIAMPIERO BONIPERTIJuventus (1971-90)Nove scudetti

ANGELO MORATTIInter (1955-68)Tre scudetti

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Repubblica Nazionale

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“E così ci hanno ammazzato Ferdinando!”. È l’incipitdel capolavoro antimilitarista di Jaroslav Hašek, scrittotra gli anni della finis Austriae e il primo conflitto mondiale

Affresco leggero delle miserie umane, condanna della carneficina natada un assurdo, satira delle ipocrisie tutte patria e imperatore. Censurato in Italiadal fascismo, ora torna in libreria con le illustrazioni della versione originale

CULTURA*

Il bravo soldato Švejk, l’immortale creazio-ne di Jaroslav Hašek, attraversa due mo-menti estremamente significativi del No-vecento, la finis Austriae e la prima guerramondiale. Il tramonto di un impero, ormai,secondo gli anatemi del popolino, gover-

nato da un monarca imbecille e scimmiesco, inca-pace persino di gestire i propri bisogni corporali ela carneficina frutto di un conflitto gigantesco eper molti versi assurdo. Švejk viene a sapere del-l’attentato di Sarajevo dalla sua governante signo-ra Müllerová, mentre è intento a massaggiarsi le gi-nocchia. «E così ci hanno ammazzato Ferdinan-do!» è un incipit indimenticabile. Anche perchéŠvejk ne approfitta subito per dire che lui, di Fer-dinandi, ne conosceva due, il primo che faceva ilgarzone di un droghiere e il secondo che racco-glieva la cacca dei cani. E quando l’affittacamerechiarisce che si trattava dell’arciduca, quello gras-so e religioso, Švejk comincia a disquisire su tutto:la macchina, la pistola, gli attentati… Nella vicen-da resterà impigliato anche l’oste Palivec, figuracentrale nella narrativa hašekiana: diceva merda eculo ogni due parole, ma qui, di fronte a un agentedi nome Bretschneider che fa di tutto per fargli am-mettere qualcosa di compromettente, si perde peraver detto che le mosche avevano riempito l’effi-gie dell’imperatore di cacatine e dunque lui avevamesso il ritratto in soffitta. Palivec si beccherà do-dici anni di carcere, ma la cosa non sconvolge nélui né tutto sommato noi lettori: Hašek ci abitua dasubito ad accettare a cuor leggero le tragedie del-l’umanità e dei singoli. Non bisogna forse morireallegramente per l’imperatore e per la patria? Èquello che dirà Švejk a ogni piè sospinto: nessunoè un militarista più convinto di lui, nessuno è, co-me lui, pronto a esaltare il fatto che una carnefici-na di soldati seppelliti alla bell’e meglio in un cam-

po, invaso dal fetore della decomposizione, por-terà molti benefici ai futuri raccolti.

La faccia di Švejk e i suoi occhi celesti trasudanoinnocenza: nella lunga serie delle vicende che lovedono protagonista, spesso sull’orlo della fucila-zione o dell’impiccagione per equivoci vari, moltevolte ristretto agli arresti, sbattuto in manicomio,sospettato d’essere un simulatore o una spia rus-sa, Švejk sarà sempre lieto di servire l’esercito e isuoi superiori e mai rinuncerà alla formula di ritoin uso tra subalterni e ufficiali — «Faccio rispetto-samente notare…».

Quando noi incontriamo Švejk, ormai da anniin congedo, ma pronto a correre in caserma, ve-niamo a sapere, lo abbiamo già visto, che alloggiapresso una certa signora Müllerová e che per vive-re vende cani bastardi spacciandoli per cani di raz-za. «Lo si fa bene», teorizzerà a un certo punto, «in-tontendo l’acquirente con un mare di chiacchie-re». Le continue digressioni di Švejk sono dunqueun’arma e valgono altrettanti depistaggi renden-do il capolavoro di Hašek una storia che contienein realtà centinaia di microstorie. Sapremo subitoche Švejk all’esercito risulta essere un «idiota no-torio».

Hašek lavorò fin dal 1911 intorno a questo per-sonaggio a più riprese, confezionando racconti efinalmente, nel ’21, il grande romanzo che rimaseincompiuto (quasi mille pagine). Ora GiuseppeDierna lo ha magnificamente tradotto per Einau-di (I Millenni) dedicandogli anche un cospicuosaggio introduttivo che dà conto della vicenda edi-toriale e del milieu culturale in cui l’opera di Hašek(che è un coetaneo e un concittadino di Kafka) sicolloca. La precedente traduzione di Renato Pog-gioli risaliva agli anni Trenta, ma la pubblicazioneera stata ostacolata dal fascismo e avrebbe visto laluce solo dopo la guerra, integrata poi da BrunoMeriggi. Come il suo personaggio, Hašek stava escriveva volentieri all’osteria (tutta la guerra nei di-

scorsi tra Švejk e un suo commilitone sembra es-sere una parentesi tra due birre: per questo i due sidanno appuntamento a guerra finita “Al calice”,tra le sei e le sei e mezza).

Di vena facile, Hašek scriveva esattamentequello che serviva alla puntata (Le avventureusci-rono a fascicoli) e avrebbe potuto continuare al-l’infinito, a costo di essere persino un po’ ripetiti-vo. I bersagli di Hašek sono da subito chiari: lagrande impalcatura dell’impero multilingue gliappare ormai come una costruzione retorica, l’e-sercito e la guerra non sono da meno. Che sensoha mandare al fronte un supplente di matemati-ca nella speranza che ammazzi un altro supplen-te di matematica, schierato con il nemico? E chesenso ha per un cappellano militare benedire letruppe che vanno al massacro invocando la pro-tezione di Dio, mentre in campo nemico avvienela stessa identica cosa? Disgustato, Hašek ha crea-to cappellani militari particolarmente lontanidalla religione e dediti anzi alla crapula più sfre-nata. Di uno, il Feldkurat Otto Katz, sempre ubria-co e in bolletta, Švejk diventa attendente. Un so-lerte attendente che procura un catechismo al suosuperiore perché ripassi almeno la procedura del-l’estrema unzione. Ma Katz (che tiene sul como-dino una copia del Decameron) perderà Švejk acarte e dunque il bravo soldato passerà alle di-pendenze del tenente Lukáš, un militare di carrie-ra amante del bel vivere e delle belle signore, spe-cie se sposate. Švejk sarà la sua dannazione, matalvolta anche il suo conforto.

