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Organizzazione « scientifica » del lavoro e innovazione tecnologica durante il fascismo (*) Dalla grande guerra al fascismo Non è possibile affrontare la questione dell’organizzazione scientifica del lavoro e dell’ideologia dell’industria durante il fascismo senza far riferimento all’espe- rienza compiuta dall’imprenditorialità e dal sistema economico italiano nel suo complesso durante la prima guerra mondiale.1 La nuova forza-lavoro acquista in pochi anni — strappata com’è dalla campagna e dagli orizzonti angusti del lavoro domestico — la prima rudimentale esperienza di fabbrica a contatto della già sperimentata classe operaia qualificata; i capi, i tecnici e gli stessi in- dustriali estendono le loro conoscenze tecniche e scientifiche2; s’introduce la lavorazione di linea e s’afferma in alcuni complessi il sistema Taylor di cotti- m o3; si diffondono, anche se ancora in un ambito ristretto e limitato all’alta dirigenza del ministero delle Armi e Munizioni4 e delle più grandi industrie, tutta una serie di acquisizioni pratico-tecniche-innovative che sono, del resto, ben sintetizzate dal mutamento che in quel periodo investe il parco-macchine dell’industria meccanica. Le importazioni di macchine utensili culminano nel 1917 nel quantitativo di 22.488 tonn., mai raggiunto prima (il massimo prece- dente era di 13.611 tonn. nel 1907) e che non si uguaglierà più in seguito5. * Questo lavoro, iniziato nel corso della ricerca su « La società piemontese durante il fa- scismo. 1925-1940 », finanziata dal CNR e diretta dal prof. Guido Quazza, presso l’Istituto di Storia della Facoltà di Magistero di Torino, costituisce una versione ampliata della comu- nicazione tenuta al convegno organizzato a Perugia il 5, 6, 7 dicembre 1975 dalla Consulta regionale umbra per le celebrazioni del 30° della liberazione su « L ’Italia e l’Umbria dal fascismo alla Resistenza: problemi e contributi di ricerca». Su questi temi l’autore sta per pubblicare, presso l’editore Rosenberg e Selber di Torino, uno studio di più ampio respiro. 1 Cfr. sui problemi dell’« economia di guerra » di quel periodo, cfr. di A lberto caracciolo , La crescita e la trasformazione della grande industria durante la prima guerra mondiale, in Lo sviluppo economico in Italia (a cura di G. Fuà) voi. Ili, Milano, 1969, pp. 184-239. 2 Su ciò cfr. c. g in :, Problemi sociologici della guerra, Bologna, 1921, p. 203 e sgg. 3 Cfr. per l’introduzione del sistema Taylor, R odolfo bachi , L ’Italia economica nell’anno 1920, Roma, 1921. 4 Cfr. e . toniolo , La mobilitazione industriale in Italia, Milano, 1921, e A. caracciolo , La crescita e la trasformazione della grande industria, cit., p. 235. In questi anni non a caso acquista rilevanza l’azione del Comitato scientifico tecnico per lo sviluppo e l’incremento del- l’industria italiana, presieduto a Milano dal senatore Colombo; l’importanza di tale organi- smo è giustamente sottolineata da a . caracciolo , op. cit., p. 235. 5 Cfr. S il v io L eonardi , Le macchine utensili e la loro industria, Milano, 1961, p. 54; e di S il v io Golzio , L ’industria italiana dei metalli, Torino, 1943. Giustamente il Golzio affer- Studi e documenti

Organizzazione « scientifica » del lavoro e …...una definizione dell’organizzazione scientifica del lavoro, cfr. Giulio sapelli, Appunti per una storia dell’organizzazione

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Page 1: Organizzazione « scientifica » del lavoro e …...una definizione dell’organizzazione scientifica del lavoro, cfr. Giulio sapelli, Appunti per una storia dell’organizzazione

Organizzazione « scientifica » del lavoro e innovazione tecnologica durante il fascismo (*)

Dalla grande guerra al fascismo

Non è possibile affrontare la questione dell’organizzazione scientifica del lavoro e dell’ideologia dell’industria durante il fascismo senza far riferimento all’espe­rienza compiuta dall’imprenditorialità e dal sistema economico italiano nel suo complesso durante la prima guerra mondiale.1 La nuova forza-lavoro acquista in pochi anni — strappata com’è dalla campagna e dagli orizzonti angusti del lavoro domestico — la prima rudimentale esperienza di fabbrica a contatto della già sperimentata classe operaia qualificata; i capi, i tecnici e gli stessi in­dustriali estendono le loro conoscenze tecniche e scientifiche2; s’introduce la lavorazione di linea e s ’afferma in alcuni complessi il sistema Taylor di cotti­m o3; si diffondono, anche se ancora in un ambito ristretto e limitato all’alta dirigenza del ministero delle Armi e Munizioni4 e delle più grandi industrie, tutta una serie di acquisizioni pratico-tecniche-innovative che sono, del resto, ben sintetizzate dal mutamento che in quel periodo investe il parco-macchine dell’industria meccanica. Le importazioni di macchine utensili culminano nel 1917 nel quantitativo di 22.488 tonn., mai raggiunto prima (il massimo prece­dente era di 13.611 tonn. nel 1907) e che non si uguaglierà più in seguito5.

* Questo lavoro, iniziato nel corso della ricerca su « La società piemontese durante il fa­scismo. 1925-1940 », finanziata dal CNR e diretta dal prof. Guido Quazza, presso l’Istituto di Storia della Facoltà di Magistero di Torino, costituisce una versione ampliata della comu­nicazione tenuta al convegno organizzato a Perugia il 5, 6, 7 dicembre 1975 dalla Consulta regionale umbra per le celebrazioni del 30° della liberazione su « L ’Italia e l’Umbria dal fascismo alla Resistenza: problemi e contributi di ricerca». Su questi temi l’autore sta per pubblicare, presso l’editore Rosenberg e Selber di Torino, uno studio di più ampio respiro.1 Cfr. sui problemi dell’« economia di guerra » di quel periodo, cfr. di A l b e r t o c a r a c c i o l o ,

La crescita e la trasformazione della grande industria durante la prima guerra mondiale, in Lo sviluppo economico in Italia (a cura di G. Fuà) voi. I l i , Milano, 1969, pp. 184-239.2 Su ciò cfr. c. g i n : , Problemi sociologici della guerra, Bologna, 1921, p. 203 e sgg.3 Cfr. per l ’introduzione del sistema Taylor, R o d o l f o b a c h i , L ’Italia economica nell’anno 1920, Roma, 1921.4 Cfr. e . t o n i o l o , La mobilitazione industriale in Italia, Milano, 1921, e A . c a r a c c i o l o ,

La crescita e la trasformazione della grande industria, cit., p. 235. In questi anni non a caso acquista rilevanza l ’azione del Comitato scientifico tecnico per lo sviluppo e l’incremento del­l’industria italiana, presieduto a Milano dal senatore Colombo; l’importanza di tale organi­smo è giustamente sottolineata da a . c a r a c c i o l o , op. cit., p. 235.5 Cfr. S i l v i o L e o n a r d i , Le macchine utensili e la loro industria, Milano, 1961, p. 54; e di S i l v i o G o l z i o , L ’industria italiana dei metalli, Torino, 1943. Giustamente il Golzio affer-

Studi e documenti

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4 Giulio Sapelli

Ma ancor più significative delle cifre sono le caratteristiche delle macchine im­portate; basterà ricordare la fresatrice automatica per ingranaggi; la fresatrice per ingranaggi cilindrici Rhenania dello Schütte, caratterizzata dall’introduzione del differenziale (di grande importanza per il rinnovamento dei criteri costrut­tivi della trasmissione dell’asse posteriore dell’automobile e delle lavorazioni- con le macchine utensili); i torni automatici per i lavori alla sbarra, per filettare o sagomare, dell’Höln-Deutz o ancora dello Schütte6. Uno dei dati essenziali del mutamento tecnologico promosso dall’introduzione di tali macchinari, che costi­tuiranno per vent’anni, è bene tenerlo presente, uno dei punti più importanti dell’ossatura fondamentale della meccanica italiana, è quello costituito dalla li­mitazione che così si viene a creare alla libera mobilità della forza lavoro all’in­terno del reparto: sono macchine che possono essere seguite, in coppia, da un solo operaio e richiedono un’utensileria ausiliaria che può essere organizzata in modo tale da favorire il controllo sull’operato del lavoratore limitandone l ’auto­nomia professionale. Non a caso esse sono introdotte nel contesto del dispo­tismo militare instaurato nelle fabbriche nel corso della guerra.Si può ben dire, perciò, che se dal punto di vista dello sviluppo economico ge­nerale del paese l ’esperienza bellica fu « [...] negativ[a] e deviante rispetto ad una ragionevole possibilità di sviluppi più cauti ma più sistematici » 7, essa fu decisiva per l ’introduzione dei metodi « scientifici » 8 di organizzazione del la­voro e per lo sviluppo tecnologico del nostro paese9.Solo nell’immediato dopoguerra, quando i problemi della riconversione si fe­cero acuti ed emersero nuovamente i problemi di fondo del nostro sistema eco­nomico, iniziarono a delinearsi le difficoltà di promuovere un diffuso e continuo — e non soltanto limitato e discreto — processo innovativo. Si assiste in que­gli anni, infatti, ad un processo complesso e non lineare: s ’installano, in alcuni settori merceologici, nuovi impianti, s ’afferma un più razionale uso di quelli già esistenti, si diffondono i metodi di cronometraggio Taylor, si sviluppano — ancora soltanto sul piano teorico — interessanti analisi e codificazioni dei movi­menti e dei tempi che fanno già presagire, pur nella loro inevitabile rozzezza (non si considerano le maggiorazioni, l’analisi dei movimenti è incompleta, ecc.), l ’applicazione del Methods — Time Measurement (MTM), sinonimo di una assimilazione di pratiche e metodologie già in uso oltreoceano 10. Ma le impli­cazioni che più paiono urgenti ai direttori aziendali sono di ordine politico, es-

mava: « Si deve tenere presente che la guerra non è solo consumatrice di armi, ma di stru­menti di ogni tipo: motori, apparecchi di precisione, per trasporti, di macchine in genere » pp. 60-61.6 Cfr. su questi problemi la buona trattazione di Giovanni pannini, Costruzione di mac­chine, Milano, 1921, che può introdurre alla lettura del fondamentale lavoro di angelo ci- n iselli, Macchine automatiche per la lavorazione dei metalli, Milano, 1925. Una esemplifi­cazione delle lavorazioni possibili con questi tipi di macchine si può trovare in aldo taberno, Apparecchio ed attrezzo per fresatura, e Tornio Le Bond «Duplex », in «Attività tecnica d ’officina » (giornale degli ex-allievi della scuola per maestranze FIAT), rispettivamente 3 apri­le 1924 e luglio 1928.7 Cfr. A. caracciolo, La crescita e la trasformazione della grande industria, cit., p. 238.8 Per una discussione sui criteri storiografici utili per operare una distinzione e tentare una definizione dell’organizzazione scientifica del lavoro, cfr. Giulio sapelli, Appunti per una storia dell’organizzazione scientifica del lavoro in Italia, in « Quaderni di sociologia » 1976, n. 2-3, pp. 154-171.5 Cfr. su questi temi quanto afferma Valerio castronovo in La storia economica (cap. II della Parte seconda « Gli effetti della guerra »), in « Storia d ’Italia » voi. IV, Dall’unità ad oggi, Torino, 1975, pp. 206-242.10 Cfr. per un’introduzione critica al problema, ANNA anfossi, Prospettive sociologiche sul­l’organizzazione aziendale, Milano, 1971.

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sendo interesse prioritario « evitare — come si diceva — guai seri », vale a dire lo sciopero, l ’ostruzionismo operaio, che potevano essere superati solo im­ponendo una rigorosa disciplina all’interno della fabbrica e un maggior vincolo dell’uomo alla macchina.

Naturalmente queste implicazioni possono farsi ben più ricche dei riflessi d ’una realtà industriale e di una volontà imprenditoriale quando si esamina l ’atteggia­mento di coloro che più direttamente erano impegnati in un’opera di orienta­mento politico della classe borghese imprenditoriale. Giovanni Pardini, diretto­re della rivista « Vita industriale », riunendo nel 1921 una serie di articoli dedicati alla Organizzazione pratica del lavoro u, bene esplicitava tutta una serie di temi di cui è degno di nota sottolineare gli aspetti significativi.

Questi ultimi sono senza dubbio quelli riferiti alla direzione del personale, rie­cheggiando, gli altri problemi, motivi più squisitamente tecnici: eliminazione dei tempi morti tramite introduzione di dispositivi automatici o semi-automa­tici, introduzione delle bollette di cottimo ai fini della pianificazione dei costi di produzione, etc. Motivi tecnici però, che acquistano una rilevanza ed un peso che li fa assurgere — indivisibilmente — a parte di un progetto istituzionale più generale. Infatti, per il nostro autore, la « disciplina nelle officine » doveva risolversi in un lavoro d ’epurazione di tutto il personale impegnato nella lotta politico-sindacale, epurazione per cui occorreva « tenere nota delle principali caratteristiche [del personale] » , tramite uno schedario che, oltre alle modifi­cazioni di paga, doveva tener conto delle assenze, delle punizioni e di altre no­tizie significative.

