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DOSSIER on sapevamo di avere figli così», dice un amico arabo nato all’ombra del mito di Nasser; cresciu- to pensando che il socialismo fosse la soluzione; diventato adulto militando per la liberazione palestine- se; invecchiato assistendo all’espansione dell’Islam po- litico come ultima spiaggia delle frustrazioni arabe. «Non immaginavamo di aver coltivato una generazio- ne di giovani che parla in questo modo così chiaro, co- me noi non avevamo mai fatto, che discute di democra- zia, non grida Allahu Akbar né pensa al martirio per l’Islam perché maneggia i mezzi elettronici ed è in con- tatto col mondo reale. Non con quello finto che raccontavano i nostri dittato- ri o alcuni sceicchi nelle moschee». Non lo pensavamo nemmeno noi, in Occidente, che potessero esistere que- sti arabi. Molti fra noi continuano a pensare che sia im- possibile. Steve Doocy, anchor di Fox Tv, all’inizio della rivolta di piazza al Tahrir al Cairo, per spiegare ai suoi ascolta- tori del Midwest cosa fosse la Fratellanza musulmana di- ceva che è “il padrino di al Qaeda”. Fox è un estremo del- la peggiore televisione occidentale. Ma quanti governi, quanti giornali, quanti individui continuano a credere che il risultato finale di questo nuovo Scramble for Mid- dle East, la grande mischia mediorientale, saranno solo repubbliche islamiche sul modello iraniano? Diverse persone autorevoli hanno sostenuto che la stabilità ara- ba è più importante della democrazia, senza notare la sfumatura razzista – di stampo colonialista – di un’affer- mazione come: la democrazia non è cosa per gli arabi. E comunque a noi non importa cosa vogliono loro, ma ciò che noi pretendiamo da loro: sicurezza e petrolio. Per noi esistevano solo due categorie di arabi: i mode- rati e gli estremisti. I primi erano i nostri alleati: l’Egitto di Mubarak, l’Arabia Saudita, la Giordania, principati ed emirati del Golfo, lo Yemen di Ali Saleh. Erano modera- ti perché avevano fatto la pace con Israele o sostenevano la necessità di farla, perché partecipavano alla lotta con- tro al Qaeda, ricevevano il nostro aiuto economico e com- pravano le nostre armi. In questo ventennio molti aveva- no anche adottato le riforme di apertura economica sug- gerite da noi. Nel caso di Gheddafi gli avevamo pure ap- paltato la soluzione “alla libica” del problema dell’im- migrazione clandestina: poiché sparare sui profughi per noi è disdicevole, lo facevamo fare a loro. Moderati in Il contagio si estende ai santuari del petrolio 46 . east . europe and asia strategies Se sono i nostri valori che hanno reso le nostre società ricche, democratiche e stabili, abbiamo il dovere di sostenere lo stesso tentativo che ora stanno promuovendo gli arabi. Quello che è accaduto in Tunisia, in Egitto, in Libia, e in altri Paesi avrà risultati differenti in tutta la re- gione perché la Tunisia è diversa dallo Yemen come la Grecia dalla Norvegia: in qualche luogo la democrazia funzionerà, in altri provocherà conflitti civili come in Libia; altrove ci saranno ri- forme e da qualche parte non accadrà nulla. Se tuttavia la rivoluzione di piazza al Tahrir avrà successo e l’anno prossimo l’Egitto sarà il primo paese della storia araba ad eleggere un presidente a suffragio universale vero, la novità darà una scossa a tutto il mondo arabo. N Una recente manifestazione di giovani libanesi contro il leader libico Gheddafi, a supporto dei ribelli in Tunisia, Egitto, Libia. Un centinaio di persone hanno scandito slogan contro il raìs di Tripoli e innalzato cartelli con scritte come: “Gheddafi terrorista”, “Gheddafi sgombera”, “Bengasi città dei martiri”. I manifestanti hanno anche sollecitato l’intervento del governo tunisino affinché si attivi onde permettere il rientro in patria di quanti lo desiderino, oltre che difendere i loro interessi in Libia. numero 35 . aprile 2011 . 47 « Afp / Getty Images / M. Zayat Sicuri che la democrazia non sia cosa per gli arabi? di Ugo Tramballi Afp / Getty Images / J. Ashtiyeh Una guardia armata israeliana staziona davanti all’immagine di Yasser Arafat. Il murale è dipinto sul muro di segregazione costruito da Israele attorno alla Cisgiordania e a Gerusalemme.