È impossibile dire in breve quel che accade aŠvejk, in perenne movimento (spesso in direzionecontraria a quella che la logica vorrebbe) per rag-giungere il fronte. Non ci arriverà. Il suo destino èla routine militare. Tra gli altri protagonisti eccel-le un volontario con ferma annuale che, incarica-to di scrivere la storia del battaglione, la annota al-legramente in anticipo, descrivendo il modo in cui

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 SETTEMBRE 2010

La guerra giusta è solo in osteria

PAOLO MAURI

IL SOLDATOIl volto sorridente, gli occhi celesti che trasudano

innocenza: Švejk è semprelieto di servire l’esercito e i suoi superiori

LA GOVERNANTELa Müllerová è la governante della casa

in cui alloggia il personaggio creato da HašekDa lei Švejk ha notizia dell’attentato di Sarajevo

Repubblica Nazionale

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creperanno i suoi commilitoni carichi di gloria.C’è poi un soldato gigante perennemente affama-to che ruba il cibo dappertutto e un sottotenenteincazzoso che a tutti recita la formula «Lei non miconosce…», intendendo dire che presto rivelerà ilsuo lato cattivo facendo piangere il soldato in que-stione.

Nella biblioteca ideale di Hašek abbiamo già no-tato la presenza di Boccaccio. Viene citato ancheRabelais per via della fame pantagruelica di un al-tro Feldkurat e il don Chisciotte. Riferimenti per-fetti: in fondo anche Švejk è un cavaliere avventu-roso le cui peripezie sono quasi sempre fondate suun equivoco (non credo che Hašek conoscesse ilBertoldo di Giulio Cesare Croce, ma per qualchevia un po’ della sagacia di quel villano astuto ègiunta fino a Švejk).

Hašek, morto giovane e d’improvviso, non riu-scì a finire il suo capolavoro ed è trascurabile chequalche altro si sia incaricato di concludere quel-le avventure. In realtà Švejk è infinito, come videBrecht che lo riesumò per la Seconda guerra mon-diale. È un personaggio che vive anche al di là dellibro e persino si trova nei negozi per turisti di Pra-ga sotto forma di burattino in divisa. Un po’ comePinocchio. Chi ha la fortuna di non averlo mai let-to se lo gusti con calma: è una compagnia piace-volissima e allarmante, lo specchio di un mondograndioso e grottesco da cui, volere o no, discen-diamo tutti noi.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 19 SETTEMBRE 2010

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IL LIBRO

Le vicende del bravo soldato Švejk durantela guerra mondiale, ovvero le tragicomicheavventure di un antieroe catapultatosenza alcuna convinzione al fronte,è il romanzo più celebre della letteratura ceca Uscirà per Einaudi martedì 21 settembre (Collana I Millenni, 1002 pagine, 85 euro)Le illustrazioni sono quelle originali di Josef Lada

Un monarca imbecillee scimmiesco, cappellaniche non sanno il catechismo,ufficiali sempre ubriachi...

I DISEGNIIn queste pagine, le vignette originali realizzate dal pittore cecoJosef Lada per illustrare, in modo ironico e divertente, il capolavorodell’amico Hašek. In particolare, i disegni si riferiscono al primocapitolo delle Vicende del bravo soldato Švejk

L’OSTEFigura centrale nella narrativa hašekiana,Palivec è noto per essere molto sboccato

Il vizio gli costerà ben dodici anni di carcere

IL POLIZIOTTOCliente dell’osteria “Al calice” l’agente di polizia

Bretschneider cerca di attaccare discorsocon l’oste per carpirgli informazioni

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In mezzo secolo ha alternatomomenti bui a grandi ritorniOggi viene riscoperta

grazie alla Rete. A trent’anni dalla scomparsa di Vinicius de Moraesil suo compagno di avventura Toquinho racconta la seconda vitadi un genere al di sopra delle mode: “Vi assicuro, compreso il rock”

SPETTACOLI

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 SETTEMBRE 2010

RAVELLO

«Il futuro della Bossa? È Joao Gilber-to». Antonio Pecci Filho, meglio co-nosciuto come Toquinho, ride for-te nella hall di uno storico palazzo a

strapiombo sulla costiera amalfitana. L’effetto car-tolina di notte è assicurato e a stemperare l’ariaamarcord pensa il sessantaquattrenne musicistadi San Paolo con nonni italiani e un impressionan-te cursus honorum nella musica brasiliana con-temporanea. Toquinho ha da poche settimaneconcluso i concerti italiani di “Ricordando Vini-cius”, il tour che ha celebrato il trentennale dellascomparsa del poeta modernista di Rio, morto il 9luglio 1980, di cui è stato il più stretto collaborato-re per lungo tempo.

Nel suo vocabolario è assente la parola nostalgia.L’arte del ricordo lo porta a sorridere, a evocaregioia: «Trent’anni senza Vinicius sono un’assenzaper me, per il Brasile, per il mondo. In vita è statomolte persone e sembrava avere il dono dell’ubi-quità. Abbiamo vissuto molto insieme. Mi mancacome amico e compagno di avventura, ma preferi-sco pensare che sia in viaggio, magari a Parigi. Vi-nicius era l’uomo che arrivava sempre, mentre glialtri partivano. Era un poeta eclettico, in grado discrivere per i bambini e per i giorni di festa, raccon-tando la gioia e la sofferenza. Diceva sempre che i

poeti amavano attraverso i muri. E lui ha cercatol’amore eterno, perfetto, la passione con tutte leforze. Ha sposato otto donne credendo sempreogni volta di avere scelto quella della sua vita. L’hovisto piangere più volte per amore, lui, l’unico let-terato in grado di scrivere poesie già adattate me-tricamente per la musica. Un talento unico e irri-petibile».

Antonio Jobim, Joao Gilberto, Vinicius De Mo-raes sono stati la santissima trinità della Bossa No-va alla fine degli anni Cinquanta. L’unico supersti-te di quella formidabile squadra di lavoro è proprioGilberto, additato da Toquinho come la speranzadel domani, una provocazione come quella diAndy Warhol quando definì i Pink Floyd il futurodel rock. «Dico questo perché non ha tempo — di-ce, sforzandosi di rimanere serio — È stato lui a spo-stare i confini del vecchio samba. Vinicius, Jobim,Baden Powell, Carlos Lyra hanno capito e lo hannoseguito. È un artista maniacale. Può allenarsi ancheper sei mesi per eseguire una sola canzone. Vive perraggiungere la perfezione. Io sono stato fortunatoa essere lì, unico rappresentante della mia genera-zione a essere ammesso in quella università dellamusica. Sono stato l’anello di congiunzione tra ilpassato e il presente».

Un anello tanto solido da aver deciso di tentareun salto mortale, quello di incidere un album (chevedrà la luce nei prossimi mesi da noi) con il rockercarioca Paulo Ricardo intitolato Viva Vinicius, tre-

ALFREDO D’AGNESE

La ragazza di Ipanemadimentica la saudade

LE IMMAGINIIn alto a destra,Toquinhocon la sua chitarraIn queste pagine,copertine di dischi“storici” di bossa nova

Repubblica Nazionale

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Rio de Janeiro 1960il cuore del mondo

GINO CASTALDO

Chi non ha fatto per una volta il gioco: quan-do e dove avresti voluto essere una voltanella vita? Le risposte possibili sono tante,

ovviamente, anche solo limitandosi al secolopassato: la Parigi del 1925? La San Francisco del1967? Uno di questi imperdibili luoghi dello spa-zio-tempo è sicuramente Rio de Janeiro, tra il1958 e il 1960. In quei mesi un gruppo di illumi-nati, avvolti in una bohème leggiadra e sensuale,decisero di inventare una nuova musica, la Bossa“Nova” per l’appunto, che distillava gli africaniritmi del samba in un delicato uptempo capace distregare chiunque l’ascoltasse.