In questo contesto appare chiaro come si rimarcasse di « stare bene attenti a non citare Taylor o il taylorismo come una panacea per tutti i mali da applicare al nostro paese, comunque o come si voglia » . Ciò che occorreva realizzare — di­chiarava il Pardini — prima di immobilizzare un fortissimo capitale negli in­vestimenti sia di installazione sia di ammodernamento per impedire l ’obsole­scenza degli impianti, era altra cosa, era l ’ottenimento di una garanzia politica; era « la maggiore educazione sociale », la cooperazione tra le classi, precetti « banditi dalle nostre corporazioni di mestiere, tutte — diceva — sotto l ’eti­chetta politica del socialismo, [nelle cui fila] non vi ha adito alla speranza di fare qualcosa per l ’organizzazione scientifica! » 11 12.

Indubbiamente questo punto di vista era espressione di una realtà economica determinata: quelle delle industrie di piccole e medie dimensioni, che costi­tuivano allora il tessuto connettivo di tutta la base industriale italiana. Esse, per le loro economie aziendali, per gli scarsissimi margini (quando non erano nulli) di autofinanziamento, per le difficoltà di ricorso al credito, più di tutte risenti­vano il peso del costo del lavoro, tanto più quando una situazione instabile come quella post-bellica inibiva maggiormente ogni tentativo di ammoderna­mento e riduzione dei costi mediante l ’integrazione riformista — tramite con­cessioni salariali — del movimento operaio. Infatti tutt’altri intendimenti ma­turano a questo proposito nell’ambito di più dinamiche industrie, avviatesi, tra­mite la conquista del mercato di monopolio, ad assurgere a grandi e più po­tenti dimensioni.Significativo, a questo proposito, è il caso della Fiat, unica industria italiana di quel periodo produttrice di beni di consumo durevoli in grado di impostare una politica di razionalizzazione13, essendosi garantita un’espansione del mercato

11 Giovanni pardini, Organizzazione pratica del lavoro, Milano, 1921.12 Cfr. G. pardini, op. cit., pp. 97, 238, 262.13 Cfr. v. castronovo, Giovanni Agnelli, Torino, 1971, pp. 157, 333 e sgg.

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automobilistico in condizioni di monopolio differenziato 11 * * 14. Infatti la razionaliz­zazione produttiva non può certo fermarsi nei limiti aziendali, imponendo una spesa di ammortamento perseguibile solo con l’elevazione della massa del pro­fitto tramite la solvibilità della produzione in serie. Ciò che preoccupava i diri­genti della grande impresa, inoltre, era la rivendicazione di una razionalità ' am­ministrativa dell’apparato statale che doveva effettuarsi sulla base della massi­ma economia dei costi infrastrutturali. E s ’invocava tale « riforma » con toni vebleniani1S, quasi come se si volesse tradurre in accenti italiani l’utopia d ’un capitale produttivo allo stato puro su cui non pesassero i fardelli d’un sistema cre­ditizio considerato parassitario e vessatore dell’attività industriale.Sulla scorta di questa impostazione si poteva ben passare dalla protesta contro la politica fiscale ventilata dai governi Nitti e Giolitti, ad una più precisa deli­neazione di una alternativa per la gestione del potere. Chiara era l ’aspirazione ad un governo di tecnici, ovvero dominato da un personale dirigente che ab­breviasse le distanze tra ceto politico e classe possidente sino ad annullarle in una nuova e più efficace sintesi. La cooperazione industriale non veniva più ricercata sulla base della dichiarazione di ostracismo verso il movimento ope­raio organizzato, bensì nell’ambito della definizione di un interesse comune realizzato tramite la diretta proporzionalità tra aumenti salariali e profitti, « sen­za sfruttamento e senza falcidie [dei salari] » 16. Questo veniva affermato con la consapevolezza che solo con l ’estensione della base del consenso padro­nale può ottenersi la massima incentivazione del fattore umano: in tal modo inoltre si potevano respingere le critiche sindacali all’organizzazione scientifica del lavoro, posizioni viste come un freno allo sviluppo ed al progresso econo­mico. La selezione del personale doveva perciò mirare unicamente all’assegna­zione degli « uomini giusti al posto giusto », sì da stimolare quell’iniziativa ope­raia che solo una concezione arretrata della direzione industriale poteva sotto­valutare, o peggio, reprimere, depauperando così un patrimonio di esperienza che poteva ben essere usato ai fini dell’ammodernamento della produzione.Questa linea di politica aziendale era il riflesso di due opposte ma unificate espe­rienze: da un lato la pratica sindacale riformista prebellica che tante garanzie aveva dato (in cambio di concessioni salariali) all’illimitata libertà padronale d ’organizzare la produzione, dall’altro lato l ’occupazione delle fabbriche che aveva posto all’ordine del giorno la necessità di estendere l’area di un consenso per la cui cristallizzazione l ’incentivo salariale non sempre poteva rivelarsi suffi­ciente. Queste esigenze s’intrecciavano nella politica aziendale della grande in­dustria, tesaurizzatrice dell’esperienza accumulata nel corso dei confronti con l’insubordinazione proletaria, pronta ad approfittare con ogni mezzo sia della sconfitta del movimento operaio sia dell’eventuale allargamento di un mercato estero le cui richieste non dovevano essere disattese: potevano essere soddisfatte solo nella pace sociale e nella concordia produttiva.Nell’ambito di questa strategia, che si troverà peraltro a misurarsi — restrin­gendo così le proprie ambizioni — con la deflazione e il duro colpo all’esporta­zione, un altro punto centrale deve essere colto, senza il quale non si com­

11 Cfr. per un’analisi generale dei problemi dello sviluppo automobilistico G. pala - m . pala,Lo sviluppo dei trasporti, in Lo sviluppo economico italiano, a cura di G. Fuà, Milano,1969, voi. I l i , pp. 337-379, soprattutto le figure XI 1 e XI 2.15 Ci riferiamo all’opera di thorstein veblen, La teoria dell’impresa, Milano, 1970. Laprima edizione americana (The Theory of Business Entrerprise, New York) è del 1904.16 Cfr. Mario fassio , L ’educazione commerciale nelle esigenze dei moderni traffici, Torino, 1920, p. 36.

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prenderebbero le variazioni a cui essa fu sottoposta e si scambierebbero queste per una pura e semplice manovra delle direzioni aziendali. È lo stesso Mario Fassio — dirigente Fiat — a darcene ragione scrivendo: « Per quanto spe­cificatamente concerne il lavoro dell’uomo e della macchina (cioè il cardine del­l’organizzazione scientifica) la moderna organizzazione industriale avoca alla direzione le procedure di esecuzione di ogni lavoro, per cui studia e fissa i modi e i tempi » A quale costituzionalità non irreversibile si alludesse ap­pare chiaro: questa variabile indipendente [ l ’autorità nella fabbrica] doveva es­sere la scelta definitiva che si affermerà nel corso della dominazione fascista, unificando su questo punto i settori avanzati ed arretrati del fronte industriale, essendo allora la ricerca della « costituzionalità » e della « cooperazione » garan­tita da un quadro politico istituzionale più consono ai voleri monocratici della proprietà industriale.Infatti occorre chiedersi quali di queste istanze, prefigurate in anni in cui an­cora non era precipitato un instabile equilibrio politico e sociale, diverranno tendenze permanenti dell’azione imprenditoriale. È indubbio che gli anni 1925- 1929 sono favorevoli all’espandersi della produzione e degli scambi: l ’abbon­danza di capitali continua, il ribasso del costo del lavoro inizia a delinearsi, i prezzi ed i profitti crescono 17 18. Sul piano sociale la situazione è caratterizzata dalla faticosa e limitata affermazione del sindacato fascista, mentre la presenza comunista e riformista — sino al 1925 — è ancora forte e combattiva in talune fabbriche 19. Gli industriali oscillano, perciò, tra la necessità di stabilire al più presto « l’ordine » all’interno del luogo di produzione e la propensione ad at­tuare tale restaurazione fidando dell’accordo con gli organismi più rappresen­tativi della classe lavoratrice, affinché le masse meglio possano essere control­late 20.Ma dopo la crisi provocata nel paese dall’assassinio di Matteotti il regime può stabilizzare il suo potere, grazie alla definitiva sconfitta delle opposizioni aven­tiniano e l’impossibilità delle correnti politiche proletarie di superare gli osta­coli all’unità provocati sia dal settarismo, sia dal riformismo. Nel quadro poli­tico che da reazionario e conservatore si fa dittatoriale e dispotico, si operano le scelte di Palazzo Vidoni. Al riconoscimento d’un coatto monopolio sindacale fascista corrisponde l’esautorazione del sindacato dalla fabbrica e — con la scomparsa delie Commissioni interne — s’affermerà in tutta la sua intierezza quell’ordine padronale non più mediato dal parziale consenso riformista, ma dilagante in tutta la sua brutalità e senza più infingimenti « costituzionali ».Ci pare degno di considerazione, perciò, il fatto che i problemi che vennero in quegli anni con prepotenza alla luce e saranno dal fascismo assunti come com­ponenti specifiche della sua propaganda e delle sue dichiarazioni di lealtà verso il blocco industriale, hanno una loro precisa matrice storico-politica. Parliamo

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17 Cfr. Mario fassio , Organizzazione industriale moderna - Principi di psicologia econo­mia e amministrazione industriale esaminati con metodo scientifico, Torino, 1922, p. 88. L ’attribuzione sopra citata veniva confermata dall’autore stesso nell’intestazione preposta a questa opera, la più interessante tra le sue. Su Mario Fassio cfr. V. castronovo, G. Agnelli, cit., pp. 342-343.18 Cfr. Pietro grifone, Il capitale finanziario in Italia, Roma, 1945, p. 57.19 Come dimostra l’esperienza delle elezioni della Mutua interna FIAT a Torino, cfr. su ciò v. castronovo, G. Agnelli, cit., p. 415 e sgg.; pierò melograni, Gli industriali e Mussolini - Rapporti tra Confindustria e fascismo 1922-1929, Milano, 1972, pp. 122 e sgg.20 Cfr. su ciò v. castronovo, op. cit., p. 415 e sgg. e G. sapelli, Fascismo, grande industria e sindacato. Il caso di Torino. 1929-1935, Milano, 1975, p. 95.

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8 Giulio Sapelli

del messaggio nazionalistico, consapevoli di quanta importanza ebbe nel ga­rantire -a tanta parte degli industriali italiani un’alleanza politica di ricambio di­nanzi alla sconfitta della mediazione giolittiana, saldando una nuova combina­zione di interessi padronali e politici. Il richiamo agli industriali d ’essere parte direttamente partecipe delle scelte nazionali, il richiamo ad una più aggressiva presa di coscienza della loro forza, ci appare in tutto il suo storico valore anti­cipatore. Pensiamo alla polemica nazionalistica contro lo stato burocratico e parlamentare, all’esaltazione delle contraddizioni tra l ’istituzione e l ’apparato produttivo, polemica che sfociava in precise e chiare indicazioni politiche: « Con­fido — diceva Corradini in un suo discorso agli industriali nel 1916 — che questa prima cosa avvenga: che quando il produttore, l ’uomo della ricchezza attiva, l ’organizzatore dell’azienda, il proprietario dell’officina, quegli che ha contatto diretto con l’operaio sia, per lo stato e nello stato, ciò che deve essere, vi abbia un’azione non per interposta persona, i suoi avvocati deputati, i suoi giornali sussidiati e mille coperture, ma un’azione diretta, la lotta di classe pren­derà un’altra piega » 21.Le ipotesi politiche nazionaliste concorrono alla formazione di una mentalità industriale che si decanterà in diverse accezioni a seconda delle dimensioni e delle caratteristiche dell’azienda, ma che permeerà la burocrazia aziendale e darà non solo a questa un movente ed un fine politico. La stessa mitologia della nazione, infatti, a cui tutte le altre interessenze dovevano essere sottoposte, non è in contraddizione con una filosofia dell’impresa che tende a rapportarsi alla società civile come parte organica di un processo di sviluppo che vede col­limare gli interessi di quest’ultima con quelli della produzione.I problemi che si ponevano all’industria italiana, quando si voglia passare dalle affermazioni d’ordine generale all’esame concreto dei comportamenti dei suoi gruppi dirigenti, erano quelli di dotarsi degli strumenti necessari per far sì che il processo di razionalizzazione s ’affermasse. Prese corpo, perciò, l’idea di creare una « struttura di servizio » che potesse centralizzare e dirigere le spinte inno­vative, concorrendo alla loro promozione.

