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Antropologia in Italia
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Messages in a bottle : etnografia e autoetnografia del campo accademico antropologico in Italia
“Il est sans doute peu d’univers qui offrent autant de liberté, autant de supports institutionnels même, aux jeux de la dissimulation à soi-même et au décalage entre la représentation vécue et la verité de la position occupée dans le champ ou dans l’espace social” (Bourdieu 1984: 32)
08/03/2012. Argomento: Sospensione attività delle rivista
“A causa della riduzione dei fondi stanziati dall'università e a causa dei diversi impegni individuali, la redazione sta attraversando un momento di difficoltà. L'attività della rivista è temporaneamente sospesa. Speriamo al più presto di poter riprendere la regolare pubblicazione dei numeri di Achab”.
La rivista ACHAB era stata creata nel 2004 da un gruppo di studenti dei corsi di
antropologia dell’Università di Milano Bicocca e, prima del comunicato dell’8 marzo 2012, aveva
pubblicato 15 numeri. La chiusura di una rivista che, centrata sul lavoro di studenti, era comunque
espressione di uno dei più importanti dipartimenti di antropologia del paese, mi sembra emblematica
delle condizioni in cui gli studi antropologici versano oggi in Italia. In questo scritto intendo proporre
un’analisi, insieme etnografica e impegnata, del campo dell’antropologia accademica italiana così come
(mi) appare agli inizi del XXI secolo. La mia non sarà, né vuole essere, una ricostruzione storicamente
accurata della complessa vicenda del campo degli studi antropologici in Italia, ma un tentativo di
lettura etnografica e antropologico politica delle sue articolazioni attuali, delle sue tensioni strutturali 1. Come ogni resoconto etnografico, sarà necessario esplicitare il mio personale posizionamento nel
campo degli studi antropologici in Italia e, quindi, la particolare visuale dalla quale proverò a
rappresentarlo.
1. Elementi di demografia
In un interessante saggio scritto per Ethnologie Françaie, Paolo Apolito (1994) forniva
un’istantanea della situazione dell’antropologia accademica italiana agli inizi degli anni Novanta del 1 Per quanto evidentemente influenzato dalle tesi di Bourdieu (1984), questo scritto è ancora assai rudimentale e comunque ben lontano dalla raffinata etnografia alla base del lavoro che il sociologo francese ha dedicato al campo accademico del suo paese. Ringrazio Maria Minicuci, Pietro Clemente, David Moss, Filippo Zerilli e Vincenzo Padiglione per aver letto e commentato precedenti versioni di questo scritto e per alcuni preziosi suggerimenti bibliografici. I limiti e le eventuali inesattezze sono tutti da attribuire all’ autore. Lo scritto riprende una relazione presentata oralmente al seminario “L’aantropologia italiana: proposte per il futuro” organizzato dall’AISEA e tenutosi a Roma l’1 giugno 2013 presso il MATP. Ringrazio Patrizia resta per l’invito.
2
secolo scorso. Un confronto tra la situazione attuale e i dati presentati da Apolito può essere di
qualche utilità.
TABELLA 1: numero e sede dei docenti M-DEA; confronto Apolito 1994 – dati MIUR al 31/12/2012 (A = 1994, fonte Apolito; B = 2012, fonte MIUR)
Università Ordinari Associati Ricercatori Totali
A B A B A B A B
Bari 1 - 4 1 - - 8 1 (-4)
Basilicata - 1 2 - 2 1 4 2 (-2)
Bergamo - - - 1 - 2 - 3 (+3)
Bologna 2 - 4 - 3 10 9 10 (+1)
Bolzano - - - 1 - 1 - 2 (+2)
Cagliari 2 - 5 3 4 3 11 6 (-5)
Calabria - 1 4 2 2 - 6 3 (-3)
Cassino - - 1 1 1 1 2 2
Catania - - 2 - - 2 2 2
Chieti 1 - 2 - 1 1 4 1 (-3)
Sc. Gast. - 1 - - - - - 1 (+1)
Ferrara - - - - - 1 - 1 (+1)
Firenze 1 - 1 - 2 3 4 3 (-1)
Foggia - 1 - - - 2 - 3 (+3)
Genova 2 1 2 2 1 1 5 4 (-1)
Insubria - - - - - 1 - 1 (+1)
L’Aquila - - 1 - 1 1 2 1 (-1)
Lecce - - 1 1 1 1 2 2
Messina 1 2 2 2 3 1 6 5 (-1)
Milano Catt. - - 1 1 1 2 2 3 (+1)
Milano Stat. - - - 1 - 2 - 3 (+3)
Milano Bic. - 2 - 4 - 7 - 13 (+13)
IULM-Mi - - - - - 1 - 1 (+1)
Modena - 1 - - - 3 4 (+4)
Molise - 1 - 1 1 - 1 2 (+1)
Napoli Fed. II 1 2 2 2 2 2 5 6 (+1)
Napoli Orien. - - 2 2 4 1 6 3 (-3)
Napoli 2 - - - - - 1 - 1 (+1)
Suor Ors. - 1 - 1 - - - 2 (+2)
Padova 1 - 2 - 1 3 4 3 (-1)
3
Palermo 5 3 2 3 4 4 11 10 (-2)
Pavia 1 - - - - - 1 - (-1)
Perugia 2 1 5 4 8 3 15 8 (-7)
Piem. Or. - - - 1 - 1 - 2 (+2)
Pisa - - 1 1 - 1 1 2 (+1)
Roma Sap. 7 4 7 9 14 4 28 17 (-9)
Roma TV - - - - - 1 - 1 (+1)
Roma 3 - 1 - - - 2 - 3 (+3)
Salerno - - 3 2 - 2 3 4 (+2)
Sassari 1 1 3 1 2 - 6 2 (-4)
Siena 2 1 3 3 4 2 9 6 (-3)
Siena Str. - - - - - 1 - 1 (+1)
Torino 2 2 7 5 2 6 13 13
Torino Polt. - - - - - - - 1 (+1)
Trento - - 1 - 1 - 2 - (-2)
Trieste - - - - 1 - 1 1
Tuscia - - 1 1 - - 1 1
Udine - 1 1 - - 1 1 2 (+1)
Urbino - - 1 - - - - 1
Venezia - - 1 1 1 1 2 2
Verona - 1 1 - - 1 2 2
TOTALE 32 29 76 58 75 86 183 173
Il primo dato che emerge è il calo complessivo (-10 unità) degli antropologi presenti nelle
università italiane. In realtà, dopo il 1994 il loro numero era cresciuto fino a 213 (2007), per poi
scendere gradualmente fino al dato del 2012 2. Se consideriamo il numero globale dei professori e
ricercatori presenti nelle università italiane, possiamo accorgerci di come il calo degli antropologi
segua solo in parte una tendenza generale. Tra il 2000 e il 2012, infatti, il numero dei professori e dei
ricercatori occupati nelle università italiane è salito da 50.045 a 58.145. Del resto, mentre il numero
degli antropologi nelle università scendeva, nell’area delle scienze umane (area 11 C.U.N.: filosofia,
storia, psicologia, pedagogia, geografia) l’incremento nello stesso periodo è stato di 934 unità.
Dunque la progressiva diminuzione degli antropologi dall’Università italiana sembra costituire un
dato specifico.
TABELLA N. 2: numerosità incardinati per area CUN: 2002 e 2012 (elaborazione dati CINECA)
Area CUN 2002 2012
2 Già a fine 2013 il quadro è ulteriormente peggiorato: 25 ordinari, 57 associati, 74 ricercatori, 10 RTD, 1 altro, per un totale di 167 persone.
4
1 3148 3231 2 2284 2572 3 3222 2932 4 1313 1083 5 5070 4896 6 11057 10060 7 3946 3084 8 3624 3608 9 5279 4569 10 5625 5328 11 4602 4885 12 4258 4887 13 4036 4820 14 1459 1745 TOT 58923 57700
Le ragioni di un siile calo “demografico” sono molteplici e complesse, e non è mio interesse
qui indagarle tutte con attenzione. Su un piano generale va detto che quelli che ci separano dal 1994
sono anni di cambiamenti per l’università italiana, che vedono l’elaborazione prima e l’applicazione
poi di tre riforme (2000, 2004, 2007, quella Berlinguer - Zecchino, quella Moratti e, infine, quella
Gelmini). Queste, tra le altre novità, hanno introdotto il sistema del cosiddetto “3 + 2” e hanno
previsto nuovi ordinamenti didattici. In seguito a tali riforme è stato possibile, per alcune sedi
universitarie, attivare anche Corsi di Laurea Magistrale di antropologia, e predisporre in qualche caso
(“La Sapienza” di Roma, ad esempio) percorsi antropologici, all’interno di corsi di laurea triennale di
altra classe (storia, ad esempio, o filosofia). Questo passaggio, che poneva fine ad un limite storico
dell’antropologia italiana, per tempo segnalato da Apolito (1994: 459) ed attentamente analizzato,
anni dopo, da Viazzo (2008: 15-19), ha dato l’impressione di aprire una nuova fase del processo di
istituzionalizzazione della disciplina, per la prima volta chiamata a formare a livello universitario delle
specifiche competenze professionali 3. Le università di Bologna, Firenze, Genova, Milano “Bicocca”,
Modena, Napoli I, Palermo, Perugia, Roma “La Sapienza”, Siena, Torino e Venezia (cfr. Viazzo 2008:
15) hanno offerto corsi magistrali di area antropologica, corsi che hanno avuto un discreto successo
di iscrizioni. A seguito di questa formalizzazione e di questo incremento dell’offerta, anche in
antropologia tra il 1999 e il 2007 si è avuto un incremento dei docenti e dei ricercatori, con un picco
tra i professori ordinari di ben 51. Da quel momento in poi, però, è iniziata una decrescita che
sembra inarrestabile e che, come detto, non pare riguardare tutte le altre discipline di area
umanistica e sociale, e comunque non tutte allo stesso modo. Se prendiamo infatti in considerazione
le altre discipline di quest’area, al 2012 il quadro numerico era il seguente:
3 Sui limiti di una tale strutturazione del percorso formativo, percepiti e rappresentati dal punto di vista studentesco, si veda l’interessante scritto di Angelo Romano (2010), studente in antropologia e Dottore di Ricerca presso “la Sapienza” di Roma
5
TABELLA 3: numero incardinati macro aree all’interno dell’area 11 CUN: confronto 2002, 2007, 2012 (elaborazione dati CINECA).
