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1 Messages in a bottle : etnografia e autoetnografia del campo accademico antropologico in Italia “Il est sans doute peu d’univers qui offrent autant de liberté, autant de supports institutionnels même, aux jeux de la dissimulation à soi-même et au décalage entre la représentation vécue et la verité de la position occupée dans le champ ou dans l’espace social” (Bourdieu 1984: 32) 08/03/2012. Argomento: Sospensione attività delle rivista “A causa della riduzione dei fondi stanziati dall'università e a causa dei diversi impegni individuali, la redazione sta attraversando un momento di difficoltà. L'attività della rivista è temporaneamente sospesa. Speriamo al più presto di poter riprendere la regolare pubblicazione dei numeri di Achab”. La rivista ACHAB era stata creata nel 2004 da un gruppo di studenti dei corsi di antropologia dell’Università di Milano Bicocca e, prima del comunicato dell’8 marzo 2012, aveva pubblicato 15 numeri. La chiusura di una rivista che, centrata sul lavoro di studenti, era comunque espressione di uno dei più importanti dipartimenti di antropologia del paese, mi sembra emblematica delle condizioni in cui gli studi antropologici versano oggi in Italia. In questo scritto intendo proporre un’analisi, insieme etnografica e impegnata, del campo dell’antropologia accademica italiana così come (mi) appare agli inizi del XXI secolo. La mia non sarà, né vuole essere, una ricostruzione storicamente accurata della complessa vicenda del campo degli studi antropologici in Italia, ma un tentativo di lettura etnografica e antropologico politica delle sue articolazioni attuali, delle sue tensioni strutturali 1 . Come ogni resoconto etnografico, sarà necessario esplicitare il mio personale posizionamento nel campo degli studi antropologici in Italia e, quindi, la particolare visuale dalla quale proverò a rappresentarlo. 1. Elementi di demografia In un interessante saggio scritto per Ethnologie Françaie, Paolo Apolito (1994) forniva un’istantanea della situazione dell’antropologia accademica italiana agli inizi degli anni Novanta del 1 Per quanto evidentemente influenzato dalle tesi di Bourdieu (1984), questo scritto è ancora assai rudimentale e comunque ben lontano dalla raffinata etnografia alla base del lavoro che il sociologo francese ha dedicato al campo accademico del suo paese. Ringrazio Maria Minicuci, Pietro Clemente, David Moss, Filippo Zerilli e Vincenzo Padiglione per aver letto e commentato precedenti versioni di questo scritto e per alcuni preziosi suggerimenti bibliografici. I limiti e le eventuali inesattezze sono tutti da attribuire all’ autore. Lo scritto riprende una relazione presentata oralmente al seminario “L’aantropologia italiana: proposte per il futuro” organizzato dall’AISEA e tenutosi a Roma l’1 giugno 2013 presso il MATP. Ringrazio Patrizia resta per l’invito.

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Antropologia in Italia

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Messages in a bottle : etnografia e autoetnografia del campo accademico antropologico in Italia

“Il est sans doute peu d’univers qui offrent autant de liberté, autant de supports institutionnels même, aux jeux de la dissimulation à soi-même et au décalage entre la représentation vécue et la verité de la position occupée dans le champ ou dans l’espace social” (Bourdieu 1984: 32)

08/03/2012. Argomento: Sospensione attività delle rivista

“A causa della riduzione dei fondi stanziati dall'università e a causa dei diversi impegni individuali, la redazione sta attraversando un momento di difficoltà. L'attività della rivista è temporaneamente sospesa. Speriamo al più presto di poter riprendere la regolare pubblicazione dei numeri di Achab”.

La rivista ACHAB era stata creata nel 2004 da un gruppo di studenti dei corsi di

antropologia dell’Università di Milano Bicocca e, prima del comunicato dell’8 marzo 2012, aveva

pubblicato 15 numeri. La chiusura di una rivista che, centrata sul lavoro di studenti, era comunque

espressione di uno dei più importanti dipartimenti di antropologia del paese, mi sembra emblematica

delle condizioni in cui gli studi antropologici versano oggi in Italia. In questo scritto intendo proporre

un’analisi, insieme etnografica e impegnata, del campo dell’antropologia accademica italiana così come

(mi) appare agli inizi del XXI secolo. La mia non sarà, né vuole essere, una ricostruzione storicamente

accurata della complessa vicenda del campo degli studi antropologici in Italia, ma un tentativo di

lettura etnografica e antropologico politica delle sue articolazioni attuali, delle sue tensioni strutturali 1. Come ogni resoconto etnografico, sarà necessario esplicitare il mio personale posizionamento nel

campo degli studi antropologici in Italia e, quindi, la particolare visuale dalla quale proverò a

rappresentarlo.

1. Elementi di demografia

In un interessante saggio scritto per Ethnologie Françaie, Paolo Apolito (1994) forniva

un’istantanea della situazione dell’antropologia accademica italiana agli inizi degli anni Novanta del 1 Per quanto evidentemente influenzato dalle tesi di Bourdieu (1984), questo scritto è ancora assai rudimentale e comunque ben lontano dalla raffinata etnografia alla base del lavoro che il sociologo francese ha dedicato al campo accademico del suo paese. Ringrazio Maria Minicuci, Pietro Clemente, David Moss, Filippo Zerilli e Vincenzo Padiglione per aver letto e commentato precedenti versioni di questo scritto e per alcuni preziosi suggerimenti bibliografici. I limiti e le eventuali inesattezze sono tutti da attribuire all’ autore. Lo scritto riprende una relazione presentata oralmente al seminario “L’aantropologia italiana: proposte per il futuro” organizzato dall’AISEA e tenutosi a Roma l’1 giugno 2013 presso il MATP. Ringrazio Patrizia resta per l’invito.

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secolo scorso. Un confronto tra la situazione attuale e i dati presentati da Apolito può essere di

qualche utilità.

TABELLA 1: numero e sede dei docenti M-DEA; confronto Apolito 1994 – dati MIUR al 31/12/2012 (A = 1994, fonte Apolito; B = 2012, fonte MIUR)

Università Ordinari Associati Ricercatori Totali

A B A B A B A B

Bari 1 - 4 1 - - 8 1 (-4)

Basilicata - 1 2 - 2 1 4 2 (-2)

Bergamo - - - 1 - 2 - 3 (+3)

Bologna 2 - 4 - 3 10 9 10 (+1)

Bolzano - - - 1 - 1 - 2 (+2)

Cagliari 2 - 5 3 4 3 11 6 (-5)

Calabria - 1 4 2 2 - 6 3 (-3)

Cassino - - 1 1 1 1 2 2

Catania - - 2 - - 2 2 2

Chieti 1 - 2 - 1 1 4 1 (-3)

Sc. Gast. - 1 - - - - - 1 (+1)

Ferrara - - - - - 1 - 1 (+1)

Firenze 1 - 1 - 2 3 4 3 (-1)

Foggia - 1 - - - 2 - 3 (+3)

Genova 2 1 2 2 1 1 5 4 (-1)

Insubria - - - - - 1 - 1 (+1)

L’Aquila - - 1 - 1 1 2 1 (-1)

Lecce - - 1 1 1 1 2 2

Messina 1 2 2 2 3 1 6 5 (-1)

Milano Catt. - - 1 1 1 2 2 3 (+1)

Milano Stat. - - - 1 - 2 - 3 (+3)

Milano Bic. - 2 - 4 - 7 - 13 (+13)

IULM-Mi - - - - - 1 - 1 (+1)

Modena - 1 - - - 3 4 (+4)

Molise - 1 - 1 1 - 1 2 (+1)

Napoli Fed. II 1 2 2 2 2 2 5 6 (+1)

Napoli Orien. - - 2 2 4 1 6 3 (-3)

Napoli 2 - - - - - 1 - 1 (+1)

Suor Ors. - 1 - 1 - - - 2 (+2)

Padova 1 - 2 - 1 3 4 3 (-1)

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3

Palermo 5 3 2 3 4 4 11 10 (-2)

Pavia 1 - - - - - 1 - (-1)

Perugia 2 1 5 4 8 3 15 8 (-7)

Piem. Or. - - - 1 - 1 - 2 (+2)

Pisa - - 1 1 - 1 1 2 (+1)

Roma Sap. 7 4 7 9 14 4 28 17 (-9)

Roma TV - - - - - 1 - 1 (+1)

Roma 3 - 1 - - - 2 - 3 (+3)

Salerno - - 3 2 - 2 3 4 (+2)

Sassari 1 1 3 1 2 - 6 2 (-4)

Siena 2 1 3 3 4 2 9 6 (-3)

Siena Str. - - - - - 1 - 1 (+1)

Torino 2 2 7 5 2 6 13 13

Torino Polt. - - - - - - - 1 (+1)

Trento - - 1 - 1 - 2 - (-2)

Trieste - - - - 1 - 1 1

Tuscia - - 1 1 - - 1 1

Udine - 1 1 - - 1 1 2 (+1)

Urbino - - 1 - - - - 1

Venezia - - 1 1 1 1 2 2

Verona - 1 1 - - 1 2 2

TOTALE 32 29 76 58 75 86 183 173

Il primo dato che emerge è il calo complessivo (-10 unità) degli antropologi presenti nelle

università italiane. In realtà, dopo il 1994 il loro numero era cresciuto fino a 213 (2007), per poi

scendere gradualmente fino al dato del 2012 2. Se consideriamo il numero globale dei professori e

ricercatori presenti nelle università italiane, possiamo accorgerci di come il calo degli antropologi

segua solo in parte una tendenza generale. Tra il 2000 e il 2012, infatti, il numero dei professori e dei

ricercatori occupati nelle università italiane è salito da 50.045 a 58.145. Del resto, mentre il numero

degli antropologi nelle università scendeva, nell’area delle scienze umane (area 11 C.U.N.: filosofia,

storia, psicologia, pedagogia, geografia) l’incremento nello stesso periodo è stato di 934 unità.

Dunque la progressiva diminuzione degli antropologi dall’Università italiana sembra costituire un

dato specifico.

TABELLA N. 2: numerosità incardinati per area CUN: 2002 e 2012 (elaborazione dati CINECA)

Area CUN 2002 2012

2 Già a fine 2013 il quadro è ulteriormente peggiorato: 25 ordinari, 57 associati, 74 ricercatori, 10 RTD, 1 altro, per un totale di 167 persone.

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1 3148 3231 2 2284 2572 3 3222 2932 4 1313 1083 5 5070 4896 6 11057 10060 7 3946 3084 8 3624 3608 9 5279 4569 10 5625 5328 11 4602 4885 12 4258 4887 13 4036 4820 14 1459 1745 TOT 58923 57700

Le ragioni di un siile calo “demografico” sono molteplici e complesse, e non è mio interesse

qui indagarle tutte con attenzione. Su un piano generale va detto che quelli che ci separano dal 1994

sono anni di cambiamenti per l’università italiana, che vedono l’elaborazione prima e l’applicazione

poi di tre riforme (2000, 2004, 2007, quella Berlinguer - Zecchino, quella Moratti e, infine, quella

Gelmini). Queste, tra le altre novità, hanno introdotto il sistema del cosiddetto “3 + 2” e hanno

previsto nuovi ordinamenti didattici. In seguito a tali riforme è stato possibile, per alcune sedi

universitarie, attivare anche Corsi di Laurea Magistrale di antropologia, e predisporre in qualche caso

(“La Sapienza” di Roma, ad esempio) percorsi antropologici, all’interno di corsi di laurea triennale di

altra classe (storia, ad esempio, o filosofia). Questo passaggio, che poneva fine ad un limite storico

dell’antropologia italiana, per tempo segnalato da Apolito (1994: 459) ed attentamente analizzato,

anni dopo, da Viazzo (2008: 15-19), ha dato l’impressione di aprire una nuova fase del processo di

istituzionalizzazione della disciplina, per la prima volta chiamata a formare a livello universitario delle

specifiche competenze professionali 3. Le università di Bologna, Firenze, Genova, Milano “Bicocca”,

Modena, Napoli I, Palermo, Perugia, Roma “La Sapienza”, Siena, Torino e Venezia (cfr. Viazzo 2008:

15) hanno offerto corsi magistrali di area antropologica, corsi che hanno avuto un discreto successo

di iscrizioni. A seguito di questa formalizzazione e di questo incremento dell’offerta, anche in

antropologia tra il 1999 e il 2007 si è avuto un incremento dei docenti e dei ricercatori, con un picco

tra i professori ordinari di ben 51. Da quel momento in poi, però, è iniziata una decrescita che

sembra inarrestabile e che, come detto, non pare riguardare tutte le altre discipline di area

umanistica e sociale, e comunque non tutte allo stesso modo. Se prendiamo infatti in considerazione

le altre discipline di quest’area, al 2012 il quadro numerico era il seguente:

3 Sui limiti di una tale strutturazione del percorso formativo, percepiti e rappresentati dal punto di vista studentesco, si veda l’interessante scritto di Angelo Romano (2010), studente in antropologia e Dottore di Ricerca presso “la Sapienza” di Roma

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TABELLA 3: numero incardinati macro aree all’interno dell’area 11 CUN: confronto 2002, 2007, 2012 (elaborazione dati CINECA).