L’innovazione e l’organizzazione scientifica tra limiti e condizionamenti

Com’è noto la Confederazione fascista dell’industria nell’ottobre 1925 si era fatta promotrice d’un Comitato nazionale per lo studio dei problemi dell’orga­nizzazione scientifica del lavoro: nel 1926 esso ebbe formalmente il riconosci­mento istituzionale. Si fondò così l’Ente nazionale italiano per l’organizzazione scientifica del lavoro (E N IO S)22. La caratteristica di questo organismo stava nel fatto che la sua costituzione non era frutto d’una decisione presa dall’alto, sotto la pressione degli strati burocratici del partito o comunque ministeriali. Esso si collocava invece in una tradizione di iniziativa e di studi ancora fragile,

21 Cfr. Enrico corradini, Discorsi politici, 1902-1923, Firenze, 1923. Citiamo dal discorso: Politica ed economia della nazione e delle classi, pronunciato dinanzi all’Associazione de­gli uomini d ’affari nel Teatro Grande in Brescia il 17 dicembre 1916.22 Cfr. p. fiorentini, Ristrutturazione capitalistica e sfruttamento operaio in Italia negli anni venti in « Rivista storica del socialismo », gennaio-aprile 1967, pp. 134-154 dove è ripor­tato in appendice lo statuto dell’ENIOS. Direttori della rivista dell’Ente erano Francesco Mauro e Gino Olivetti. Per note ed informazioni sull’ENIOS cfr. di p. melograni, Gli indu­striali e Mussolini, cit., p. 269 e sgg. Un interessante approccio alla questione della « raziona­lizzazione » è nel bel saggio di Domenico preti, La politica agraria del fascismo. Note intro­duttive, in « Studi storici », 1973, n. 4, pp. 802-869 di cui diremo più avanti.

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ma ben presente nel territorio nazionale e che investiva si può dire ogni settore industriale: era il processo stesso di sviluppo delle forze produttive che im­poneva alla classe proprietaria una riflessione su di esso sulla base dei propri specifici interessi.Non v’è dubbio, del resto, che il processo provocato dalla svolta rappresentata dalla « quota 90 » veniva ormai a definirsi come l ’elemento di un confronto obbligato per i dirigenti della grande industria e per tutte le componenti del mondo industriale nel suo complesso. Quale che fosse il loro atteggiamento dinanzi a tale decisione 23 non v’è dubbio ch’esso diede un’impronta fondamen­tale a tutte le discussioni e ad ogni tentativo di applicazione dei metodi del­l’organizzazione scientifica del lavoro.Quest’ultima assumerà, infatti, (dinanzi alla variazione monetaria) maggiore im­portanza: aumentando il valore in oro della moneta, primo compito degli indu­striali era di contrastare un aumento del costo in oro dei prodotti e dei servizi. In questo processo la razionalizzazione assumeva un valore particolare non do­vendo, le scelte ad essa riferite, sottoporsi a nessuna mediazione politica, come era invece per altri elementi del costo di produzione (pressione fiscale, costo del denaro, salari operai) per i quali occorreva affrontare trattative con gli uffici governativi. Ogni mutamento in questo campo, invece, poteva essere immedia­tamente deciso ed effettuato dagli industriali eliminando improduttive perdite di tempo, accrescendo la rapidità del sistema aziendale nell’adattarsi alle diverse condizioni che via via si presentavano.Indubbiamente questa azione, per potersi articolare a livello locale, doveva es­sere rivolta non solo verso la borghesia industriale, ma doveva pure legare a sé anche quella schiera ancora esigua di tecnici della produzione organizzati nel­l’Associazione fascista dirigenti aziende industriali (AFDAI) — fondata nel 1926 — che costituivano il trait d ’union tra la proprietà e la struttura della fabbrica24.In quest’ambito, di riduzione dei costi e di crescente peso di determinati settori delle leve intellettuali tecnico-scientifiche, grande importanza veniva attribuita all’unificazione dei materiali industriali. Già nel primo dopoguerra il Comitato generale per l’unificazione dell’industria meccanica aveva promosso alcune no­tevoli iniziative in questo campo, accentuando sempre più i suoi interessi, si­gnificativamente, sui problemi della razionalizzazione produttiva e del salario, come stavano a dimostrare i brillanti articoli di Mario Signori apparsi sulla ri­vista dell’Associazione, « L ’industria meccanica » 2S, che aveva tra i suoi colla­boratori e consiglieri personalità come Giovanni Conti, Riccardo Falco, Ercole Marelli, Camillo Olivetti, Pio Perrone, e che era diretta da Italo Locatelli, men­tre il Comitato aveva come presidente Giuseppe Monacelli. Soltanto dopo il 1926 la « questione dell’unificazione » assume quell’importanza centrale, nel contesto dell’iniziativa industriale, che prima s ’era ritrovata soltanto nelle affer­mazioni teoriche o di principio: nell’ottobre del 1926 Locatelli veniva chiamato a rappresentare l ’ENIOS nella Commissione dei costruttori edili creata per

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23 Per una interpretazione complessiva e una discussione sulla storiografia cfr. di v. castro­novo, La storia economica, (il § 3 « Quota Novanta » del cap. I della Parte III) cit., pp. 267-276.24 Sui rapporti tra l’Associazione e l ’ENIOS confronta Notizie e commenti, in « Organiz­zazione scientifica del lavoro » (d’ora in poi indicata OSL), settembre 1928, dove sono ripor­tati dati e notizie sulla diffusione della rivista dell’Ente tra i tecnici e i dirigenti industriali.25 Cfr. Mario signori, La questione del salario, in « L ’industria meccanica », 1922, n. 3.

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diffondere nell’edilizia l ’unificazione dei materiali e la meccanizzazione degli im­pianti; Adriano Olivetti prendeva parte ai lavori del Comitato dell’industria meccanica per la determinazione dei tempi di lavoro in rapporto all’unificazione dell’utensileria e delle parti di macchine26; nel dicembre del 1927, infine, la Commissione tecnica per l ’unificazione dei materiali metallici approvava la clas­sificazione di base per l ’unificazione dei materiali siderurgici e lo schema dei principi direttivi da assumersi come base per i simboli di designazione conven­zionale dei materiali unificati; ugual cosa si faceva per l’unificazione di alcuni tipi di acciaio 27 *.Fatto significativo del divario esistente tra il nostro paese e quelli maggiormente industrializzati e dotati di una più grande elasticità della domanda interna, si dava grande risalto alla visita compiuta dal Direttore nazionale della federazione fascista dei costruttori alla sede dell’Associazione tedesca per la standardizza­zione degli elementi e dei tipi industriali2S: la « Deutsche Industrie Verein » veniva additata come esempio di un’organizzazione e di un rinnovamento che, stimolato dalla guerra, aveva ormai investito tutto l’apparato industriale tedesco impegnato nella produzione in serie.Naturalmente tali esperienze non potevano riportarsi meccanicamente in Italia senza una precisa riduzione del campo applicativo. Infatti tale questione deve essere inserita nel più generale contesto della applicazione dell’organizzazione scientifica del lavoro nelle aziende, del metodo Bedaux per la razionalizzazione e la diminuzione del costo di produzione e l’aumento della produttività per ad­detto così come concretamente s’attuarono nel nostro paese. Grande importan­za, tuttavia, assumono alcune esperienze teoriche che costituiranno le basi per tutti i tentativi applicativi successivi. Esaminare le prime è, in fondo, tentare di costruire, unitamente al confronto con l ’esperienza internazionale, un metro di giudizio che metta in evidenza il distacco tra innovazione e capacità e/o possibilità realizzative. Sono significativi, negli anni precedenti la grande crisi, alcuni accenni ad una più estesa generalizzazione del concetto di razionalizza­zione industriale, ad una sorta di teorizzazione dei sistemi industriali che rie­cheggiano e preannunciano in alcuni casi la stessa ricerca operativa, introdotta in Italia solo da alcuni anni29.Il più audace di tali « teorizzatori », come è proprio d’una figura così atipica ed anticipatrice, è senza dubbio Adriano Olivetti, che s’era distinto, favorito dalla particolarissima condizione socio-economica della manodopera e dall’alta specializzazione della sua impresa, in esperimenti innovatori notevoli30. Esem­pio tipico di ciò è il suo articolo sul: Controllo produttivo e sui sistemi moderni in una azienda inejficiente. Seguendo l’indicazione di Knoeppel (il graphic pro­duction control) egli giungeva alla delineazione di un modello formale d ’inter­vento che poteva essere d’aiuto agli imprenditori ed ai tecnici della produzione. Dopo aver tracciato uno schema dell’organizzazione « presente » suddiviso per prodotto, impianto, metodi, si doveva passare, secondo le sue indicazioni, a tracciare lo schema del « tentativo d ’organizzazione » definendo un piano gene­rale della lavorazione e delle commesse, la predisposizione organizzativa dell’uf­

26 Cfr. su ciò II movimento italiano per l’organizzazione scientifica del lavoro, in O S L , o t­tobre 1926.22 C fr. Rassegna dell’unificazione, in O S L , gennaio 1928.2S Cfr. Una visita alla D.I.N. di Berlino, in O S L , m arzo 1928.

Cfr. Enrico brambilla, La ricerca operativa come scienza della direzione, in « M anage­ment International » , 1961, n. 4.30 Cfr. bruno c aizzi, Camillo e Adriano Olivetti, T orino, 1962.

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ficio di produzione, le funzioni del personale per categoria e qualifica, la coordi­nazione generale dell’organismo aziendale31. Ciò che colpisce in questa costru­zione intellettuale, è, da un lato, il profondo elemento di razionalità in essa presente, dovendosi tutto predisporre e formulare in modo dipendente dalla direzione generale della produzione, centro e motore dell’organo-azienda, dal­l’altro, l’assiomatizzazione di condizioni ideali di assoluta imperturbabilità al­l ’interno dell’azienda e la delineazione di limitate variabili per la previsione del­le alterazioni del ciclo economico generale.Questo intreccio di forza ed insieme di debolezza teorica consentiva, però, di delineare una concezione della organizzazione scientifica del lavoro non forza­tamente limitata al ristretto ambito di un’empirica definizione delle norme del lavoro operaio, ma tesa a prefigurare forme di organizzazione più complesse e vaste l’una all’altra integrantesi. Non a caso, infatti, proprio in questo periodo l’attenzione sulla razionalizzazione del lavoro d’ufficio si fa frequente e ricca di spunti. La questione sorgeva dalla crescente consapevolezza dell’accentuata parcellizzazione del lavoro impiegatizio già verificatasi in alcune delle maggiori aziende e, soprattutto, dall’urgenza imposta dai problemi relativi alla crescita dei costi generali che questa maggiore socializzazione del lavoro produceva. « Quando un impiegato indugia un po’ — si diceva — vi è la tendenza al ri­tardo in tutto un ufficio ». La soluzione era nell’applicazione del metodo dei tempi standard « per controllare e misurare meglio gli impiegati ». In tal modo si sarebbe potuto confrontare il lavoro compiuto dai singoli e procedere per quella via alla selezione dei capi ed alla distribuzione uniforme del lavoro. Stan­dardizzate le operazioni non rimaneva che rapportarle a dei parametri scienti­fici, rapportarle cioè ai punti Bedaux opportunamente applicati32.Il problema assumeva però altra forma quando si trattava di investire di questa generale riflessione non più solamente il lavoro « improduttivo » aziendale, ma si voleva trarne motivo per proporre una riforma generale dell’amministrazione statale, dei suoi metodi e delle sue caratteristiche di lavoro. L ’ENIOS recepisce continuamente queste spinte, abbandonando però le affascinanti ma generiche requisitorie vagheggiami una totale modifica della burocrazia statale, per sfor­zarsi, invece, di proporre precisi obiettivi di riforma. Esigenza, questa, di tutta una schiera di studiosi ed esperti amministrativi, che si fa sentire soprattutto negli articoli di Roberto Malinverni, che già nel 1925 aveva affrontato con gran­de chiarezza questi problemi, dal riordinamento delle ragionerie alla normalizza­zione degli stampati, dalla meccanizzazione dei servizi al sistema della classificazio­ne archivistica, sino alla richiesta fondamentale della riforma del meccanismo di avanzamento del personale che doveva avvenire non più in base all’anzianità ma secondo un rigido criterio di valutazione delle capacità professionali33.L ’occasione perché tutte queste istanze si precisino definitivamente verrà data dall’emanazione del DM 26 ottobre 1928 con cui il Capo del governo nomi­nava un Comitato per lo studio « del perfezionamento dei metodi di lavoro e di controllo delle Amministrazioni dello Stato ». Decreto quanto mai vago e generico nelle formulazioni e che non produrrà nessuna di quelle modificazioni auspicate. Rappresentava soltanto un timido tentativo di adeguamento ad un

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31 Cfr. Adriano Olivetti, L ’introduzione dei sistemi moderni in una azienda inefficiente, in OSL, settembre 1926.32 Cfr. Misurazione del lavoro degli impiegati, in OSL, gennaio 1929.33 Cfr. Roberto malinverni, Amministrazione dello Stato ed economia libera, in « Rivi­sta di politica economica », ottobre 1925 e La razionalizzazione dell’Amministrazione statale, in OSL, novembre 1928.