Disciplina 2012 2007 2002 Antropologi 173 (- 4) 208 (+ 31) 177 Geografi 341 (- 32) 400 (+ 27) 373 Pedagogisti 681 (+ 42) 639 (+157) 482 Filosofi 1230 (+ 61) 1169 (+ 49) 1120 Psicologi 1242 (+ 58) 1184 (+ 58) 952 Sociologi 1072 (+ 37) 1035 (+200) 835 Storici 1364 (-113) 1531 (+ 54) 1477 TOT 6106 (+690) 6166 (+ 750) 5416
L’andamento numerico delle singole aree disciplinari è legato a fattori diversi collocati su
piani stratificati (interni, come l’anzianità del corpo docente e la sua composizione per ruoli, ed
esterni, come il livello di professionalizzazione e l’esistenza di ordini professionali) che non possiamo
qui prendere in considerazione. Globalmente, però, esso è un indice abbastanza significativo sia del
peso che le singole discipline hanno nello scenario scientifico intellettuale italiano, sia di alcune sue
future tendenze. Sapere che nell’università italiana per ogni antropologo, ci sono quasi 2 geografi, 5
pedagogisti, 7 filosofi, quasi 8 psicologi, 8 sociologi e 9 storici, definisce in maniera abbastanza chiara
l’incidenza dell’antropologia nell’università e nella società italiane, soprattutto se si tiene conto che il
processo di istituzionalizzazione accademica di scienze sociali come l’antropologia e la sociologia ha
grossomodo la stessa durata storica. Altri dati, però, contribuiscono a delineare uno scenario se
possibile ancora meno confortante. Fra alcuni anni, infatti – nel 2017, quando andrà in pensione la
generazione del boom demografico dell’immediato dopoguerra - il numero dei professori ordinari di
antropologia sarà più che dimezzato a causa del pensionamento di molti degli attuali professori e
della difficoltà, se non proprio dell’impossibilità, che questi ultimi siano rimpiazzati da colleghi più
giovani. All’assottigliamento dei professori di ruolo corrisponderà, del resto, la loro ulteriore
dispersione nel territorio italiano, dato questo ben evidente fin da ora. Il confronto con la situazione
al 1994 mostra infatti come in tutte le sedi dove gli antropologi avevano una concentrazione medio-
alta (Roma Sapienza, Perugia, Palermo, Cagliari), con la significativa eccezione dell’Università Bicocca
di Milano, addirittura assente nel 1994, il loro numero si sia ridotto, a volte in maniera rilevante. Il
6
confronto tra i dati disponibili per il 2012 e quelli elaborati da Viazzo (2008, p. 18) fa emergere con
una certa chiarezza un simile processo 4
TABELLA 4: concentrazione antropologi per città (dati: Viazzo 2008, p. 18, MIUR – CINECA al 31/12/2012)
2000 2008 2012
Pos. Città N. Pos. Città N. Pos. Città N.
1 Roma 25 1 Roma 31 1 Roma 21
2 Palermo 12 2 Milano 16 2 Milano 20
2 Perugia 12 3 Napoli 15 3 Torino 14
2 Torino 12 3 Palermo 15 4 Napoli 12
5 Bologna 10 5 Torino 14 5 Palermo 10
6 Bari 7 6 Bologna 12 6 Bologna 10
6 Napoli 7 7 Perugia 10 7 Perugia 8
6 Siena 7 8 Cagliari 9 8 Cagliari 6
8 Siena 6
Altre 26 69 Altre 30 87 Altre 31 66
161 209 Totale 173
Se si considera, inoltre, che alcune delle sedi più colpite dal ridimensionamento numerico,
sono anche quelle dove, negli ultimi quindici anni, si sono potuti offrire dei percorsi di Laurea
Magistrale in antropologia, si comprende come la diminuzione degli antropologi abbia comportato (a
Genova, Perugia, Napoli e Palermo) la chiusura dei corsi di antropologia o il rischio che questo possa
avvenire (Venezia, Siena, Firenze) 5. Insomma a fronte di Corsi di Laurea e intere Facoltà di
Psicologia, Sociologia, Scienze dell’Educazione, i pochi Corsi Magistrali di antropologia vanno
scomparendo e soprattutto la presenza degli antropologi nelle università italiane appare sempre più
frammentata e in genere al servizio della formazione specialistica in altre discipline.
Il quadro non sembra più confortante se si considera il livello della formazione Dottorale –
attuata in Italia solo a partire dalla seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso - che negli ultimi
venticinque anni ha comunque avuto una notevole incidenza nella configurazione del campo degli
studi antropologici. Nel 1994 (p. 459) Apolito censiva 7 Dottorati in antropologia, nei quali erano 4 La situazione appare comunque più problematica di quanto non facciano emergere i dati di Viazzo, il quale sceglie di aggregarli per città – unità d’analisi che, non “rivelando” gli schieramenti “nativi”, risulta poco significativa nella prospettiva qui adottata. I 12 docenti presenti a Napoli, ad esempio, o i 20 milanesi non costituiscono affatto delle aggregazioni unitarie, capaci di operare come tali nella ricerca e nella didattica, o semplicemente afferenti ad uno stesso dipartimento. Se si prende ad esempio il caso di Roma, 17 docenti sono alla Sapienza, divisi, in realtà, tra le due coalizioni che a lungo si sono scontrate in quella sede; i rapporti tra costoro e i 3 appartenenti ad un altro ateneo (Roma 3) o il solo antropologo presente a Roma Tor Vergata, pur potendo non essere conflittuali, non sono comunque di collaborazione organica. 5 I Corsi magistrali di Firenze e Modena sono in realtà corsi interclasse, rispettivamente con geografia e storia, nei quali la presenza antropologica sembra, a volte, secondaria se non (nel caso di Firenze) accessoria o nominale.
7
coinvolte 15 sedi universitarie. Nel 2012, in seguito a vicende diverse, i dottorati con specifica
denominazione antropologica che abbiano bandito il XXVIII ciclo sono solo 3 (Milano Bicocca,
Messina e Bergamo), mentre in altre sedi quello antropologico oramai non è che un curriculum
all’interno di più ampie scuole (Roma “La Sapienza”, Torino, Siena, Perugia, Verona) 6. Al di là di un
simile crollo delle possibilità di formazione dottorale in antropologia, incrociando i dati presenti nel
sito della Biblioteca Nazionale di Firenze, presso la quale dovrebbero essere depositate copie di tutte
le tesi di Dottorato, con l’analisi di documenti concorsuali, si può comunque ragionevolmente
sostenere che il numero delle persone che in Italia hanno conseguito un titolo di Dottorato in
antropologia si aggira intorno alle 350. Aggiungendo, dunque, 350 Dottori di ricerca ai 176
universitari e calcolando per approssimazione altre 100 persone con formazione antropologica che
operano in altre amministrazioni (scuola, strutture sanitarie) e nel terzo settore (musei,
Cooperazione internazionale, ONG), potremmo non sbagliarci di molto se fissiamo intorno alle 600 le
persone che, in Italia, operano professionalmente nella scena pubblica come “antropologi” 7.