Disciplina 2012 2007 2002 Antropologi 173 (- 4) 208 (+ 31) 177 Geografi 341 (- 32) 400 (+ 27) 373 Pedagogisti 681 (+ 42) 639 (+157) 482 Filosofi 1230 (+ 61) 1169 (+ 49) 1120 Psicologi 1242 (+ 58) 1184 (+ 58) 952 Sociologi 1072 (+ 37) 1035 (+200) 835 Storici 1364 (-113) 1531 (+ 54) 1477 TOT 6106 (+690) 6166 (+ 750) 5416

L’andamento numerico delle singole aree disciplinari è legato a fattori diversi collocati su

piani stratificati (interni, come l’anzianità del corpo docente e la sua composizione per ruoli, ed

esterni, come il livello di professionalizzazione e l’esistenza di ordini professionali) che non possiamo

qui prendere in considerazione. Globalmente, però, esso è un indice abbastanza significativo sia del

peso che le singole discipline hanno nello scenario scientifico intellettuale italiano, sia di alcune sue

future tendenze. Sapere che nell’università italiana per ogni antropologo, ci sono quasi 2 geografi, 5

pedagogisti, 7 filosofi, quasi 8 psicologi, 8 sociologi e 9 storici, definisce in maniera abbastanza chiara

l’incidenza dell’antropologia nell’università e nella società italiane, soprattutto se si tiene conto che il

processo di istituzionalizzazione accademica di scienze sociali come l’antropologia e la sociologia ha

grossomodo la stessa durata storica. Altri dati, però, contribuiscono a delineare uno scenario se

possibile ancora meno confortante. Fra alcuni anni, infatti – nel 2017, quando andrà in pensione la

generazione del boom demografico dell’immediato dopoguerra - il numero dei professori ordinari di

antropologia sarà più che dimezzato a causa del pensionamento di molti degli attuali professori e

della difficoltà, se non proprio dell’impossibilità, che questi ultimi siano rimpiazzati da colleghi più

giovani. All’assottigliamento dei professori di ruolo corrisponderà, del resto, la loro ulteriore

dispersione nel territorio italiano, dato questo ben evidente fin da ora. Il confronto con la situazione

al 1994 mostra infatti come in tutte le sedi dove gli antropologi avevano una concentrazione medio-

alta (Roma Sapienza, Perugia, Palermo, Cagliari), con la significativa eccezione dell’Università Bicocca

di Milano, addirittura assente nel 1994, il loro numero si sia ridotto, a volte in maniera rilevante. Il

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6

confronto tra i dati disponibili per il 2012 e quelli elaborati da Viazzo (2008, p. 18) fa emergere con

una certa chiarezza un simile processo 4

TABELLA 4: concentrazione antropologi per città (dati: Viazzo 2008, p. 18, MIUR – CINECA al 31/12/2012)

2000 2008 2012

Pos. Città N. Pos. Città N. Pos. Città N.

1 Roma 25 1 Roma 31 1 Roma 21

2 Palermo 12 2 Milano 16 2 Milano 20

2 Perugia 12 3 Napoli 15 3 Torino 14

2 Torino 12 3 Palermo 15 4 Napoli 12

5 Bologna 10 5 Torino 14 5 Palermo 10

6 Bari 7 6 Bologna 12 6 Bologna 10

6 Napoli 7 7 Perugia 10 7 Perugia 8

6 Siena 7 8 Cagliari 9 8 Cagliari 6

8 Siena 6

Altre 26 69 Altre 30 87 Altre 31 66

161 209 Totale 173

Se si considera, inoltre, che alcune delle sedi più colpite dal ridimensionamento numerico,

sono anche quelle dove, negli ultimi quindici anni, si sono potuti offrire dei percorsi di Laurea

Magistrale in antropologia, si comprende come la diminuzione degli antropologi abbia comportato (a

Genova, Perugia, Napoli e Palermo) la chiusura dei corsi di antropologia o il rischio che questo possa

avvenire (Venezia, Siena, Firenze) 5. Insomma a fronte di Corsi di Laurea e intere Facoltà di

Psicologia, Sociologia, Scienze dell’Educazione, i pochi Corsi Magistrali di antropologia vanno

scomparendo e soprattutto la presenza degli antropologi nelle università italiane appare sempre più

frammentata e in genere al servizio della formazione specialistica in altre discipline.

Il quadro non sembra più confortante se si considera il livello della formazione Dottorale –

attuata in Italia solo a partire dalla seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso - che negli ultimi

venticinque anni ha comunque avuto una notevole incidenza nella configurazione del campo degli

studi antropologici. Nel 1994 (p. 459) Apolito censiva 7 Dottorati in antropologia, nei quali erano 4 La situazione appare comunque più problematica di quanto non facciano emergere i dati di Viazzo, il quale sceglie di aggregarli per città – unità d’analisi che, non “rivelando” gli schieramenti “nativi”, risulta poco significativa nella prospettiva qui adottata. I 12 docenti presenti a Napoli, ad esempio, o i 20 milanesi non costituiscono affatto delle aggregazioni unitarie, capaci di operare come tali nella ricerca e nella didattica, o semplicemente afferenti ad uno stesso dipartimento. Se si prende ad esempio il caso di Roma, 17 docenti sono alla Sapienza, divisi, in realtà, tra le due coalizioni che a lungo si sono scontrate in quella sede; i rapporti tra costoro e i 3 appartenenti ad un altro ateneo (Roma 3) o il solo antropologo presente a Roma Tor Vergata, pur potendo non essere conflittuali, non sono comunque di collaborazione organica. 5 I Corsi magistrali di Firenze e Modena sono in realtà corsi interclasse, rispettivamente con geografia e storia, nei quali la presenza antropologica sembra, a volte, secondaria se non (nel caso di Firenze) accessoria o nominale.

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coinvolte 15 sedi universitarie. Nel 2012, in seguito a vicende diverse, i dottorati con specifica

denominazione antropologica che abbiano bandito il XXVIII ciclo sono solo 3 (Milano Bicocca,

Messina e Bergamo), mentre in altre sedi quello antropologico oramai non è che un curriculum

all’interno di più ampie scuole (Roma “La Sapienza”, Torino, Siena, Perugia, Verona) 6. Al di là di un

simile crollo delle possibilità di formazione dottorale in antropologia, incrociando i dati presenti nel

sito della Biblioteca Nazionale di Firenze, presso la quale dovrebbero essere depositate copie di tutte

le tesi di Dottorato, con l’analisi di documenti concorsuali, si può comunque ragionevolmente

sostenere che il numero delle persone che in Italia hanno conseguito un titolo di Dottorato in

antropologia si aggira intorno alle 350. Aggiungendo, dunque, 350 Dottori di ricerca ai 176

universitari e calcolando per approssimazione altre 100 persone con formazione antropologica che

operano in altre amministrazioni (scuola, strutture sanitarie) e nel terzo settore (musei,

Cooperazione internazionale, ONG), potremmo non sbagliarci di molto se fissiamo intorno alle 600 le

persone che, in Italia, operano professionalmente nella scena pubblica come “antropologi” 7.

Non mi occuperò, qui, del complesso mondo dell’antropologia non accademica, capace di

aprirsi, negli ultimi anni, a settori dell’economia e della società civile italiani dai quali fino a qualche

decennio addietro le competenze antropologiche erano di fatto assenti: al di là della Cooperazione e

delle ONG dove da tempo operano numerosi antropologi, e della museografia, che in Italia ha una

consolidata tradizione antropologica, giovani antropologi, spesso con formazione dottorale, lavorano

nel mondo della sanità, nel terzo settore e nel volontariato, nel campo delle indagini di mercato,

nell’industria, nella comunicazione e nei media, nelle istituzioni pubbliche. In generale, però, come già

notavano sia Apolito (1994), sia Viazzo (2008), lo scarto tra le evocazioni “antropologiche” piuttosto

comuni nella cultura pubblica italiana, da un lato, il concreto utilizzo di competenze antropologiche

professionali, e la diffusione di una “corretta” percezione di cosa sia l’antropologia (culturale e/o

sociale), dall’altro, rimane decisamente alto. Del resto, per quanto nel corso degli anni ’60 – ’80 del

Novecento alcune idee di matrice antropologica (“cultura”, “etnia”, “relativismo”) abbiano

gradualmente, ma ancora superficialmente, soppiantato nozioni più radicate nel senso comune

italiano (“Cultura”, idealisticamente intesa, “civiltà”, “razza”, “progresso”, “evoluzione”), l’antropologia

culturale in Italia resta sostanzialmente estranea sia alla “public culture”, sia al “common sense” delle

grandi masse 8. Sulla scena pubblica gli antropologi (accademici e non) oltre a dover competere con

figure professionali più numerose e, spesso, più capaci di muoversi nella contemporaneità nazionale

(sociologi, storici, filosofi, criminologi, psicologi), devono fronteggiare la presenza invasiva e

fortemente legittimata nel senso comune e nella/dalla cultura pubblica della Chiesa cattolica. Laddove,

in altri contesti nazionali, sono richieste e applicate competenze antropologiche (ad esempio

6 Proprio nel 2013 il Senato Accademicio e i delegati rettorali dell’Università di Messina, per ragioni in sostanza legate ad una declinazione angustamente localistica della politica accademica, hanno operato in maniera tale da non rinnovare il Dottorato di antropologia. 7 A stime non dissimili giunge Viazzo (2008: 8) che, inevitabilmente, conta un numero minore di Dottori di Ricerca. 8 Si vedano, a riguardo, i contributi recenti di Dei (2007) e Puccini (2012) che sottolineano e analizzano con attenzione alcuni aspetti di tale, contemporanea, marginalità.

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nell’analisi e nella gestione dei flussi migratori, nel trattamento dei rifugiati, nel campo dell’assistenza

sanitaria e dell’educazione interculturale), o più in generale quando nel dibattito pubblico si toccano

temi legati all’etica, al relativismo culturale o semplicemente si analizzano contesti socio-politici

lontani, in Italia è spesso la figura del prete ad essere chiamata in causa. Stanti così le cose non è

certo un caso che, come sottolineava un giornalista nel corso di un recente convegno nel quale si

rifletteva sui rapporti tra media e antropologia, le rare volte che la parola “antropologia” compare tra

le notizie di una delle maggiori agenzie di news italiane (ANSA), essa si riferisca sempre

all’antropologia fisica o a quella criminale.

2. …. e di struttura sociale

Ad un primo livello di analisi quello dell’antropologia italiana, come tutti gli altri campi

accademici, appare istituzionalmente gerarchizzato: al vertice della piramide, sul finire del 2012,

troviamo i 34 ordinari, quindi i 56 associati, infine gli 85 ricercatori. Alla soglia del mondo

accademico, tra questo e il mondo del lavoro, i titolari di un Dottorato di Ricerca in antropologia,

interessati al reclutamento in Accademia, ma sempre più spesso spinti al di fuori di essa e sempre

più spesso privi di reali speranze di inserimento in uno scenario lavorativo di tipo antropologico. La

microscopica comunità accademica degli antropologi culturali è incapsulata, però, in scenari

istituzionali ben più ampi: i 173 antropologi italiani costituiscono, infatti, solo lo 0,3 % dell’intero

corpus accademico italiano, l’1,4 % dell’area delle scienze umane, sociali e letterarie e il 3,6 %

dell’area umanistica (area 11 CUN). Anche largheggiando, appare quindi chiaro che siamo (in presenza

di) un campo di dimensioni estremamente ridotte, dotato di una molto limitata capacità di impatto

sia nel campo accademico nazionale, sia nello spazio pubblico. Si tratta, del resto, di un campo

particolarmente diviso al suo interno e corroso da conflittualità, fratture e (in parte) continuità che,

come vedremo, non hanno contribuito e non contribuiscono a rafforzarlo.

Con l’intero universo accademico italiano la comunità degli antropologi condivide comunque

alcuni tratti di fondo. Si tratta infatti di un sistema politico (e intellettuale) che impone ai suoi

membri una precisa gerarchia di ruoli e di poteri, insieme all’incorporazione di specifici habitus, di

concreti modi di fare e di sentire (Bourdieu 1984). Chi ne fa parte compete per l’accesso e il

controllo di risorse specifiche (essenzialmente “posti” e carriere accademici, fondi di ricerca, prestigio,

briciole di visibilità pubblica) producendo e riproducendo tipi particolari di relazioni sociali. In ogni

caso, proprio le piccole dimensioni della comunità accademica antropologica – che la rendono per

certi versi comparabile ad alcune delle più classiche società studiate dagli antropologi – e il

progressivo esaurirsi delle risorse per cui competere, sembrano fare, dukheimianamente,

dell’antropologia un punto di accesso utile per mostrare alcuni aspetti delle dinamiche di potere

proprie del campo accademico italiano. In un saggio del 1989, Chris Shore, venti anni prima del

diffondersi di una letteratura sia scientifica (ad esempio, Regini 2009, Graziosi 2010), sia di carattere

più giornalistico (tra i molti: Perotti 2008, Gardini 2009, Carlucci e Castaldo 2009) descriveva in una

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9

prospettiva etnografica e antropologico politica il funzionamento del sistema accademico italiano.

Utilizzando un quadro teorico che può apparirci oggi piuttosto datato e che comunque pescava

direttamente i propri esempi etnografici soprattutto dal mondo antropologico del quale aveva avuto

una qualche esperienza diretta in qualità di lettore di lingua inglese nell’Università di Perugia, Shore

inscriveva la sua analisi dell’accademia italiana all’interno di una riflessione sulla natura del

“patronage” nelle moderne burocrazie nazionali. La sua prospettiva, per quanto empiricamente

fondata, resta comunque esterna al mondo locale e, pur utile per comprendere “da lontano” alcuni

aspetti di fondo dell’organizzazione del campo, non riesce ad avvicinarsi all’esperienza degli attori

sociali. Più vicino all’esperienza “nativa” può andare il tentativo di un’auto(etnografia) posizionata

nello stesso campo accademico, interessata a, e forse capace di, coglierne linee di tensione, punti e

momenti di frizione 9.