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processo già in corso in altri paesi: negli Stati Uniti l’introduzione dell’ejficiency negli uffici statali datava da molto tempo, ed in essi si introdussero, già nel 1890, le macchine per statistica tipo Mollerikt; in Francia nel 1922 fu istituita una commissione governativa per apportare riforme ai pubblici servizi; in Ger­mania era da tempo in vigore un ente pubblico per lo studio dei processi di razionalizzazione dei principali settori amministrativi dello stato.L ’arretratezza che poteva essere verificata sul piano del confronto con altre esperienze europee, risulta ancor più nella sua specificità, solo se si pensa al fatto che questa efficienza che tutto doveva permeare, trovava profondi ostacoli nella sua attuazione per la permanenza di vasti settori burocratici per nulla inclini a rinunciare alle loro codificate prerogative, irrobustite dalla forza d ’iner­zia e di conservazione che tenacemente le teneva abbarbicate a specifici privilegi. Il regime, infatti, aveva una delle sue più forti basi di consenso proprio in que­sto apparato statale, fino a farsene condizionare in larga parte dei suoi atti am­ministrativi e politici ed a trovare in esso, unitamente alla borghesia industriale, uno dei punti di forza del suo sistema di potere34.Ma non può essere ipotizzato un processo di disincentivazione delle istanze in­novative fondato sul contrasto tra mondo dell’industria ed apparato statale o tantomeno, come vedremo, tra il quadro istituzionale e quelle che si definisco­no le « esigenze capitalistiche ». Senza dubbio i contrasti e gli obiettivi momenti di contraddizione, per quel che riguarda il primo dei due aspetti della questione, esistono ed esistevano. Ma di per sé non sarebbero stati sufficienti a spiegare il corso degli avvenimenti ed a segnare le sorti della diffusione dell’organizza­zione scientifica del lavoro in Italia. Contrasti e contraddizioni esistevano al­l ’interno stesso del fronte industriale ed erano essi che costituivano, in ultima istanza, i condizionamenti più decisivi del processo innovativo. I termini della questione s ’esplicitarono già nel corso della Conferenza economica internazionale di Praga organizzata nell’ottobre del 1928 dall’Unione internazionale delle as­sociazioni per la Società delle Nazioni, quando il direttore dei Servizi di ricer­ca del Bureau International du travail, nel corso del suo discorso attaccò fron­talmente la politica industriale del gruppo dirigente della Confederazione gene­rale fascista dell’industria italiana. Dopo aver affermato che « il y a une inter­dépendance absolue entre les faits economiques, et les faits sociaux », prose­guiva ricordando le frasi pronunciate da Gino Olivetti, segretario della Confin- dustria e membro del Consiglio d’amministrazione del BIT e della Camera di commercio internazionale, in merito alle questioni della razionalizzazione: « Il y a une organisation international du travail — aveva detto Olivetti — qui veut, e je ne m’en plains pas, hausser le niveau de travailleurs [...] Réflechissez 31

31 Si cfr. ad esempio, Alberto aquarone, L ’organizzazione dello Stato totalitario, Torino, 1965, là dove affronta i problemi sollevati dalla legge del 31 gennaio 1926 (n. 100) sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche e della « ostilità sorda della buro­crazia ministeriale » suscitatasi a questo proposito (pp. 78-79). Si cfr. inoltre di sabino CAS- sese l ’introduzione a L ’amministrazione pubblica in Italia, Bologna, 1974, p. 39 e sgg. dove il discorso « burocrazia e innovazione » è riproposto in termini nuovi quali quelli del confron­to tra le « strategie » dell’innovazione. Di pierò calandra, si cfr. Parlamento e amministra­zione. L’esperienza dello statuto albertino, Milano, 1971, pp. 391-444, essenziale per affron­tare questi problemi, v. castronovo, in La storia, cit., giustamente sottolinea che « se di un <blocco sociale) preminente si deve parlare durante if fascismo, questo sembra costituito più che dal binomio agrari industriali, dalla convergenza fra grande industria e burocrazia statale, cresciuta in forze negli anni ’30 in seguito al consolidamento del parastato e dell’in­tervento pubblico nell’economia, ma irrimediabilmente <inquinata) anche da fenomeni ne­gativi e frenanti di inefficienza amministrativa e di parassitismo », p. 331.

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à ceci: il y a de pays qui n’ont que cette ressource: la main d’ouvre en sura­bondance, et qui n’ont pas de matières premières, de combustible. Vous de­mandez que ces pays, dans le prix de revient, fasse figurer la rémunération du travail humain au même niveau que dans les autres pays plus riches et disposant de touts les éléments necessaires pour la vie économique [...] ». Que­sta posizione, secondo il direttore dei Servizi di ricerca del BIT, non poteva non precludere la via a quelle ch’erano le condizioni essenziali per la raziona­lizzazione dei processi produttivi e, più in generale, delle relazioni industriali nel loro complesso, quelle cioè ch’egli sintetizzava in questa affermazione:Il y a intérêt à assurer une bonne organisation de la paix sociale de la manière a rendre possible une bonne organisation economique, ou celle ci demande une production abondant, une production à bon marché e des facilités d ’achat. Il y a intérêt pour chaque pays à avoir un marché intérieur composé des clients qui avent de l ’argent. Pour conséquent, cette élé­vation du niveau de vie des travailleurs implique la stabilisation de la production écono­mique et de son exportation [ . . . ] 35.

Ma porre questi problemi, voleva dire, di fatto, porre il problema del grande esempio proposto in quei tempi dal più potente paese dell’imperialismo mon­diale: dagli Stati Uniti d’America. Voleva dire porre all’ordine del giorno, in­somma, il problema dell’« americanismo ». Non v’è dubbio, infatti che già al­l ’inizio degli anni venti, e poi con tanta più forza negli anni della grande crisi, e sempre più fortemente quando l ’esperienza del New Deal apparirà agli occhi degli industriali (al di là della retorica fascista che in esso vedeva un’applica­zione americanizzata del credo corporativo), come un diverso modo di risolvere il problema del mercato e del controllo sulla forza-lavoro, il mito dell’America cresce e si diffonde nel nostro paese, quasi un miraggio di un armonioso supe­ramento delle contraddizioni.Col New Deal, invece, e di ciò s’inizia ora ad aver consapevolezza, veniva a compiersi il processo di consunzione dell’età liberale e della società fondata sul mercato autoregolato, estremo limite d’una profonda trasformazione iniziata molti anni prima.36 Ciò che conta, comunque, è sottolineare che il mito ame­ricano fu un riflesso ed una manifestazione insieme del mutamento sociale che iniziava a delinearsi col diffondersi del capitalismo di consumo, dell’instaurarsi della società di massa e del « formarsi di oligarchie in seno alle molteplici forme — per dirla con Michels — di democrazia » 37 *. Introducendo quel volume tanto importante per la nostra storia letteraria, ch’è Americana. Raccolta di narratori dalle origini ai nostri giorni, edito da Bompiani a cura di Elio Vittorini, Emilio Cecchi così sintetizzava efficacemente questo mutamento dell’orientamento del- l ’immaginario collettivo: « L ’inizio della guerra 1914-1918 trovò i lettori di tut­to il mondo a testa china sui romanzi russi. E l ’inizio della nuova guerra, nel 1939, li ha trovati a testa china sulle novelle e sui romanzi americani » 3S.Ma per l ’élite industriale italiana, rigidamente vincolata dalle condizioni strut­turali del paese e talmente composita da non essere in grado di esprimere, mol­

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35 Cfr. Union Internationale des association pour la Societé des Nations, Conférence Eco- nomique Internationale Organisée sous la haute protection de M.T.G. Masaryk, Prague, 1928, p. 65 e sgg.36 Ci riferiamo qui ai problemi sollevati da KARL polany ne La grande trasformazione, To­rino, 1975. Sulla « grande depressione » e i problemi delle civiltà industriali cfr. di ernesto galli della loggia, Verso gli anni '30: qualità e misure di una transizione, in « Belfagor », 1974, n. 9, pp. 489-509.37 Cfr. Roberto m ichels, L’organizzazione del partito politico, Bologna, 1966, p. 523.33 Cfr. e . cecchi, Introduzione a Americana. Raccolta di narratori dalle origini ai nostri giorni, a cura di E. Vittorini, Milano, 1943, p. IX.

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to spesso, un orientamento univoco sulle questioni dello sviluppo, la questione era molto più complessa e l’accettazione del mito americano per nulla scontata. La prima verifica di ciò la si ebbe già prima della crisi, in modi e termini para­digmatici ed espliciti, nel caso del I Congresso dell’ENIOS, del giugno 1928 39.L ’on. Francesco Mauro incentrò tutto il suo discorso sul rapporto tra Stati Uniti d’America ed Italia, facendo dei primi un punto di riferimento imprescindibile per lo studio e l’applicazione dei metodi scientifici. A questa impostazione ri­spose Gino Olivetti, colui che ne II fascismo e l’industria aveva collegato l ’asce­sa politica del fascismo alle sorti stesse dello sviluppo industriale italiano, fa­cendo del primo il garante di quella pace sociale necessaria per il riammoder­namento e l’espansione produttiva40. Parlando dello sviluppo recente dell’ENIOS Olivetti riconosceva i responsabili delle diffidenze inizialmente suscitate tra va­sti strati industriali negli stessi tecnici e teorici dell’organizzazione. Questi ave­vano dimenticato che le differenze tra il mercato europeo ed americano erano troppo profonde, ancor più evidenziate dal fatto che « il meccanismo america­no — diceva ancora Olivetti — ha qualcosa di freddo e di uniforme che male si adatta al nostro temperamento ». Ciò che importava al segretario della con­federazione industriale era di respingere decisamente ogni ipotesi fordiana che, per qualunque via, potesse affacciarsi all’orizzonte. L ’ipotesi dell’onorevole Mauro presupponeva una profonda modificazione del rapporto capitale-prodot­to, fondata (nel primo momento del suo sforzo applicativo) su un grande aumen­to proporzionale del capitale fisso ed un incremento conseguente della capacità produttiva. Non è da scartare l’ipotesi che nella strategia della confederazione —- uguali saranno le preoccupazioni d’un Benni e d’un Balella — ci si preoccu­passe pure di respingere sul nascere quell’ipotesi politica che fino al 1932 tro­verà udienza tra alcuni gerarchi fascisti di ascendenza nazionalistica: l’ipotesi, cioè, lucidamente ipotizzata da Alfredo Rocco, di una sintesi tra stato autorita­rio e stato di massa, realizzata tramite un consenso basato su un regime degli alti salari, i cui modelli erano appunto il fordismo americano e lo stato gu- glielmino41. Nessun accordo era possibile su questa ipotesi con gli industriali italiani piccoli e medi, e neppure essa era realizzabile integralmente nelle più grandi e meno arretrate aziende42.Nelle sue riflessioni dal carcere Antonio Gramsci individuava lucidamente pro­prio in quegli anni in quali termini più generali si ponesse la questione:Il problema è questo — diceva — se l ’America, col peso implacabile della sua produzione economica (e cioè indirettamente) costringerà o sta costringendo l’Europa a un rivolgimento della sua assise economico-sociale troppo antiquata, che sarebbe avvenuto lo stesso, ma con un ritmo lento, e che immediatamente si presenta invece come un contraccolpo della « prepotenza » americana; se cioè si sta verificando una trasformazione delle basi materiali della civiltà europea, ciò che a lungo andare (e non molto a lungo, perché nel periodo at­tuale tutto è più rapido che nei periodi passati) porterà ad un travolgimento della forma di civiltà esistente e alla forzata nascita d ’una nuova civiltà43.

Ma questa nuova civiltà, secondo Gramsci, trovava però dinanzi a sé le resi­stenze del « vecchio ceto plutocratico » che avrebbe voluto conciliare quella

39 Cfr. Il I Convegno Nazionale dell’ENIOS, in OSL, giugno 1928." Cfr. gino Olivetti, L’industria e il fascismo, nel volume antologico La civiltà fascista, Torino, 1928.41 Cfr. paolo ungari, Alfredo Rocco e l’ideologia giuridica del fascismo, Brescia, 1963, p. 93.42 Cfr. su questi problemi v. castronovo, op. cit., p. 502 e sgg. e g. sapelli, op. cit., p. 49 e sgg.43 Antonio gramsci, Americanismo e fordismo, in Note sul Machiavelli sulla politica e sullo stato moderno, Torino, 1949, p. 343.