Non mi occuperò, qui, del complesso mondo dell’antropologia non accademica, capace di
aprirsi, negli ultimi anni, a settori dell’economia e della società civile italiani dai quali fino a qualche
decennio addietro le competenze antropologiche erano di fatto assenti: al di là della Cooperazione e
delle ONG dove da tempo operano numerosi antropologi, e della museografia, che in Italia ha una
consolidata tradizione antropologica, giovani antropologi, spesso con formazione dottorale, lavorano
nel mondo della sanità, nel terzo settore e nel volontariato, nel campo delle indagini di mercato,
nell’industria, nella comunicazione e nei media, nelle istituzioni pubbliche. In generale, però, come già
notavano sia Apolito (1994), sia Viazzo (2008), lo scarto tra le evocazioni “antropologiche” piuttosto
comuni nella cultura pubblica italiana, da un lato, il concreto utilizzo di competenze antropologiche
professionali, e la diffusione di una “corretta” percezione di cosa sia l’antropologia (culturale e/o
sociale), dall’altro, rimane decisamente alto. Del resto, per quanto nel corso degli anni ’60 – ’80 del
Novecento alcune idee di matrice antropologica (“cultura”, “etnia”, “relativismo”) abbiano
gradualmente, ma ancora superficialmente, soppiantato nozioni più radicate nel senso comune
italiano (“Cultura”, idealisticamente intesa, “civiltà”, “razza”, “progresso”, “evoluzione”), l’antropologia
culturale in Italia resta sostanzialmente estranea sia alla “public culture”, sia al “common sense” delle
grandi masse 8. Sulla scena pubblica gli antropologi (accademici e non) oltre a dover competere con
figure professionali più numerose e, spesso, più capaci di muoversi nella contemporaneità nazionale
(sociologi, storici, filosofi, criminologi, psicologi), devono fronteggiare la presenza invasiva e
fortemente legittimata nel senso comune e nella/dalla cultura pubblica della Chiesa cattolica. Laddove,
in altri contesti nazionali, sono richieste e applicate competenze antropologiche (ad esempio
6 Proprio nel 2013 il Senato Accademicio e i delegati rettorali dell’Università di Messina, per ragioni in sostanza legate ad una declinazione angustamente localistica della politica accademica, hanno operato in maniera tale da non rinnovare il Dottorato di antropologia. 7 A stime non dissimili giunge Viazzo (2008: 8) che, inevitabilmente, conta un numero minore di Dottori di Ricerca. 8 Si vedano, a riguardo, i contributi recenti di Dei (2007) e Puccini (2012) che sottolineano e analizzano con attenzione alcuni aspetti di tale, contemporanea, marginalità.
8
nell’analisi e nella gestione dei flussi migratori, nel trattamento dei rifugiati, nel campo dell’assistenza
sanitaria e dell’educazione interculturale), o più in generale quando nel dibattito pubblico si toccano
temi legati all’etica, al relativismo culturale o semplicemente si analizzano contesti socio-politici
lontani, in Italia è spesso la figura del prete ad essere chiamata in causa. Stanti così le cose non è
certo un caso che, come sottolineava un giornalista nel corso di un recente convegno nel quale si
rifletteva sui rapporti tra media e antropologia, le rare volte che la parola “antropologia” compare tra
le notizie di una delle maggiori agenzie di news italiane (ANSA), essa si riferisca sempre
all’antropologia fisica o a quella criminale.
2. …. e di struttura sociale
Ad un primo livello di analisi quello dell’antropologia italiana, come tutti gli altri campi
accademici, appare istituzionalmente gerarchizzato: al vertice della piramide, sul finire del 2012,
troviamo i 34 ordinari, quindi i 56 associati, infine gli 85 ricercatori. Alla soglia del mondo
accademico, tra questo e il mondo del lavoro, i titolari di un Dottorato di Ricerca in antropologia,
interessati al reclutamento in Accademia, ma sempre più spesso spinti al di fuori di essa e sempre
più spesso privi di reali speranze di inserimento in uno scenario lavorativo di tipo antropologico. La
microscopica comunità accademica degli antropologi culturali è incapsulata, però, in scenari
istituzionali ben più ampi: i 173 antropologi italiani costituiscono, infatti, solo lo 0,3 % dell’intero
corpus accademico italiano, l’1,4 % dell’area delle scienze umane, sociali e letterarie e il 3,6 %
dell’area umanistica (area 11 CUN). Anche largheggiando, appare quindi chiaro che siamo (in presenza
di) un campo di dimensioni estremamente ridotte, dotato di una molto limitata capacità di impatto
sia nel campo accademico nazionale, sia nello spazio pubblico. Si tratta, del resto, di un campo
particolarmente diviso al suo interno e corroso da conflittualità, fratture e (in parte) continuità che,
come vedremo, non hanno contribuito e non contribuiscono a rafforzarlo.
Con l’intero universo accademico italiano la comunità degli antropologi condivide comunque
alcuni tratti di fondo. Si tratta infatti di un sistema politico (e intellettuale) che impone ai suoi
membri una precisa gerarchia di ruoli e di poteri, insieme all’incorporazione di specifici habitus, di
concreti modi di fare e di sentire (Bourdieu 1984). Chi ne fa parte compete per l’accesso e il
controllo di risorse specifiche (essenzialmente “posti” e carriere accademici, fondi di ricerca, prestigio,
briciole di visibilità pubblica) producendo e riproducendo tipi particolari di relazioni sociali. In ogni
caso, proprio le piccole dimensioni della comunità accademica antropologica – che la rendono per
certi versi comparabile ad alcune delle più classiche società studiate dagli antropologi – e il
progressivo esaurirsi delle risorse per cui competere, sembrano fare, dukheimianamente,
dell’antropologia un punto di accesso utile per mostrare alcuni aspetti delle dinamiche di potere
proprie del campo accademico italiano. In un saggio del 1989, Chris Shore, venti anni prima del
diffondersi di una letteratura sia scientifica (ad esempio, Regini 2009, Graziosi 2010), sia di carattere
più giornalistico (tra i molti: Perotti 2008, Gardini 2009, Carlucci e Castaldo 2009) descriveva in una
9
prospettiva etnografica e antropologico politica il funzionamento del sistema accademico italiano.
Utilizzando un quadro teorico che può apparirci oggi piuttosto datato e che comunque pescava
direttamente i propri esempi etnografici soprattutto dal mondo antropologico del quale aveva avuto
una qualche esperienza diretta in qualità di lettore di lingua inglese nell’Università di Perugia, Shore
inscriveva la sua analisi dell’accademia italiana all’interno di una riflessione sulla natura del
“patronage” nelle moderne burocrazie nazionali. La sua prospettiva, per quanto empiricamente
fondata, resta comunque esterna al mondo locale e, pur utile per comprendere “da lontano” alcuni
aspetti di fondo dell’organizzazione del campo, non riesce ad avvicinarsi all’esperienza degli attori
sociali. Più vicino all’esperienza “nativa” può andare il tentativo di un’auto(etnografia) posizionata
nello stesso campo accademico, interessata a, e forse capace di, coglierne linee di tensione, punti e
momenti di frizione 9.
3. Tracce di (auto) etnografia in un campo politico
Essendo nato nel 1961, appartengo a quella generazione che ha avuto la possibilità di una
formazione dottorale: nel 1987, anno in cui vinsi una borsa del III ciclo di dottorato alla “Sapienza” di
Roma (il secondo ciclo era stato vinto, l’anno prima, da Alessandro Lupo, Flavia Cuturi e Paolo
Taviani, mentre il primo ciclo, a Roma, non era stato bandito), avevo infatti 26 anni, 30 quando
conseguii il titolo. Sono entrato in Università come ricercatore a Messina all’età di 32 anni, dopo solo
tre anni trascorsi a lavorare da precario presso l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, in un incarico
presso il Nuovo DEI che era stato di Lupo, prima, e Italo Signorini in origine, A 39 anni sono
diventato associato, a 43 straordinario, chiamato, in entrambi i casi, nell’Università di Messina. La mia
percezione del campo accademico e la personale declinazione dell’habitus “antropologico” si sono
costruiti, in maniera per lungo tempo inconsapevole, all’interno del contesto universitario romano dei
primi anni ’80 del secolo scorso. Al di là della laurea in Etnologia (1984, relatore Italo Signorini,
correlatore Vinigi Grottanelli) e del Dottorato (con una tesi sul sistema fondiario degli Nzema,
discussa nel 1991), ho seguito il piano di studi demo-etno-antropologico proposto dalla Facoltà di
Lettere della Sapienza: 14 dei 20 esami sostenuti sono stati di area antropologica (Etnologia, 3 esami
con Signorini, Civiltà Indigene, 3 esami con Carla Rocchi, Antropologia Culturale, 2 esami con Ida
Magli, 2 esami con Giorgio Raimondo Cardona e la sua Glottologia, l’Antropologia Sociale con
Antonino Colajanni, la Paletnologia, 2 esami con Salvatore Puglisi, la Storia delle Religioni, con Dario
Sabatucci). Il punto di riferimento era l’Istituto di Etnologia, con Grottanelli, inavvicinabile per
studenti di primo anno e sul punto d andare in pensione, e Signorini, con il fascino delle sue lezioni e
della sua persona. In quegli anni (1980-1984) Storia delle Tradizioni Popolari non era insegnata,
avendo Diego Carpitella acceso la Cattedra di Etnomusicologia (1976). Per questo (ma non solo) non
sostenni quell’esame, né osai seguire Etnomusicologia che richiedeva competenze musicali di base a
me sconosciute. Un apparente caso iniziale, dunque, mi aveva tenuto lontano da tutto un