La sacra trinità di questo nuovo verbo, influen-te e dilagante come un vangelo scritto con appa-rente understatement, era formata da tre purissi-mi geni: Tom Jobim, il musicista, compositore,creatore di melodie che ancora oggi produconoscintille di piacere, Joao Gilberto, l’interpreteinarrivabile, maestro zen di invisibili perfezioni,capace di scuotere le fondamenta della musicacon semplici microvariazioni di ritmo, e infine Vi-nicius De Moraes, il grande poeta che rifiutò glionori dell’accademia per raccontare la vita, quel-la vera, e adattarla su queste nuove miracolosemelodie. Non c’erano solo loro ovviamente, male grandi folgorazioni arrivarono da loro tre, mae-stri di vita, eretici saggi e impudenti, amici e cul-tori dell’amicizia, strambi e imprevedibili eroi dimagnifiche notti in cui ci scambiava idee, amori,malinconie, paesaggi e storie, in una Rio de Ja-neiro gonfia di protettivi locali in cui perdere in-tere nottate a bere e cantare, e di strade intasate diritmi primitivi e lussureggianti.

A colpi di pezzi come Chega de Saudade, Garo-

ta de Ipanema, Desafinado, Samba de una nota

so, il gruppo degli illuminati lanciò un amo am-maliante al mondo il cui riverbero, si può dire,non è mai finito. I night club di tutto il pianeta,Dolce Vita compresa, ne fecero una semplifica-zione per cuori teneri e appartati, in compenso iljazz prese la più colossale infatuazione mai avu-ta in tutta la sua storia per qualcosa che arrivavada fuori dall’America, al punto che Joao Gilbertofu letteralmente rapito dai jazzisti di stile califor-niano per dischi memorabili, e poi, somma di-chiarazione di resa, alcuni pezzi, in particolarequelli scritti dalla coppia Jobim e De Moraes, co-me Agua de beber e Garota de Ipanema, sono en-trati nel repertorio standard dei più prestigiosivocalist, vedi Sinatra ed Ella Fitzgerald.

Ma infine cos’era la Bossa Nova? A definirla cihanno provato in tanti. Diciamo pure una legge-ra increspatura poetica, una sfida al senso di gra-vità, un ritmo che sembra non ripetersi mai esat-tamente allo stesso modo, un canto che è fatto disussurrati e progressivi slittamenti in avanti. Maforse l’immagine più emozionante ce l’ha offertauno degli eredi di quella prima rivoluzionaria ge-nerazione, ovvero Caetano Veloso, raccontandodella sua adolescenza a Santo Amaro, nella pro-vincia di Bahia. Un giorno, ha detto, ascoltò allaradio Joao Gilberto che cantava Desafinado. Ri-mase senza fiato. Non aveva mai sentito niente disimile, un alieno gentile che sembrava figlio as-soluto della tradizione brasiliana ma allo stessotempo nuovo, inedito, ancora non del tutto com-prensibile tanto era moderno, ma sicuramentesuperiore. Era la voce da un altro mondo che glidiceva quello che avrebbe dovuto fare da grande:scrivere canzoni, cantare, interpretare il mondocon una visione di ritmi e melodie. Anni dopo,proprio su Joao, ha scritto un verso che sembradefinitivo: «Più di tutti c’è Joao, e più di Joao c’è so-lo il silenzio».

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 19 SETTEMBRE 2010

dici tracce tra cui l’inedita Romeo e Julieta, una bal-lata rimasta nei cassetti per decenni e ritrovata allavigilia delle registrazioni. «Ho dovuto sudare perconvincere i suoi eredi a darci l’autorizzazione. Ab-biamo utilizzato rock ed elettronica per dare nuo-vi arrangiamenti a vecchi brani. So che mi crocifig-geranno quando arriverà nei negozi, ma sono sicu-ro che Vinicius oggi amerebbe essere consideratoun pop artist. Questo disco gli piacerebbe». Non èl’unico progetto in corso. Nel 2011 dovrebbe arri-vare nei negozi anche Opera de arte, disco realizza-to a quattro mani con lo scrittore Antonio Skárme-ta, una collaborazione spericolata in italiano, spa-gnolo e portoghese che in qualche modo continualo sposalizio tra musica e letteratura che per anniToquinho ha sperimentato con de Moraes. «Misento un irresponsabile, ma è l’unico modo di an-dare avanti. C’è un rispetto che castra l’arte, men-tre io voglio essere allegro e tranquillo. Come dice-va il calciatore Socrates, non bisogna avere l’ango-scia del gol. Altrimenti fallisci. Portare in scena OPoetinha è una sfida che puoi vincere solo appel-landoti al senso della leggerezza».

A cinquant’anni dalla sua nascita la Bossa è an-cora una cosa viva. Tra qualche giorno arriverà neinegozi Estática di Marcos Valle, uno dei campionidi questo genere che per l’occasione unisce melo-die, fiati, archi e sintetizzatori. Altro ritorno impor-tante è quello di Gilberto Gil con Fé Na Festa, ulti-mo arrivato di una produzione di cinquantadue al-bum con cui il padre fondatore del tropicalismo haconquistato sette Grammy e svariati dischi d’oro edi platino. Ma per Toquinho la Bossa sta diventan-do eterna, «una febbre che è in tutto il mondo e cheha avuto l’andamento di una ola. Ha alternato mo-menti bui a grandi ritorni. Oggi i giovani l’hanno ri-scoperta grazie a Internet, così è cominciata unanuova rilettura. La Bossa è inarrestabile, sta viven-do una nuova stagione al di sopra delle mode. È nel-la chitarra di ognuno di noi, anche di chi apparen-temente fa altro. È nelle corde di Caetano Veloso edi Chico Buarque, nelle voci di Bebel Gilberto, Ro-sa Passos e Marisa Monte, nelle percussioni di Car-linhos Brown, nelle note dei sambisti. Non possia-mo più liberarci della Bossa Nova». E il futuro? To-quinho scuote la testa, si passa la mano tra i capel-li ingrigiti dagli anni. «Difficile parlare oggi del do-mani. L’industria e il mercato sono sempre piùchiusi, la tv non trasmette musica perché non fa au-dience, l’home recording inflaziona la produzione.Si fanno troppi dischi e molti sono di scarsa qualità.Ma sono certo che più passerà il tempo più la Bos-sa si consoliderà. È un sentimento perpetuo neltempo. È un giorno di sole sulla spiaggia di Rio, unmassaggio all’anima. Il rock, a confronto, è invec-chiato peggio. Woodstock e Janis Joplin hannoun’immagine quasi antica. La ragazza di Ipanema

ha una freschezza che oggi non riconosco più in Sa-

tisfaction. Il futuro sono il rigore e lo studio, il pro-fessionismo maniacale. Vede? Stiamo diventandoun po’ tutti Joao Gilberto».