New York Times - eastwest.eu · QUI SOTTO Il sottosegretario di Stato Usa William Burns con Amr Mousa, segretario generale della Lega Araba ... firmata non si sono minimamente sforzati

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DOSSIER

on sapevamo di avere figli così», dice un amicoarabo nato all’ombra del mito di Nasser; cresciu-to pensando che il socialismo fosse la soluzione;

diventato adulto militando per la liberazione palestine-se; invecchiato assistendo all’espansione dell’Islam po-litico come ultima spiaggia delle frustrazioni arabe.

«Non immaginavamo di aver coltivato una generazio-ne di giovani che parla in questo modo così chiaro, co-me noi non avevamo mai fatto, che discute di democra-zia, non grida Allahu Akbar né pensa al martirio perl’Islam perché maneggia i mezzi elettronici ed è in con-tatto col mondo reale.

Non con quello finto che raccontavano i nostri dittato-ri o alcuni sceicchi nelle moschee». Non lo pensavamonemmeno noi, in Occidente, che potessero esistere que-sti arabi. Molti fra noi continuano a pensare che sia im-possibile.

Steve Doocy, anchor di Fox Tv, all’inizio della rivoltadi piazza al Tahrir al Cairo, per spiegare ai suoi ascolta-tori del Midwest cosa fosse la Fratellanza musulmana di-ceva che è “il padrino di al Qaeda”. Fox è un estremo del-

la peggiore televisione occidentale. Ma quanti governi,quanti giornali, quanti individui continuano a credereche il risultato finale di questo nuovo Scramble for Mid-dle East, la grande mischia mediorientale, saranno solorepubbliche islamiche sul modello iraniano? Diversepersone autorevoli hanno sostenuto che la stabilità ara-ba è più importante della democrazia, senza notare la

sfumatura razzista – di stampo colonialista – di un’affer-mazione come: la democrazia non è cosa per gli arabi. Ecomunque a noi non importa cosa vogliono loro, ma ciòche noi pretendiamo da loro: sicurezza e petrolio.

Per noi esistevano solo due categorie di arabi: i mode-rati e gli estremisti. I primi erano i nostri alleati: l’Egittodi Mubarak, l’Arabia Saudita, la Giordania, principati edemirati del Golfo, lo Yemen di Ali Saleh. Erano modera-ti perché avevano fatto la pace con Israele o sostenevanola necessità di farla, perché partecipavano alla lotta con-tro al Qaeda, ricevevano il nostro aiuto economico e com-pravano le nostre armi. In questo ventennio molti aveva-no anche adottato le riforme di apertura economica sug-gerite da noi. Nel caso di Gheddafi gli avevamo pure ap-paltato la soluzione “alla libica” del problema dell’im-migrazione clandestina: poiché sparare sui profughi pernoi è disdicevole, lo facevamo fare a loro. Moderati in

Il contagio si estende ai santuari del petrolio

46 . east . europe and asia strategies

Se sono i nostri valori che hanno reso le nostre società ricche, democratiche e stabili, abbiamo

il dovere di sostenere lo stesso tentativo che ora stanno promuovendo gli arabi. ! Quello

che è accaduto in Tunisia, in Egitto, in Libia, e in altri Paesi avrà risultati differenti in tutta la re-

gione perché la Tunisia è diversa dallo Yemen come la Grecia dalla Norvegia: in qualche luogo

la democrazia funzionerà, in altri provocherà conflitti civili come in Libia; altrove ci saranno ri-

forme e da qualche parte non accadrà nulla. ! Se tuttavia la rivoluzione di piazza al Tahrir

avrà successo e l’anno prossimo l’Egitto sarà il primo paese della storia araba ad eleggere un

presidente a suffragio universale vero, la novità darà una scossa a tutto il mondo arabo. !