3. Tracce di (auto) etnografia in un campo politico

Essendo nato nel 1961, appartengo a quella generazione che ha avuto la possibilità di una

formazione dottorale: nel 1987, anno in cui vinsi una borsa del III ciclo di dottorato alla “Sapienza” di

Roma (il secondo ciclo era stato vinto, l’anno prima, da Alessandro Lupo, Flavia Cuturi e Paolo

Taviani, mentre il primo ciclo, a Roma, non era stato bandito), avevo infatti 26 anni, 30 quando

conseguii il titolo. Sono entrato in Università come ricercatore a Messina all’età di 32 anni, dopo solo

tre anni trascorsi a lavorare da precario presso l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, in un incarico

presso il Nuovo DEI che era stato di Lupo, prima, e Italo Signorini in origine, A 39 anni sono

diventato associato, a 43 straordinario, chiamato, in entrambi i casi, nell’Università di Messina. La mia

percezione del campo accademico e la personale declinazione dell’habitus “antropologico” si sono

costruiti, in maniera per lungo tempo inconsapevole, all’interno del contesto universitario romano dei

primi anni ’80 del secolo scorso. Al di là della laurea in Etnologia (1984, relatore Italo Signorini,

correlatore Vinigi Grottanelli) e del Dottorato (con una tesi sul sistema fondiario degli Nzema,

discussa nel 1991), ho seguito il piano di studi demo-etno-antropologico proposto dalla Facoltà di

Lettere della Sapienza: 14 dei 20 esami sostenuti sono stati di area antropologica (Etnologia, 3 esami

con Signorini, Civiltà Indigene, 3 esami con Carla Rocchi, Antropologia Culturale, 2 esami con Ida

Magli, 2 esami con Giorgio Raimondo Cardona e la sua Glottologia, l’Antropologia Sociale con

Antonino Colajanni, la Paletnologia, 2 esami con Salvatore Puglisi, la Storia delle Religioni, con Dario

Sabatucci). Il punto di riferimento era l’Istituto di Etnologia, con Grottanelli, inavvicinabile per

studenti di primo anno e sul punto d andare in pensione, e Signorini, con il fascino delle sue lezioni e

della sua persona. In quegli anni (1980-1984) Storia delle Tradizioni Popolari non era insegnata,

avendo Diego Carpitella acceso la Cattedra di Etnomusicologia (1976). Per questo (ma non solo) non

sostenni quell’esame, né osai seguire Etnomusicologia che richiedeva competenze musicali di base a

me sconosciute. Un apparente caso iniziale, dunque, mi aveva tenuto lontano da tutto un

9 Nell’oramai estesa letteratura sull’auto-etnografia si vedano almeno Strathern 1987 e Reed-Danahay 1997.

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(importante) settore degli studi. In realtà fin dalle seconde prove (cioè il secondo esame) di Etnologia

avevo imparato a considerare quello delle Tradizioni Popolari come “un mondo a parte”. Il corridoio

del primo piano della Facoltà di Lettere sul quale affacciavano le stanze di Etnologia aveva delle

ampie finestre dalle quali noi studenti potevamo vedere quelle dell’Istituto di Carpitella (e loro

immagino noi): due mondi separati che si fronteggiavano, quasi ignorandosi. Del resto, né nei

programmi degli esami etnologici, né in quelli antropologici, mi sono mai imbattuto in testi di

“antropologi italiani”: non Ernesto De Martino o lo stesso Carpitella, né Clara Gallini, Amalia

Signorelli o Tullio Seppilli; nemmeno Tullio Tentori, Giuseppe Cocchiara o Antonino Buttitta. Poteva

capitare, invece, che a lezione si parlasse di Ernesta Cerulli, Vittorio Lanternari, Bernardo Bernardi

(che arrivò a Roma nel 1982, durante il mio terzo anno di studi, ma che ben presto sarebbe prima

entrato in collisione con Signorini, quindi, nel 1992, andato in pensione) e Francesco Remotti, ma

nella loro veste di “etnologi”, che li escludeva automaticamente dalla categoria, decisamente altra,

degli “antropologi italiani”. L’antropologia che studiavamo e che ci veniva trasmessa era quella

“straniera”: inglese, statunitense, francese (meno tedesca, con l’uscita fuori ruolo di Grottanelli), sia

nelle declinazioni “alte” dei grandi maestri, sia anche attraverso le concrete ricerche etnografiche di

studiosi contemporanei. Soprattutto era un’antropologia centrata, appunto, sul terreno: etnografie

americane, ovviamente, ma anche africane, mediorientali, meno asiatiche ed oceanistiche, ma

comunque solide etnografie. Di queste, e dei modelli teorici che le sostenevano, ci parlavano a lezione

Signorini, Anthony Wade Brown, Colajanni e Cardona e ad esse chiedevano di ispirarci. Nonostante le

aperture eclettiche di Ida Magli (che suggeriva già in quegli anni di leggere Foucault e Bourdieu,

Bachelard e Deleuze, oltre a Kroeber ed Evans-Pritchard) e la curiosità contagiosa di Cardona (che ci

portava l’etnoscienza e l’analisi conversazionale) la mia era dunque, con tutta evidenza, oggi, una

formazione di scuola e alla scuola: l’antropologia era quella “straniera”, fondata su una solida ricerca

di campo in terreni “esotici” e basata su un’attenta conoscenza della letteratura internazionale, su

temi come famiglia, parentela e matrimonio – il mio primo esame fu sul manuale di Robin Fox -

l’organizzazione sociale e politica, il rituale, il mito, l’economia, e l’ecologia. Gli “altri”, gli “Italiani” –

questo era il pregiudizio scolastico – non facendo ricerca, non praticando il terreno, o comunque non

praticando gli stessi terreni allo stesso modo, costituivano un mondo altro, da non frequentare,

diverso dal punto di vista metodologico, ideologico e politico.

Come avrei compreso qualche anno più tardi, qualche crepa nella doxa di quel mondo nel

quale ero casualmente entrato incominciava, però, già a vedersi. Nel luglio del 1983 Italo Signorini mi

chiese di accompagnarlo in un viaggio nel Sannio beneventano. Qui firmò il contratto di affitto di un

appartamento nel paese di San Marco dei Cavoti dove mi chiese di recarmi a partire dal successivo

mese di settembre: avrei svolto lì, sul comparatico, tema a lui caro, il mio terreno per la tesi di

laurea. Un anno dopo, la tesi pronta, Italo mi chiese di portarla da Grottanelli, a casa sua, a Roma, in

Largo Arenula. “Sa – mi disse – ci tengo che sia lui il correlatore, così capirà che si può fare

etnologia anche lavorando in Italia”: un rituale di continuità, pensai, che stabilisce una relazione tra

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generazioni alterne di membri di una stessa scuola. In realtà, su un piano diverso, quella nel Sannio

era la prima “missione” che l’Istituto apriva su un terreno non esotico, cosa che Vinigi Grottanelli

non doveva certo vedere di buon occhio (in effetti, in sede di discussione, dopo aver tessuto le lodi,

che mi parvero convinte, del mio lavoro, concluse dicendo, con rimarcata sufficienza, che esso

mostrava che i metodi dell’etnologia potevano applicarsi anche in contesti vicini). Se fu solo più tardi,

dopo la tesi di dottorato e il terreno in Ghana, che Italo si convinse che avrei potuto fare il mestiere

che faccio, restava pur vero che la strada dell’antropologia del Mediterraneo – come, fin da un

decennio prima, in area anglofona era stato chiamato lo studio antropologico in area euro-

mediterranea – mi avrebbe condotto in scenari metodologici e teorici lontani dall’economia

disciplinare etnologica al cui interno il mio “anthropological self” si era gradualmente costruito.

In quegli anni (1987-1992) non avevo una reale percezione né del processo di soggettivazione

accademica cui ero sottoposto, né della particolare doxa che tale processo richiedeva di incorporare.

Sapevo certo dell’esistenza di altri universi dossici (scuole, adoperando un termine più vicino

all’esperienza nativa), paralleli, alternativi o contrapposti al “mio”. Nelle conversazioni captate, nelle

battute lanciate, potevi cogliere giudizi, valutazioni, commenti positivi, a volte, più spesso aggressivi,

caustici o risentiti verso questo o quel (loro) collega, questo o quel gruppo. Al di là della volontà di

adesione acritica a forme di auto disciplinamento (in me sempre piuttosto debole, per propensione

polemologica), quel che (mi) mancava, erano le coordinate per costruire un quadro d’insieme delle

iridescenti articolazioni del campo accademico, da un lato, e la capacità di sviluppare una reale

oggettivazione del mio posizionamento, dall’altro. Semplicemente mi muovevo (come tutti) da

“allievo” nella mia bolla disciplinare. Le mie prime tre pubblicazioni (1986, 1987, 1991) uscirono del

resto su L’UOMO, la rivista fondata da Grottanelli, insieme ad alcune recensioni (tra queste una alla

ristampa de Le feste dei poveri, di Annabella Rossi, libro che a me piacque, anche perché restituiva

con passione quei pellegrinaggi dei quali gli informatori sanmarchesi mi avevano a lungo parlato,

recensione – questa – che stupì non poco Signorini). Il mio primo scritto in inglese (sugli Nzema)

venne invece pubblicato su Ethnology, rivista di Pittsburg con legami storici con la scuola romana,

mediati da Hugo G. Nutini, americanista, amico di Signorini e studioso di comparatico.

Per quanto mediato da alcuni anni di apprendistato storiografico e antropologico nei

seminari organizzati da Gérard Delille e Giovanni Levi presso l’ École Française di Roma e dalla

frequentazione di un gruppo di lavoro sulla famiglia nel quale erano coinvolti vari antropologi italiani

(Giulio Angioni, Pier Giorgio Solinas, Gabriella Da Re, Giannetta Murru, Giuliana Sellan, Leonardo

Piasere, Benedetto Meloni, Cristina Papa e Maria Minicuci, tra gli incardinati), il passaggio dalla

formazione romana, all’Università di Messina dove, sul finire del 1993 presi servizio come Ricercatore,

fu piuttosto brusco 10. Ricordo che tra le varie cose che Maria Minicuci (allora ordinaria a Messina)

mi chiese di fare vi fu la schedatura dei volumi di antropologia presenti nella biblioteca dell’allora 10 I Commissari del “mio concorso” (espressione nativa, questa, che è rivelatrice di dimensioni importanti della conoscenza locale su questioni concorsuali e accademiche) erano: Tullio Seppilli, Maria Minicuci (membro interno), Mariano Pavanello.

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Istituto di Storia dell’Arte. Conoscevo bene, in tutte le sue articolazioni, la biblioteca romana, perché

Italo Signorini chiedeva a noi studenti anziani di prestare servizio volontario al suo interno,:

l’africanistica e l’americanistica, già cospicue, la parte generale, statunitense, britannica, francese e

tedesca, il piccolo, ma già significativo settore Mediterraneo, i classici. Ricordavo a vista le

collocazioni di molti libri. Quella messinese – meno voluminosa, ma non meno complessa e

stratificata – si era costruita nel tempo innanzitutto intorno al lavoro di Luigi Maria Lombardi

Satriani e di Mariano Meligrana (morto nel 1981, cui l’Istituto venne poi dedicato), e si era arricchita

negli anni grazie agli acquisti fatti da Maria Minicuci, prima, e da Francesco Faeta, poi 11. C’erano le

riviste, molte, italiane e straniere, allora solo in cartaceo e, come a Roma, in perenne, strutturale

ritardo; e c’era soprattutto l’antropologia italiana, tutta, proprio quella intorno alla quale a Roma –

andavo rendendomene gradualmente conto – era stata lanciata una sorta di fatwa silenziosa. Insieme

trovavo molta sociologia, storia, filosofia, storia dell’arte, spesso legate al mondo italiano e

meridionale, frutto, quest’ultima sezione, della passaggio in quell’’Istituto di studiosi come Giovanni

Previtali e Fiorella Sricchia Santoro. Se l’incontro con Maria Minicuci era avvenuto, per così dire, a

metà strada tra la rigida esterofilia della scuola romana di etnologia e la tenace “autarchia” della

tradizione italiana, mediato dal reciproco interesse per problemi di parentela su terreni europei

(italiani), una volta giunto a Messina, tra le mura per me piuttosto esotiche dell’appartamento al

secondo piano di Via Concezione 10, era difficile non comprendere che mi stavo oramai muovendo in

uno scenario disciplinare del tutto nuovo: finita la classificazione dei libri, Maria Minicuci fece il

passo successivo: “se sei qui – mi disse – sarebbe bene leggerla questa antropologia italiana”. Cosa

che feci e della quale non cesserò mai di esserle grato.

Fu sempre Maria, nei primi anni messinesi, a guidarmi nella comprensione del campo

accademico antropologico, informandomi sulla sua storia, le sue scissioni, i legami profondi e le

profonde inimicizie, facendomene comprendere, nella pratica più che nel racconto, i rituali (di

scissione e di pacificazione), insieme alle regole di etichetta e a quelle performative. Grazie a quegli

insegnamenti incominciavo ad avere gli strumenti necessari a farmi un quadro del mondo degli

antropologi accademici italiani e, dunque, iniziò a divenirmi chiaro come il mio spostamento a

Messina avesse significato attraversare una linea di confine intellettuale ed accademica ben radicata

nel cuore dell’antropologia italiana, intorno al quale si erano combattute, in anni precedenti, aspre

polemiche e dure battaglie, e che continuava a giocare un ruolo chiave nella strutturazione dei

rapporti di forza del campo.

11 Maria Minicuci si era laureata nella Facoltà di lettere dell’Ateneo peloritano con Adriano Ossicini. Era stata quindi attratta all’antropologia da Lombardi Satriani, con il quale aveva collaborato a partire dal 1967 e, quindi, istituzionalmente dal 1970. Dopo alcuni anni trascorsi in Francia, era professore ordinario al momento del mio arrivo a Messina. Francesco Faeta, di formazione sociologica e fotografica romana, anche lui entrato in contatto con Lombardi Satriani a partire da comuni interessi scientifici sulla Calabria, nel 1993 era professore associato nella Facoltà di Magistero dell’Università, dopo esser stato ricercatore nell’Università della Calabria nella quale Lombardi Satriani si era trasferito fin dai primi anni ’80.

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4. Sistemi politici accademici

Sono convinto che una simile esperienza di attraversamento e di spaesamento, del resto

tipica del lavoro etnografico, abbia facilitato la possibilità di oggettivare sia dimensioni fondamentali

della configurazione del campo accademico antropologico nel corso degli ultimi venti anni, sia il mio

stesso posizionamento 12. Solo con il passaggio da un “universo accademico” ad un altro e solo con il

tempo ho potuto comprendere l’articolazione del campo antropologico universitario. In linea con

quanto sappiamo della strutturazione dell’intero campo accademico italiano (Shore 1989, Perotti

2008, Carlucci e Castaldo 2009, Gardini 2009, Palermo 2010, Moss 2012), alla sua base esso appare

(pur in presenza di decisivi cambiamenti, uso qui un presente etnografico classico e continuo ad

adoperare una postura retorica di tipo “realistico”) costituito da singole chefferies:, ossia spazi socio-

politici e intellettuali centrati sulla figura di un professore (spesso, ma non sempre, maschio)

Ordinario di riferimento, sulla sua forza accademica e, quindi, sulla sua capacità di distribuire risorse

ai propri componenti in cambio di fedeltà, sia politica, sia intellettuale. Le chefferies sono

tendenzialmente, ma non necessariamente, localizzate in una o più sedi universitarie vicine a quella

del “big man” (o della “big woman”) di riferimento, idealmente chiuse e legate ad una specifica

prospettiva analitica (quella elaborata negli anni dal/dalla “chief”). Le chefferies, pur in presenza di

stili e posture retoriche differenti, sono connotate da una rigida strutturazione gerarchica interna: al

proprio vertice si trova il big man (o la big woman) di riferimento, attorniato da un nucleo di allievi

in posizione accademicamente subordinata (di solito professori associati o anche ordinari più giovani)

che debbono una parte almeno della propria carriera all’ordinario di riferimento; alla base un numero

variabile di ricercatori e più giovani precari (assegnisti, contrattisti, dottori di ricerca e dottorandi) i

quali affidano (anche) alla forza accademica della chefferie le proprie chances di carriera.