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« forma modernissima di produzione » qual era rappresentata dall’americanismo e dal fordismo con una « vecchia anacronistica struttura sociale demografica », che si concretava in quell’« esercito di parassiti » divoratori di plusvalore, rap­presentanti sociali d’una ormai arretrata stratificazione sociale, politica e intel­lettuale dei paesi europei44 45. Non v’è dubbio, infatti, e noi già lo abbiamo sot­tolineato, che proprio le posizioni della rendita e gli interessi delle caste buro­cratiche abbarbicati ai loro consolidati o nascenti privilegi costituivano un po­tente ostacolo al disegno generale di razionalizzazione integrale auspicato dai fautori italiani del « fordismo ». Ma il problema ulteriore ed essenziale, speci­fico della situazione italiana, era quello rappresentato dal significato che tutto questo aveva avuto anche per lo sviluppo dell’industria che si trovava a presen­tarsi al confronto con i « vecchi ceti plutocratici » non unita, non compatta nel propugnare un impossibile americanismo, ma invece divisa sia nei confronti delle altre industrie europee, e ciò s’era visto alla Conferenza economica di Pra­ga del 1928, sia al suo stesso interno, così com’era apparso chiaramente al Con­gresso internazionale sull’organizzazione scientifica del lavoro e soprattutto con più grande chiarezza nel corso del dibattito provocato dall’intervista rilasciata alla United Press nel 1931 da Giovanni Agnelli43. Rinnovamento tecnologico e innalzamento del monte salari globale per favorire l’espansione del mercato in­terno ed il superamento della crisi o intensificazione dello sfruttamento della forza lavoro continuando a perseguire una politica di bassi salari e di ricorso al mercato estero o alla « esportazione interna » 46 delle commesse statali? Questi i dilemmi della questione, che si ponevano in modo tanto più radicalizzato quan­to più s’operava in un quadro istituzionale che, garantendo la disciplina operaia, poteva consentire l ’attuazione della manovra d ’innalzamento salariale soltanto come un processo generalizzato, uniforme e simultaneo sotto il controllo del­l’apparato statale e, soprattutto, sotto l’egemonia della grande impresa che non poteva che avvantaggiarsi di tale provvedimento, che, non a caso, era appunto auspicato da Agnelli.Fu un acuto osservatore internazionale a dare forse il giudizio più calzante e tempestivo sulla questione, individuando chiaramente quali fossero gli interessi in gioco e le conseguenze possibili delle scelte auspicate. Nel dicembre del 1932, il direttore del ministero del Lavoro della Germania, Fritz Sitzler, scriveva in­fatti sulla rivista del Bureau international du travail: « En cas d’ajustement uniforme des salaires la rationalisation technique jouéra en faveur de l ’industrie la plus avancée. Les établissements qui emploient sourtout la force humaine seraient relativement plus atteints par la compensation des salaires que les établissements rationalisés qu’ont remplacé dans une large misure l’homme par la machine » 47. Per questo non soltanto era difficile, secondo Sitzler, raggiun­gere un accordo tra le imprese d’una stessa nazione, ma era addirittura impos­sibile raggiungerlo su scala europea, così com’era auspicato da Agnelli.E tale situazione non poteva non condizionare anche gli stessi propugnatori di tali ipotesi, costretti ad agire nell’ambito delle regole della concorrenza e del

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44 Cfr. A. GRAMSCI, op. cit., p. 312.45 Cfr. v. castronovo, G. Agnelli, pp. 506-509.46 Per il concetto di « esportazioni interne » ci riferiamo a quanto afferma michal kalecki in Studi sulla teoria dei cicli economici 1933-1939, Milano, 1972; il cap: « I l commercio estero e le <esportazioni interne»», p. 47, ora in M. kalecki, Sulla dinamica dell’economia capitalistica, Saggi scelti 1933-1970, a cura di C. BofBto, Torino, 1975, pp. 21-32.47 Cfr. fritz sitzler , La reduction international de la durée du travail in « Revue inter- national du travail », dicembre 1932, pp. 799-812.

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profitto capitalistico, con le conseguenze che tutto ciò aveva all’interno del­lo stesso luogo di produzione. Nelle fabbriche, infatti, anche se nel 1928 s’era fondata su iniziativa della FIAT la Società per la diffusione del sistema Taylor proprio tale sistema, tipicamente americano, non s ’introdusse, nonostan­te la gran confusione che ancor oggi è presente sulla fortuna del « taylorismo in Italia ». Non a Taylor si guardava ma a Bedaux, non alla politica degli alti salari e del controllo capitalistico dispoticamente laico e consumistico, non alla creazione d’una « società corporata » fondata sul condizionamento degli indi­vidui sull’onda d’una modernizzazione dilagante come già s ’affermava in Ame­rica: in Italia si era, invece, soltanto ai prodromi d ’una simile impresa che si compie solo ora, nonostante che nel fascismo — basti pensare a Massimo Fovel ed alla polemica tanto istruttiva che dal carcere Gramsci instaurò con lui — fossero presenti forze che auspicavano simili scelte48. All’interno del luogo di produzione si decantavano invece le arretratezze italiane e in quel contesto, fortemente condizionato dalle caratteristiche del nostro sistema industriale, si esplicitava chiaramente il rifiuto all’introduzione del sistema Taylor e alla diffu­sione del « fordismo ».Ci avviciniamo così a cogliere il vero carattere che il processo di razionalizza­zione avrà in quel periodo soprattutto nelle piccole e medie industrie italiane che costituivano il tessuto connettivo del sistema economico: limitazione di ogni procedimento che presupponesse un forte investimento in capitale fisso, rifiuto di ogni riorganizzazione del ciclo di lavorazione sulla base di una piani­ficazione a lunga scadenza (per via dell’instabilità dei mercati), adozione di quelle misure tecnico-pratiche intese a ridurre la manodopera, ad eliminare completamente i tempi morti. L ’adozione del sistema Bedaux, nelle piccole e grandi imprese, inoltre, segnava la distintiva particolarità del processo di razio­nalizzazione in Italia, dove la dittatura dispotica sulla forza lavoro faceva del salario una variabile dipendente su cui scaricare tutte le difficoltà del processo di accumulazione capitalistico, che si vedeva così nella possibilità di risolvere i problemi dell’innalzamento della produttività grazie all’accentuazione dello sfruttamento del lavoro salariato piuttosto che sul rinnovamento tecnologico. È indubbio che una simile « via alla razionalizzazione » era la più praticabile per le piccole e medie e la più immediatamente profittevole (anche se non l ’unica) percorsa dalle grandi imprese.Solo se si riflette sul carattere di cottimo lineare rallentato del Bedaux si riesce, infatti, ad individuare dove si celava l’interesse aziendale che giustificava la sua applicazione. Il Bedaux è basato sul fatto che la percentuale di cottimo è proporzionale al rendimento secondo un coefficiente di proporzionalità minore di 1 (4/5) e il lavoro supplementare derivante dall’incentivazione viene così ricompensato di meno del lavoro a economia, anche quando la paga di riferi­mento corrisponde a quella fissa. « Il Bedaux — si diceva inoltre, e questo è l’elemento fondamentale — s’inoltra soltanto nel campo dei sistemi di lavora­zione, considerati alla stregua dei mezzi e dei procedimenti usati, per portare a miglioramenti tecnici d’impianto. Egli (sic) si limita quindi a portare le mae­stranze tutte al migliore grado di rendimento fisico, indipendentemente dal modo in cui questo rendimento è utilizzato » 49. Il metodo di organizzazione

48 Cfr. su questi problemi gianpasquale santomassimo, Ugo Spirito e il corporativismo, in «Studi storici», 1973, n. 1, pp. 61-113; e di A. gramsci, op. cit., pp. 319-323.49 Cfr. Il sistema Bedaux per la misurazione dell’energia umana applicata al lavoro, in OSL, aprile 1928. Il sottotitolo dice: « Siamo grati alla direzione delle officine di Villar Perosa, che hanno benevolmente fornito all’E.N.I.O.S. gli elementi per l ’illustrazione in parola ».

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della prestazione lavorativa veniva così assunto nella sua accezione più speci­fica e più funzionale: in un regime di instabilità dei tassi di sviluppo produt­tivo il legame tra diffusione degli investimenti e razionalizzazone dello sfrutta­mento poteva far gravare sui bilanci ammortamenti e spese che potevano esse­re evitate puntando invece solo su una variabile: quella del rendimento e del­la produttività sulla base dell’intensificazione del lavoro operaio. Il regime di dittatura politica — con la conseguente distruzione degli organismi di autodi­fesa di classe dei lavoratori e la pianificazione del licenziamento e della riassun­zione in condizioni stabilite solo dall’azienda — poteva assurgere a sostituto effi­cace e flessibile dell’investimento in capitale fisso.La ristrettezza e le dimensioni largamente speculative del mercato finanziario impedivano agli industriali di attuare, del resto, una trasformazione degli im­pianti tale che rendesse possibile il completo sviluppo dell’organizzazione scien­tifica del lavoro: solo grazie al ricorso al capitale straniero, effettuato da alcune industrie (FIAT, seta artificiale, idroelettriche), questa potè inizialmente affer­marsi50. Naturalmente questo non vuol dire la fine e la paralisi di ogni inno­vazione industriale. Ma essa si esercitava non tanto sul terreno della modifica­zione radicale della struttura impiantistica dell’apparato produttivo, anche se importanti progressi si realizzarono nel settore delle macchine utensili, quanto piuttosto su quello dell’organizzazione dell’erogazione della forza lavoro, giun­gendo in questo campo a risultati, questi sì, veramente anticipatori. Basti pen­sare all’introduzione degli uffici di analisi dei tempi e dei metodi, che sconvol­geva la stessa struttura autoritaria del reparto di produzione. La vecchia man­sione del capo infatti si riduceva a puro e semplice controllo dispotico della forza lavoro per assicurare il rispetto degli ordini emanati dall’ufficio tempi. Al capo subentravano i tecnici preposti all’organizzazione della produzione nell’in­dustria che potevano allora distinguersi in tre categorie: a) tecnici superiori; b) analisti addetti all’ufficio tempi per il controllo delle lavorazioni (Time study man); c) cronometristi specializzati nella « misurazione del rendimento del­l’operaio » 51.Occorre subito dire, però, che tali processi si generalizzavano soltanto nelle gran­di aziende, quelle della produzione in grande serie e che, ancor oggi — nono­stante le ricerche che si son fatte in questo campo — le esemplificazioni sono assai scarse, sulla base della documentazione disponibile, del processo in atto nelle industrie. La stessa carenza delle fonti, però, è significativa e il suo vertere essenzialmente sul rinnovamento dei processi tecnici e dei metodi di intensifi­cazione della prestazione lavorativa, mancando una diffusa applicazione della concezione integrale della razionalizzazione (che va dalla riduzione dei costi della produzione agli uffici, alla vendita, alla formazione della forza-lavoro), ri­vela alcuni sintomi precisi di arretratezza. Il livello dell’elaborazione e della spe­rimentazione poteva già dirsi ben strutturato ma ancora, nella generalità della situazione industriale, alquanto separato dal momento dell’applicazione e va­lorizzazione del progetto.

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50 Una brillante analisi di questo problema si trova, ancor oggi, nell’articolo di angelo tasca, La rivalutazione della lira e i prestiti americani, in «Stato Operaio», 1927, n. 3, pp. 356-366, riportato, in parte, nell’antologia a cura di LUCIO villari, Il capitalismo italiano del novecento, Bari, 1972, pp. 172-179.51 Cfr. lorenzo benzi, Organizzazione del Reparto Utensileria. Cenni sui metodi seguiti per organizzare il lavoro in un reparto utensileria e sui sistemi di retribuzione della manodo­pera, Torino, 1931, p. 12. Si tratta di una interessante esemplificazione di concrete realizza­zioni che avevano luogo « in un importante stabilimento torinese ».

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Nulla di paragonabile con quanto avveniva nella lontana America, in cui lo sviluppo era stato favorito dalla relativa rarità della manodopera, dall’alta con­centrazione produttiva e dall’elevato regime salariale che — se garantiva un vasto mercato — imponeva la ricerca continua d ’una alta produttività per ad­detto. Ma se tutto ciò che riguardava il primato americano in questo settore era un dato scontato, più interessante sarebbe riflettere sulla molto differenziata situazione europea. La Germania era indubbiamente alla testa del movimento di diffusione dell’organizzazione scientifica del lavoro: superati, pur se soltanto provvisoriamente, con la stabilizzazione monetaria del 1924, i più gravi danni che la situazione post-bellica aveva arrecato al paese, s ’assistette al rapidissimo diffondersi della razionalizzazione nell’industria, con l’impegno dei più grandi gruppi capitalistici e la collaborazione condizionata dei sindacati operai. A dif­ferenza della Germania, la Francia, pur trovando nelle istituzioni statali e cultu­rali incoraggiamenti e stimoli, doveva con grande lentezza incamminarsi sul terreno della razionalizzazione: una situazione tipica, se si esclude la Cecoslo­vacchia, di tutti i paesi dell’Europa, ed in primo luogo di quella che era ancora la sua più grande potenza finanziaria, l’Inghilterra. Negli anni che vanno dalla prima alla seconda guerra mondiale, l’Italia era circondata da partners — se si esclude il caso della Germania — impegnati piuttosto che nell’applicazione pratica della razionalizzazione, in un lavoro di ricerca e di studio. E l’esperien­za italiana era ben lontana non solo dall’irraggiungibile esempio americano, ma anche dalla altrettanto seguita esperienza tedesca, separata da essa dalle ben diverse condizioni economico-sociali52.Tra le teorizzazioni stimolanti degli intellettuali della produzione, attuabili sol­tanto in alcuni grandi complessi, e l ’effettiva realizzazione su larga scala del­l’organizzazione scientifica del lavoro lo iato era dunque profondo ed irrisolu­bile. L ’aspetto forse più interessante è proprio il fatto che all’arretratezza strut­turale ed innovativa corrispose in quegli anni una ricchezza di elaborazione e di studi ancora tutta sconosciuta. È un capitolo, questo, della storia degli in­tellettuali italiani durante il fascismo che la nostra storiografia ancora si ostina ad ignorare tutta protesa a far rinverdire, su questi problemi una concezione della cultura tutta umanistica e letteraria53.