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42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 SETTEMBRE 2010

i saporiForti

L’Oktoberfest lo celebrain questi giorni a Monacocon le migliori birreMa a battezzare il paninopiù conosciuto al mondosembra sia stato un venditoredi salsicce di New YorkIl suo consumo è ovunquein costante ascesae di pari passo aumentail rischio di trasformarsiin tipico esempio di junk foodPerciò addentatelo purema attenti alla qualità

«Non condannerò nessuno per aver messo del ketchup sull’hot dog. Siamouna terra di libertà. È nel diritto di chiunque mettere maionese, o scirop-po di cioccolata o peli di gatto. È loro diritto essere dei barbari». Il premioPulitzer americano Mike Royko era serissimo, mentre con un celebre mo-nologo metteva i paletti alla preparazione del “cane bollente” in versionechicagoan. I concittadini del presidente Obama, infatti, si considerano i

depositari della ricetta-madre, quella dei puristi dell’hot dog: pane, wurstel e senape (mustard).In realtà, pare che a battezzare il panino più consumato del mondo sia stato un venditore di sal-

sicce al New York Giants Stadium. Il suo slogan: “Get your dachshund sausages while they’re hot”,comprate le salsicce (dove dachshund identifica il bassotto tedesco, di cui ricordano la forma)mentre sono bollenti, si accorciò rapidamente, grazie all’inglese spiccio e sincopato degli ameri-cani. Una contrazione lessicale sancita qualche tempo dopo dalla matita del vignettista Tad Dor-gan, con il suo bassotto a mo’ di wurstel, stretto tra due fette di pane.

Esattamente come per l’hamburger, il cui nome deriva dalle linee navali amburghesi in colle-gamento con gli Stati Uniti su cui si mangiavano i dischi di carne arrostita, anche in questo caso il

cibo di sussistenza importato dagliemigranti tedeschi è stato rapida-mente assunto come proprio. Unatrasformazione che ha fatto di pa-ne & salsiccia un campione dell’a-limentazione, orgoglio di un’inte-ra nazione e come tale sottopostoai consueti tourbillon di marketinge iperproduzione.

Così, tra un campionato mon-diale di mangiatori — il 5 luglio scorso, l’annuale “Nathan’s Famous International Hot Dog EatingContest”, trasmesso in diretta tv, è stato vinto da Joey Chestnut con 54 hot dog in 10 minuti — e iconsumi in ascesa costante e vertiginosa — 150 milioni di pezzi solo durante la festa americanadell’Indipendence Day — sull’impero degli hot dog non tramonta mai il sole.

Peccato che la qualità media sia tristemente bassa: pani collosi, salsicce improbabili e salse dabruciore di stomaco avviliscono un cibo da strada goloso come pochi altri, trasformandolo inesempio perfetto di junk food. Basta cercare in Rete per verificare attraverso i video industriali (co-me quelli della serie “How they are made”) le modalità con le quali inquietanti mix di carni indi-stinguibili, pressate, sterilizzate, aromatizzate irrorate con i famigerati smoke flavours, il fumochimico più volte finito sotto accusa per sospetta cancerogenicità, diventano gli insaccati desti-nati a farcire i lunghi panini caldi di chioschi e rosticcerie.

Se invece è l’Oktoberfest (fino al 3 ottobre) la vostra meta, risalendo l’Italia fermatevi a Rovere-to ad ammirare l’Hot Dog disegnato da Roy Lichtenstein nel 1964 e ospitato al “Mart”, il museo diarte contemporanea di Rovereto. Arrivati a Monaco, un bell’hot dog artigianale al Viktualien-markt, il glorioso mercato cittadino, vi riconcilierà con la salsiccia bassotto. Crauti a piacere.

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Quando il wurstelcade nel sandwich

Pane al latteBurro e latte nell’impasto

dei filoncini morbidissimi,

spennellati di latte

in superficie

prima della cottura,

da bucare sull’apposito

attrezzo o tagliati a metà

per accogliere

il wurstel e le salse

WurstelLa salsiccia di Francoforte,

simile al corpo

di un bassotto,

è fatta con carni bovine

e suine macinate

finissime, emulsionate

con aromi e additivi,

cotte a vapore

e insaccate nel budello

SenapeSemi di Brassica Alba (o juncea), macinati

e addizionati con sale,

zucchero, aceto

e spezie per la salsa-base

(mustard in inglese)

Esiste in versione

piccante o dolce

(suesser senf)

KetchupCipolla, sedano

e aglio per il soffritto

in cui cuocere polpa

di pomodoro, alloro,

timo, aceto e senape

Chiodi di garofano,

zucchero e cannella

per regalarle una nota

dolce e speziata

MaioneseÈ a base di rosso d’uovo

e olio (da quello di semi

all’extravergine) la regina

delle salse fredde

Limone e/o aceto

per acidulare

Al posto del tuorlo

si può usare

la lecitina di soia

‘‘

LICIA GRANELLO

Hotdog

le calorie complessive

di un hot dog

247i visitatori dell’Oktoberfest

a Monaco di Baviera

6.000.000l’anno in cui il panino viene

battezzato “cane bollente”

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Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 19 SETTEMBRE 2010

Hot FishAl “Les Parasols” di Numana, Ancona, MarcoPerissinotto prepara un wurstel a base di tonno e spezie. Tra due fette tostate di ciabatta,anche pomodori, lattuga e maionese al peperone

MiniPier Christian Zanotto – del ristorante “Gambrinus”di San Polo in Piave in provincia di Treviso – servecome stuzzichino una versione in miniatura,farcita con salmone selvaggio e aneto

TartufoAl “Serendipity 3” di New York, Joe Calderoneha ideato una versione extra-lusso: il pretzelviene farcitocon olio extravergine e burro al tartufo,foie gras d’anatra, mostarda di Digione e cipolle

CalamariMoreno Cedroni – “Madonnina del Pescatore”,Senigallia – cambia il protagonista della ricetta,infilando nel panino una salsiccina di calamari con emulsione di totani e senape

VegetarianoPietro Leeman – “Joia”, Milano – ridefinisce il concetto di “wurstel con panino”: al posto dell’insaccatodi carne mette gli asparagi. E poi pomodori, fagioli,pesto genovese e maionese al lampone

‘‘Isaac AsimovAmo gli hamburger,gli hot doge tutta quella robama mia moglie non vuole

L’appuntamentoHa duecento anni la festa

di birra & gastronomia nataper le nozze tra il principe Ludwig

e Teresa di Sassonia. L’Oktoberfest,che vanta ormai cloni ed eventi affiliati

in tutto il mondo, dall’Australia(Brisbane) agli Stati Uniti (La Crosse,

Chicago), si svolge a Monacodi Baviera fino al 3 ottobre

In Italia, negli stessi giorni, birrae hot dog a Genova e Rieti

NEW YORKGRAY’S PAPAYA402 Sixth AvenueTel. (001) 212-2603532

CHICAGOHUEY’S HOT-DOG1507 West Balmoral Av.