9 Nell’oramai estesa letteratura sull’auto-etnografia si vedano almeno Strathern 1987 e Reed-Danahay 1997.
10
(importante) settore degli studi. In realtà fin dalle seconde prove (cioè il secondo esame) di Etnologia
avevo imparato a considerare quello delle Tradizioni Popolari come “un mondo a parte”. Il corridoio
del primo piano della Facoltà di Lettere sul quale affacciavano le stanze di Etnologia aveva delle
ampie finestre dalle quali noi studenti potevamo vedere quelle dell’Istituto di Carpitella (e loro
immagino noi): due mondi separati che si fronteggiavano, quasi ignorandosi. Del resto, né nei
programmi degli esami etnologici, né in quelli antropologici, mi sono mai imbattuto in testi di
“antropologi italiani”: non Ernesto De Martino o lo stesso Carpitella, né Clara Gallini, Amalia
Signorelli o Tullio Seppilli; nemmeno Tullio Tentori, Giuseppe Cocchiara o Antonino Buttitta. Poteva
capitare, invece, che a lezione si parlasse di Ernesta Cerulli, Vittorio Lanternari, Bernardo Bernardi
(che arrivò a Roma nel 1982, durante il mio terzo anno di studi, ma che ben presto sarebbe prima
entrato in collisione con Signorini, quindi, nel 1992, andato in pensione) e Francesco Remotti, ma
nella loro veste di “etnologi”, che li escludeva automaticamente dalla categoria, decisamente altra,
degli “antropologi italiani”. L’antropologia che studiavamo e che ci veniva trasmessa era quella
“straniera”: inglese, statunitense, francese (meno tedesca, con l’uscita fuori ruolo di Grottanelli), sia
nelle declinazioni “alte” dei grandi maestri, sia anche attraverso le concrete ricerche etnografiche di
studiosi contemporanei. Soprattutto era un’antropologia centrata, appunto, sul terreno: etnografie
americane, ovviamente, ma anche africane, mediorientali, meno asiatiche ed oceanistiche, ma
comunque solide etnografie. Di queste, e dei modelli teorici che le sostenevano, ci parlavano a lezione
Signorini, Anthony Wade Brown, Colajanni e Cardona e ad esse chiedevano di ispirarci. Nonostante le
aperture eclettiche di Ida Magli (che suggeriva già in quegli anni di leggere Foucault e Bourdieu,
Bachelard e Deleuze, oltre a Kroeber ed Evans-Pritchard) e la curiosità contagiosa di Cardona (che ci
portava l’etnoscienza e l’analisi conversazionale) la mia era dunque, con tutta evidenza, oggi, una
formazione di scuola e alla scuola: l’antropologia era quella “straniera”, fondata su una solida ricerca
di campo in terreni “esotici” e basata su un’attenta conoscenza della letteratura internazionale, su
temi come famiglia, parentela e matrimonio – il mio primo esame fu sul manuale di Robin Fox -
l’organizzazione sociale e politica, il rituale, il mito, l’economia, e l’ecologia. Gli “altri”, gli “Italiani” –
questo era il pregiudizio scolastico – non facendo ricerca, non praticando il terreno, o comunque non
praticando gli stessi terreni allo stesso modo, costituivano un mondo altro, da non frequentare,
diverso dal punto di vista metodologico, ideologico e politico.
Come avrei compreso qualche anno più tardi, qualche crepa nella doxa di quel mondo nel
quale ero casualmente entrato incominciava, però, già a vedersi. Nel luglio del 1983 Italo Signorini mi
chiese di accompagnarlo in un viaggio nel Sannio beneventano. Qui firmò il contratto di affitto di un
appartamento nel paese di San Marco dei Cavoti dove mi chiese di recarmi a partire dal successivo
mese di settembre: avrei svolto lì, sul comparatico, tema a lui caro, il mio terreno per la tesi di
laurea. Un anno dopo, la tesi pronta, Italo mi chiese di portarla da Grottanelli, a casa sua, a Roma, in
Largo Arenula. “Sa – mi disse – ci tengo che sia lui il correlatore, così capirà che si può fare
etnologia anche lavorando in Italia”: un rituale di continuità, pensai, che stabilisce una relazione tra
11
generazioni alterne di membri di una stessa scuola. In realtà, su un piano diverso, quella nel Sannio
era la prima “missione” che l’Istituto apriva su un terreno non esotico, cosa che Vinigi Grottanelli
non doveva certo vedere di buon occhio (in effetti, in sede di discussione, dopo aver tessuto le lodi,
che mi parvero convinte, del mio lavoro, concluse dicendo, con rimarcata sufficienza, che esso
mostrava che i metodi dell’etnologia potevano applicarsi anche in contesti vicini). Se fu solo più tardi,
dopo la tesi di dottorato e il terreno in Ghana, che Italo si convinse che avrei potuto fare il mestiere
che faccio, restava pur vero che la strada dell’antropologia del Mediterraneo – come, fin da un
decennio prima, in area anglofona era stato chiamato lo studio antropologico in area euro-
mediterranea – mi avrebbe condotto in scenari metodologici e teorici lontani dall’economia
disciplinare etnologica al cui interno il mio “anthropological self” si era gradualmente costruito.
In quegli anni (1987-1992) non avevo una reale percezione né del processo di soggettivazione
accademica cui ero sottoposto, né della particolare doxa che tale processo richiedeva di incorporare.
Sapevo certo dell’esistenza di altri universi dossici (scuole, adoperando un termine più vicino
all’esperienza nativa), paralleli, alternativi o contrapposti al “mio”. Nelle conversazioni captate, nelle
battute lanciate, potevi cogliere giudizi, valutazioni, commenti positivi, a volte, più spesso aggressivi,
caustici o risentiti verso questo o quel (loro) collega, questo o quel gruppo. Al di là della volontà di
adesione acritica a forme di auto disciplinamento (in me sempre piuttosto debole, per propensione
polemologica), quel che (mi) mancava, erano le coordinate per costruire un quadro d’insieme delle
iridescenti articolazioni del campo accademico, da un lato, e la capacità di sviluppare una reale
oggettivazione del mio posizionamento, dall’altro. Semplicemente mi muovevo (come tutti) da
“allievo” nella mia bolla disciplinare. Le mie prime tre pubblicazioni (1986, 1987, 1991) uscirono del
resto su L’UOMO, la rivista fondata da Grottanelli, insieme ad alcune recensioni (tra queste una alla
ristampa de Le feste dei poveri, di Annabella Rossi, libro che a me piacque, anche perché restituiva
con passione quei pellegrinaggi dei quali gli informatori sanmarchesi mi avevano a lungo parlato,
recensione – questa – che stupì non poco Signorini). Il mio primo scritto in inglese (sugli Nzema)
venne invece pubblicato su Ethnology, rivista di Pittsburg con legami storici con la scuola romana,
mediati da Hugo G. Nutini, americanista, amico di Signorini e studioso di comparatico.
Per quanto mediato da alcuni anni di apprendistato storiografico e antropologico nei
seminari organizzati da Gérard Delille e Giovanni Levi presso l’ École Française di Roma e dalla
frequentazione di un gruppo di lavoro sulla famiglia nel quale erano coinvolti vari antropologi italiani
(Giulio Angioni, Pier Giorgio Solinas, Gabriella Da Re, Giannetta Murru, Giuliana Sellan, Leonardo
Piasere, Benedetto Meloni, Cristina Papa e Maria Minicuci, tra gli incardinati), il passaggio dalla
formazione romana, all’Università di Messina dove, sul finire del 1993 presi servizio come Ricercatore,
fu piuttosto brusco 10. Ricordo che tra le varie cose che Maria Minicuci (allora ordinaria a Messina)
mi chiese di fare vi fu la schedatura dei volumi di antropologia presenti nella biblioteca dell’allora 10 I Commissari del “mio concorso” (espressione nativa, questa, che è rivelatrice di dimensioni importanti della conoscenza locale su questioni concorsuali e accademiche) erano: Tullio Seppilli, Maria Minicuci (membro interno), Mariano Pavanello.
12
Istituto di Storia dell’Arte. Conoscevo bene, in tutte le sue articolazioni, la biblioteca romana, perché
Italo Signorini chiedeva a noi studenti anziani di prestare servizio volontario al suo interno,:
l’africanistica e l’americanistica, già cospicue, la parte generale, statunitense, britannica, francese e
tedesca, il piccolo, ma già significativo settore Mediterraneo, i classici. Ricordavo a vista le
collocazioni di molti libri. Quella messinese – meno voluminosa, ma non meno complessa e
stratificata – si era costruita nel tempo innanzitutto intorno al lavoro di Luigi Maria Lombardi
Satriani e di Mariano Meligrana (morto nel 1981, cui l’Istituto venne poi dedicato), e si era arricchita
negli anni grazie agli acquisti fatti da Maria Minicuci, prima, e da Francesco Faeta, poi 11. C’erano le
riviste, molte, italiane e straniere, allora solo in cartaceo e, come a Roma, in perenne, strutturale
ritardo; e c’era soprattutto l’antropologia italiana, tutta, proprio quella intorno alla quale a Roma –
andavo rendendomene gradualmente conto – era stata lanciata una sorta di fatwa silenziosa. Insieme
trovavo molta sociologia, storia, filosofia, storia dell’arte, spesso legate al mondo italiano e
meridionale, frutto, quest’ultima sezione, della passaggio in quell’’Istituto di studiosi come Giovanni
Previtali e Fiorella Sricchia Santoro. Se l’incontro con Maria Minicuci era avvenuto, per così dire, a
metà strada tra la rigida esterofilia della scuola romana di etnologia e la tenace “autarchia” della
tradizione italiana, mediato dal reciproco interesse per problemi di parentela su terreni europei
(italiani), una volta giunto a Messina, tra le mura per me piuttosto esotiche dell’appartamento al
secondo piano di Via Concezione 10, era difficile non comprendere che mi stavo oramai muovendo in
uno scenario disciplinare del tutto nuovo: finita la classificazione dei libri, Maria Minicuci fece il
passo successivo: “se sei qui – mi disse – sarebbe bene leggerla questa antropologia italiana”. Cosa
che feci e della quale non cesserò mai di esserle grato.