52 Una documentazione su questi problemi può essere ricavata esaminando il « Bulletin de l’Institut international d ’Organisation scientifique du travail », organo del Comité interna­tional de l’organisation scientifique, fondato a Parigi nel 1924 e di cui facevano parte il Bel­gio, la Bulgaria, gli Stati Uniti, la Francia, la Polonia, la Romania, la Cecoslovacchia, la Jugosla­via. Altre nazioni (quali la Germania, l ’Inghilterra, l ’Austria, la Danimarca, la Spagna, l ’Olan­da, il Giappone, la Russia, la Svezia e la Prussia) avevano costituito organizzazioni nazionali in contatto con il comitato. Importanti alcune documentazioni ufficiali del Bureau interna­tional du travail, quali ad esempio: L’organisation scientifique du travail en Europe, Genève, 1926; Les aspects sociaux de la rationalisation. Etudes préliminaires, Genève, 1931. Infine, sempre del BIT, la rivista « Revue international du travail », di cui ci permettiamo di citare alcuni saggi fra i più indicativi; essi possono cioè definirsi i più utili per cogliere determi­nate linee di tendenza europee ed internazionali. Non a caso negli anni successivi al 1930 la rivista non ospiterà più nessuno scritto fondamentalmente innovativo sulla questione. Cfr. henry f u s s , Rationalitation et chômage, février 1928, pp. 851-867; Rapports et enquêtes, Les relation industrielles aux Etats-Unis, janvier 1929, pp. 79-85; l. H. richardson, Les pré­vision économique aux Etats-Unis. Les méthodes appliquées par certaines entreprise, février 1929, pp. 184-203; Rapports et enquêtes, Les conditions du travail dans une entreprise ra­tionalisée. Le système Bat’a et ses consequences sociales, janvier et février 1934, pp. 48-72 e 167-190; F. g. spats, Les relation industrielles dans les établissement Zeiss, août 1930, pp. 184-206; g. h. Johnston, Le tecnique de la discussion dans les relations industrielles aux Etats-Unis, novembre 1930, pp. 651-674.

Esistono, pero, dei brillanti esiti d ’una storia della « cultura non umanistica » che qui ci interessano, quali, ad es., quelli di s. ca ssese , G. Bottai un programmatore degli anni

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Tuttavia queste anticipazioni e spunti ricchi d’interesse, considerevoli per la « modernità » tutta « neocapitalistica » in esse contenute, erano destinate a ri­manere lettera morta, e con essa era destinato a ridimensionarsi fortemente il ruolo àeWintellighencija tecnico-scientifica che s ’era raccolta attorno all’ENIOS. Essa s’era proposta d’essere il cuore dei processi innovativi, il motore dell’ascesa di una imprenditorialità svincolata da ogni legame con « meschini » calcoli ba­sati sull’immediato profitto, tutta protesa invece ad una redditività industriale che fondasse il dominio capitalistico su di una scientifica regolamentazione del­l ’appropriazione del plusvalore, salvaguardando l’integrità psicofisica del lavo­ratore. Documentare la svolta che a questo programma s’era dovuto impri­mere, simultaneamente al rigido ridimensionamento delle ipotesi innovative fat­te proprie da tutti quei settori industriali che per le loro dimensioni avreb­bero potuto in parte realizzarle, documentare come di questi propositi non fossero rimasti che alcune formule ed una brutale prassi oppressiva, vuol dire fare la storia, anche se in un settore assai limitato, degli intellettuali italiani, e della loro sconfitta dinanzi al potere.Basterà rilevare, in questa sede, che I’ENIOS già nel 1932 s’avviava a diven­tare, da quel centro propulsivo d ’iniziative che s ’era proposto d’essere nella metà degli anni venti, un puro e semplice ente burocratico della Confederazione industriale. Nell’Annuario confederale del 1933 la relazione di attività sul- l ’ENIOS iniziava rilevando che: « Al 31-12-1932, gli Enti che fanno parte del Consiglio Generale [dell’ENIOS] sono quaranta e fra essi si notano quasi tutte le Confederazioni Nazionali, sia dei datori che dei prestatori d ’opera, i Mini­steri tecnici, le principali Associazioni Sindacali ed i più importanti Istituti scientifici » e continuava illustrando un consultivo di lavoro che annoverava tra i suoi meriti l’istituzione del « servizio dei Soci Corrispondenti », creato appositamente per le piccole e medie aziende « inviando loro con la massima sollecitudine, poche segnalazioni aggiornate che riguardavano o problemi ge­nerali o problemi specifici interessanti le varie categorie di industrie a cui i soci appartengono » S4. L ’altro settore, infine, che rivelava il basso livello cul­turale dell’imprenditorialità italiana considerata nel suo complesso, era costi­tuito dall’Ufficio traduzioni degli articoli tecnici, che aveva per compito di la­vorare soltanto su ordinazioni ricevute da industriali. E, significativamente, s’ammetteva che « complessivamente le copie distribuite [delle traduzioni] so­no state circa 50! ». Maggior manifestazione di fallimento e di inerzia non poteva esservi. L ’ENIOS s ’era ridotto, da momento unificante d’uno sforzo imprenditoriale che si presupponeva potesse sfociare nella generalizzazione della « razionalizzazione », in un burocratico ufficio confederale.Questo non era, del resto, che il riflesso d’una situazione strutturale che, come abbiamo già ricordato, condizionava fortemente l ’azione imprenditoriale.Ci si mosse soprattutto nel senso di promuovere una più intensa e razionale utilizzazione della manodopera, con la conseguente espulsione dal processo produttivo di quella forza lavoro che in relazione a ciò si manifestò esuberante o inefficiente. I motivi sono fin troppo ovvi: da una parte la relativa scarsità di capitali che ostacolava il rinnovo di impianti tec­nici costosi, dall’altra, l ’alta capacità di scelta e di selezione che il fascismo garantiva agli

trenta, in «P o lit ic a del d ir it to » , 1970, n. 3, ora in s. ca ssese , La formazione dello stato amministrativo, M ilano, 1974, pp . 175-224; R. faucci, Finanza, amministrazione e pensiero economico. Il caso della contabilità di stato da Cavour al fascismo, T orino, 1976; G. santo- m assim o , Aspetti della politica culturale del fascismo: il dibattito sul corporativismo e l’eco­nomia politica in « I t a l i a con tem poran ea», ottobre-dicem bre 1975, n. 121, pp . 3-26.^54 Cfr. Confederazione generale fascista dell’industria italiana, Annuario 1933. L’organiz­zazione nei suoi quadri e nel suo funzionamento. Gli organi tecnici confederali e intercon- federali, Roma, 1934, pp. 286-287.

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industriali nei confronti di una manodopera esuberante, a basso costo e ormai « discipli­nata » 55.

Non v’è dubbio, del resto, e ciò è evidente nel caso dell’ENIOS, che la grande crisi assestò un duro colpo alle istanze innovative e fu l ’elemento forse decisivo del ridimensionamento dei programmi « razionalizzatori », che riacquistarono forza e vigore, però, con la ripresa impressa all’industria italiana dall’avventura etiopica, in un contesto via via sempre più fortemente condizionato dall’esi- genze dell’economia di guerra, che diverranno determinanti.Occorre evitare, infatti, facili schematismi, e sottolineare quelli che sono gli elementi essenziali del fenomeno che vedono, unitamente alla limitazione e al ridimensionamento dell’ipotesi razionalizzatrice, una applicazione ristretta di ri­forme tecnico-organizzative limitate al rapporto uomo-macchina ed alla piani­ficazione su scala di reparto, con la formazione d ’una élite tecnica nell’ambito aziendale sotto l ’esclusivo controllo padronale. Questo garantì, indubbiamente, l ’accumulazione d ’un patrimonio di conoscenze sul problema in oggetto ed as­sicurò la diffusione del sistema Bedaux56 nella produzione di serie e non di serie, salvo quando (negli anni più duri della crisi) poteva essere messa in forse la stessa pianificazione del lavoro su scala di reparto, per la precarietà delle commesse e della congiuntura57. Tutto ciò non era che la cristallizza­zione di un processo che se in parte rimaneva inespresso, per alcuni versi, in­vece, come sopra abbiamo detto, trovava applicazione nonostante la crisi eco­nomica.Senza tali precedenti esperienze non si sarebbe certo intrapresa quella realiz­zazione di grande importanza, alla luce dei problemi qui analizzati, attuata dal­l ’industria italiana prima della seconda guerra mondiale, dopo la grande crisi: la FIAT Mirafiori. Accanto ad essa non si può dimenticare l ’esperienza degli sta­bilimenti Olivetti di Ivrea, dove s ’affermò la più « razionale » integrazione della forza-lavoro in un contesto ambientale favorevole all’eliminazione dei conflitti sociali ed alla creazione d ’una mentalità aziendalistica, mentre la razionalizzazio­ne delle operazioni e il rinnovo dei macchinari consentì un netto aumento della produttività58. E similmente non può essere sottovalutato ciò che rappresentava in potenza lo stabilimento siderurgico di Cornigliano, prototipo d ’un program­ma d’ammodernamento interrotto dagli eventi bellici e che rimane una delle

55 Cfr. Domenico preti, La politica agraria del fascismo, cit., in « Studi Storici », 1973, n. 4, pp. 822-829.56 Cfr. le cifre ricavate da Mario montagnana sulla base dei dati statistici resi noti da Ugo Clavenzani, Segretario generale delle confederazioni dei sindacati fascisti deH’industria nel­l ’aprile 1933. (Numero indice = 100 nel 1927).Indice delle aziende in cui si lavora col sistema Bedaux in Italia

1927 . . . . 100 1929 . . . . 566 1931 . . . . 1.032_________ 1928 . . . . 300______________ 1930 . . . . 766______________ 1932 . . . . 1.332_________in m . montagnana, Il sistema Bedaux e la classe operaia, p. 429, in « Lo stato operaio », a. V II, n. 7, luglio 1933, pp. 428-431.57 Significativo a questo proposito quanto si diceva in un « rapporto comunista » da To­rino nel luglio del 1930: « Da notare l’impossibilità tecnica di introdurre il sistema Bedaux data la situazione irregolare e instabile della produzione, la quale col sistema Bedaux deve essere regolata e cronometrata in base ad un piano uniforme e sistematico di produzione fino alle ultime unità di base della fabbrica con termini di tempo fissi. Infatti sinora i vari ten­tativi svolti all’Aeronautica, alla Fiat, alla SPA sono falliti ed hanno suscitato un forte mo­vimento di resistenza e di malcontento negli operai ». Cfr. Pietro secchia, L ’azione del partito comunista in Italia durante il fascismo 1926-1932, Milano, 1970, pp. 336-337." Cfr. sull’Olivetti, bruno caizzi, Camillo e Adriano Olivetti, Torino, 1962.

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grandi conquiste del capitalismo del nostro paese59, in misura ben maggiore di quanto non si possa dire per la Terni60.Ma sono soprattutto le innovazioni realizzate nel grande complesso automobi­listico che ci interessano ai fini del nostro discorso. I due obiettivi finali che in questo settore si dovevano realizzare erano:

eliminare ogni trasporto passivo del materiale in lavorazione, dalla fase della materia greggia o del pezzo di magazzino al prodotto finito; e « aggiornare » la produttività media dell’ope­raio e del macchinario con una disposizione « allargata » anziché « elevata », che assicurasse un maggior grado di agibilità ad ogni macchina o gruppo di macchine e facilitasse il con­trollo sui tempi e sulle modalità di lavoro61.