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Una recente manifestazione di giovani libanesi

contro il leader libico Gheddafi, a supporto dei ribelli in Tunisia,

Egitto, Libia. Un centinaio di persone hanno scandito slogan

contro il raìs di Tripoli e innalzato cartelli con scritte come:

“Gheddafi terrorista”, “Gheddafi sgombera”, “Bengasi città

dei martiri”. I manifestanti hanno anche sollecitato l’intervento

del governo tunisino affinché si attivi onde permettere

il rientro in patria di quanti lo desiderino,

oltre che difendere i loro interessi in Libia.

numero 35 . aprile 2011 . 47

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Una guardia armata israeliana

staziona davanti all’immagine di Yasser Arafat.

Il murale è dipinto sul muro di segregazione

costruito da Israele attorno alla Cisgiordania e a Gerusalemme.

DOSSIER

tutto, dunque, tranne che nelle libertà politiche e nei di-ritti per i loro stessi cittadini.

Marwan Muasher, ex vicepremier e ministro degliEsteri giordano, ora studioso alla Carnegie Endowmentdi Washington, offre una nuova definizione di arabo mo-derato. «Moderazione – spiega – è una costruzione occi-dentale che, usata per descrivere il mondo arabo, si foca-lizza su una sola questione: il conflitto con Israele. Inquesto senso l’Egitto, la Giordania, l’Arabia Saudita so-no moderati.

Quando arriviamo ad altre questioni che interessano icittadini arabi, come il buon governo, gli avvenimenti re-centi hanno dimostrato che quei Paesi non si possonochiamare moderati. Propongo dunque una nuova defini-zione di moderazione araba, trasversale a tutti i proble-mi che, insieme alla pace, riguardano i cittadini e inclu-dono aspetti come le riforme».

iamo culturalmente, politicamente, geo-strategi-camente pronti a fare nostra questa definizione?Un uomo come Muhammar Gheddafi è la solu-

zione o solo un tampone per gli sbarchi a Lampedusa? Persconfiggere il terrorismo di matrice islamica basta l’appa-rato militare, pur necessario, dei nostri alleati o sarebbe-ro utili anche Paesi arabi che adottano i nostri stessi va-lori di democrazia? La pace con Israele è stata fatta dai go-

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QUI SOTTO Il sottosegretario di Stato Usa William Burns

con Amr Mousa, segretario generale della Lega Araba

durante un incontro nella sede dell’organizzazione al Cairo.

A FRONTE Migliaia di persone, al grido di “Dopo Mubarak, Ali”,

sono scese in piazza a Sana’a, capitale dello Yemen,

per chiedere le dimissioni del presidente

Ali Abdallah Saleh, al potere da 32 anni.

Il presidente ha annunciato di voler rimanere fino al 2013.

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Ragazzini libici con i volti dipinti

con i colori della vecchia bandiera nazionale

prendono parte alla protesta

contro il regime di Gheddafi a Tobruk, nell’Est della Libia.

DOSSIER

verni, non ancora dai popoli arabi. I regimi che l’hannofirmata non si sono minimamente sforzati di “vendere”la pace alle loro opinioni pubbliche. Al contrario: spessousavano Israele per incanalare un malcontento che altri-menti si sarebbe rivolto contro il loro malgoverno.

Le riforme economiche arabe sono state il maggior suc-cesso occidentale in Medio Oriente. A partire dagli anniSettanta, quando Anwar Sadat ruppe l’alleanza strategi-ca con l’Unione Sovietica, in Egitto gli Stati Uniti spin-sero con forza per la liberalizzazione del sistema socia-lista ereditato dall’epoca nasseriana.