PARIGILA MOSAIQUE 56 rue du Roi-de-Sicile(Marais)

LONDRAROASTBorough Market

STOCCARDAIMBISS ZUMBRUNNENWIRT Leonhardsplatz 25Tel. (0049) 711-245021

BERLINOCURRY 36Mehringdamm 36Tel. (0049) 30-2517368

BARCELLONATHE DOG IS HOT Joaquin Costa 47 Tel. (0034) 931-859517

MILANOMARGY BURGERPiazza Santo Stefano 2Tel. 02-58303734

BOLOGNAWOLF PUBVia Massarenti 118Tel. 051-342944

FERRARABIRRERIAMAIN STREETViale Cavour 85Tel. 0532-205134

PISTOIABAR BENIGNI Viale Adua 285Tel. 0573-400436

FIRENZETEMPLE HOT DOGVia Palazzolo 104/r

ROMABIRRERIA PERONIVia San Marcello 19 Tel. 06-6795310

TORRE DEL GRECO (NA)BULL HOT DOGVia A. de Gasperi 90 Tel. 081-8814904

Una grande festa per la Bavieraun rito primitivo per noi berlinesi

PETER SCHNEIDER

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L’Oktoberfestè una festa pagana unica al mondo e si tiene nella cattolica Baviera del Papa, ma per quan-to mi riguarda la sento estranea. Io bevo vino, non birra, e bevitori di vino e di birra sono due razze in-compatibili. Tra gli amanti della birra mi sento uno straniero, un alieno. Non mi appartiene la loro ten-

denza a gridare, a darsi vigorose pacche sulle spalle, né quell’aspetto cupo dell’euforia pesante dovuta alla bir-ra. Per questo io all’Oktoberfest non ci sono mai andato. Non mi attira. E mi stupisce che sempre più italiani civadano. Guardandoli, ho a volte il sospetto che anche la cultura televisiva — la propaganda di un primitivismoglobale — li spinga lì (ma ubriacarsi insieme di birra non mi sembra il miglior modo di fraternizzare tra due po-poli). Gli italiani arrivano numerosi, dal paradiso del vino al deserto della birra, vengono soprattutto in campere sfidano la rigorosa polizia bavarese parcheggiando in modo spregiudicato.

Eppure, l’attrazione per l’Oktoberfest resta. E resta anche il fatto che sia un evento unico che non sfocia maiin gravi episodi di violenza. È un rito selvaggio in una terra profondamente cattolica, la Baviera in cui nacqueRatzinger. Ed ecco un altro particolare importante: i numerosissimi stranieri che accorrono a godersi l’Okto-berfest sono convinti di assaggiare la vera Germania. Invece sono solo in Baviera, un luogo e una cultura profon-damente diversi da Berlino, o comunque dal resto del Paese. L’Oktoberfest è e resta un antico rito prettamen-te bavarese, un momento di trasgressione e delirio barbarico. Poi, dopo la sbornia, vengono confessione, pen-timento e ritorno alla normalità quotidiana. Tradizione arciconservatrice, dunque, ma anche modernità estre-ma, perché in questa stessa terra le aziende sono efficientissime e Monaco funziona molto meglio di Berlino edè anche più bella e più pulita. Certo, è una modernità diversissima, inconciliabile con quella berlinese. E infat-ti bavaresi e berlinesi non si sopportano. L’Oktoberfest è espressione del saper vivere bavarese e una provoca-zione eterna per il Berlino “prussiano”. Non a caso i bavaresi corteggiano voglie secessioniste. E dicono “It’s ni-ce to be a preiss, it’s higher to be a bayer”, “è bello essere un prussiano ma è più figo essere un bavarese”.

Calzoni di cuoio di cervo (500 euro), terribile musica popolare, fusti di birra in legno (il sindaco di MonacoChristian Ude deve gran parte della sua popolarità alla sua capacità di aprire il primo fusto con due colpi) sonotutti simboli ben diversi dal mito del mutamento permanente e dalle pratiche multiculturali di Berlino fin daquando i re prussiani sposarono l’illuminismo. Ma a tutto questo va aggiunto che la Baviera dell’Oktoberfest èanche economia global player all’avanguardia, meno povertà, meno disoccupazione, più integrazione deglistranieri. Non a caso Monaco è stata giudicata prima della classe nel mondo per qualità della vita.

E allora cerchiamo di capirli, i cari bavaresi, anche in questi giorni di sbronza collettiva. Non potremo maiconciliarci con loro, ma apprezziamo almeno il loro modo di essere originari e autentici, antichi e moderni. Delresto è difficile paragonare la loro festa ai riti pagani e alle follie xenofobe nell’Italia di Bossi o nella Germania diBerlino, Bassa Sassonia e Brandeburgo. Gli stranieri a Monaco sono in percentuale tanti quanti a Berlino, mameno ghettizzati. Insomma, rispettiamolo il modello bavarese, anche se è diverso dal nostro, rispettiamo l’Ok-toberfest e tutto il resto. E poi se i bavaresi, in Germania, sono i primi della classe in tante cose — dall’industriaall’alta tecnologia alle scuole — ricordiamoci che primeggiare stressa. Ed è giusto che chi primeggia si rilassicon la valvola di sfogo di questa grande ubriacatura pagana, di questa gigantesca orgia in terra cattolica.