Per far ciò la sistemazione dei reparti e delle catene fu ordinata secondo nuovi criteri, superando l ’impostazione dei piani sovrapposti, ormai in contrasto con10 sviluppo della produzione in serie e della lavorazione alle linee. L ’intreccio tra autoritarismo nella fabbrica, coercizione politica in tutta la società civile e ampliamento del mercato internazionale di un determinato tipo di merce, con­sentiva lo sviluppo di un processo innovativo, fortemente atipico, e concentrato in determinati settori industriali. Tuttavia proprio nelle particolarità di queste esperienze erano riflesse istanze più generali di razionalizzazione della produ­zione che avevano trovato possibilità di sperimentazione e destato energie an­ticipatrici.Un analogo processo si verificava in quegli anni per quanto riguardava la for­mazione della forza lavoro, del « capitale vivo », fonte di privata ricchezza e strumento di produzione. Da questo punto di vista si può ben dire che assi­stiamo, durante il periodo fascista, alla sovrapposizione di due fenomeni o di due svolgimenti storici dell’innovazione tecnologica e dell’introduzione dei nuo­vi metodi di lavoro. Da un lato s’assiste infatti all’affermazione di un processo che potrebbe definirsi grazie al più generale concetto marshalliano di « perfe­zionamento tecnico », laddove non si prendono « in considerazione quelle econo­mie che possono risultare da nuove importanti invenzioni » e s’intende tutto ciò che « si può attendere naturalmente... dall’adattamento delle idee esisten­ti » 62. Se si esclude il concetto di « naturale mutamento » e se ne introduce uno più comprensivo delle cause e dei riflessi sociali insiti nel fenomeno, la defini­zione di Marshall è assai utile ai nostri fini, in special modo per quel che ri­guarda le piccole e medie imprese. D ’altro canto, tuttavia, siamo anche in pre­senza, nel corso di questi anni, dell’affermazione di un vero e proprio processo innovativo che interessa le grandi imprese che costituiranno il nuovo « blocco di comando » dell’industria italiana, e che può ben essere compreso rifacendosi al concetto schumpeteriano di innovazione63. La trasformazione del macchina­rio è, in questo caso, un processo che va di pari passo con quello fondato sulla modifica dell’utilizzazione di quello esistente e del rapporto uomo-macchina e dello sviluppo di nuovi settori merceologici. In sostanza, perciò:

11 fascismo non corrispose ad una fase prolungata di ristagno economico [...] Di fatto la

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59 Cfr. Oscar sinigaglia, The future of thè Italian Iron and Steel Industry in « Banca N azionale del L avoro, Q uarterly R e v ie w » , gennaio 1948.60 C fr. franco bonelli, Lo sviluppo di una grande impresa in Italia. L a Lernt dal 18X4 al 1962, T orino, 1975, pp . 194-196 e 242-244.61 C fr. v. castronovo, Giovanni Agnelli, cit., p . 552.62 C fr. i. marshall, Principi di economia politica, (a cura di A . Cam polongo), Torino, 1972, libro V , cap. X I I , § 3 ; la citazione è a p. 623.63 C fr. Joseph A. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, in particolare il cap. Il fenomeno fondamentale dello sviluppo economico, Firenze, 1971.

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valorizzazione del capitale e l’espansione degli investimenti poterono realizzarsi nonostante la compressione della domanda privata e dell’autarchia, sulla scia dell’andamento ciclico del mercato internazionale, della fusione tra rendita fondiaria e profitto (si pensi al ruolo dei lavori pubblici) della creazione coatta di un mercato interno (bonifiche, commesse sta­tali, ecc. ...) e grazie, più tardi, alla politica di riarmo64.

Questo non vuol dire che vi fu un superamento degli squilibri infrastrutturali o territoriali, quanto piuttosto che questi s ’accentuarono nel contesto d’una pro­fonda modificazione del gruppo di comando dell’industria italiana e dello svi­lupparsi di mutamenti qualitativi del rapporto stato-industria, con la creazione delPIRI e della formazione di una élite burocratica e manageriale65, che assu­merà nel dopoguerra un peso tanto più forte quanto più crescerà il suo ruolo di struttura portante d’un ceto politico destinato a divenire, poi, uno dei più forti elementi di contraddizione per lo sviluppo del sistema.L ’intreccio tra rendita e profitto non si configura soltanto come momento spe­cifico del rapporto tra mobilitazione dei capitali e sviluppo degli investimenti quanto come elemento essenziale d ’una dinamica in cui l’arretratezza nei settori piccoli e medi e più tradizionali si accompagna alla crescita di un processo di accumulazione nei settori meccanico-metallurgico, chimico, elettrico e delle fibre tessili artificiali, come dimostrerà del resto lo sviluppo industriale che avverrà sotto la spinta della seconda guerra mondiale. Proprio nel periodo successivo alla prima guerra mondiale e poi in quello immediatamente precedente alla seconda si assiste ad una svolta in un settore cruciale per lo sviluppo tecnolo­gico del paese: quello delle macchine utensili. Secondo l’ormai classica opera del Leonardi « la situazione [del settore] cambiò radicalmente [...] nel perio­do [bellico] sia per le esigenze [di guerra] e per le difficoltà delle commesse d’importazione, sia per la notevole protezione doganale, e il settore ebbe la sua prima fase di vero e proprio sviluppo » 66.Giustamente Pasquale Saraceno aveva già sottolineato le caratteristiche peculia­ri della gestione dell’impresa nel periodo bellico ponendo fortemente l ’accento sul valore delle innovazioni impiantistiche ed organizzative realizzate in quegli anni, non soltanto per il « rilevante contributo della macchina nell’ottenimento del prodotto », che il Leonardi sottolinea in modo specifico, ma anche per l ’emergere (similmente a quanto era avvenuto nel corso della prima guerra mondiale dove il processo, però, era stato assai più consistente) di « nuove con­cezioni organizzative [... che avevano] esteso alle industrie meccaniche i pro­cessi di tipo continuo per produzione di massa caratteristici di altre industrie (in specie delle chim iche)»67.I problemi interpretativi sollevati da tali giudizi, tuttavia, se si guarda alla reale diffusione del processo, sono moltissimi. L ’esame dei valori della produt­tività e dell’incremento tecnologico dell’industria italiana per settori merceo­logici, secondo i dati forniti dalla Commissione economica dell’Assemblea Co­stituente e da alcune riviste specializzate, ci offre un quadro della situazione che non è certo quello d ’uno sviluppo innovativo simile a quello in atto, invece, nei paesi più avanzati.

64 Cfr. v. castronovo, La storia economica, cit., p. 321.63 Per un profilo di questa élite manageriale in formazione si veda la voce biografica Alber­to Beneduce, di F. bonelli, in Dizionario Biografico degli italiani, voi. 8, Roma, 1966, pp. 455-466.“ Cfr. S. LEONARDI, op. cit., p. 56.67 Cfr. pasquale saraceno, L'imposizione dei redditi di R.M. cat. B nell’attuale situazione economica, in Ricostruzione e pianficazione 1943/1948, a cura di Piero Barucci, Bari, 1969, p. 163.

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Alla fine della seconda guerra mondiale l ’arretratezza dell’industria italiana, nei confronti dei più potenti sistemi economici e soprattutto di quello americano, era manifesta per quanto riguardava la meccanizzazione, la dimensione delle aziende e il peso relativo dei vari settori merceologici. Se negli Stati Uniti l’im­piego della forza motrice non interessava, negli anni quaranta, che il 3% degli esercizi con più di cinque addetti, in Italia la percentuale saliva al 50% con­temporaneamente al permanere, sino all’immediato dopoguerra, di una situa­zione che vedeva i settori più tradizionali e a più bassa produttività, con im­prese di piccole dimensioni, (alimentari, tessili, abbigliamento, cuoio, legno, mobilio) concorrere alla formazione del 34,5 per cento (nel 1951) del pro­dotto industriale6S. Tuttavia il quadro cambia in misura assai notevole se si esamina la situazione del settore meccanico. Non v’è dubbio che la produttività del lavoro è lontana dal raggiungere il livello degli Stati Uniti e della stessa Gran Bretagna, che nel 1937, posta a 100 la produttività del settore meccani­co italiano, raggiungevano gli indici, rispettivamente di 539 e 201 68 69 e che ancora nello stesso periodo il parco macchine utensili usate dal settore con più di quindici anni di vita segnava delle percentuali oscillanti tra il 30 e il 60 per cento del totale70. Ma tale situazione muterà, come abbiamo visto, nel corso della guerra ed in ogni caso già durante il fascismo s’affermeranno quei settori produttori di beni competitivi con l’estero che saranno i principali protagonisti del processo di razionalizzazione e che interesseranno in modo pressoché esclu­sivo le grandi imprese. Pensiamo appunto ad alcuni beni strumentali quali le macchine da ufficio e i mezzi di trasporto ed al fatto (una caratteristica pecu­liare della meccanica italiana di quegli anni), che nel 1939 l ’incidenza della produzione dei beni strumentali rispetto ai beni di consumo era assai elevata: il 76,8 per cento del valore aggiunto proveniva da questo settore, mentre nello stesso anno, gli Stati Uniti facevano registrare il 61,6 per cento71. Proprio le limitate dimensioni del mercato nazionale e il peso crescente della domanda pubblica, soprattutto militare, nei confronti di quella dei consumi durevoli, fa­voriva questo processo, che veniva configurandosi come uno dei tratti distintivi (insieme a quello della crescita produttiva combinata con un sottoutilizzo co­stante 72) dell’industria e dell’economia italiana, favorendo la formazione di un « dualismo » infrasettoriale che durerà, nella sostanza, sino ai nostri giorni.Proprio quest’ultima osservazione può essere l’inizio d’una riflessione e di un approfondimento di questi problemi che miri soprattutto non tanto a definire le dimensioni dei fenomeni innovativi e dello sviluppo tecnologico operando secondo un’ottica di settore che unifica grandi e piccole imprese, aziende capaci d ’introdurre e praticare la produzione in grande serie e aziende ancora caratte­

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68 Cfr. Rapporto della Commissione economica presentato all’Assemblea Costituente, II, Industria, I Relazione, voi. I, Roma, 1947, pp. 216-217._69 Cfr. Commissione Parlamentare d ’inchiesta sulla Disoccupazione, La Disoccupazione in Italia, voi. II, tomo III , Roma, 1953, p. 352.70 Cfr. Antonio molinari, Future responsabilities of thè Italian Industry, in « Banca Na­zionale del Lavoro Quarterly Review », aprile 1947, p. 5; e inoltre, del CISIM, L industria meccanica italiana alla fine dell’anno 1951, Tivoli, 1952, e Rilievi e proposte sull’industria meccanica italiana, Tivoli, 1951.71 Cfr. CISIM , Rilievi, cit., p. 82 e sgg.72 Su questo problema pone l’accento e . mantovani nel suo saggio Dall’economia di guerra alla ricostruzione, in L’economia italiana nel periodo fascista («Quaderni storici», 1975, n. 29-30), pp. 631-655. Ma per una chiara visione d’insieme delle « Differenziazioni e degli spostamenti settoriali nel lungo periodo » cfr. di A. caracciolo, Il processo d’industrializza­zione, in Lo sviluppo economico, cit., voi. I l i , pp. 96-193, § 2-3.

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rizzate da una produzione semi-artigianale, quanto, invece, ad assumere la dif­ferenziazione merceologica e quella aziendale nei criteri di disaggregazione dei dati, per darci, così, unitamente all’esame di « casi esemplari », il quadro più esatto possibile della situazione, secondo la valutazione dell’aspetto quantitativo del fenomeno, ma senza dimenticare le discriminanti qualitative in esso pre­senti. Ciò è tanto più importante per l’esame di un periodo come quello fascista, che vede il sorgere e lo svilupparsi di nuovi e decisivi settori produttivi che diverranno le strutture portanti della nostra economia nel secondo dopoguerra73. Per questo occorre iniziare a rendere operanti anche sul piano duna analisi fondata sull’elaborazione del materiale statistico disponibile74 i concetti di mo­nopolio e di piccola impresa, di diffusione dell’innovazione necessaria per l ’af­fermazione della produzione su grande scala e di quella possibile (anche sul piano organizzativo) nella produzione non di serie. Forse allora riusciremo me­glio a comprendere quel coacervo di arretratezza e di sviluppo ch’è tipico del­l ’economia nel periodo fascista così come di quella dei nostri giorni, un intrec­cio che ha dimostrato tuttavia di essere il motore d ’un processo di crescita nel contesto delle leggi dell’ineguale sviluppo capitalistico.