Nel 2006-2007 il numero dei professori ordinari di antropologia in Italia raggiunge la cifra

record di 51 (69 sono gli associati, 92 i ricercatori, per un totale di 213 persone). Siamo al culmine di

una fase di espansione (quantomeno accademica) della disciplina, dovuta ai numerosi concorsi

banditi per ogni fascia della docenza a partire dalla fine degli anni ’90 del secolo 13. Anche se nel giro

di due - tre anni i pensionamenti e il diradarsi dei concorsi avrebbero iniziato a falcidiare le schiere

della piccola tribù antropologica, riducendone drasticamente la demografia, al momento di massima

espansione del campo accademico antropologico le chefferies che, per così dire, ne animavano

l’esistenza erano ben visibili e strutturate 14. Il campo degli antropologi accademici appariva infatti

12 In effetti, solo riflettendo per questo scritto mi sono reso conto di quanto un analogo percorso di attraversamento di confini interni al campo accademico sia stato seguito da Maria Minicuci, l’ordinaria presso la cui cattedra ho lavorato come ricercatore. Per quanto non direttamente allieva di Lombardi Satriani, Minicuci ha iniziato con lui la propria carriera accademica nell’allora Magistero di Messina, per poi gradualmente avvicinarsi, dopo una significativa esperienza transalpina, ad alcuni esponenti di quella che sarebbe anni dopo divenuta l’alleanza del nord, restando comunque rispettosa dei propri inizi accademici. Pochi dubbi sul fatto che tale suo posizionamento molteplice e trasversale abbia aiutato la mia carriera universitaria. 13 Come vedremo, tra il 1999 e il 2008 sono stati banditi molti concorsi di I e II fascia, e ancor di più per ricercatore a tempo indeterminato. 14 Questo il trend tra la fine del 2012 e il 2006: Ordinari Associati Ricercatori Altri Totale

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diviso in due grandi alleanze, ciascuna composta da diverse chefferies espressioni, a loro volta, della

forza accademica di singoli big man. Per comodità e per una certa esigenza di adesione alla

percezione dei “nativi” propongo di chiamare la due principali coalizioni “Alleanza del Sud” e

“Alleanza del Nord” 15. Al di là di ogni riflessone sociologica sulla natura di simili alleanze e di ogni

tentativo di ricostruzione delle complesse vicende storiche che hanno portato al loro temporaneo

costituirsi, tra gli anni ’90 del Novecento e il primo decennio del nuovo secolo, quel che qui mi

interessa è giungere ad una loro oggettivazione e tentare una interpretazione degli effetti che

l’operare di simili “strutture” ha avuto sull’attuale conformazione del campo accademico e

intellettuale dell’antropologia italiana in una precisa e delimitata fase della sua storia (1998-2012) 16.

Dunque, detto che tra le due coalizioni esistono ovviamente momenti di sovrapposizione, figure di

mediazione e ambiti fluttuanti, insieme a spazi di “non schieramento”, se si fa propria una

prospettiva “oggettivante” si può affermare che, almeno in alcuni specifici momenti, le due alleanze

assumono il carattere di entità sociali e politiche ben delineate, dotate di una certa continuità nel

tempo e di una loro precisa strutturazione. Come vedremo, infatti, in occasione dei concorsi,

momenti insieme rituali, politici ed economici la cui denominazione rinvia significativamente

all’ambito ecclesiale, le due coalizioni prendono corpo e agiscono in maniera tendenzialmente

unitaria. Per comprendere tale capacità d’azione è necessario fornire una descrizione più dettagliata

delle due alleanze e delle loro interne articolazioni.

Ogni alleanza ha un nucleo duro, un cuore costituito da alcuni professori ordinari tra loro

legati da vincoli intellettuali, da rapporti di filiazione e cuginanza accademica, da legami di amicizia

personale e da una memoria di genealogie e storie accademiche pregresse. Memoria, questa,

profonda, sedimentata, specie nelle inimicizie e nei rancori, e puntuale, la quale, però, prevede anche

la possibilità di forme di rimozione del ricordo dei conflitti passati allorché diviene utile o necessario,

in vista di specifici obiettivi, realizzare scambi con altre chefferies, sia pur inserite nell’alleanza

opposta, o anche, più facilmente, mettere tra parentesi tensioni e ruggini interne ad una stessa

coalizione. Nel 2006 l’Alleanza del Sud appare costituita da due principali chefferies, i Luigiani e i

2012 29 58 78 8 173 2008 44 63 103 2 212 2006 51 69 92 1 213 15 In linea con lo stile volutamente “realistico” e “old fashioned” della rappresentazione etnografica adottato in questo scritto, tenderò a descrivere le due alleanze come se fossero entità oggettive e discrete. Esse, in realtà, presentano un carattere fluido e dinamico che le avvicina, più che a un qualche tipo di gruppo corporato, alle coalizioni, ai “quasi groups” o agli “interst groups” individuati da antropologi e sociologi tra gli anni Sessanta e i Settanta del secolo scorso (Mayer 1966, Banton 1966, Boissevain 1974, Bourdieu 1984). 16 Ovviamente, al di fuori della postura struttural-funzionalista convenzionalmente assunta in queste pagine, sono ben consapevole del fatto che occorrerebbe una conoscenza attenta delle vicende del campo antecedenti di almeno un trentennio e, quindi, una precisa socio-biografia quantomeno dei “big men” (e “big women”) che nel corso degli anni 2000 ci appaiono come i protagonisti della scena antropologica nazionale. La voci e i racconti che circolano all’interno del campo dicono di più chefferies autonome, sempre legate a singoli “big man” in reciproca competizione, non organizzate in coalizioni (alleanze) di una certa durata, ma capaci di aggregarsi o di contrapporsi in occasione dei momenti concorsuali. Dare fondamento storiografico e analitico a tali voci, però, è compito diverso da quello qui perseguito. Ancora utile, per far luce sugli aspetti intellettuali della vicenda antropologica italiana negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, il lavoro di Petrarca (1985). Si vedano anche i capp. IX e X del recente, e significativamente prudente nell’esplicitare i nessi tra posizionamenti accademici, modelli analitici e interpretazioni storiografiche, volume di Alliegro (2011).

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Palermitani, ognuna centrata su una figura storica dell’antropologia italiana, con un terzo nucleo – i

Demartiniani - che, per quanto ancora identificabile, sembra sul punto di essere assorbito dalla

chefferie dei Luigiani. In maniera speculare l’Alleanza del Nord si articola nei Ciresiani e nei Torinesi,

chefferies legate, anche in questo caso, ad (almeno due) importanti studiosi. Intermedio tra le due

alleanze il gruppo dei Perugini, in grado di muoversi tra le maglie della contrapposizione e di

partecipare, a seconda dei casi e delle esigenze, alle iniziative dell’una e dell’altra alleanza. Una simile

capacità deriva a questo gruppo (nel 2006 non più definibile come un vera chefferie, date anche le

sue ridotte dimensioni numeriche – 5 persone, tra cui un solo ordinario) dall’essere ciò che resta di

una chefferie piuttosto importante fino al 2000 e, in passato, più vicina ad altre chefferies confluite

nell’ Alleanza del Sud. Leggendo attraverso le mie personali competenze auto-etnografiche i dati

forniti dal CINECA, nel 2006 la composizione numerica delle due alleanze potrebbe essere la

seguente:

TABELLA N. 5: il campo accademico antropologico letto nelle sue partizioni “native” (elaborazione personale di dati CINECA per l’anno 2006). Alleanza Ordinari Associati Ricercatori 2006 Sud 104 (49%) 27 (27%) (13%) 36 (32%) (17%) 41 (41%) (19%) (53%) (52%) (44%) Nord 72 (34%) 16 (22%) (7%) 25 (35%) (12%) 31 (43%) (15%) (31%) (32%) (34%) Altri 36 (17%) 8 (22,5%) (4%) 8 (22,5%) (4%) 20 (55%) (10%) (16%) (16%) (22%) Totale 212 + 1 51 (24%) 69 (32%) 92 (44%)

Ad un primo sguardo, alla fine del 2006 l’Alleanza del Sud appare più forte rispetto a quella

del Nord. Non si tratta tanto o soltanto di un dato numerico (104 contro 72 docenti), quanto

piuttosto del maggior numero di professori ordinari che ne compongono i nuclei (chefferies) portanti

(27, ossia il 53% dei 51 ordinari, contro 16, pari invece al 31%). A questa maggiore forza, di numeri e

di status accademico, corrisponde, però, una maggiore articolazione interna che ne fa in qualche

modo un sistema più dinamico e instabile rispetto a quello contrapposto. L’Alleanza del Sud, infatti,

si articola in (almeno) tre chefferies: i Lugiani, i Palermitani, i Demartiniani. La chefferie più

consistente di questa alleanza, quello dei Luigiani, vede al suo vertice Luigi M. Lombardi Satriani,

Ordinario di Etnologia alla Sapienza di Roma, e include 16 Ordinari, almeno 13 Associati ed una

ventina di ricercatori. Questa chefferie, pur restando saldamente centrata intorno alla figura del

leader, date anche le sue dimensioni e soprattutto vista in una prospettiva aperta alla diacronia,

appare articolata in varie anime interne: oltre ad un cospicuo numero di allievi diretti, vi troviamo

infatti un nucleo di studiosi provenienti da una più antica chefferie centrata intorno alla personalità

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di Tullio Tentori, un numero non ristretto di Associati e Ricercatori legati a due Ordinari bolognesi,

figure chiave dell’antropologia culturale italiana, un nucleo più piccolo formato da Associati e

ricercatori perugini, espressione della scuola di Tullio Seppilli, che per storie e legami personali,

almeno all’epoca, appaiono ancora legati all’Alleanza che aveva costituito il primario riferimento del

proprio maestro, piuttosto che alle scelte strategiche di maggiore dinamicità operate dall’Ordinario di

riferimento attivo 17. I membri della chefferie dei Luigiani, oltre ad essere presenti nella “Sapienza” di

Roma, sono attestati in numerose sedi universitarie del Sud (Università della Calabria, di Messina, in

almeno due delle tre università pugliesi, nelle Università Federico II e Suor Orsola Benincasa di

Napoli), ma hanno presenze di peso anche nel centro (Bologna, in primis, e su un livello diverso,

Cassino) e nel Nord (Torino, Padova). I diversi membri del gruppo, pur se ognuno legato a traiettorie

personali di formazione, a specifiche vicende accademiche e a soggettivi stili di lavoro, di azione e di

visione del mondo, appaiono però uniti – almeno ad uno sguardo esterno e almeno sul piano delle

(auto) dichiarazioni ufficiali - da una comune idea di cosa sia (o debba essere) la disciplina, dei suoi

metodi, delle concrete pratiche di ricerca, dei temi di studio, oltre che delle vicende storiche del

campo e dell’antropologia stessa. Tutti comunque hanno una percezione (cui non è detto debbano

corrispondere identiche pratiche) del campo accademico, dei suoi confini interni ed esterni, delle sue

articolazioni, delle alleanze possibili, dei comuni “avversari”. Ribadendo che in questi passaggi scelgo

di non occuparmi delle dimensioni “contenutistiche” e “scientifiche” che sono (o dovrebbero essere)

alla base della configurazione del campo, e che più probabilmente possiamo ipotizzare esserne invece

conseguenze, ritengo decisivo soffermarsi sugli aspetti politico-sociologici e sulle dimensioni per così

dire formali del campo accademico. In una simile ottica, attenta all’organizzazione politica della vita

intellettuale, non possiamo non sottolineare che la chefferie dei Luigiani, come tutti le altre, si

caratterizza in maniera unitaria anche su altri piani: alcune importanti collane in case editrici di

rilievo nazionale fanno riferimento o direttamente al chief, o indirettamente a studiosi appartenenti al

gruppo: Armando, Franco Angeli, Guerini, e in un passato non troppo lontano dal 2006 anche la

collana gli Argonauti di Meltemi, insieme ad un certo numero di editori di carattere piuttosto

regionale (gli editori calabresi Gangemi e Pellegrino, ad esempio, o più limitatamente l’editore

Rubettino). In maniera complementare dell’area di influenza della chefferie fanno parte anche alcune

riviste scientifiche di rilievo del panorama antropologico nazionale, come Voci (creata nel 2004) e

Etnoantropologia (on line), evoluzione della più antica Etnoantropologia, rivista dell’AISEA

(Associazione Italiana Scienze Etno-Antropologiche), fondata nel 1993 e destinata a seguire le vicende

di quell’Associazione. Anche la possibilità di accedere alle pagine di alcuni tra i più importanti

quotidiani nazionali, in primo luogo determinata dalle capacità e dalle reti di singoli studiosi che

17 Sia la chefferie centrata intorno a Tullio Tentori, sia soprattutto quella che fino al 2006 ha avuto come suo perno Matilde Callari Galli, prima di diluirsi gradualmente all’interno della più ampia coalizione tra palermitani e luigiani, hanno giocato un ruolo di primo piano nel definire e sostenere l’Alleanza. Legate a figure di primo piano dell’antropologia culturale italiana, hanno in vario modo beneficiato (soprattutto quella bolognese) del peso e dell’attività politica dei loro vertici.

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“appartengono” alla chefferie, è indice, però, anche della possibilità di questo gruppo di agire negli

scenari “alti” della vita politica e culturale del paese.