(testo raccolto da Andrea Tarquini)

gli indirizzi

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44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 SETTEMBRE 2010

le tendenzeTormentoni

Ha sbaragliato gli ultimi Mtv Video Music Awards,si è imposta in modo fulminante come icona pop,le griffe la adorano. Comunque la pensiate, il suo lookfatto di abbinamenti apparentemente impossibiliha riempito le strade. Benvenuti nel regnodella Lady più famosa del mondo

styleGaga

Benvenutinel mondo di Lady Gaga: prendete po-sto, e godetevi lo spettacolo. Immaginare anchesolo un paio di anni fa cosa sarebbe diventata lacantante italo-americana sarebbe stata purafantascienza: nessuno aveva previsto che que-sto scricciolo, al secolo Stefani Germanotta, au-

trice di canzoncine dance facili facili e dal look piuttosto im-probabile, sarebbe diventata una guru dell’immagine. E inve-ce, tra i primi video che sembrano fatti in casa e la ribalta in-ternazionale il salto è stato paurosamente breve. Merito dellamusica riempipista, e del team che la segue dietro le quinte —uno su tutti, l’italo-nipponico Nicola Formichetti, il suo styli-st. Ma soprattutto merito suo, di Stefani: nessuno, negli ultimianni, ha costruito un personaggio di tale impatto come que-sta ragazza, ventiquattro anni dichiarati (e alcuni di più so-spettati). Lei è sempre Lady Gaga: quando si aggira per Londracon in mano una tazza da tè, in aeroporto con gonna con stra-scico di Martin Margiela e zeppe da venti centimetri — e pa-zienza se cade rovinosamente davanti ai fotografi— vestita da

dominatrice sadomaso in palestra, non esce mai dal perso-naggio. Lo è persino quando si traveste da uomo, con lo pseu-donimo di Joe Calderone, per la cover di Vogue Giappone Uo-mo(per l’edizione da donna si è coperta di bistecche, mise ap-pena riproposta agli MTV Video Awards).

Non ha paura dell’eccesso, del ridicolo, non si preoccupa diessere bella in senso convenzionale; fondamentale è stupire,ed è questo ad averla trasformata in pioniera della moda: co-me potevano gli stilisti non innamorarsi di lei? La girandola dicitazioni sulle passerelle è cominciata circa tre stagioni fa, conun numero sospettosamente alto di gambe al vento, spalleenormi, giganteschi occhiali e cascate di strass. Poi sono arri-vati gli abiti creati appositamente per le sue esibizioni: Arma-ni l’ha ricoperta di spire luminose, Alexander McQueen l’hatrasformata in alieno. Tutto per lei, musa ideale fedele solo ase stessa.

Gli echi di un’onda così intensa non potevano non arrivareanche sulla strada, toccare la vita reale: ed ecco ancora il suogenio. Osservando molti suoi look, si coglie la loro scomponi-bilità, il poter essere presi a piccole dosi, scegliendo pezzi dainserire nel proprio guardaroba senza sconvolgerlo. Una scel-ta non casuale, che rafforza ancora di più la sua presa sullo sti-le contemporaneo: se nel video di Bad Romance dello scorsoanno a fare epoca sono state le scarpe “Armadillo” di Mc-Queen, dai tacchi vertiginosi, altrettanto bene ci si ricorda deisuoi primi piani con un paio di occhiali Carrera. Alejandro, ul-timo video in ordine di tempo, è un susseguirsi di coreografieda pseudo-Kamasutra, ma a risaltare, alla fine, è la sua castabiancheria color carne. Accanto allo spettacolo puro, all’ini-mitabile, Lady Gaga ha innestato la realtà, rendendo eviden-te quanto certi pezzi siano parte del suo mondo, che siano sta-ti o meno creati pensando a lei. I plateau più alti, le t-shirt daicolori acidi, il pizzo dal sapore rétro, le silhouette più definite:tutto questo ora è “suo”.

L’attrazione fataledegli opposti

SERENA TIBALDI

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 19 SETTEMBRE 2010

DOMENICO DOLCE e STEFANO GABBANA

Nella nostra storia di stilisti ci sono quattro donne di famamondiale che ci stanno particolarmente a cuore e chehanno condiviso con noi il nostro successo. Sono Ma-

donna, Naomi Campbell, Monica Bellucci e Scarlett Johans-son. Insieme a loro le celebrities che vestiamo sono tante e unposto speciale spetta anche a Lady Gaga. Più di due anni fa, è ve-nuta a presentare un suo show case nel nostro quartiere gene-rale della D&G indossando subito i nostri abiti, addirittura quel-li presi direttamente dalla collezione: erano perfetti su di lei.

Non sappiamo se fa parte del nostro carattere, ma noi con lenostre “dive” storiche abbiamo un rapporto speciale, umano,fraterno, perché a differenza di quello che la gente pensa, perriuscire a vestire rockstar, top model e attrici non ci vuole soloprofessionalità ma anche stima reciproca, feeling e (perchéno?) un pizzico di fortuna. È su queste basi che un rapporto cre-sce negli anni e si consolida. Tanto che molto spesso basta uncolpo di telefono o una semplice e-mail per capire, ad esempio,come scegliere l’abito che in quel momento ha in testa Madon-na. Il primo incontro con lei risale al 1990. Ci siamo visti a NewYork in un ristorante italiano. Noi eravamo giovani e in totale fi-brillazione all’idea stare a tu per tu con quella che per noi erarealmente “la Madonna”. È arrivata vestita da uomo con il ba-schetto in testa. Ci siamo parlati e subito capiti e da allora c èsempre stata una sintonia perfetta. Due giorni dopo quell’in-contro abbiamo disegnato il primo dei tanti body-corsetto chelei ha usato per il suo tour. Abbiamo il suo manichino in stu-dio, con tutte le sue misure che negli anni nonsono cambiate, perché ha un fisico incredibilegrazie anche a una grande disciplina.

Nelle ultime campagne pubblicitarie Ma-donna è stata scelta come protagonista perché,come diciamo spesso, «lei è molto Dolce e Gab-

bana» e riesce sempre a interpretareperfettamente il nostro pensiero. E

questa grande sintonia si è concretizza-ta nel progetto degli occhiali MDG, una

collaborazione assolutamente inedita trastilisti e celebrities: abbiamo messo insie-

me le nostre creatività per creare un proget-to nuovo e diventare “soci in affari”. Inutile

negare che vestire una rock-star come Ma-donna è un privilegio che ha una eco planetaria

che diffonde il marchio Dolce & Gabbana in tut-to il mondo.

Nella nostra “famiglia” un’altra figura estrema-mente importante è Monica Bellucci. Lei è una devota as-

soluta del nostro nero. È l’unico colore che adora e il nostro“sicilian style” fatto di abiti fascianti con lo scollo panora-

mico sul seno, su di lei sono un vero trionfo. Pur essendo ilvolto di un altro noto brand, la nostra amicizia fa si che ciò

non sia un problema. Abbiamo conosciuto Monica ventitréanni fa e il legame è tale che oggi abbiamo in collezione per-sino un sandalo “modello Bellucci”. Insieme elaboriamomise per le sue uscite pubbliche, tenendo conto che lei ol-tre a essere una diva è anche una vera donna e madre ita-liana, molto legata alle figlie, che cresce e allatta.

E naturalmente c’è Naomi. Il rapporto è iniziato quan-do lei aveva diciassette anni e cominciava a sfilare pernoi. Oggi riusciamo a confrontarci sullo stile di un abitoda realizzare nelle situazioni più disparate. Anchequando stiamo insieme in cucina al mattino e aspet-tiamo che le uova bollite siano pronte. Naomi va a col-po sicuro, vuole sempre i corpetti strutturali con gon-ne che variano di lunghezza a seconda delle occa-sioni e del mood del momento. E il nostro feeling ètale che a volte ci capiamo con un semplice colpod’occhio.