Le condizioni della classe operaia: alcune considerazioni

Potrà stupire non trovare in questo nostro lavoro alcun accenno, che non sia un semplice richiamo, alle conseguenze che l ’introduzione dell’organizzazione scientifica del lavoro ebbe sulla classe operaia durante il periodo fascista, tema ch’è d ’indubbio interesse75. Ma in queste nostre osservazioni e riflessioni s’è voluto, soprattutto, portare alla luce il processo di diffusione dell’organizzazione scientifica per quanto concerne il versante imprenditoriale, ovvero quello della « consapevolezza dell’intervento capitalistico » che potè esprimersi, durante il fascismo, in condizioni che sono sì specifiche ma anche caratterizzanti l’intera storia dell’affermazione delle nuove forme di organizzazione del lavoro nel no­stro paese. Una delle condizioni imprescindibili della nascita (prima guerra mondiale), della iniziale diffusione (durante il fascismo) e del « decollo » di queste (anni ’50), fu senza alcun dubbio il rafforzamento del controllo mono- cratico nell’azienda e nei confronti dei pubblici poteri in merito alla utilizza­zione della forza-lavoro, realizzato o attraverso la « militarizzazione » o grazie al dispotismo più assoluto nell’ambito di una dittatura borghese antiparlamen­tare oppure, ancora, grazie alla repressione « anticomunista » e alla discriminazio­ne più intransigente. Non v’è dubbio che, da questo punto di vista, l ’esperienza fascista s’inserisce in una sorta di scelta storico-generale della direzione impren­ditoriale del nostro paese che trova sì peculiari elementi di permanenza o di ricorrenza, ma nel contempo connota tutte le diversità strutturali (o almeno

73 Cfr. su ciò Giorgio mori, Per una storia dell’industria durante il fascismo, in « Studi s to r ic i» , gennaio-marzo 1971, pp . 3-35 e v. castronovo, Il potere economico e il fascismo, nel volum e collettaneo, a cura di guido quazza, Fascismo e società italiana, T orino, 1972, pp. 45-87.71 Si pensi ad esem pio alle serie statistiche elaborate da paolo ercolani, in Documenta­zione statistica di base, tav. X I I 4. 17, in aa.vv., Lo sviluppo economico in Italia, a cura d i G . Fuà, p. 447 ; d a ornello vitali in La stima degli investimenti, tav. X I I I , in op. cit., p . 500 e in La formazione del capitale, tav. I l i 4 , in op. cit., p. 107.75 Cfr. di massimo ilardi, Ristrutturazione aziendale e classe operaia sotto il fascismo: /a società Terni, in « I l m ovim ento di liberazione in I t a l ia » , luglio-settem bre 1973, n. 112 e di g. sapelli, Fascismo, cit. la Parte seconda.

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quelle che esistono) dell’esperienza italiana rispetto a quella degli altri paesi. Pensiamo, infatti, al problema dell’investimento, tanto importante per la nostra analisi, e al suo legame con i problemi delle lotte operaie.Nel ventennio tra le due guerre mondiali (e negli Stati Uniti in alcuni settori in­dustriali anche prima della guerra 1914-1918), anche durante la grande crisi, la produttività ha, su scala mondiale, un aumento prima inusitato u. Il mecca­nismo classico di espansione della produzione fondato soprattutto sull’amplia­mento della massa dei salariati entra in crisi: non si tratta soltanto della riper­cussione dei mutamenti avvenuti nel settore del mercato capitalistico, ma pure nei rapporti tra le classi. Il meccanismo dell’armata industriale di riserva a cui il padronato si era tradizionalmente affidato per mantenere disciplinate e a buon mercato le forze del lavoro si scontra con la forza del movimento organiz­zato dei lavoratori, che è in grado di difendere i salari nella massima parte dei settori industriali più avanzati. Da allora gli investimenti passano, oltre che all’estensione, anche all’approfondimento del capitale (miglioramento dell’attrez­zatura tecnica, progressi nell’organizzazione del lavoro, maggiore selezione della manodopera): lo scopo della tecnologia capitalistica diviene sempre più quello del risparmio del lavoro76 77, confermando la legge generale dell’evoluzione tec­nica, per cui le innovazioni che s’affermano e soppiantano le altre nella società capitalistica sono quelle che permettono un aumento progressivo della pro­duttività78 *. Ma questa tendenza all’aumento della produttività può in parte tro­vare, per delle cause storico-sociali, dei fattori sostitutivi. Nel senso, cioè, che pur non bloccando questo processo, ne limitano l’ascesa impedendone la diffusa generalizzazione, restringendolo a quei settori industriali che meno risentono del­la mancata solvibilità della domanda interna (settori che producono per l’espor­tazione e lo stato) e riescono soprattutto a garantirsi l ’imprescindibile condizio­ne della stabilità della produzione in grande serie. L ’esempio classico è costi­tuito dai mutamenti nella forma del dominio politico della borghesia, quale può essere il fascismo, con la conseguente distruzione dei sindacati operai fondati sull’autonomia di classe, il blocco dei salari, l ’abbassamento drastico del livello di vita delle masse, la ricostituzione su larga scala dell’armata industriale di riserva.Per questo il ripristino della democrazia borghese, la riorganizzazione di un sindacato e di un movimento operaio di classe, interverranno, nel secondo do­poguerra, in Italia, soprattutto a partire dagli anni ’60, come elementi nuovi, di propulsione dello stesso meccanismo di accumulazione capitalistica e determi­neranno in misura totalmente diversa di quanto non fosse nel ventennio ditta­toriale, l’influenza del fattore-lavoro sulla dinamica dello sviluppo19. Soprat­tutto (come abbiamo prima ricordato) quando, superate le discriminazioni e la repressione aziendale, il movimento sindacale acquista (insieme all’estensione dell’autonomia di classe ad alcuni settori di esso prima ingabbiati in una logica di subordinazione) in vigore ed in autorevolezza a partire dalla contestazione dell’organizzazione del lavoro.

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76 Cfr. Maurice dobb, Problemi di storia del capitalismo, R om a, 1960, p. 373.77 C fr. PAUL sweezy, Teoria dello sviluppo capitalistico, Torino, 1951, p. 353.78 C fr. Pierre naville e Pierre rolle, L ’evoluzione tecnica e la sua incidenza sulla vita sociale in Trattato di sociologia del lavoro, M ilano, 1963, p. 524. C fr. su questi problem i, di paolo sylos lab ini, Oligopolio e progresso tecnico, T orino, 1967.” P er una introduzione a questo problem a cfr. paolo sylos labini, Sindacati, inflazione e produttività, B ari, 1972.

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Ma per quel che riguarda il rapporto tra la classe operaia e organizzazione del lavoro durante il ventennio fascista basterà accennare in questa sede ad alcune considerazioni di merito che sono sia indicazioni di lavoro, sia frutto di inda­gini già compiute e in corso di definizione 80. Innanzitutto la nascita, durante quegli anni, del fenomeno della dequalificazione professionale affermatosi - con l ’o.s.d.l. e che è oggi all’attenzione degli studiosi e motivo di contestazione tra organizzazioni sindacali e imprenditoriali. La realtà è nota a tutti: lo sviluppo della parcellizzazione delle operazioni lavorative ha prodotto da un lato il de­classamento degli operai qualificati e specializzati con l ’aumento dei manovali specializzati, dall’altro la creazione di una nuova gerarchia professionale, che soltanto nel dopoguerra troverà la sua istituzionalizzazione con l ’estensione del­le « paghe di classe » 81. Problemi, questi, che sono esplosi ai giorni nostri in un dibattito acceso sull’elaborazione delle strategie sindacali dirette a ricostruire nuovi profili professionali modificando l’organizzazione del lavoro82. L ’espe­rienza fascista rappresenta, a questo riguardo, un campo d ’indagine che lo stu­dioso deve affrontare avvalendosi di schemi interpretativi precisi, meno appros­simativi di quanto oggi comunemente non sia, sotto la spinta di talune ipotesi politiche. Occorre riconoscere, cioè, il carattere non lineare e non diffuso dei processi sopra ricordati per meditare, invece, su quali siano state le caratteristi­che propriamente politico-istituzionali di questi, ovvero sul non fedele rispec­chiamento dei ritmi dello sviluppo tecnologico e della realtà operaia nelle nor­mative contrattuali. Possiamo ricordare qui, come esempio, la questione della classificazione dei metallurgici (ma uguale discorso è da farsi per le altre cate­gorie): se si confrontano le declaratorie dell’accordo sancito tra l ’AMMA e la FIOM nel 1920 con quello ratificato nel 1928 su scala nazionale e un anno dopo provincia per provincia, secondo una logica — spezzata soltanto alcuni anni fa — d’instaurazione delle cosiddette « gabbie salariali », si notano note­voli differenze. Alla classificazione: operai qualificati di prima, seconda e terza categoria; manovali comuni; apprendisti dai 16 ai 20 anni; si sostituisce quella: operai specializzati; operai qualificati; manovali specializzati (operai comuni); manovali comuni; apprendisti dai 18 ai 20 anni e dai 16 ai 18, con ulteriori divisioni tra le donne e i minori di anni 18 83.Occorre sottolineare, a questo punto, che l ’obiettivo che si volle raggiungere da parte imprenditoriale fu quello di realizzare per questa via (oltreché con le riduzioni salariali ufficialmente stabilite dall’alto) un sostanziale abbassamento del monte salari, anche se, soprattutto nelle piccole e medie imprese, ma non solo in queste, alla nuova classificazione non corrispondeva affatto una così dif­fusa caduta del livello sociale della qualificazione e della professionalità real­mente posta in essere nel luogo di produzione. In tal modo, però, ci si precosti­tuì la via per garantire un quadro normativo rigido e predeterminato che le im-

80 g. sapelli, Organizzazione e ideologie dell’industria durante il fascismo, in corso di pubblicazione.81 Cfr. su ciò Maurice de montmollin, Les systéme, hommes-machines, P aris, 1967 e per una delle prim e riflessioni su ll’esperienza italiana, di Giulio faina, Paghe di classe e con­trattazione aziendale e Divisione e dominio della classe operaia, in « I l filo rosso » , m aggio e giugno 1963, pp . 66-70 e pp . 69-77.82 Per un inquadram ento del problem a Qualifiche, istruzione professionale e collocamento in «Q u ad e rn o di rassegna sin d aca le » , settem bre 1964 e Le qualifiche, ibid., m aggio-giu­gno 1971.83 C fr. di g. sapelli, Fascismo, cit., pp . 128 e sgg. e Appunti per una storia dell’organiz­zazione scientifica del lavoro in Italia, in « Q uaderni di sociologia » , nn. 2-3, 1976, pp . 154-171.

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prese si trovarono a disposizione nel dopoguerra, applicassero o meno i prin­cipi della razionalizzazione M.Infine sarà di grande interesse affrontare i problemi dell’« ergologia » 84 8S, prean­nuncio, durante il fascismo, di quella che sarà l’odierna ergonomia, che, con il suo studio sperimentale delle condizioni dei lavoratori costituisce un utile con­tributo per iniziare una storia « dal basso » della classe operaia durante il fa­scismo 86. Pur nella sua specifica dimensione di un fenomeno culturale che non riuscì a divenire realtà operante e a sfuggire all’egemonia che su di esso esercitò, dopo la grande crisi e per impulso di padre Gemelli, la cultura cattolica, favorita e incoraggiata dal regime87 88, la psicotecnica e l’ergologia sono pur sempre un distorto riflesso — nelle teorizzazioni delle élites intellettuali — del peggiora­mento radicale delle condizioni della classe operaia e delle preoccupazioni per le conseguenze che ciò poteva avere sul meccanismo di autoregolazione e di auto­conservazione del sistema sociale.L ’intreccio tra l ’abbassamento del monte salari8S, il peggioramento delle condi­zioni di vita dei lavoratori e l’autoritarismo dispotico nel luogo di produzione89, sovrasta, infatti, tutta la vicenda della nascita dell’organizzazione scientifica del lavoro in Italia e ci è di stimolo per affrontare il suo studio come una parte della più generale storia sociale del nostro paese.

G iulio Sapelli

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84 Abbiamo discusso di questi problemi in Gli industriali torinesi e la lotta di classe 1945- 1947 di prossima pubblicazione in un volume collettaneo a cura dell’Istituto milanese di storia della resistenza e del movimento operaio di Sesto San Giovanni.85 Cfr. di sante de sanctis l ’intervento contenuto negli Atti del VII Convegno nazionale di psicologia sperimentale e di psicotecnica, Torino, 1930 e La psicologia delle vocazioni, in «R ivista di psicologia», 1919, n. 1.86 Cfr. su questi temi g. sapelli, Appunti per una storia dell’organizzazione scientifica, cit.87 Cfr. su questi temi il nostro Fascismo, cit., p. 200 e sgg. e di agostino gemelli i lavori fondamentali L ’habilité manuelle. Recherches sur sa nature, in « Journal de psycologie », 1929, n. 2, e Recherches sur le diagnostic de l’habilité manuelle, in « Revue de la Science du travail », 1929, n. 3, che suscitarono vasto interesse soprattutto in rapporto alle ricerche di Henry Wallon, pioniere di questi studi.88 Cfr. vera zamagni, La dinamica dei salari nel settore industriale. 1921-1939, in « L ’eco­nomia italiana », cit., pp. 530-549.89 Si giunse, del resto, a sancire contrattualmente quella ch’era una pratica costante, forma­lizzando norme che prima del fascismo non si riscontravano applicate e definite su cosi vasta scala, quali la liceità della perquisizione degli operai all’uscita della fabbrica, il divieto di organizzare collette di qualsiasi natura, la più ampia disponibilità della direzione aziendale sull’orario di lavoro e le pratiche di licenziamento. Articoli di questo tenore sono riscontrabili in tutti i contratti firmati durante il periodo fascista, soprattutto in quelli provinciali. Da questo punto di vista ricostruire le serie storiche della contrattazione per categorie e per zone significherebbe compiere un passo innanzi importante nella storia dei lavoratori du­rante il fascismo, ma una simile impresa è ostacolata da una infinità di carenze delle nostre istituzioni scientifiche e da robuste resistenze di natura burocratica.Per un primo inquadramento, cfr. a cura di Ernesto Cirio L’amministrazione del personale nelle aziende industriali, Milano, 1941.