Da allora non hanno mai smesso di finanziare le rifor-me per incoraggiare il settore privato: per gli americaniè sempre stata una questione strategica importante quan-to la pace di Camp David con Israele. Pochi giorni dopoche piazza al Tahrir si era svuotata, il 22 febbraio, il sot-tosegretario di Stato William Burns e David Lipton, con-sigliere economico del presidente, si sono precipitati alCairo per avere garanzie da Samir Radwan, il ministrodelle Finanze del nuovo governo di transizione: voleva-no essere rassicurati che il nuovo Egitto non avrebbe in-terrotto le riforme economiche per ripiegare su modellidi stampo populista che magari assicurano maggioreconsenso.

In questi anni l’economia egiziana è cresciuta a ritmiche non aveva mai conosciuto in passato: il 7% dal 2004al 2008, prima della crisi finanziaria globale della qualel’Egitto non aveva responsabilità. Nel 1995 occorrevanosei settimane di lotta con la burocrazia per aprire unanuova attività economica. Ora, secondo la Banca mon-diale, grazie alle riforme bastano sette giorni.

Eppure il 60% degli egiziani continuava a essere pove-ro, la ricchezza restava nelle mani di pochi. Non eranopiù solo i militari: c’erano i nuovi tecnocrati attorno a Ga-mal Mubarak, il figlio del raìs, educati in Occidente, mo-derni, capaci d’investire su ogni piazza finanziaria. Maerano pur sempre pochi e perlopiù corrotti, rapaci e pri-vi di una visione nazionale.

Anche Gheddafi era diventato “uno dei nostri”, anchel’economia libica cresceva da anni e il Pil pro capite ave-va raggiunto i 18mila dollari. Ma in un Paese pieno di pe-trolio e povero di abitanti – solo 7 milioni – due terzi deilibici continuavano a vivere con meno di due dollari algiorno.

Ignorando l’ammonimento di Bob Kennedy sul Pil –un calcolo statistico che non misura la soddisfazione néi sogni della gente – delle riforme economiche arabe ciinteressavano le percentuali di resa dei nostri investi-menti. Fingevamo di ignorare che, dopo aver portato i lo-ro soldi nelle banche all’estero, i nostri amici investiva-no quel che restava a casa negli apparati repressivi e nonnei sistemi scolastici, nei piani sociali e sanitari, nellacreazione di posti di lavoro. Di questo si occupavano iFratelli musulmani, conquistando quel consenso che oraci fa così tanta paura.

Se sono i nostri valori che hanno reso le nostre socie-tà ricche, democratiche e stabili, abbiamo il dovere di so-stenere lo stesso tentativo che ora stanno promuovendogli arabi. Quello che è accaduto in Tunisia, in Egitto, inLibia e in altri Paesi avrà risultati differenti in tutta la re-gione perché la Tunisia è diversa dallo Yemen, come laGrecia dalla Norvegia: in qualche luogo la democraziafunzionerà, in altri provocherà conflitti civili come in Li-bia, altrove ci saranno riforme e da qualche parte non ac-cadrà nulla. Se tuttavia la rivoluzione di piazza al Tahriravrà successo e l’anno prossimo l’Egitto sarà il primoPaese della storia araba a eleggere un presidente a suffra-gio universale vero, la novità darà una scossa a tutto ilmondo arabo.

Questo non costringerà gli Stati Uniti e l’Europa a ri-voluzionare le proprie politiche, bensì a adattarle a unmondo nuovo. Abbiamo il dovere di farlo. Barack Oba-ma ha commesso molti errori nei primi due mesi di que-sto anno storico, ma è in grado correggersi strada facen-do. Le politiche mediorientali americane sono un workin progress. L’Europa e l’Italia sono più lente, statiche emeno coraggiose.

l 2011 per gli arabi è come il 1989 per l’Est comu-nista del Vecchio continente. Ci sono più simili-tudini che uguaglianze, ma da parte nostra la

spinta democratica andrebbe incoraggiata allo stesso mo-do. Invece, l’appoggio che l’Occidente diede ai popolidell’Est fu molto più entusiastico di quanto non sia oggiquello offerto ai giovani della nuova generazione araba.Ammettiamolo, ci fanno paura.

