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Versi inediti senza cronologia
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“Happiness is like a butterfly;
the more you chase it, the more
it will elude you. But if you turn
your attention to other things,
it will come and sit softly on
your shoulder.”
H.D.Thoreau
“con un terrore da ubriaco”*
mi accosto alle parole col tremore
di chi porta tra le braccia
un bambino appena nato, col timore
che mi cadano, la riluttanza
per tutte quelle rughe – quando si dice
che invecchiando si ritorna allo stato
primordiale, vale
anche il contrario-
il volto livido, gli occhi (ancora d’acqua)
e la paura di non conoscerle, la pelle
rossa dallo sforzo, i varchi duri a cedere
per tutte le volte che le ho credute
mie. e non sapevo niente
*da un verso di Montale
*
come nei momenti in cui si sente forte
la vita avvitarsi al muro sgretolare
ciò che resta -una polvere
la brace dal cemento- ancora calda
la mia palpebra si schiude gonfia
mi hai perforato gli iridi, parola
con la voce della golarotta
e ora sei silenzio, nero nella notte
della luna rossa, dietro al mare
dalla costa sorta
come Eva
bianco è il silenzio
succede, se ci spostiamo un millimetro
appena dalla barriera del suono
di udirne il clamore
bianco è il silenzio
e il colore vi è dentro tutto e unico
come l’ovale di un utero pieno
sta ai vuoti incrinare le rughe al velo
così come allo scoglio
frangerci in schizzi di sale che al mare
non torna
dopo le nubi sopra il Golgota
ho bisogno, vedi, di parlare
per non lasciare al caso certe coniugazioni
i verbi delle azioni, le congiunzioni
e perdere definitivamente il senso
piccolo e profondo, nel pozzo
nell'acquitrino in cui siedo
sola e in cui scavo con i piedi
sono la ricerca, l'incudine, il piccone
e il secchio. sono l'acqua e mi riverso
bevendomi di viscere. sono
il cercatore
ho bisogno di sentire la tua voce
di specchiarmi nei tuoi vetri fin giù
dove il silenzio non è più brusio
dove l'abbraccio delle parole si tende
come una catena e cigola
intorno alla carrucola delle risalite
e tu sei
dopo le nubi sopra il Golgota, la pietra rotolata
dal sepolcro, il sudario vuoto, la testimonianza
nel modo di dirmi che sono
anche io
dono e sacrificio
come tutti a questo mondo
frattale, duplicato originale di infinito. ripetizione
senza limite di tempo e forma
siamo raggiunti nell'unico punto
che nessuno vede
singolare presente passato
mi fermo ad una verità
io sono, sono stata
non posso dire neanche che sarò
per un bruciore d’occhi repentino
per un fascio di luce, un assassino
arriva e ti deruba d’ogni altra verità
non posso dire al tavolo “sei tavolo”
o alle innumerevoli matite, alle loro punte
affilate o tonde che cerchiano
i percorsi della pioggia nei canali
di conoscerle come un nome giusto
se non fosse che mi rigano l’incolumità
come un bisturi e il foglio rileva una piega
in cui infilare dita, sbirciare come una finestra
non posso dire che durerà
un giorno perderò il fanciullo
che ha tanto bisogno di parlare
smetteranno di piovere colori
di nascere nomi per quello che mi occorre
nominare
si resterà dimentichi, di corsa
su altre mille strade
e un me affacciato come un vecchio
con le gambe stanche
un’ora in più
le mani attardate sui fianchi
ci dicono che non si torna
ai posti di partenza quando in gioco
c’è il profumo dei gelsomini
e non dispiace alle mie anche, né
ai tuoi polpastrelli, questa sosta
dice “vieni, oggi è il primo giorno
lungo: il sole giace sulla primavera
un’ora in più” e tu cammini
sulla fuga degli occhi, in equilibrio
*
dovrebbe essere, il tuo libro
come ogni libro, cosparso di pensiero
come di scintille che atterrano sul viso
sotto le palpebre, oppure sulle labbra
parlavo di libri già anni fa
quando le pagine erano quasi tutte bianche
ora molte sono sporche, macchiate
da pollini e succo di ciliegie
a volte ne regalo alcune, a volte
tu le prendi in cambio di altri fogli
infondo siamo sempre libri- piccoli
rifugi scintillanti
se sapessi parlare di noi, le parole
sarebbero fiumi, invece nel vento
a caso ritornano, o partono
o restano
polveri e fioriture
torna a sporcarci le mani
il limo che invade le pianure
se raccogliamo le ombre
sfuggite all'andirivieni delle nuvole
e ci appendiamo ad asciugare
come dubbi svaniti tra passi
ed epifanie di sensi
l'invasione dei fiati – solco
nella carne- ara deserti
pronti a fioriture di sabbia
nell'attesa che si schiudano
le piene
le attendono i tetti
una pioggia che scompagina, un infrangere di vetri
il vuoto che tracima dalle foglie di un giovedì
da tagliare, come quelle steppe
ancora secche, residue dall'inverno
questo è il tempo del mio tempo
una primavera che ancora strozza i lacci
alle dita e scolora i cieli, sempre così grigi
questo è l'eterno marzo fatto di potenze
(dimenticai le azioni nei bulbi delle calle)
lento, come i mesi di una gravidanza
aspetta e forse ammanca di fuliggini
le attendono i tetti, le attendo io nella tua voce
un'ancora di vento
rimane sempre qualcosa di insoluto
un'ancora di vento a rimboccare i fiati
quando la pioggia s'interrompe e tu
mi guardi. febbraio nasconde la tristezza
sotto le architravi, noi a demolire muri
noi a scavarci dentro, a riposare
gli imbarazzi nelle mani.