Altra chefferie centrale nella composizione dell’Alleanza del Sud è quella dei Palermitani che

alla fine del 2006 comprende almeno 8 professori ordinari, prevalentemente, ma non esclusivamente

localizzati in Sicilia (Palermo; importante, ad esempio, è il nucleo sassarese), una decina di associati,

divisi tra Palermo e alcune sedi universitarie del nord, insieme ad un numero più ristretto di

ricercatori. Nonostante la tensione tra due diverse anime palermitane, spesso tra loro in conflitto, la

chefferie, soprattutto se vista nella sua partecipazione all’Alleanza, ha come punto di riferimento la

figura di Antonino Buttitta, personaggio importante della vita intellettuale (non solo) siciliana e figura

chiave dell’alleanza stessa. Questo gruppo appare più compatto del precedente - in fondo è possibile

leggere al suo interno solo due articolazioni, essendovi, oltre al nucleo principale, un ulteriore polo

centrato, fino al 2005, su altri due professori ordinari palermitani – sia dal punto di vista della

condivisione di una certa idea dell’antropologia, sia sul piano dei temi, degli approcci e delle

metodologie di lavoro. La chefferie palermitana si caratterizza, inoltre, per un forte ancoramento

territoriale (siciliano, ma in alcuni casi anche sardo) delle ricerche e, soprattutto, delle proprie

politiche culturali e istituzionali. Grazie anche al diretto e importante impegno politico del big man

di riferimento – caratteristica questa condivisa con il chief ed altri esponenti di primo piano dei

Luigiani – il gruppo conserva quasi intatta, ancora nel 2006, quella capacità di interazione con le

strutture politico-amministrative regionali esercitata in maniera egemonica nel ventennio precedente.

Capacità, questa, che si era tradotta sia in un radicamento didattico, scientifico e museale

dell’antropologia sul territorio, sia anche, fino ai primi anni del nuovo millennio, in una forte capacità

di dialogo e di scambio con tradizioni antropologiche straniere, e in particolare con la Francia. Anche

questa chefferie ha un rapporto privilegiato con almeno una casa editrice di livello nazionale (Sellerio,

ma in passato anche Flaccovio) e una “sua” rivista, l’Archivio Antropologico Mediterraneo, fondata nel

1998 e in parte continuatrice delle politiche editoriali di una precedente rivista (Uomo & Cultura).

La terza chefferie che alla fine del 2006 è parte dell’Alleanza del Sud si compone di studiosi

legati tra loro dall’essere in qualche modo connessi all’opera di Ernesto De Martino. Si tratta di un

gruppo nel 2006 numericamente ristretto (1 Ordinario, 5 Associati, alcuni ricercatori) che paga lo

scotto del pensionamento di Clara Gallini (2004) e che, fino al 2006, ha visto al suo vertice un’altra

allieva del grande studioso napoletano, Amalia Signorelli 18. Un gruppo, questo, connotato da una

maggiore articolazione intellettuale interna rispetto, ad esempio, al nucleo palermitano, le cui

ricerche, muovendosi quasi esclusivamente in ambito italiano ed europeo, spaziano dall’analisi di

18 Il posizionamento di questa importante studiosa in una stessa coalizione con la chefferie dei luigiani potrebbe apparire problematico stanti i rapporti spesso conflittuali da lei intrattenuti con i vertici delle altre due chefferies. In effetti l’appartenenza all’alleanza del sud, in questo caso, sembra determinata sia da meccanismi contrastivi e segmentari che hanno visto Signorelli, con il gruppo che a lei faceva riferimento, ancor più contrapposta ad esponenti di vertice dell’altra alleanza, sia anche dai comportamenti concorsuali del gruppo stesso.

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18

dinamiche sociali e politiche delle realtà urbane dell’Italia contemporanea allo studio di forme di

ritualità cattolica di massa, dall’immaginario razzista ai saperi “popolari” femminili legati a parto e

maternità. Al di là del carattere numericamente ristretto, questo gruppo costituisce un punto di forza

dell’Alleanza del Sud, grazie sia al prestigio dei suoi vertici e della sua genealogia intellettuale, sia

anche agli stretti rapporti, a volte anche di tensione, se non proprio conflittuali, che legano i suoi

membri ai vertici delle altre due chefferies che la compongono. Pur non essendoci in questo caso una

rivista di riferimento, il ruolo svolto dalla casa editrice napoletana Liguori nel dare una significativa

visibilità editoriale ai lavori di questo gruppo non può essere sottovalutato.

Lo scenario di quella parte del campo accademico in antropologia che ho chiamato Alleanza

del Sud è indubbiamente più complesso di quanto qui schematicamente presentato: i legami tra i

vertici delle tre chefferies, quelli tra questi e gli altri membri del (proprio) gruppo e tra questi ultimi

tra di loro sono dinamici, a volte conflittuali, e hanno portato, nel corso degli anni, ad allontanamenti,

“tradimenti” e scissioni. Mi sembra però che a partire dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso ad

oggi la tenuta dell’Alleanza sia stata buona, così come netta è stata, almeno a livello delle

rappresentazioni, la contrapposizione con l’altra parte che compone il campo.

Alla fine del 2006, l’Alleanza del Nord con i suoi 16 ordinari, 25 associati e 31 ricercatori,

appare il frutto della coalizione creatasi nel passaggio di millennio tra due principali gruppi

(chefferies) : i Ciresiani, da un lato, e i Torinesi dall’altro. Anche in questo caso non mancano certo

dinamiche interne, a volte particolarmente conflittuali, altre meno, anche se foriere di probabili,

future segmentazioni. Nonostante questo, considerando il quadro d’insieme e valutando le concrete

pratiche sociali (soprattutto, come vedremo, quelle concorsuali nelle quali e attraverso le quali si

distribuiscono le principali risorse del campo), anche qui la tenuta del blocco non sembra messa in

discussione.

Il gruppo dei ciresiani (almeno 6 Ordinari, 16 Associati e altrettanti Ricercatori) è composto

in primo luogo, ma non esclusivamente, da allievi di prima e di seconda generazione di Alberto

Cirese, formatisi con lui (e quindi con suoi allievi) in Sardegna, In Toscana e alla Sapienza e dislocati

in Sardegna (quasi esclusivamente a Cagliari), a Siena e a Roma. Al loro fianco – secondo un

processo già notato in almeno una delle chefferies dell’altra Alleanza - studiosi che, provenendo da

quelli che in un recente passato erano gruppi autonomi ed essendo, dunque, espressione di

genealogie intellettuali a volte piuttosto lontane da, se non addirittura contrapposte a quella dossica,

si legano per ragioni di vicinanza intellettuale e/o accademica a membri che, con l’uscita dalla scena

accademica del fondatore del chefferie, hanno acquisito posizioni di vertice 19. Come nel caso delle

19 Penso sia al caso del nucleo di studiosi provenienti dalla tradizione filologica di Bronzini ed oggi stabilmente parte dell’alleanza del Nord grazie ai legami intellettuali stabiliti con Pietro Clemente; sia anche a singoli studiosi che, pur provenendo da raggruppamenti accademici opposti a quello ciresiano, si aggregano a studiosi di questo gruppo, divenendone, con il tempo e in alcuni casi paradossalmente, parte integrante.

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19

altre chefferies fin qui considerate, buona parte degli studiosi del gruppo ciresiano lavorano in

contesti italiani, anche se non mancano, sia tra gli allievi diretti, sia, più frequentemente tra i membri

della generazione “– 2” esempi di lavori svolti in terreni “esotici” (India, Capoverde, Costa d’Avorio,

Ghana). Interessante, inoltre, che nonostante il forte accento sulla dimensione teorico-metodologica

proprio dell’insegnamento del fondatore della chefferie, gli studiosi che ne fanno parte seguono

approcci teorici e metodologie e si interessano a tematiche tra loro spesso distanti, conferendo al

proprio schieramento una curvatura intellettuale eclettica, diversa, ad esempio, dalla dichiarata

omogeneità teorica di altri gruppi accademici. Al di là delle specifiche sensibilità conoscitive dei

singoli studiosi e dei loro diversi interessi, sembra forse possibile cogliere alla base di una simile

curvatura anche l’esito della complessa fase di successione apertasi con l’andata in pensione del

fondatore del gruppo: passaggio delicato per gli equilibri interni alla chefferie che, pur mantenendo

sui piani struttural-accademici una sua chiara continuità ed evitando formali segmentazioni o

addirittura scissioni, ha visto accentuarsi le distanze, anche intellettuali, tra le traiettorie dei principali

allievi di Cirese. Ad una tale molteplicità di interessi corrisponde, sul piano dell’organizzazione della

produzione culturale e scientifica, un’ampia differenziazione dei luoghi di pubblicazione. Se il nucleo

romano della chefferie appare direttamente coinvolto nella recente definizione dell’editore CISU come

spazio di riferimento per l’antropologia accademica italiana, una casa editrice come Carocci ha spesso

ospitato contributi di studiosi appartenenti ad altri nuclei dello stesso gruppo, mentre l’apertura di

edizioni come ETS di Pisa o SEID di Firenze alle discipline antropologiche è diretta espressione di

altri suoi membri. Altrettanto articolato il quadro delle riviste di settore che fanno riferimento a

questo schieramento: da Ossimori, fondata nel 1992 e durata fino al 1998 – espressione del nucleo

romano - ad Antropologia Museale, creata nel 2002 come espressione degli interesse di un gruppo di

Antropologi museali strettamente connesso alla stessa frazione dell’area ciresiana, passando per Lares,

rivista storica degli studi demologici e antropologici italiani, il cui passaggio alla direzione di Pietro

Clemente segna, tra le molte altre novità, anche la saldatura di un legame tra una parte della

chefferie ciresiana e gli eredi di Giovan Battista Bronzini (area, quest’ultima, nella quale si muove

anche la più giovane rivista Archivio di Etnografia).

L’altro perno dell’Alleanza del Nord è quello rappresentato dalla chefferie che propongo di

chiamare dei Torinesi. Suo punto di riferimento e di origine è il lavoro scientifico e intellettuale di

Francesco Remotti, impostosi tra la fine degli anni ’70 e quella degli anni ’80 del secolo scorso come

una delle figure di riferimento dell’antropologia culturale italiana e del campo accademico da questa

occupato. La chefferie, che alla fine del 2006 include tra 6 e 8 Professori Ordinari, altrettanti

Associati e 13 Ricercatori, ha come sedi di riferimento le Università di Torino e di Milano Bicocca, con

diramazioni in altre università del Nord del paese. Diversamente dalla tendenza prevalente nelle altre

chefferies, gli interessi di ricerca, in questo caso, si concentrano su tematiche etnologiche “classiche”

e, dunque, su aree (l’Africa, il Medio Oriente, l’Oceania, le Americhe e, più di recente, il Sud Est

asiatico) “esotiche”. Anche i modelli teorici di riferimento – esplicitamente a partire da alcuni

Page 20: Messages in a Bottle

20

dibattiti intellettuali della seconda metà degli anni ’80 del XX secolo – sono, o meglio sono stati in

passato, dichiaratamente “non autarchici”, guardando soprattutto alle tradizioni antropologiche

francesi, statunitensi e, almeno in parte, inglesi. Questa chefferie si presenta - almeno negli anni

iniziali del nuovo millennio - come piuttosto compatta, tanto dal punto di vista accademico, quanto

da quello intellettuale, con una marcata tendenza alla riaffermazione costante di una doxa, pur

attraverso il riconoscimento e la valorizzazione delle scelte e delle preferenze intellettuali dei singoli.

Del resto l’apparato politico-culturale del gruppo è tra i più strutturati del campo accademico

italiano, con collane di antropologia presenti in editori di primo piano nel panorama nazionale

(Laterza, Raffaello Cortina, Bruno Mondadori) e un paio di riviste (Annuario di Antropologia, attiva

dal 2001 e Achab, in vita tra il 2004 e il 2012) direttamente legate ai vertici del gruppo. Come le altre

chefferies che, alleandosi e/o contrapponendosi reciprocamente, danno forma al campo accademico

degli antropologi italiani, anche quella torinese – che gode di un significativo prestigio intellettuale e

scientifico – già alla fine del 2006 presenta una certa dialettica interna, con alcuni studiosi che

occupano posizioni defilate, aggregandosi tra loro, e il nucleo di Milano Bicocca che, essendo in forte

crescita numerica, sembrerebbe poter assumere con il passar del tempo e con l’uscita fuori ruolo del

docente di riferimento, una più netta autonomia dal centro.

Insieme, o meglio intorno o attraverso le due metà del campo si muovono seguendo

traiettorie più marcatamente individuali e, dunque, non direttamente collegate alle esigenze dei due

gruppi principali, figure di studiosi dai percorsi accademici e intellettuali tra loro molto diversi:

studiosi che hanno lasciato le alleanze di cui genealogicamente avevano fatto parte, ricercatori affiliati

in origine a gruppi che si sono poi disciolti in seguito alla scomparsa dei propri referenti, persone

con formazione estera rientrate in Italia attraverso temporanee connessioni con l’una o l’altra

alleanza, persone dai percorsi intellettuali e accademici effettivamente trasversali. La fascia che ho

classificato come “altri” nel 2006 rappresenta il 17 % del totale degli antropologi strutturati in

università e gioca un ruolo piuttosto marginale nella gestione della vita e delle risorse accademiche. Il

loro numero, però, è in costante aumento ed appare connesso con il decrescere di quello degli

antropologi globalmente presenti in accademia. Nel 2012, infatti, gli “altri”, per quanto il numero degli

ordinari “non allineati” non sia aumentato, costituiscono oramai il 28 % degli antropologi (48/174)

con un significativo aumento delle loro percentuali nei ruoli degli Associati, dei Ricercatori e, novità

assoluta, dei RTD. Tra questi 6 su 8 non sembrano inscrivibili in nessuna delle due sfere di influenza.

La tabella n. 6, relativa al 2012, ci dice che oltre a tale incremento di studiosi non del tutto allineati

con le principali divisioni del campo, assistiamo anche e soprattutto ad un impoverimento numerico

dello scenario e ad un connesso indebolimento delle due alleanze e delle chefferies che le

compongono.