Come dice Rami Khouri, passaporto americano, origi-ni palestinesi, cresciuto in Libano, uno dei più lucidi

numero 35 . aprile 2011 . 5150 . east . europe and asia strategies

Ma potrebbe anche accadere che il vecchio prenda il so-pravvento sul nuovo e ne faccia deragliare il cammino.Ciò che ora sappiamo per certo è che il potere immuta-bile dei dittatori non risolve i problemi, eventualmenteli congela.

La più convinta che il nuovo sia peggio, certa che le li-bertà acuiranno i contrasti che invece i dittatori sapeva-no contenere con la forza, è l’unica democrazia dell’areain questione: Israele. Sul New York Times Thomas Fried-man ha sottolineato l’apparente anomalia, ricordandoche al mondo solo Israele e Arabia Saudita avevano so-stenuto fino all’ultimo Hosni Mubarak.

In pacata o violenta rivolta, nelle piazze arabe nessu-no ha ricordato che Israele occupa da quarantaquattro an-ni i Territori palestinesi. Gli obiettivi dei dimostranti era-no la libertà, una vita migliore, il diritto di voto, la demo-crazia. Ma la questione palestinese resta sottotraccia.L’ostilità a una pace con Israele, che non ha ancora pro-dotto uno Stato per i palestinesi, è forte nelle opinionipubbliche arabe. Più saranno libere, più esprimerannoquesto scontento, presto o tardi.

Gli israeliani hanno capito subito che con un Egitto de-mocratico, cioè con un’opinione pubblica che ne influen-zerà anche le politiche regionali, molte cose non saran-no più possibili. Per esempio non potranno entrare euscire dal Libano, né rioccupare militarmente le città pa-lestinesi in Cisgiordania come durante la seconda Intifa-da o bombardare Gaza per giorni e giorni.

È ciò che hanno fatto in questi ultimi trent’anni, tenen-do esclusivamente conto delle loro priorità riguardo al-la loro stessa sicurezza. Sapevano che il mondo arabo checonta, quello appunto moderato, sarebbe sempre statorealista. In questa fase di radicali cambiamenti nella re-gione Israele si presenta con un esecutivo nazionalista diestrema destra, che palesemente non intende fare passiavanti nel processo di pace, che continua ad estenderegli insediamenti nei Territori occupati e che – per profi-lo ideologico – al pericolo non reagisce con il coraggio dicambiare politica, bensì elevando ancor di più le barrie-re della propria sicurezza militare.

E questo vecchio Medio Oriente prima o poi interse-cherà il nuovo: quando avverrà l’incontro e cosa ne ver-rà fuori non lo sa nessuno, nessuno stratega, statista, eco-nomista, agente segreto, soldato o uomo di fede che sia..

commentatori arabi, «negare alla maggioranza degli ara-bi i loro diritti umani sulla base di una paura non prova-ta che qualche islamista possa dirottare una futura socie-tà democratica, è il massimo dell’assurdità e dell’ingiu-stizia». In realtà il dovere di sostenere lo sviluppo demo-cratico arabo non significa ignorarne i pericoli. La que-stione non è dare per scontato che i Fratelli musulmanifaranno golpe islamici ovunque potranno, ma ammette-re che quelle organizzazioni siano una sfida: potrebberoessere una minaccia o un’opportunità. Hamas a Gaza èdiventato una minaccia, gli islamici al potere in Turchiadecisamente una opportunità.

Ci sono rivoluzioni che hanno successo e altre checreano nuovi dittatori. Verrà comunque il momento incui le nuove aspettative del Medio Oriente si scontreran-no con gli antichi problemi, quei nodi che da decennicausano conflitti e che sono ancor lungi dall’essere sciol-ti: la questione palestinese, l’espansionismo iraniano eil suo programma nucleare, lo scisma millenario fra sun-niti e sciiti e poi il Libano, che in qualche misura rappre-senta la summa di tutti gli attriti che agitano la regione.La democratizzazione del Medio Oriente dovrebbe esse-re un’opportunità per rendere i problemi più risolvibili.

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Il contagio si estende ai santuari del petrolio

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