Fu sempre Maria, nei primi anni messinesi, a guidarmi nella comprensione del campo
accademico antropologico, informandomi sulla sua storia, le sue scissioni, i legami profondi e le
profonde inimicizie, facendomene comprendere, nella pratica più che nel racconto, i rituali (di
scissione e di pacificazione), insieme alle regole di etichetta e a quelle performative. Grazie a quegli
insegnamenti incominciavo ad avere gli strumenti necessari a farmi un quadro del mondo degli
antropologi accademici italiani e, dunque, iniziò a divenirmi chiaro come il mio spostamento a
Messina avesse significato attraversare una linea di confine intellettuale ed accademica ben radicata
nel cuore dell’antropologia italiana, intorno al quale si erano combattute, in anni precedenti, aspre
polemiche e dure battaglie, e che continuava a giocare un ruolo chiave nella strutturazione dei
rapporti di forza del campo.
11 Maria Minicuci si era laureata nella Facoltà di lettere dell’Ateneo peloritano con Adriano Ossicini. Era stata quindi attratta all’antropologia da Lombardi Satriani, con il quale aveva collaborato a partire dal 1967 e, quindi, istituzionalmente dal 1970. Dopo alcuni anni trascorsi in Francia, era professore ordinario al momento del mio arrivo a Messina. Francesco Faeta, di formazione sociologica e fotografica romana, anche lui entrato in contatto con Lombardi Satriani a partire da comuni interessi scientifici sulla Calabria, nel 1993 era professore associato nella Facoltà di Magistero dell’Università, dopo esser stato ricercatore nell’Università della Calabria nella quale Lombardi Satriani si era trasferito fin dai primi anni ’80.
13
4. Sistemi politici accademici
Sono convinto che una simile esperienza di attraversamento e di spaesamento, del resto
tipica del lavoro etnografico, abbia facilitato la possibilità di oggettivare sia dimensioni fondamentali
della configurazione del campo accademico antropologico nel corso degli ultimi venti anni, sia il mio
stesso posizionamento 12. Solo con il passaggio da un “universo accademico” ad un altro e solo con il
tempo ho potuto comprendere l’articolazione del campo antropologico universitario. In linea con
quanto sappiamo della strutturazione dell’intero campo accademico italiano (Shore 1989, Perotti
2008, Carlucci e Castaldo 2009, Gardini 2009, Palermo 2010, Moss 2012), alla sua base esso appare
(pur in presenza di decisivi cambiamenti, uso qui un presente etnografico classico e continuo ad
adoperare una postura retorica di tipo “realistico”) costituito da singole chefferies:, ossia spazi socio-
politici e intellettuali centrati sulla figura di un professore (spesso, ma non sempre, maschio)
Ordinario di riferimento, sulla sua forza accademica e, quindi, sulla sua capacità di distribuire risorse
ai propri componenti in cambio di fedeltà, sia politica, sia intellettuale. Le chefferies sono
tendenzialmente, ma non necessariamente, localizzate in una o più sedi universitarie vicine a quella
del “big man” (o della “big woman”) di riferimento, idealmente chiuse e legate ad una specifica
prospettiva analitica (quella elaborata negli anni dal/dalla “chief”). Le chefferies, pur in presenza di
stili e posture retoriche differenti, sono connotate da una rigida strutturazione gerarchica interna: al
proprio vertice si trova il big man (o la big woman) di riferimento, attorniato da un nucleo di allievi
in posizione accademicamente subordinata (di solito professori associati o anche ordinari più giovani)
che debbono una parte almeno della propria carriera all’ordinario di riferimento; alla base un numero
variabile di ricercatori e più giovani precari (assegnisti, contrattisti, dottori di ricerca e dottorandi) i
quali affidano (anche) alla forza accademica della chefferie le proprie chances di carriera.
Nel 2006-2007 il numero dei professori ordinari di antropologia in Italia raggiunge la cifra
record di 51 (69 sono gli associati, 92 i ricercatori, per un totale di 213 persone). Siamo al culmine di
una fase di espansione (quantomeno accademica) della disciplina, dovuta ai numerosi concorsi
banditi per ogni fascia della docenza a partire dalla fine degli anni ’90 del secolo 13. Anche se nel giro
di due - tre anni i pensionamenti e il diradarsi dei concorsi avrebbero iniziato a falcidiare le schiere
della piccola tribù antropologica, riducendone drasticamente la demografia, al momento di massima
espansione del campo accademico antropologico le chefferies che, per così dire, ne animavano
l’esistenza erano ben visibili e strutturate 14. Il campo degli antropologi accademici appariva infatti
12 In effetti, solo riflettendo per questo scritto mi sono reso conto di quanto un analogo percorso di attraversamento di confini interni al campo accademico sia stato seguito da Maria Minicuci, l’ordinaria presso la cui cattedra ho lavorato come ricercatore. Per quanto non direttamente allieva di Lombardi Satriani, Minicuci ha iniziato con lui la propria carriera accademica nell’allora Magistero di Messina, per poi gradualmente avvicinarsi, dopo una significativa esperienza transalpina, ad alcuni esponenti di quella che sarebbe anni dopo divenuta l’alleanza del nord, restando comunque rispettosa dei propri inizi accademici. Pochi dubbi sul fatto che tale suo posizionamento molteplice e trasversale abbia aiutato la mia carriera universitaria. 13 Come vedremo, tra il 1999 e il 2008 sono stati banditi molti concorsi di I e II fascia, e ancor di più per ricercatore a tempo indeterminato. 14 Questo il trend tra la fine del 2012 e il 2006: Ordinari Associati Ricercatori Altri Totale
14
diviso in due grandi alleanze, ciascuna composta da diverse chefferies espressioni, a loro volta, della
forza accademica di singoli big man. Per comodità e per una certa esigenza di adesione alla
percezione dei “nativi” propongo di chiamare la due principali coalizioni “Alleanza del Sud” e
“Alleanza del Nord” 15. Al di là di ogni riflessone sociologica sulla natura di simili alleanze e di ogni
tentativo di ricostruzione delle complesse vicende storiche che hanno portato al loro temporaneo
costituirsi, tra gli anni ’90 del Novecento e il primo decennio del nuovo secolo, quel che qui mi
interessa è giungere ad una loro oggettivazione e tentare una interpretazione degli effetti che
l’operare di simili “strutture” ha avuto sull’attuale conformazione del campo accademico e
intellettuale dell’antropologia italiana in una precisa e delimitata fase della sua storia (1998-2012) 16.
Dunque, detto che tra le due coalizioni esistono ovviamente momenti di sovrapposizione, figure di
mediazione e ambiti fluttuanti, insieme a spazi di “non schieramento”, se si fa propria una
prospettiva “oggettivante” si può affermare che, almeno in alcuni specifici momenti, le due alleanze
assumono il carattere di entità sociali e politiche ben delineate, dotate di una certa continuità nel
tempo e di una loro precisa strutturazione. Come vedremo, infatti, in occasione dei concorsi,
momenti insieme rituali, politici ed economici la cui denominazione rinvia significativamente
all’ambito ecclesiale, le due coalizioni prendono corpo e agiscono in maniera tendenzialmente
unitaria. Per comprendere tale capacità d’azione è necessario fornire una descrizione più dettagliata
delle due alleanze e delle loro interne articolazioni.
Ogni alleanza ha un nucleo duro, un cuore costituito da alcuni professori ordinari tra loro
legati da vincoli intellettuali, da rapporti di filiazione e cuginanza accademica, da legami di amicizia
personale e da una memoria di genealogie e storie accademiche pregresse. Memoria, questa,
profonda, sedimentata, specie nelle inimicizie e nei rancori, e puntuale, la quale, però, prevede anche
la possibilità di forme di rimozione del ricordo dei conflitti passati allorché diviene utile o necessario,
in vista di specifici obiettivi, realizzare scambi con altre chefferies, sia pur inserite nell’alleanza
opposta, o anche, più facilmente, mettere tra parentesi tensioni e ruggini interne ad una stessa
coalizione. Nel 2006 l’Alleanza del Sud appare costituita da due principali chefferies, i Luigiani e i
2012 29 58 78 8 173 2008 44 63 103 2 212 2006 51 69 92 1 213 15 In linea con lo stile volutamente “realistico” e “old fashioned” della rappresentazione etnografica adottato in questo scritto, tenderò a descrivere le due alleanze come se fossero entità oggettive e discrete. Esse, in realtà, presentano un carattere fluido e dinamico che le avvicina, più che a un qualche tipo di gruppo corporato, alle coalizioni, ai “quasi groups” o agli “interst groups” individuati da antropologi e sociologi tra gli anni Sessanta e i Settanta del secolo scorso (Mayer 1966, Banton 1966, Boissevain 1974, Bourdieu 1984). 16 Ovviamente, al di fuori della postura struttural-funzionalista convenzionalmente assunta in queste pagine, sono ben consapevole del fatto che occorrerebbe una conoscenza attenta delle vicende del campo antecedenti di almeno un trentennio e, quindi, una precisa socio-biografia quantomeno dei “big men” (e “big women”) che nel corso degli anni 2000 ci appaiono come i protagonisti della scena antropologica nazionale. La voci e i racconti che circolano all’interno del campo dicono di più chefferies autonome, sempre legate a singoli “big man” in reciproca competizione, non organizzate in coalizioni (alleanze) di una certa durata, ma capaci di aggregarsi o di contrapporsi in occasione dei momenti concorsuali. Dare fondamento storiografico e analitico a tali voci, però, è compito diverso da quello qui perseguito. Ancora utile, per far luce sugli aspetti intellettuali della vicenda antropologica italiana negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso, il lavoro di Petrarca (1985). Si vedano anche i capp. IX e X del recente, e significativamente prudente nell’esplicitare i nessi tra posizionamenti accademici, modelli analitici e interpretazioni storiografiche, volume di Alliegro (2011).