Poi c’è Scarlett. È l’ultima arrivata ed è diventa-ta subito il volto del nostro make up e testimonialdel nostro profumo. È una ragazza di una bellez-

za moderna, molto simpatica e semplice. Estremamen-te camaleontica, sta bene con tutti i vestiti e siamo entrati im-mediatamente in perfetta sintonia.

1. BATTESIMOÈ stata Lady Gaga a indossareper la prima volta, agli MTV Awards,i bijoux della nuova linea di Zanotti,una cascata di luci e cristalliche sembra fatta apposta per lei

2. RÉTROOmaggio alle forme degli anniCinquanta, il completo di pizzocon reggicalze della linea “Shaping”di Intimissimi va lasciato semprebene in vista

3. CLASSICAStrano ma vero, la borsa preferitada Lady Gaga è la Kelly di HermèsLe sue (ne possiede diverse)sono decorate dall'artista TerenceKoh, suo amico e collaboratore

4. BONDAGEAderenti come una seconda pellee resi ancora più aggressividai legacci sulle gambeEcco i jeans denim-shock pensatida Seven For All Mankind

5. GUERRIERASembrano riprendere la lavorazionedelle cotte dei guerrieri medioevaligli stivaletti di camoscio e metallocon tacco altissimodi Rodolphe Menudier

7. DARKDa dive in pectore gli occhiali grandie avvolgenti di Dior by Safilo Group:fondamentali per nasconderelo sguardo e assumereun alone di mistero

8. ANIMALIERIn equilibrio tra bon toned eccentricità i guanti di Roger VivierSono in cavallino stampatoe richiamano il manto delle giraffeversione notte

9. IN VETTATacchi vertiginosi e plateauimportante: quello che serveper dominare la scena nel vero sensodella parola e stare una spannasopra tutti. Di Loriblu

SHININGStupisceed esalta

le lineedel corpo

il miniabitodi Versace

di pellemetallizzataa specchio

PELUCHEElogio

dell’eccessoLa tuta

di peluchedi Chanel:

caldissimaDi sicuro

non passainosservata

CONTRASTIImpeccabilegiaccasartorialee cortissimasottovestedi pizzoÈ l'insiemedi Dolcee Gabbana

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Intuizione e stimacosì vestiamo le star

DIVELady Gaga vestitada Dolce e GabbanaSotto, gli stilisticon la “loro” Madonna

6. SCAMBIO“Prestiti” fra star. Le sneakerscon zeppa e borchie di Ashsono state create per Madonna,ma sono anche perfettamentein tendenza Lady Gaga. Un caso?

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l’incontro

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Trasversali

Capire le donneè uno sforzo inutileCarmelo Benediceva sempreche farle piangereè una cosairreparabilee io sono pienamented’accordo con lui

Ha una rara malattia agli occhi,ma è diventato uno scrittore famosoHa la balbuzie, ma è diventatouno degli attori più richiesti. Mamma

infermiera, papà operaio,“da bambino sognavodi firmare gli autografialle ragazze, come Elvis,invece ero uno sfigato”Non ha paura di passarecontinuamente

dal palco al set, ma della morte sì: “Quando ci penso allunghereiun braccio per aggrapparmi a Dio”

MILANO

Cita i grandi filosofi maavrebbe voluto essereElvis Presley. Recita convoce profonda ma

quando non è sul set s’inceppa sulle pa-role. Ha uno sguardo intenso ma soffredi una rara malattia agli occhi che gli im-pedisce di vedere il centro delle cose.Scrive libri ed è diventato famoso comemattatore. Ha paura di volare eppure èsempre in viaggio. È Filippo Timi, tren-tasei anni, nuovo mito trasversale. Spe-cialmente per le donne. Lui, onesto,ammette: «Seduco a trecentonovantagradi».

Alto, spalle larghe, barba e capelli ar-ruffati, quarantasei di piede, Timi è unuomo ingombrante. Si racconta sem-pre divertito e, anche quando esita sul-le sillabe, sdrammatizza. Negli ultimitre anni ha scelto di vivere a Milano,città che ama perché la trova comodis-sima. Lungo i Navigli si muove disinvol-to, sorriso aperto e passi lunghi. È um-bro. Ponte San Giovanni, appena fuoriPerugia. Ama la sua terra e quando tor-na a casa è sempre un’emozione. «So-prattutto per mia madre che si agita co-me una bambina appena legge un arti-colo che mi riguarda sul Corriere del-l’Umbria. Sospetto però che l’orgoglioaumenti quando sulla stessa paginamagari compare anche una foto dellaBellucci», compatriota di Città di Ca-stello. Un’infanzia semplice quella diTimi: «Da bambino facevo parte delgruppetto degli sfigati, soffrivo anche diernia e i medici avevano ordinato aimiei di non farmi piangere: mia sorellami odiava perché mi vedeva come unprivilegiato. Ero il classico “ciccio” chenon ha mai avuto il motorino. Quel tipo

di bambino che fa tenerezza agli adultie che i coetanei sfottono».

Mamma infermiera e papà operaio,Filippo sognava in grande: «In un temadi quinta elementare scrissi che dagrande mi sarebbe piaciuto essere una“specie” di Elvis Presley per avere tanteragazze che mi chiedessero l’autografo.Finita la scuola, invece, mi sono messoa studiare filosofia e al secondo esameun professore mi ha cacciato perchéavevo deciso di applicare con lui il me-todo di Socrate, rispondendo alle do-mande con un altro quesito». Una pes-sima partenza che lo fa velocementetraslocare all’istituto d’arte. «Ero tra ipiù bravi, facevo duecentocinquantadisegni alla settimana con gli insegnan-ti che mi passavano i fogli di nascostoperché consumavo carta in modo com-pulsivo. Lì mi si è aperto un mondo. Hoscoperto quanto era meraviglioso stu-diare, e ho cominciato a immaginareuna vita d’artista — anche se mia madreera sempre lì a ricordarmi che i soldi permantenermi non c’erano».

Poi, come a volte succede, tutto si ri-solve per caso: «Sono andato ad accom-pagnare un mio amico a un provino ehanno scelto me». Un successo ina-spettato, nonostante l’evidente balbu-zie. «Non capisco cosa accade quandorecito ma ogni esitazione sparisce, for-se perché entro nelle cose con il cuore econ gli occhi. Anzi, è proprio quell’inco-gnita nella parola che mi dà un punto inpiù nel rapporto con il pubblico». Gior-gio Barberio Corsetti, il regista, si ap-passiona a questo strano personaggio.Lo prende nella sua compagnia teatra-le e gli cambia la vita. «Era un modo perfuggire dal niente. E dopo un mese diprova ho potuto interpretare Edipo ilgiovane con lo stesso Corsetti, che an-cora recitava, e un anziano Franco Cittiche interpretava il vecchio e mi parlavain romanesco. Mi sembrava di sognare.Lavoravo senza aver fatto nessunascuola. Solo energia pura».