i gerani le foglie umide i balconi
ripartiamo dai riflessi e sospendiamo gli anni
ad una panca di sole, o ad una camelight
-cosa ci costa
leghiamo un'amaca ai piedi della notte
per tutte queste briciole di pelle, per le stelle
che sgranai tra i datteri di palma.
(lettera del presente alle vite nuove)
Il liceo si vende, sai
e l’asta dei silenzi parte da tre milioni
I gradini sono parcheggi, le parole
sotto le ruote non si stendono
Ad averceli, ci girerei solo
per liberare quei fruscii
dalle tue spille da balia
Ma noi non eravamo fatte
di volti maldestramente incollati
sugli annuari, né di spiccioli
per sigarette comprate sfuse, del loro bruciare
dissolversi in volute tremolanti
Piuttosto come San Domenico e la sua piazza
ancora lì, nell’immutare splendido della storia
o come Mozart: Alto
a rintracciare passaggi furtivi e cavalcate
di confidenze appannate nei sing me to sleep* di un treno
Tutto, tutto quanto Ilaria
nel fluire di percorsi troppo sghembi
ci riporta alle vicinanze
alle mani fotocopiate e ai bracciali
alla consapevolezza dei miracoli
e questo imbrattare furibondo
assume la forma della mia voce
…s i s p e z z a
-prima non credevamo-
Guardami ora, come ti guardo
e come luccica, come risuona
l’inchiostro sulle mie palpebre nuove
tra le tue dita
nei tuoi seni gravidi
*
si vede che i legami si stringono
come granelli di sabbia
ai polpacci, quando soffia il vento
non è l'ombra d'un ago a scalfire
la persistenza ostinata del corpo
ma sembra quasi un ciglio caduto
ai bordi della bocca, nei non detti
tra i buchi di schiuma in cui s’infila
il sole [dobbiamo vederci
consumarci dentro le ossa, perché
solo il vuoto ci rende un posto all’impiedi
stretti come in metrò, nel passaggio
dal buio alla luce] e a restare negli occhi
è solo un passo di fune
l’essenziale
lasciamo decantare un calice di mare
con lo stelo tra due dita
il tempo che ci vuole per la trasparenza
ho la lingua che ricalca i bordi
ed echi conquistati a prescindere dai vuoti
forse io tu o ancora un altro noi
riusciremo a prenderci i silenzi
da trasformare in verbo
con la precisione di una miniatura
come su quei libri
che parlano di miti a quattro teste
e sapremo rintracciare vene
su triangoli di verde aspersi al vento
facendoci bastare poche gocce
di un alfabeto spoglio
*
si ritorna per strade non mappate
ai campi, sì ai campi, ai semi, alle case
alle cose che furono già segni
e il senso se lo portano incoscienti
loro, negli atomi, per non scordarlo
si ritorna così, parrebbe a zonzo
come dimenticanze a un passo d’aria
-cadendo il peso dalle ossa di neve-
e le voci risorte dall’inganno
dall’inverno che beccava alla porta
come risalire sangue dai solchi
dell’aratro
controluce e d’intorni
il controluce dà sempre l’impressione
d’una cosa morta: il fiore appassito
in ombra, il salice che raccoglie la pioggia
ai piedi nudi. ma tutto ragiona
in esse di intestini come radici
che crescono nel grembo
allora mi ricordo il rosa intenso
che si espande in seguito al diluvio
il raddrizzarsi delle ossa –petali
di margherite scartocciate- lo stagliarsi
d’alberi dal fondo del bulbo
oculare come mani e rune