15
Palermitani, ognuna centrata su una figura storica dell’antropologia italiana, con un terzo nucleo – i
Demartiniani - che, per quanto ancora identificabile, sembra sul punto di essere assorbito dalla
chefferie dei Luigiani. In maniera speculare l’Alleanza del Nord si articola nei Ciresiani e nei Torinesi,
chefferies legate, anche in questo caso, ad (almeno due) importanti studiosi. Intermedio tra le due
alleanze il gruppo dei Perugini, in grado di muoversi tra le maglie della contrapposizione e di
partecipare, a seconda dei casi e delle esigenze, alle iniziative dell’una e dell’altra alleanza. Una simile
capacità deriva a questo gruppo (nel 2006 non più definibile come un vera chefferie, date anche le
sue ridotte dimensioni numeriche – 5 persone, tra cui un solo ordinario) dall’essere ciò che resta di
una chefferie piuttosto importante fino al 2000 e, in passato, più vicina ad altre chefferies confluite
nell’ Alleanza del Sud. Leggendo attraverso le mie personali competenze auto-etnografiche i dati
forniti dal CINECA, nel 2006 la composizione numerica delle due alleanze potrebbe essere la
seguente:
TABELLA N. 5: il campo accademico antropologico letto nelle sue partizioni “native” (elaborazione personale di dati CINECA per l’anno 2006). Alleanza Ordinari Associati Ricercatori 2006 Sud 104 (49%) 27 (27%) (13%) 36 (32%) (17%) 41 (41%) (19%) (53%) (52%) (44%) Nord 72 (34%) 16 (22%) (7%) 25 (35%) (12%) 31 (43%) (15%) (31%) (32%) (34%) Altri 36 (17%) 8 (22,5%) (4%) 8 (22,5%) (4%) 20 (55%) (10%) (16%) (16%) (22%) Totale 212 + 1 51 (24%) 69 (32%) 92 (44%)
Ad un primo sguardo, alla fine del 2006 l’Alleanza del Sud appare più forte rispetto a quella
del Nord. Non si tratta tanto o soltanto di un dato numerico (104 contro 72 docenti), quanto
piuttosto del maggior numero di professori ordinari che ne compongono i nuclei (chefferies) portanti
(27, ossia il 53% dei 51 ordinari, contro 16, pari invece al 31%). A questa maggiore forza, di numeri e
di status accademico, corrisponde, però, una maggiore articolazione interna che ne fa in qualche
modo un sistema più dinamico e instabile rispetto a quello contrapposto. L’Alleanza del Sud, infatti,
si articola in (almeno) tre chefferies: i Lugiani, i Palermitani, i Demartiniani. La chefferie più
consistente di questa alleanza, quello dei Luigiani, vede al suo vertice Luigi M. Lombardi Satriani,
Ordinario di Etnologia alla Sapienza di Roma, e include 16 Ordinari, almeno 13 Associati ed una
ventina di ricercatori. Questa chefferie, pur restando saldamente centrata intorno alla figura del
leader, date anche le sue dimensioni e soprattutto vista in una prospettiva aperta alla diacronia,
appare articolata in varie anime interne: oltre ad un cospicuo numero di allievi diretti, vi troviamo
infatti un nucleo di studiosi provenienti da una più antica chefferie centrata intorno alla personalità
16
di Tullio Tentori, un numero non ristretto di Associati e Ricercatori legati a due Ordinari bolognesi,
figure chiave dell’antropologia culturale italiana, un nucleo più piccolo formato da Associati e
ricercatori perugini, espressione della scuola di Tullio Seppilli, che per storie e legami personali,
almeno all’epoca, appaiono ancora legati all’Alleanza che aveva costituito il primario riferimento del
proprio maestro, piuttosto che alle scelte strategiche di maggiore dinamicità operate dall’Ordinario di
riferimento attivo 17. I membri della chefferie dei Luigiani, oltre ad essere presenti nella “Sapienza” di
Roma, sono attestati in numerose sedi universitarie del Sud (Università della Calabria, di Messina, in
almeno due delle tre università pugliesi, nelle Università Federico II e Suor Orsola Benincasa di
Napoli), ma hanno presenze di peso anche nel centro (Bologna, in primis, e su un livello diverso,
Cassino) e nel Nord (Torino, Padova). I diversi membri del gruppo, pur se ognuno legato a traiettorie
personali di formazione, a specifiche vicende accademiche e a soggettivi stili di lavoro, di azione e di
visione del mondo, appaiono però uniti – almeno ad uno sguardo esterno e almeno sul piano delle
(auto) dichiarazioni ufficiali - da una comune idea di cosa sia (o debba essere) la disciplina, dei suoi
metodi, delle concrete pratiche di ricerca, dei temi di studio, oltre che delle vicende storiche del
campo e dell’antropologia stessa. Tutti comunque hanno una percezione (cui non è detto debbano
corrispondere identiche pratiche) del campo accademico, dei suoi confini interni ed esterni, delle sue
articolazioni, delle alleanze possibili, dei comuni “avversari”. Ribadendo che in questi passaggi scelgo
di non occuparmi delle dimensioni “contenutistiche” e “scientifiche” che sono (o dovrebbero essere)
alla base della configurazione del campo, e che più probabilmente possiamo ipotizzare esserne invece
conseguenze, ritengo decisivo soffermarsi sugli aspetti politico-sociologici e sulle dimensioni per così
dire formali del campo accademico. In una simile ottica, attenta all’organizzazione politica della vita
intellettuale, non possiamo non sottolineare che la chefferie dei Luigiani, come tutti le altre, si
caratterizza in maniera unitaria anche su altri piani: alcune importanti collane in case editrici di
rilievo nazionale fanno riferimento o direttamente al chief, o indirettamente a studiosi appartenenti al
gruppo: Armando, Franco Angeli, Guerini, e in un passato non troppo lontano dal 2006 anche la
collana gli Argonauti di Meltemi, insieme ad un certo numero di editori di carattere piuttosto
regionale (gli editori calabresi Gangemi e Pellegrino, ad esempio, o più limitatamente l’editore
Rubettino). In maniera complementare dell’area di influenza della chefferie fanno parte anche alcune
riviste scientifiche di rilievo del panorama antropologico nazionale, come Voci (creata nel 2004) e
Etnoantropologia (on line), evoluzione della più antica Etnoantropologia, rivista dell’AISEA
(Associazione Italiana Scienze Etno-Antropologiche), fondata nel 1993 e destinata a seguire le vicende
di quell’Associazione. Anche la possibilità di accedere alle pagine di alcuni tra i più importanti
quotidiani nazionali, in primo luogo determinata dalle capacità e dalle reti di singoli studiosi che
17 Sia la chefferie centrata intorno a Tullio Tentori, sia soprattutto quella che fino al 2006 ha avuto come suo perno Matilde Callari Galli, prima di diluirsi gradualmente all’interno della più ampia coalizione tra palermitani e luigiani, hanno giocato un ruolo di primo piano nel definire e sostenere l’Alleanza. Legate a figure di primo piano dell’antropologia culturale italiana, hanno in vario modo beneficiato (soprattutto quella bolognese) del peso e dell’attività politica dei loro vertici.
17
“appartengono” alla chefferie, è indice, però, anche della possibilità di questo gruppo di agire negli
scenari “alti” della vita politica e culturale del paese.