In quegli anni viene fuori però il pro-blema agli occhi. Una malattia degene-rativa, la sindrome di Stargardt, che glicomplica i sogni. «Ogni tanto penso aquanto mi piacerebbe guidare», rac-conta con un sorriso. «Con il computermi sono abituato a usare i caratteri qua-ranta e grazie all’iPhone riesco a invia-re anche i messaggi». Anzi, è propriograzie ai suoi caratteri al cubo se è di-ventato anche scrittore. «Scrivo in con-tinuazione, un’urgenza sotto la pelleche forse è un modo per sfogarsi». Sce-neggiature, pensieri, testi teatrali masoprattutto tre libri tra cui Tuttalpiùmuoio, concepito a quattro mani conEdoardo Albinati. Un libro da cui ha

tratto e interpretato l’adattamento tea-trale La vita bestia. «C’era un po’ d’in-coscienza nel fare un passo così impe-gnativo, poi quando l’ho visto in libre-ria mi è preso un attacco di panico. An-che la rappresentazione non è statasemplice, un monologo di due ore contemi molto personali».

Il silenzio della mattina milanese èrotto da una telefonata. Filippo Timi sialza dal tavolo e per non disturbare l’at-mosfera sonnacchiosa del vecchiocaffè milanese, esce dal locale. La cittàrisplende di quella luce speciale cheogni tanto la illumina. Una breve pausae ricomincia a raccontarsi. «A venti-quattro anni, nel ’99, ho debuttato nelcinema con un film di Anna Negri.Un’esperienza indimenticabile». Daquel momento molti registi lo scopronoe sembrano innamorarsi di questo ra-gazzone. Improvvisamente è ovunque.In memoria di me di Saverio Costanzo,in Saturno controdi Ferzan Ozpetek, neI demoni di San Pietroburgodi GiulianoMontaldo, in Signorina Effe di WilmaLabate, in Come Dio comanda di Ga-

briele Salvatores. E naturalmente inVincere di Marco Bellocchio. «Al cine-ma ho portato molto del teatro, soprat-tutto la forza espressiva del mio corpo,forse perché non mi fido della parola.Attraverso la parola spesso tradisciquello che vuole dire il personaggio, eproprio per costruire un ruolo “credibi-le” non mi baso mai su quello che il per-sonaggio dice».

La continua oscillazione tra set e pal-coscenico non lo spaventa. Anzi: «Il tea-tro è corpo a corpo, un modo di fare l’a-more con il pubblico. Al cinema invecebasta pensare una cosa e la macchina tiriprende, non devi avere coscienza masolo farti rubare. C’è un tempo cinema-tografico che è diverso da quello del tea-tro ma, soprattutto, da quello della vita.Per pochi fortunati è un dono naturalee, tra questi, sicuramente c’è Elio Ger-mano». Che appena vinto la Palma d’o-ro a Cannes al telefono gli ha detto:«Ahò, Filì, sto vicino a Javier Bardem:ma lo sai che siete identici!».

Con la televisione ha un rapporto sin-copato. Generalmente se ne dimentica,poi ogni tanto s’appassiona a qualcheserie e allora diventa un’ossessione.Non fa altro per giorni. «È che non co-nosco il piacere della sosta. Se faccio trecose mi concentro meglio che se ne af-frontassi una sola, adoro lavorare persottrazione». È ansioso, ma in un modotutto suo. «Non ho timori per me ma mipongo domande impressionanti del ti-po: dove andremo a finire?». Nella vita èquasi sempre innamorato: «L’amore loconcepisco in modo francescano, nonho il senso dell’appartenenza ma voglioessere amato a tutti i costi. Anche per-ché non puoi recitare in teatro senzache ti batta il cuore». Sino ad ora non haapprofittato del suo successo con ledonne. Casomai il contrario. «Ho trop-po rispetto per me stesso per abbando-narmi alle avventure. Senza contareche la mia generazione è stata inibitadalla paura dell’Aids e questo mi ha pa-recchio frenato». Il mondo femminile loaffascina, anche se sa bene che ognisforzo per comprenderlo «è inutile».«Carmelo Bene diceva che far piangereuna donna è una cosa irreparabile e iosono pienamente d’accordo con lui.Ma per esempio non capisco cosa pas-sa nella testa di Nina, una delle prota-goniste del mio primo libro, che nonama più e continua fare l’amore con ilmarito. Perché le donne spesso accetta-no una storia fatta di un rapporto ses-suale che equivale a uno stupro?».

Del successo non ha ancora la sicu-rezza paludata. «È bello e gratificantesapere che fai un lavoro che smuovequalcosa negli altri e che degli estranei

spendono energie per venire a vederti eper farti i complimenti. Spero solo dimantenere questa leggerezza che mi faaspettare ancora con curiosità che ac-cadano le cose». Della malattia e dellamorte cerca razionalmente di farseneuna ragione, ma l’istinto bestiale è diterrore puro: «Se penso alla morte vor-rei allungare un braccio e aggrapparmia Dio. Da un po’ ho anche timore di vo-lare. Nei viaggi lunghi mi ripeto frasiscontate — tipo “nulla può accadere si-no a quando non arriva il tuo momen-to” — . Poi però mi assale il dubbio atro-ce che “il momento” sia arrivato per ilmio vicino. E allora entro nel panico».

Di figli ne vorrebbe, ma non subito.«Quando torno in Umbria e vedo le fi-glie gemelle di mia sorella le trovo me-ravigliose, ma molto impegnative. E poiancora non ho un rapporto stabile. Sosolo che un giorno sarò padre». L’estatescorsa ha portato ancora in tournée Ilpopolo non ha il pane? Diamogli le brio-che, di cui è autore, regista (assieme aStefania De Santis) e interprete. Una ri-lettura di Amleto. Gioco e ira. Struggi-mento e provocazione. «Da quando unattore comincia a fare teatro sogna d’in-terpretare Amleto, e io su quel palco-scenico ogni sera soffro perché muoio,uccido, amo. E la sera successiva soffronuovamente. Uso la risata come spec-chio della vita e pur essendomi basatosulle tragedie di Shakespeare e sui testifilosofici di Agamben, rileggo tutto amodo mio». Dopo i mesi caldi dedicatia premi e festival, dopo aver partecipa-to al film che Michele Placido ha pre-sentato fuori concorso a Venezia Val-lanzasca. Gli angeli del malee aver reci-tato un cammeo in La solitudine dei nu-meri primi, ora ci sono le prime ripresedel film di Cristina Comencini, Quandola notte. Un altro inizio per Filippo Timi.

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IRENE MARIA SCALISE

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Filippo Timi

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46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 19 SETTEMBRE 2010

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