TABELLA N. 6: il campo accademico antropologico letto nelle sue partizioni “native” (elaborazione dati CINECA per l’anno 2012)

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21

Alleanza Ord. Ass. Ric. RTD Altri 2012 Sud 61 (35%) 12 (21%) (6,5%) 20 (33%)

(11%) 27 (44%) (16%)

1 (2%) (0,5%)

(45%) (34%) (35%) (22,5%) Nord 65 (37%) 12 (20%)

(6,5%) 21 (32%) (12%) 30

(46%) (17%) 1 (2%) (0,5%)

(45%) (36%) (38%) (22,5%) Altri 48 (28%) 5

(6%) (3%) 17 (35%) (10%)

21 (45%) (12%)

6 (12%) (4%)

1 (2%) (0,5%)

(10%) (30%) (27%) (75%) (100%) Totale 174

29 (16%)

58 (33%)

78 (45%)

8 (5%)

1 (1%)

Ordinari, Associati e Ricercatori dei due schieramenti, decisamente ridotti di numero, oramai

si equivalgono. Al loro interno, poi, il pensionamento di alcuni (i più anziani) dei maestri intorno ai

quali si erano aggregati le singole chefferies ha prodotto tensioni legate alla successione (tra i

Luigiani, ad esempio) in parte analoghe a quelle vissuti dal gruppo ciresiano alcuni anni prima; in

altri casi (ad esempio Palermo, Napoli statale, Roma-Sociologia) l’andata in pensione della

generazione anziana ha causato un indebolimento generalizzato del peso della disciplina in quelle

università, insieme ad una connessa riduzione della forza accademica dei singoli docenti.

5. La produzione e la riproduzione dei “grand hommes”

Il quadro che emerge da tali dati è quello di una campo disciplinare globalmente più debole,

oggi, rispetto a soli 6-7 anni fa e, soprattutto, destinato nel giro di pochissimi anni a divenire ancora

più debole e frammentario 20. Le linee di tensione presenti e ben vivaci nel corso del primo decennio

del XXI secolo, pur in presenza di alcuni timidi segnali di discontinuità, continuano, però, ad essere

ben vive e ad organizzare il campo, producendo e a volte moltiplicando le spinte alla parcellizzazione

all’interno di un processo che ricorda sempre più quello di una schismogenesi simmetrica e

regressiva (Bateson, 1977).

Associazioni

Ulteriore indice di un simile processo è il moltiplicarsi nel corso degli ultimi due decenni

delle Associazioni che si contendono o comunque si dividono la rappresentanza pubblica degli

antropologi. Nel 1992, su iniziativa di alcuni importanti studiosi appartenenti a schieramenti

accademici diversi e in una fase accademica caratterizzata da un clima da Große Koalition, viene

fondata l’AISEA (Associazione Italiana Scienze Etno-Antropologiche) che, per alcuni anni, non senza

tensioni interne, resta l’unica e unitaria associazione di categoria. Espressione di AISEA è la rivista

Etnoantropologia (nata nel 1993) che, fino al 1999-2000 ospita contributi di provenienza accademica

20 Alla fine del 2013 il numero degli ordinari di discipline M-DEA/01 sì è ulteriormente ridotto, scendendo a 25 e – in assenza di assunzioni di nuovi professori di Prima fascia – sarà destinato ad un ulteriore, drastico, ridimensionamento nel giro di due - tre anni, con il pensionamento di almeno altri 8 studiosi/e.

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22

molto differenziata e plurale 21. Ben presto, però, le tensioni del campo accademico si proiettano

all’interno dell’associazione: già nel 2001 (significativamente poco dopo l’inizio di nuove modalità

concorsuali: commissioni locali di 5 membri, eletti con un membro interno designato e 3 candidati

idoneati) un nutrito gruppo di antropologi interessati alle dinamiche museali e patrimoniali, e legati

ad un importante esponente della chefferie dei ciresiani, dà vita ad una nuova associazione, SIMBDEA

(Società italiana per la Museografia e i Beni Demoetroantropologici). Un anno dopo SIMBDEA inizia

a pubblicare una propria rivista (AM – Antropologia Museale) che rapidamente si impone nel

panorama nazionale e che, nella sua fase iniziale, ospita prevalentemente contributi di studiosi legati

al nucleo fondatore. Nel 2006 alcuni studiosi, già presenti in AISEA e da tempo in disaccordo con le

modalità di conduzione di quell’Associazione decidono di dar vita all’ANUAC (Associazione Nazionale

Universitaria degli Antropologi Culturali) 22. Significativamente la nascita di questa nuova

associazione avviene lungo una linea di divisione che, fino ad epoca molto recente, ricalca piuttosto

fedelmente quella tra Alleanza del Nord, i cui principali big men sono tra i maggiori sponsor

dell’operazione, e l’Alleanza del Sud, i cui esponenti restano quasi tutti in AISEA. Recentemente,

infine, a dividersi ulteriormente l’oramai esanime platea degli antropologi universitari (167 a fine

2013) compare la SIAA (Società Italiana di Antropologia Applicata), nuova Società creata da studiosi

in passato piuttosto chiaramente associati all’una e all’altra alleanza, e quindi, più recentemente,

attestati su posizioni accademiche meno schierate.

Riviste

Alla polverizzazione dello spazio associativo lungo linee di faglia sostanzialmente coerenti con

la grande opposizione Alleanza del Sud / Alleanza del Nord, corrisponde la parcellizzazione e la

polarizzazione lungo le medesime linee di tensione strutturale delle riviste e delle sedi di

pubblicazione. Abbiamo già visto come a ciascuna Associazione corrisponda tendenzialmente una

rivista (Etnoantropologia – e poi Etnoantropologia on line - per AISEA, AM – Antropologia Museale

per SIMBDEA, Anuac per l’ANUAC) rivista che in qualche misura si fa portavoce, sul piano della

produzione intellettuale e scientifica, della rete accademica che nella associazione di riferimento si

riconosce. A queste si affiancano altre riviste specificamente antropologiche, di diversa storia e di

peso differente. Tra queste La Ricerca Folklorica - Erreffe che, nata nel 1980 intorno al nucleo

problematico dei rapporti tra folklore, cultura popolare e studi antropologici in Italia e grazie

21 In realtà tra il 1988 e il 1989 a Perugia, grazie a Tullio Seppilli, era stata fondata la SIAM (Società Italiana di Antropologia Medica) che ha subito costituito un punto di riferimento trasversale per studiosi di diversa provenienza accademica interessati alle tematiche dell’antropologia medica. Dal 1996 la SIAM pubblica AM – Antropologia Medica, rivista presto divenuta, almeno in Italia, centrale nel campo specifico di studi. Sia la SIAM che AM non sono mai apparse in contrapposizione o in competizione con le altre associazioni. 22 Non posso non segnalare che mentre sono iscritto ad ANUAC sin dal momento della sua fondazione, sono stato membro di AISEA solo fino ad un certo momento (il 2001), decidendo di non rinnovare più l’iscrizione in seguito al personale disaccordo con la gestione di un mio scritto, presentato come relazione al convegno “Beni Culturali. Identità, Politiche, Mercato” tenutosi a Roma nel giugno di quell’anno, e mai pubblicato. In ANUAC ho ricoperto il ruolo di membro del Consiglio Direttivo, dal quale mi sono dimesso nel momento in cui ho dovuto operare come Esperto Valutatore nel GEV 11 della VQR 2004-2010.

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23

all’opera di studiosi di diversa formazione (linguisti, antropologi e studiosi di folklore) e provenienza

accademica, è riuscita nel corso di un trentennio a rimanere equidistante tra i diversi schieramenti

accademici e a conquistarsi uno spazio ben definito nel campo antropologico; Lares, rivista storica

(1912) della tradizione italiana di studi antropologici, con una precisa caratterizzazione demologica

che, dopo esser stata diretta per quasi trent’anni da Giovan Battista Bronzini – ed essere stata

almeno in parte espressione del gruppo accademico che a questo importante studioso faceva

riferimento – è passata sotto la direzione di Pietro Clemente, esponente di primo piano della

chefferie dei ciresiani 23. Altra rivista storica del panorama italiano, anch’essa capace di costruirsi uno

spazio di rifermento scientifico e di autonomia rispetto agli schieramenti accademici è AM –

Antropologia medica, rivista della SIAM edita dal 1996 e fondata, soprattutto nel primo decennio

della sua esistenza, sul prestigio intellettuale e politico e la capacità di muoversi tra le due Allenze

proprie del suo fondatore, il perugino Tullio Seppilli. Diversa la sorte toccata a L’UOMO, rivista

legata dapprima all’ Istituto di Etnologia della Facoltà di Lettere e Filosofia della “Sapienza” di Roma,

quindi al dipartimento di Studi glotto-antropologici. Fondata nel 1976 da Vinigi Grottanelli, è stata

punto di riferimento degli studi etnologici e antropologici, soprattutto extra-europei, ma ha avuto

alterne vicissitudini che ne hanno determinato varie chiusure e riaperture (l’ultima delle quali nel

2012, dopo 13 anni di sospensione delle attività): vicenda emblematica, quella de L’UOMO, degli effetti

distruttivi che le tensioni tra le due contrapposte alleanze hanno avuto su aspetti decisivi del campo

antropologico. Il dipartimento del quale è stata, ed è tutt’oggi, espressione è stato a lungo il più

numeroso e, forse, il più importante dipartimento di antropologia del paese (il primo, ad esempio, a

far partire una formazione dottorale). Esso, però, a partire dai primi anni ’90 del secolo scorso, è

divenuto terreno di scontro tra le due alleanze, entrambe significativamente rappresentate proprio

all’interno di quel dipartimento da studiosi di particolare rilievo e indubbio peso accademico. Scontro

che si è inevitabilmente proiettato sulla rivista e sulle sue possibilità di esprimere, anche solo

all’interno dello stesso dipartimento, una linea editoriale e scientifica unitaria. Più lineari, paiono

invece le vicende di due altre riviste, l’Archivio Antropologico Mediterraneo, fondata nel 1998, e Voci,

nata nel 2004, che negli ultimi anni si sono sempre più aperte a contributi di provenienza

accademica e scientifica diversificata, ma che sono state e, in gran parte sono, espressione di

chefferies (quella dei palermitani e quella dei luigiani) che, come detto, costituiscono il nucleo

portante dell’Alleanza del Sud. In maniera in qualche modo speculare, le riviste Ossimori (1992-1998),

Annuario di Antropologia (fondata nel 2001) e Archivio di Etnografia (n.s. dal 2006), sia pur in forme

diverse possono considerarsi espressione di chefferies o singoli docenti legati all’Alleanza del Nord. La

sorte di Etnosistemi (1994-2004), rivista nata come tentativo di costruire uno spazio di pubblicazione

esterno e in qualche modo trasversale alle diverse chefferies, ha finito con il tempo per mutare di

senso, prima, e rallentarsi, dopo, proprio a partire dalle difficoltà di mantenere concreti margini di 23 Significativamente il cambio di Direzione di Lares è coinciso con il passaggio di importanti membri dal gruppo di Bronzini, ristretto e localizzato in alcune università pugliesi e lucane, nella sfera di influenza della chefferie dei ciresiani e, dunque, in quella dell’Alleanza del Nord.

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24

autonomia 24. In un simile, frastagliato, frammentato e burrascoso campo disciplinare, la sorte di

Achab, rivista di antropologia nata “nel 2004 dall’iniziativa di alcuni studenti del corso di Laurea

Magistrale in Scienze antropologiche ed etnologiche dell’Università degli Studi di Milano – Bicocca”,

era in qualche misura facilmente prevedibile 25.

Collane

Anche lo spazio delle collane editoriali specificamente dedicato all’antropologia appare molto

frammentato. Ad uno sguardo sommario non meno di 30 case editrici, di vario livello e diversa

importanza nello scenario editoriale nazionale, pubblicano con una qualche sistematicità testi di

antropologia 26. Tra queste, oltre 20 hanno collane dedicate all’antropologia, quasi sempre dirette da

singoli studiosi appartenenti al campo disciplinare. Nella maggior parte dei casi non si tratta di

collane che adottano il sistema della (blind) peer review - sistema che solo di recente e sulla spinta

dell’introduzione di sistemi di valutazione nazionale della ricerca alcune case editrici sembrano aver

adottato – preferendo delegare ai direttori la scelta dei testi da pubblicare e proponendo, in alcuni

casi, agli autori contratti che prevedono il pagamento di (rilevanti) contributi monetari alla stampa.

La centralità e il ruolo pressoché egemonico esercitato dai direttori delle collane sono indici sia della

personalizzazione del campo editoriale, con la conseguente proliferazione di collane (di fatto ve ne è

una per ogni 8/9 antropologi strutturati), sia del suo strutturarsi lungo linee coerenti con le

partizioni del campo accademico. Considerando, infatti, l’affiliazione dei singoli direttori alle diverse

chefferies e, quindi, alle differenti alleanze, si nota come le collane si distribuiscano in maniera eguale

tra quella del Nord e quella del Sud. Altro dato di un certo rilievo è che la percentuale di libri di

antropologia nei cataloghi dei principali editori italiani resta comunque minima, non superando mai l’

1,5%, ed aggirandosi di media intorno a valori spesso di molto inferiori all’1%. Delle principali case

editrici nazionali, poi, solo Laterza e Sellerio hanno delle specifiche collane di antropologia, mentre Il

Mulino, Feltrinelli, Bollati Boringhieri, Einaudi non hanno né collane, né antropologi formalmente

incaricati di seguirle, preferendo o delegare ad altre competenze la scelta dei testi antropologici da

pubblicare (come ad esempio fa il Mulino), o basarsi piuttosto su reti di conoscenze informali (Bollati

Boringhieri, Feltrinelli, Einaudi). Siamo dunque in presenza di un campo accademico che produce

anche nello spazio editoriale specialistico una forte parcellizzazione e che, riproducendo in esso le

proprie linee di tensione, sembra volersi condannare ad un pulviscolare marginalità. Anche quando

gli antropologi accedono ad ambiti di pubblicazione di sicura rilevanza nazionale tendono, del resto, a

saturarli con pratiche abitudinarie diverse da quelle che governano il mercato editoriale scientifico in

24 Insieme a Flavia Cuturi, Mariano Pavanello, Leonardo Piasere, Giovanni Pizza e Fabio Viti sono stato uno degli iniziatori di Etnosistemi, rivista cui ho partecipato dal 1994 al 1999. 25 Citazione presa dal profilo facebook della rivista. 26 Un elenco anche solo approssimativo dovrebbe comprendere (in corsivo gli editori con specifiche collane antropologiche): Il Mulino, Bollati Boringhieri, Einaudi, Feltrinelli, Carocci, Bruno Mondadori, Jaca Book, UTET, Aracne, Raffaello Cortina, F. Angeli, Meltemi, Pacini, Clueb, Guaraldi, Mimesis, SEID, Dedalo, Liguori, Laterza, Sellerio, Armando, Argo, Morlacchi, Besa, CUEC, Pensa, Rubettino, Patròn, UNICOPLI, CISU, Bonanno.