Altra chefferie centrale nella composizione dell’Alleanza del Sud è quella dei Palermitani che
alla fine del 2006 comprende almeno 8 professori ordinari, prevalentemente, ma non esclusivamente
localizzati in Sicilia (Palermo; importante, ad esempio, è il nucleo sassarese), una decina di associati,
divisi tra Palermo e alcune sedi universitarie del nord, insieme ad un numero più ristretto di
ricercatori. Nonostante la tensione tra due diverse anime palermitane, spesso tra loro in conflitto, la
chefferie, soprattutto se vista nella sua partecipazione all’Alleanza, ha come punto di riferimento la
figura di Antonino Buttitta, personaggio importante della vita intellettuale (non solo) siciliana e figura
chiave dell’alleanza stessa. Questo gruppo appare più compatto del precedente - in fondo è possibile
leggere al suo interno solo due articolazioni, essendovi, oltre al nucleo principale, un ulteriore polo
centrato, fino al 2005, su altri due professori ordinari palermitani – sia dal punto di vista della
condivisione di una certa idea dell’antropologia, sia sul piano dei temi, degli approcci e delle
metodologie di lavoro. La chefferie palermitana si caratterizza, inoltre, per un forte ancoramento
territoriale (siciliano, ma in alcuni casi anche sardo) delle ricerche e, soprattutto, delle proprie
politiche culturali e istituzionali. Grazie anche al diretto e importante impegno politico del big man
di riferimento – caratteristica questa condivisa con il chief ed altri esponenti di primo piano dei
Luigiani – il gruppo conserva quasi intatta, ancora nel 2006, quella capacità di interazione con le
strutture politico-amministrative regionali esercitata in maniera egemonica nel ventennio precedente.
Capacità, questa, che si era tradotta sia in un radicamento didattico, scientifico e museale
dell’antropologia sul territorio, sia anche, fino ai primi anni del nuovo millennio, in una forte capacità
di dialogo e di scambio con tradizioni antropologiche straniere, e in particolare con la Francia. Anche
questa chefferie ha un rapporto privilegiato con almeno una casa editrice di livello nazionale (Sellerio,
ma in passato anche Flaccovio) e una “sua” rivista, l’Archivio Antropologico Mediterraneo, fondata nel
1998 e in parte continuatrice delle politiche editoriali di una precedente rivista (Uomo & Cultura).
La terza chefferie che alla fine del 2006 è parte dell’Alleanza del Sud si compone di studiosi
legati tra loro dall’essere in qualche modo connessi all’opera di Ernesto De Martino. Si tratta di un
gruppo nel 2006 numericamente ristretto (1 Ordinario, 5 Associati, alcuni ricercatori) che paga lo
scotto del pensionamento di Clara Gallini (2004) e che, fino al 2006, ha visto al suo vertice un’altra
allieva del grande studioso napoletano, Amalia Signorelli 18. Un gruppo, questo, connotato da una
maggiore articolazione intellettuale interna rispetto, ad esempio, al nucleo palermitano, le cui
ricerche, muovendosi quasi esclusivamente in ambito italiano ed europeo, spaziano dall’analisi di
18 Il posizionamento di questa importante studiosa in una stessa coalizione con la chefferie dei luigiani potrebbe apparire problematico stanti i rapporti spesso conflittuali da lei intrattenuti con i vertici delle altre due chefferies. In effetti l’appartenenza all’alleanza del sud, in questo caso, sembra determinata sia da meccanismi contrastivi e segmentari che hanno visto Signorelli, con il gruppo che a lei faceva riferimento, ancor più contrapposta ad esponenti di vertice dell’altra alleanza, sia anche dai comportamenti concorsuali del gruppo stesso.
18
dinamiche sociali e politiche delle realtà urbane dell’Italia contemporanea allo studio di forme di
ritualità cattolica di massa, dall’immaginario razzista ai saperi “popolari” femminili legati a parto e
maternità. Al di là del carattere numericamente ristretto, questo gruppo costituisce un punto di forza
dell’Alleanza del Sud, grazie sia al prestigio dei suoi vertici e della sua genealogia intellettuale, sia
anche agli stretti rapporti, a volte anche di tensione, se non proprio conflittuali, che legano i suoi
membri ai vertici delle altre due chefferies che la compongono. Pur non essendoci in questo caso una
rivista di riferimento, il ruolo svolto dalla casa editrice napoletana Liguori nel dare una significativa
visibilità editoriale ai lavori di questo gruppo non può essere sottovalutato.
Lo scenario di quella parte del campo accademico in antropologia che ho chiamato Alleanza
del Sud è indubbiamente più complesso di quanto qui schematicamente presentato: i legami tra i
vertici delle tre chefferies, quelli tra questi e gli altri membri del (proprio) gruppo e tra questi ultimi
tra di loro sono dinamici, a volte conflittuali, e hanno portato, nel corso degli anni, ad allontanamenti,
“tradimenti” e scissioni. Mi sembra però che a partire dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso ad
oggi la tenuta dell’Alleanza sia stata buona, così come netta è stata, almeno a livello delle
rappresentazioni, la contrapposizione con l’altra parte che compone il campo.
Alla fine del 2006, l’Alleanza del Nord con i suoi 16 ordinari, 25 associati e 31 ricercatori,
appare il frutto della coalizione creatasi nel passaggio di millennio tra due principali gruppi
(chefferies) : i Ciresiani, da un lato, e i Torinesi dall’altro. Anche in questo caso non mancano certo
dinamiche interne, a volte particolarmente conflittuali, altre meno, anche se foriere di probabili,
future segmentazioni. Nonostante questo, considerando il quadro d’insieme e valutando le concrete
pratiche sociali (soprattutto, come vedremo, quelle concorsuali nelle quali e attraverso le quali si
distribuiscono le principali risorse del campo), anche qui la tenuta del blocco non sembra messa in
discussione.
Il gruppo dei ciresiani (almeno 6 Ordinari, 16 Associati e altrettanti Ricercatori) è composto
in primo luogo, ma non esclusivamente, da allievi di prima e di seconda generazione di Alberto
Cirese, formatisi con lui (e quindi con suoi allievi) in Sardegna, In Toscana e alla Sapienza e dislocati
in Sardegna (quasi esclusivamente a Cagliari), a Siena e a Roma. Al loro fianco – secondo un
processo già notato in almeno una delle chefferies dell’altra Alleanza - studiosi che, provenendo da
quelli che in un recente passato erano gruppi autonomi ed essendo, dunque, espressione di
genealogie intellettuali a volte piuttosto lontane da, se non addirittura contrapposte a quella dossica,
si legano per ragioni di vicinanza intellettuale e/o accademica a membri che, con l’uscita dalla scena
accademica del fondatore del chefferie, hanno acquisito posizioni di vertice 19. Come nel caso delle
19 Penso sia al caso del nucleo di studiosi provenienti dalla tradizione filologica di Bronzini ed oggi stabilmente parte dell’alleanza del Nord grazie ai legami intellettuali stabiliti con Pietro Clemente; sia anche a singoli studiosi che, pur provenendo da raggruppamenti accademici opposti a quello ciresiano, si aggregano a studiosi di questo gruppo, divenendone, con il tempo e in alcuni casi paradossalmente, parte integrante.
19
altre chefferies fin qui considerate, buona parte degli studiosi del gruppo ciresiano lavorano in
contesti italiani, anche se non mancano, sia tra gli allievi diretti, sia, più frequentemente tra i membri
della generazione “– 2” esempi di lavori svolti in terreni “esotici” (India, Capoverde, Costa d’Avorio,
Ghana). Interessante, inoltre, che nonostante il forte accento sulla dimensione teorico-metodologica
proprio dell’insegnamento del fondatore della chefferie, gli studiosi che ne fanno parte seguono
approcci teorici e metodologie e si interessano a tematiche tra loro spesso distanti, conferendo al
proprio schieramento una curvatura intellettuale eclettica, diversa, ad esempio, dalla dichiarata
omogeneità teorica di altri gruppi accademici. Al di là delle specifiche sensibilità conoscitive dei
singoli studiosi e dei loro diversi interessi, sembra forse possibile cogliere alla base di una simile
curvatura anche l’esito della complessa fase di successione apertasi con l’andata in pensione del
fondatore del gruppo: passaggio delicato per gli equilibri interni alla chefferie che, pur mantenendo
sui piani struttural-accademici una sua chiara continuità ed evitando formali segmentazioni o
addirittura scissioni, ha visto accentuarsi le distanze, anche intellettuali, tra le traiettorie dei principali
allievi di Cirese. Ad una tale molteplicità di interessi corrisponde, sul piano dell’organizzazione della
produzione culturale e scientifica, un’ampia differenziazione dei luoghi di pubblicazione. Se il nucleo
romano della chefferie appare direttamente coinvolto nella recente definizione dell’editore CISU come
spazio di riferimento per l’antropologia accademica italiana, una casa editrice come Carocci ha spesso
ospitato contributi di studiosi appartenenti ad altri nuclei dello stesso gruppo, mentre l’apertura di
edizioni come ETS di Pisa o SEID di Firenze alle discipline antropologiche è diretta espressione di
altri suoi membri. Altrettanto articolato il quadro delle riviste di settore che fanno riferimento a
questo schieramento: da Ossimori, fondata nel 1992 e durata fino al 1998 – espressione del nucleo
romano - ad Antropologia Museale, creata nel 2002 come espressione degli interesse di un gruppo di
Antropologi museali strettamente connesso alla stessa frazione dell’area ciresiana, passando per Lares,
rivista storica degli studi demologici e antropologici italiani, il cui passaggio alla direzione di Pietro
Clemente segna, tra le molte altre novità, anche la saldatura di un legame tra una parte della
chefferie ciresiana e gli eredi di Giovan Battista Bronzini (area, quest’ultima, nella quale si muove
anche la più giovane rivista Archivio di Etnografia).