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25

contesti internazionali. Prendiamo, ad esempio, due collane di antropologia, “Percorsi – Antropologia”

dell’editore Laterza e “Antropologia Culturale” dell’editore Armando, “cencellianamente” riferibili alle

due alleanze contrapposte. Si tratta di due collane importanti nel panorama nazionale degli studi

antropologici, all’interno delle quali sono stati pubblicati lavori di sicuro spessore scientifico. Detto

ciò, se proviamo a leggere i volumi in esse pubblicati a partire dalla collocazione accademica degli

autori, in relazione a quella del direttore della collana, emergono elementi di riflessione di un qualche

interesse. La prestigiosa collana di Laterza, diretta da Francesco Remotti, presenta 16 titoli 27. Di

questi, 2 volumi sono dello stesso Remotti, 9 sono scritti da suoi allievi diretti, 2 da studiosi che

hanno con lui conseguito il dottorato o che lavorano nel suo stesso dipartimento, 1 da una persona

che, insieme al direttore della collana, partecipa di una fondazione torinese dedicata allo studio della

morte, 2 da antropologi non direttamente connessi con lo stesso Remotti, ma il cui posizionamento

accademico non è (stato) mai distante dal suo. Una collana prestigiosa, dunque, nella quale sono stati

pubblicati lavori antropologici importanti, la quale, però, nel contempo si declina in termini quasi del

tutto autarchicamente torinesi.

La collana “Antropologia Culturale” dell’editore Armando, anch’essa caratterizzata da lavori di

significativa rilevanza scientifica, ha una storia più articolata e dunque presenta, rispetto a quella di

Laterza, un maggior numero di volumi pubblicati (39) e una più complessa composizione. La nuova

serie della collana è diretta oggi da Luigi M. Lombardi Satriani, punto di riferimento, come abbiamo

visto, di un propria chefferie e dell’intera Alleanza del Sud. All’interno di tale schieramento, come

detto, troviamo accorpati frammenti di quelli che erano stati, fino agli inizi del secolo corrente,

chefferies autonome; in particolare nelle file dei luigiani si aggregano studiosi legati, in passato, ad

un’altra importante figura dell’antropologia culturale italiana, Tullio Tentori che, appunto, nel 1990

fonda e dirige la collana in questione. Se cerchiamo di esplicitare l’afferenza accademica degli autori

pubblicati nella collana, possiamo constatare come, insieme ad alcune importanti traduzioni di

antropologi stranieri, 16 tra i libri di autori italiani sono direttamente legati all’attuale curatore, 2 lo

sono solo in maniera indiretta, mentre 12 sono testi scritti da studiosi connessi con la figura di

Tentori. Anche in questo caso, quindi, il campo accademico con i suoi schieramenti gioca un ruolo

decisivo nel determinare forme e contenuti del campo intellettuale e della sua organizzazione 28.

27 Altri libri di antropologia sono pubblicati dallo stesso editore al di fuori della collana: oltre ad importanti traduzioni di autori classici e ad alcuni testi più antichi di studiosi italiani, spiccano alcuni volumi dello stesso Remotti, capaci di suscitare gli interessi di un pubblico più vasto di quello specialistico e di produrre dibattiti culturali di ampio respiro nella cultura pubblica nazionale. 28 Può non essere inutile ricordare che le quattro monografie da me fino ad ora pubblicate sono state edite, in ordine cronologico, nella collana di Antropologia Culturale e Sociale di Franco Angeli, fondata e diretta, in quegli anni, da Bernardo Bernardi (1991, Madre Madrina), professore alla Sapienza di Roma; nella collana Mnemosyne dell’editore Argo (1997, Identità nel tempo), diretta da Stefano De Matteis, (all’epoca studioso non strutturato in accademia e comunque di formazione “italiana” lontana dalla mia); nella collana Argonauti, dell’editore Meltemi, diretta nel 2003 da Luigi M. Lombardi Satriani (L’Unesco e il campanile) e infine (2009, Politiche dell’inquietudine) nella serie Saggi dell’editore Le Lettere. Ho cercato, in alcuni casi, contatti con editori diversi (Il Mulino, Laterza, Raffaello Cortina) ma i manoscritti non sono nemmeno stati letti dai diversi curatori o dai responsabili editoriali delle collane (men che mai da lettori anonimi), i quali hanno comunque espresso un parere negativo attraverso la lettura di una breve scheda di proposta. In ogni caso nessuna delle sedi in cui ho alla fine pubblicato i miei libri era connessa con quelli che potevano essere, all’epoca delle rispettive pubblicazioni, miei (ipotizzabili) posizionamenti nel campo accademico.

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Concorsi

In un interessante articolo David Moss (2012) ha recentemente comparato i concorsi

universitari italiani (con particolare riferimento a quelli del settore antropologico) ai combattimenti

di galli studiati da Geertz a Bali. La sua attenta ricostruzione, in parte auto etnografica, delle

procedure e delle modalità di reclutamento e di avanzamento di carriera in antropologia dal 1999 al

2010 riesce a cogliere importanti aspetti del sistema concorsuale proprio dell’accademia italiana nel

periodo considerato. Il carattere mai “neutro”, mai socialmente asettico dello spazio concorsuale

(Moss 2012; 221); la presenza di quelli che chiama “stili differenti” nella pratica antropologica

obbligati a costruire, all’interno del meccanismo dei concorsi, una “coesistenza pacifica” (ibid.: 228) o

l’esistenza di “consultazioni” e riunioni tra generici gruppi di “Antropologi Senior” prima di alcune

tornate concorsuali (ibid.: 225), sono tutti aspetti della logica dei concorsi che rinviano, sia pur in

forma non esplicita e oggettivante, a tratti del campo accademico antropologico fin qui presi in

considerazione. Se affianchiamo alle attente osservazioni di Moss una lettura degli esiti dei concorsi

tenutisi in antropologia tra il 1999 e il 2008 che faccia proprie le partizioni native in cui ci è apparso

organizzato il campo dell’antropologia accademica, mi sembra possibile cogliere ulteriori dimensioni

del suo funzionamento.

Un primo dato, già segnalato da Moss (2012: 221-222), riguarda la forza del principio del

genius loci in base al quale il candidato dell’Università che ha bandito il concorso risulta comunque

vincitore. Nei 17 concorsi per professore ordinario banditi in antropologia, il candidato locale è

risultato sempre vincitore, mentre solo in un caso, tra i 24 concorsi per professore associato, questo

non è avvenuto. Tra gli 86 concorsi per ricercatore il candidato locale ha vinto sempre, salvo in un

caso. Al di la di questo dato, comunque interessante, e al di là degli aspetti performativi propri

dell’evento concorsuale analizzati da Moss, se si considerano gli esiti dei concorsi nella loro globalità,

appare evidente come le coalizioni (le alleanze tra chefferies) siano (state) in grado di produrre effetti

sistemici e strutturali. Questo è avvenuto, in buona parte, anche a prescindere dal meccanismo

concorsuale in vigore. Dopo l’ultimo “concorsone” nazionale del 1997 (per professori di II fascia), che

in antropologia aveva visto un “accordo” trasversale tra le diverse chefferies, o meglio, con più

precisione, tra un gruppo ristretto di “big men”, capace di garantire una equilibrata ripartizione dei

vincitori tra quelli che Moss (cit.: 228) chiama “stili diversi di ricerca antropologica”, i concorsi

espletati tra 1999 e il 2001 (con un’appendice nel 2004) si sono basati su un meccanismo di

formazione delle commissioni diverso da quello vigente in precedenza; tale meccanismo è stato poi

ulteriormente modificato per i concorsi espletati tra il 2002 e il 2008 e, infine, abbandonato con

l’introduzione dell’Abilitazione Scientifica Nazionale 29. Tra il 1999 e il 2008 le commissioni per un

posto da professore (associato e ordinario) dovevano essere composte da cinque membri (fino al 2001

29 Proprio la fine della “grande alleanza” stabilita tra alcuni importanti “big man” prima del concorso del 1997 può essere considerata il momento iniziale dello scenario qui descritto, scenario in qualche misura ancora oggi vigente. Sull’origine di una simile rottura corrono, nel campo, varie voci la cui analisi esula dagli obiettivi di questo scritto.

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27

tre ordinari e due associati, per i posti di II fascia, tutti ordinari per i posti di I fascia; solo e

comunque ordinari dopo il 2001). Se uno dei cinque membri era nominato dall’Università che aveva

bandito il posto, in qualità di membro interno, gli altri quattro venivano invece eletti (fino al 2001) o

sorteggiati (a partire dal 2002). Analoghi il meccanismo e la sua vicenda storica per i concorsi di

ricercatore, nei quali, però, i membri della commissione erano solo tre (in rappresentanza di ciascuna

fascia di docenza, fino al 2001, solo ordinari dopo il 2002), con un membro interno, e due membri

eletti (1999-2001) o sorteggiati (2002-2008). Per avere un’idea corretta del quadro, va inoltre

aggiunto che mentre per i posti di ricercatore poteva esservi un solo vincitore, per i posti da

ordinario e da associato i vincitori possibili erano tre (fino al 2001) o comunque due (tra il 2001 e il

2008). Nel caso delle procedure con elezione dei 4/5 (o dei 2/3) della commissione, il peso esercitato

dalle chefferies e delle alleanze è, anche intuitivamente, evidente. Il membro interno veniva sempre

determinato dalla sede che chiamava e, quindi, dal big man (o woman) in carica in essa o capace di

esercitare su di essa la propria influenza. Poteva quindi essere o lo stesso big man di riferimento o, in

sua assenza, qualcuno che ne sostenesse gli interessi. L’affiliazione del membro interno ad una

chefferie e, quindi, ad un’alleanza creava, per la coalizione di riferimento, una situazione di vantaggio,

potendo concentrare i voti a propria disposizione sull’elezione di due soli altri commissari; al

contrario l’altra coalizione, qualora avesse avuto intenzione di controllare il concorso avrebbe dovuto

poco realisticamente sperare di ottenere voti sufficienti ad eleggere tre propri commissari. Le alleanze

quindi si concentravano sui concorsi nelle “proprie” sedi, dove erano abbastanza sicure di ottenere

una maggioranza, e spesso, ma non sempre, sceglievano di lasciar scoperte quelle in cui sarebbero

sicuramente state minoranza. In alcuni casi – quando ad esempio si pensava di poter sostenere, da

minoranza, un certo candidato, o quando si riteneva di dover andare a dar fastidio alla coalizione

avversa – si sceglieva, invece, di far eleggere due docenti della propria parte, di modo da avere

quantomeno una minoranza di 2/5 capace di ottenere (almeno) uno dei tre (o due) idoneati.

Il quasi meccanico costituirsi delle maggioranza su base di adesione a chefferies e coalizioni

ha prodotto, in effetti, esiti strutturalmente rilevanti. Se si prendono in considerazione i concorsi per

professore basati sull’elezione della commissione, si può facilmente notare come al colorarsi (ad

esempio di rosso e di blu) dei componenti le commissioni sulla base del loro partecipare dell’orbita

dell’una o dell’altra alleanza (rossa quella del sud / blu quella del nord), corrisponda una simmetrica

colorazione degli idonei. Si tratta, evidentemente, di un’analisi molto grezza ed elementare che non

riesce nemmeno a sfiorare la complessità delle dinamiche, delle contrattazioni e dei rapporti personali

che ogni singolo professore (sia ordinario, sia associato), al di là del suo orbitare in una o nell’altra

sfera di influenza in cui di divide lo scenario dell’antropologia accademica, riesce a mettere in moto

per giocare le proprie carte in uno simile, competitivo (stanti le sue regole) e certo conflittuale

campo di forze. Quel che qui mi interessa, però, non è analizzare con attenzione le molteplici

strategie attraverso le quali singoli individui tentano di controllare, riuscendovi in maniera

proporzionale alla loro forza accademica, i meccanismi della riproduzione disciplinare. Piuttosto sono

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28

interessato comprendere se, e come, big men, chefferies e alleanze, al di là delle capacità tattiche e

strategiche dei singoli giocatori coinvolti nel campo accademico, in un arco di tempo ristretto (1999-

2008) riescono a plasmare il quadro globale della riproduzione disciplinare 30. Il quadro fornito dagli

esiti dei concorsi costituisce, in effetti, un buon banco di prova.

TABELLA N. 7a: rapporto affiliazione membri di commissione / affiliazione idonei nei concorsi di I fascia (elaborazione dati CINECA)

Legenda: in corsivo: candidato locale / membro interno rosso: candidato / commissario alleanza del sud blu: candidato / commissario alleanza del nord verde: candidato / commissario ambivalenti nero: candidato / commissario non allineato CON VOTAZIONI

Anno Sede Idonei Commissari

1999 S A, B, C 1, 2, 3, 4, 5

2000 B. A, B, C 1, 2, 3, 4, 5

2000 C. (A), B, C 1, 2, 3, 4, 5

2000 P. A, B, C 1, 2, 3, 4, 5

2000 R. A, B, C 1, 2, 3, 4, 5

2000 S1. A, B, C 1, 2, 3, 4, 5

2000 S2. A, B, C 1, 2, 3, 4, 5

2001 U. A, B 1, 2, 3, 4, 5

2001 S. A, B 1, 2, 3, 4. 5

2004 N. A, B 1, 2, 3, 4, 5

CON SORTEGGIO

2002 G. A, B 1, 2, 3, 4, 5

2003 F. A, B 1, 2, 3, 4, 5

2008 B. A, B 1, 2, 3, 4, 5

2008 C. A 1, 2, 3, 4, 5

2008 M. A, B 1, 2, 3, 4, 5.

2008 S. A, B 1, 2, 3, 4, 5

2008 M. A, B 1, 2, 3, 4, 5

TABELLA N. 7b: rapporto affiliazione membri di commissione / affiliazione idonei nei concorsi di II fascia (elaborazione dati CINECA)

30 Un’analisi attenta delle capacità strategiche dei diversi attori sociali, con particolare riferimento al campo antropologico è, come detto, in Moss 2012. Per analisi concernenti altri settori, cfr. Romanelli 1990, 1991, 2000, Checchi 1999, Palermo 2010.

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29

ASSOCIATI: CON VOTAZIONE:

Anno Sede Idonei Commissari

1999 T. A, B, C 1, 2, 3, 4, 5

1999 A. A, B, C 1, 2, 3, 4, 5

2000 F. A, B, C 1, 2, 3, 4 5

2000 B. A, B, C 1, 2, 3, 4, 5

2000 C. A, B, C 1, 2, 3, 4, 5

2001 S. A, B 1, 2, 3, 4, 5

2001 T. A, B 1, 2, 3, 4, 5

2002 P. A, B 1, 2, 3, 4, 5

2002 B. A, B 1, 2, 3, 4, 5

2002 M. A, B 1, 2, 3, 4, 5

2002 P. A, B 1, 2, 3, 4, 5

2003 C.. A, B 1, 2, 3, 4, 5

2003 C. A, B 1, 2, 3, 4, 5

2003 P. A, B 1, 2, 3, 4, 5

2004 S. A, B 1, 2, 3, 4, 5

2004 M. A, B 1, 2, 3, 4, 5

2004 N. A, B 1, 2, 3, 4, 5

2004 R. A, B 1, 2, 3, 4, 4

2005 M. A, B 1, 2, 3, 4, 5

CON SORTEGGIO

Anno Sede Idonei Commissari

2008 S. A, B 1, 2, 3. 4, 5

2008 R. A, B 1, 2, 3, 4, 5

2008 M. A, B 1, 2, 3, 4, 5

2008 C. A, B 1, 2, 3, 4, 5

2008 B1. A, B 1, 2, 3, 4, 5

2008 B2. A, B 1, 2, 3, 4, 5

Nella quasi totalità dei concorsi presi in considerazione, oltre alla sistematica vincita di

almeno un candidato locale – che non si verifica in 2 soli concorsi su 42, assistiamo ad un altrettanto

strutturale predominio della maggioranza venutasi a creare, sia attraverso il meccanismo della

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30

votazione, sia anche attraverso quello del sorteggio. In 30 casi su 42 i candidati idoneati sono tutti

omogeneamente ascrivibili alla coalizione dominante nella commissione, Nei restanti 12, in 5 concorsi

gli idoneati riflettono sia la coalizione di maggioranza, sia quella di minoranza all’interno della

commissione; negli altri 7, almeno uno dei candidati risultati idonei non risulta ascrivibile a nessuna

alleanza 31 Una conferma della tenuta strutturale del sistema di alleanze e coalizioni è data dal fatto

che, anche nel caso in cui si abbiano delle forti tensioni in seno alla commissione, arrivando fino alla

rottura di alleanze interne ad una coalizione, queste si producono intorno a candidati che comunque

a quella coalizione fanno riferimento (è il caso, ad esempio, del concorso per ordinario 2008 B, dove

vincono due candidati riferibili all’ allenza del nord, anche se poi nella commissione si assiste allo

scontro proprio di due big men di chefferies schierate in quella coalizione). O anche dal fatto che

laddove la composizione della commissione risulta particolarmente frammentaria (come nel caso del

concorso da ordinario S 2008), i risultati aprono il fianco a complesse contestazioni extra

concorsuali. In soli 6 concorsi su 42, comunque, uno dei candidati idonei non sembra riferibile a

nessuno degli schieramenti operanti nel campo e rappresentati in commissione.

Il quadro si irrigidisce ulteriormente se si guardano i concorsi per ricercatore che,

prevedendo un solo vincitore, ribadiscono sia la regola del genius loci, sia quella della supremazia

della maggioranza. In questa fascia su 84 concorsi solo in un caso, probabilmente, l’esito non è stato

quello che ci si sarebbe potuti attendere osservando la composizione della commissione.

6. Eppur si muove

Fin qui, adottando la finzione di una narrativa etnografica old fashioned, ho cercato di

mettere in atto una oggettivazione di quelle che, sulla base della mia partecipazione “nativa” (Narayan

1993) al campo accademico dell’antropologia italiana, ritengo essere le sue principali linee di

organizzazione e di tensione. Nel far questo ho volutamente tenuto fuori la dimensione più

specificamente scientifico-culturale (i contenuti disciplinari, le ricerche svolte, le metodologie,

l’aggiornamento, le specificità intellettuali delle tradizioni di studio nazionali e le aperture

internazionali), scegliendo invece di soffermarmi sugli effettivi quadri istituzionali di produzione del

sapere scientifico. Diverse sono le ragioni di una simile scelta. In primo luogo aderisco all’idea che

l’organizzazione dello spazio accademico abbia la capacità di condizionare, se non proprio di definire,

in maniera significativa il sapere scientifico che gli appartenenti a quel campo producono, fissandone

le condizioni di legittimità e di verità e stabilendo le regole di un gioco altamente conflittuale

31 Tra i concorsi elencati vi sono anche i due (uno da associato, l’altro da ordinario) nei quali sono risultato idoneo. Nel primo, bandito dall’università dell’Aquila, vi erano 6 candidati, tre dei quali fummo dichiarati idonei. Tra questi il candidato locale e un secondo, legati per formazione alla scuola palermitana, rappresentata in commissione da due autorevoli esponenti, affiancati da un altro studioso afferente all’alleanza del Sud, mentre gli altri due membri erano espressione dell’alleanza del nord. Pur non essendo io direttamente connesso con le rispettive chefferies cui maggioranza e minoranza nella commissione facevano riferimento, il terzo posto di idoneo venne a me attribuito. Il concorso per ordinario, bandito dall’università di Genova vedeva tre candidati. La commissione era formata da un membro designato e due commissari eletti, esponenti di primissimo piano dell’alleanza del nord, da un esponente di rilievo di quella del sud, e da un quinto membro collocato in uno spazio di prossimità con il primo schieramento. L’abilitazione venne concessa oltre che al candidato locale, anche e me, mentre restò escluso il terzo candidato, allievo diretto del membro designato.

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31

(Foucault 1972, Bourdieu 1984, Latour 1998). Ritengo, quindi, che il carattere polemologico e

sostanzialmente segmentario del campo accademico antropologico abbia, tra i suoi effetti, quello di

impedire la formazione di spazi istituzionali “neutri” nei quali e attraverso i quali fissare le condizioni

per la produzione di criteri di verità condivisi, comparabili a quelli che, sulla base di campi e

meccanismi certo diversi, operano negli scenari internazionali 32. In assenza di collane editoriali, di

riviste e di associazioni che non siano espressione più o meno diretta di specifici segmenti del campo,

in mancanza di un’abitudine sistematica a seri e consolidati sistemi di valutazione anonima degli

scritti, ogni chefferie, ogni big man, ogni alleanza ritiene – molto spesso in buona fede - di produrre

e riprodurre un sapere pienamente legittimo e, in ultima istanza, più valido di quello prodotto da

altri analoghi segmenti 33. Se Moss (2012) ha potuto utilmente comparare il momento concorsuale –

la parte terminale e in qualche misura ritualizzata del processo accademico in Italia - al

combattimento dei galli studiato da Geertz a Bali, quando osserviamo la produzione di un sapere

antropologico ritenuto legittimo, l’analogia etnografica più utile mi pare essere quella con lo spazio

genealogico-politico della produzione di un sapere storiografico orale tra i lignaggi beduini della

Giordania studiato da Andrew Shryock (1997) 34. Nell’analizzare le basi sociali, le valenze politiche, gli

stili narrativi delle diverse tradizioni orali di gruppi beduini giordani, Shryock (1997: 151-160) parla di

“territori di discorso”: spazi narrativi socialmente localizzati, “privati” e mai “pubblici”, legati

all’autorità politica del narratore e del gruppo agnatico cui questi appartiene, nei quali, fondandosi su

fonti ritenute incontestabilmente superiori a quelle utilizzate in altri e contrapposti territori, si

producono “verità” storiche presentate come inoppugnabili, e quindi inevitabilmente contestate dagli

avversari. Tali “territori” discorsivi sono organizzati in “sfere retoriche” a loro volta centrate sul

prestigio politico di singoli “sceicchi”; sfere che risultano più dense e forti quanto più si è socialmente

vicini agli spazi da questi controllati, facendosi via via meno intense e vincolanti quanto più ci si

allontana socialmente e spazialmente dal singolo sceicco. Lo spazio “storiografico” beduino, dunque,

non è mai neutro, non prevede luoghi socialmente e politicamente non schierati di

narrazione/discussione pubblica, non ammette la possibilità che la “verità storica” non sia inscritta

nella “sfera retorica” prodotta dalla forza di uno sceicco e del suo patrilignaggio. Semplicemente,

laddove tale forza si affievolisce, un’altra inizia a produrre il proprio potere narrativo. Per quanto la

retorica ufficiale adottata nel campo accademico sia quella universalistica della “scienza sociale” (e

questo è un primo, non irrilevante, elemento di diversità tra i due contesti), le condizioni strutturali

32 Fin dal 1990 Bernardi (p. 10) notava il carattere sciovinisticamente conflittuale del campo accademico antropologico in Italia. 33 Diviene qui importante rimarcare come l’assenza di preventivi spazi/momenti/luoghi e modalità di confronto scientifico in spazi istituzionalmente neutri produca, tra gli altri, in coloro che operano nelle commissioni concorsuali un effetto di (legittimo) auto convincimento della correttezza delle proprie scelte. In altri termini non occorre affatto immaginare l’esistenza di “accordi” o “condizionamenti” per render conto dell’efficacia strutturale del meccanismo concorsuale sopra mostrato: semplicemente vincono quei candidati che, facendo riferimento a quell’alleanza o a quella chefferie, praticano stili di ricerca antropologica ritenuti (più) validi (di altri) da quegli specifici commissari in quella particolare contingenza concorsuale. 34 Pietro Clemente, già in uno scritto del 1993 usava la metafora della “tribù” per descrivere il campo degli studi antropologici italiani.

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32

di organizzazione del campo stesso, quelle della produzione del sapere e quelle della trasmissione del

capitale accademico finiscono per produrre effetti che ricordano da vicino quelli tipici dei territori

narrativi nei quali si articola e si costruisce il sapere storiografico dei beduini giordani.

Parcellizzazione e scarsa comparabilità / comunicabilità dei saperi, centratura sulla doxa prodotta da

e per la figura dello studioso di riferimento di una chefferie, difficoltà, se non proprio impossibilità,

nel mettere a punto criteri condivisi di valutazione del sapere prodotto, sapere che, di fatto, anche se

non in linea di principio, riceve la sua validità dalla forza accademico-intellettuale del big man al

centro della macchina cultural-accademica di una chefferie o di una alleanza. L’estrema rarità di

dibattiti, anche polemici, la mancanza di recensioni che non siano semplicemente elogiative e/o

interne alla logica delle chefferies, l’assenza di una rivista unitaria, capace (come l’Homme in Francia,

il JRAI nel Regno Unito, l’American Ethnologist e l’American Anthropologist negli USA) di fornire una

visione in qualche modo ufficiale della ricerca svolta, il complementare moltiplicarsi e lo spesso

rapido esaurirsi di riviste espressione delle articolazioni politiche del campo accademico, la gestione

ancora decisamente personalistica degli accessi alle riviste e alle collane editoriali (assenza o solo

timido e talvolta nicodemico utilizzo del sistema dei lettori anonimi), il moltiplicarsi delle

associazioni, il prevalere di logiche d’alleanza nel momento concorsuale, sono tutti tratti che rendono

lo spazio accademico dell’antropologia italiana abbastanza diverso da quello che parrebbe

caratterizzare tradizioni disciplinari più centrali nella scena internazionale e, come detto, per quel che

riguarda le condizioni strutturali di produzione del senso (ma, si noti bene, non per i suoi contenuti),

più simile ai “territori discorsivi” e alle “sfere retoriche” descritte da Shryock in Giordania.

Nonostante questo – e qui emerge un paradosso che disegna il limite dell’analogia appena

proposta e il punto terminale di questo scritto – la produzione scientifica degli antropologi italiani,

soprattutto nel corso degli anni presi in considerazione e in particolar modo quella di studiosi che,

per età anagrafica e/o percorsi individuali, hanno avuto l’opportunità di seguire una formazione

dottorale specifica, appare capace di inserirsi, per qualità e oramai anche sedi di pubblicazione, nei

molteplici scenari disciplinari internazionali. Resta da comprendere come questo sia stato possibile e

come si sia determinata una simile frattura/disgiunzione tra le strutture della produzione e (una

parte non irrilevante) dei suoi prodotti scientifici. E quindi riflettere sulle forme che occorrerebbe

dare ai quadri organizzativi della disciplina se si vuole che una simile disarticolazione possa ridare

vigore e vitalità ad un campo a rischio di estinzione. Ho intenzione di cercare risposte a tali questioni

in una seconda, successiva, parte di questo mio lavoro. Nell’attesa non ci resta che leggerli, questi

messaggi lanciati in sorte all’arbitrio delle correnti:

“L’apprenti sorcier qui prend le risque de s’intéresser à la sorcellerie indigène et à ses fétiches, au lieu d’aller chercher sous de lointains tropiques les charmes rassurants d’une magie exotique, doit s’attendre à voir se retourner contre lui la violence qu’il a déchaînée” 35,

“Qui n’a plus qu’un moment à vivre n’a plus rien à dissimuler” 36.

35 Bourdieu 1984

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33

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Berardino Palumbo Università di Messina Dipartimento di Scienze Umane e Sociali Via Bivona s.n. 98122 Messina [email protected]