L’altro perno dell’Alleanza del Nord è quello rappresentato dalla chefferie che propongo di
chiamare dei Torinesi. Suo punto di riferimento e di origine è il lavoro scientifico e intellettuale di
Francesco Remotti, impostosi tra la fine degli anni ’70 e quella degli anni ’80 del secolo scorso come
una delle figure di riferimento dell’antropologia culturale italiana e del campo accademico da questa
occupato. La chefferie, che alla fine del 2006 include tra 6 e 8 Professori Ordinari, altrettanti
Associati e 13 Ricercatori, ha come sedi di riferimento le Università di Torino e di Milano Bicocca, con
diramazioni in altre università del Nord del paese. Diversamente dalla tendenza prevalente nelle altre
chefferies, gli interessi di ricerca, in questo caso, si concentrano su tematiche etnologiche “classiche”
e, dunque, su aree (l’Africa, il Medio Oriente, l’Oceania, le Americhe e, più di recente, il Sud Est
asiatico) “esotiche”. Anche i modelli teorici di riferimento – esplicitamente a partire da alcuni
20
dibattiti intellettuali della seconda metà degli anni ’80 del XX secolo – sono, o meglio sono stati in
passato, dichiaratamente “non autarchici”, guardando soprattutto alle tradizioni antropologiche
francesi, statunitensi e, almeno in parte, inglesi. Questa chefferie si presenta - almeno negli anni
iniziali del nuovo millennio - come piuttosto compatta, tanto dal punto di vista accademico, quanto
da quello intellettuale, con una marcata tendenza alla riaffermazione costante di una doxa, pur
attraverso il riconoscimento e la valorizzazione delle scelte e delle preferenze intellettuali dei singoli.
Del resto l’apparato politico-culturale del gruppo è tra i più strutturati del campo accademico
italiano, con collane di antropologia presenti in editori di primo piano nel panorama nazionale
(Laterza, Raffaello Cortina, Bruno Mondadori) e un paio di riviste (Annuario di Antropologia, attiva
dal 2001 e Achab, in vita tra il 2004 e il 2012) direttamente legate ai vertici del gruppo. Come le altre
chefferies che, alleandosi e/o contrapponendosi reciprocamente, danno forma al campo accademico
degli antropologi italiani, anche quella torinese – che gode di un significativo prestigio intellettuale e
scientifico – già alla fine del 2006 presenta una certa dialettica interna, con alcuni studiosi che
occupano posizioni defilate, aggregandosi tra loro, e il nucleo di Milano Bicocca che, essendo in forte
crescita numerica, sembrerebbe poter assumere con il passar del tempo e con l’uscita fuori ruolo del
docente di riferimento, una più netta autonomia dal centro.
Insieme, o meglio intorno o attraverso le due metà del campo si muovono seguendo
traiettorie più marcatamente individuali e, dunque, non direttamente collegate alle esigenze dei due
gruppi principali, figure di studiosi dai percorsi accademici e intellettuali tra loro molto diversi:
studiosi che hanno lasciato le alleanze di cui genealogicamente avevano fatto parte, ricercatori affiliati
in origine a gruppi che si sono poi disciolti in seguito alla scomparsa dei propri referenti, persone
con formazione estera rientrate in Italia attraverso temporanee connessioni con l’una o l’altra
alleanza, persone dai percorsi intellettuali e accademici effettivamente trasversali. La fascia che ho
classificato come “altri” nel 2006 rappresenta il 17 % del totale degli antropologi strutturati in
università e gioca un ruolo piuttosto marginale nella gestione della vita e delle risorse accademiche. Il
loro numero, però, è in costante aumento ed appare connesso con il decrescere di quello degli
antropologi globalmente presenti in accademia. Nel 2012, infatti, gli “altri”, per quanto il numero degli
ordinari “non allineati” non sia aumentato, costituiscono oramai il 28 % degli antropologi (48/174)
con un significativo aumento delle loro percentuali nei ruoli degli Associati, dei Ricercatori e, novità
assoluta, dei RTD. Tra questi 6 su 8 non sembrano inscrivibili in nessuna delle due sfere di influenza.
La tabella n. 6, relativa al 2012, ci dice che oltre a tale incremento di studiosi non del tutto allineati
con le principali divisioni del campo, assistiamo anche e soprattutto ad un impoverimento numerico
dello scenario e ad un connesso indebolimento delle due alleanze e delle chefferies che le
compongono.
TABELLA N. 6: il campo accademico antropologico letto nelle sue partizioni “native” (elaborazione dati CINECA per l’anno 2012)
21
Alleanza Ord. Ass. Ric. RTD Altri 2012 Sud 61 (35%) 12 (21%) (6,5%) 20 (33%)
(11%) 27 (44%) (16%)
1 (2%) (0,5%)
(45%) (34%) (35%) (22,5%) Nord 65 (37%) 12 (20%)
(6,5%) 21 (32%) (12%) 30
(46%) (17%) 1 (2%) (0,5%)
(45%) (36%) (38%) (22,5%) Altri 48 (28%) 5
(6%) (3%) 17 (35%) (10%)
21 (45%) (12%)
6 (12%) (4%)
1 (2%) (0,5%)
(10%) (30%) (27%) (75%) (100%) Totale 174
29 (16%)
58 (33%)
78 (45%)
8 (5%)
1 (1%)
Ordinari, Associati e Ricercatori dei due schieramenti, decisamente ridotti di numero, oramai
si equivalgono. Al loro interno, poi, il pensionamento di alcuni (i più anziani) dei maestri intorno ai
quali si erano aggregati le singole chefferies ha prodotto tensioni legate alla successione (tra i
Luigiani, ad esempio) in parte analoghe a quelle vissuti dal gruppo ciresiano alcuni anni prima; in
altri casi (ad esempio Palermo, Napoli statale, Roma-Sociologia) l’andata in pensione della
generazione anziana ha causato un indebolimento generalizzato del peso della disciplina in quelle
università, insieme ad una connessa riduzione della forza accademica dei singoli docenti.
5. La produzione e la riproduzione dei “grand hommes”
Il quadro che emerge da tali dati è quello di una campo disciplinare globalmente più debole,
oggi, rispetto a soli 6-7 anni fa e, soprattutto, destinato nel giro di pochissimi anni a divenire ancora
più debole e frammentario 20. Le linee di tensione presenti e ben vivaci nel corso del primo decennio
del XXI secolo, pur in presenza di alcuni timidi segnali di discontinuità, continuano, però, ad essere
ben vive e ad organizzare il campo, producendo e a volte moltiplicando le spinte alla parcellizzazione
all’interno di un processo che ricorda sempre più quello di una schismogenesi simmetrica e
regressiva (Bateson, 1977).
Associazioni
Ulteriore indice di un simile processo è il moltiplicarsi nel corso degli ultimi due decenni
delle Associazioni che si contendono o comunque si dividono la rappresentanza pubblica degli
antropologi. Nel 1992, su iniziativa di alcuni importanti studiosi appartenenti a schieramenti
accademici diversi e in una fase accademica caratterizzata da un clima da Große Koalition, viene
fondata l’AISEA (Associazione Italiana Scienze Etno-Antropologiche) che, per alcuni anni, non senza
tensioni interne, resta l’unica e unitaria associazione di categoria. Espressione di AISEA è la rivista
Etnoantropologia (nata nel 1993) che, fino al 1999-2000 ospita contributi di provenienza accademica
20 Alla fine del 2013 il numero degli ordinari di discipline M-DEA/01 sì è ulteriormente ridotto, scendendo a 25 e – in assenza di assunzioni di nuovi professori di Prima fascia – sarà destinato ad un ulteriore, drastico, ridimensionamento nel giro di due - tre anni, con il pensionamento di almeno altri 8 studiosi/e.
22
molto differenziata e plurale 21. Ben presto, però, le tensioni del campo accademico si proiettano
all’interno dell’associazione: già nel 2001 (significativamente poco dopo l’inizio di nuove modalità
concorsuali: commissioni locali di 5 membri, eletti con un membro interno designato e 3 candidati
idoneati) un nutrito gruppo di antropologi interessati alle dinamiche museali e patrimoniali, e legati
ad un importante esponente della chefferie dei ciresiani, dà vita ad una nuova associazione, SIMBDEA
(Società italiana per la Museografia e i Beni Demoetroantropologici). Un anno dopo SIMBDEA inizia
a pubblicare una propria rivista (AM – Antropologia Museale) che rapidamente si impone nel
panorama nazionale e che, nella sua fase iniziale, ospita prevalentemente contributi di studiosi legati
al nucleo fondatore. Nel 2006 alcuni studiosi, già presenti in AISEA e da tempo in disaccordo con le
modalità di conduzione di quell’Associazione decidono di dar vita all’ANUAC (Associazione Nazionale
Universitaria degli Antropologi Culturali) 22. Significativamente la nascita di questa nuova
associazione avviene lungo una linea di divisione che, fino ad epoca molto recente, ricalca piuttosto
fedelmente quella tra Alleanza del Nord, i cui principali big men sono tra i maggiori sponsor
dell’operazione, e l’Alleanza del Sud, i cui esponenti restano quasi tutti in AISEA. Recentemente,
infine, a dividersi ulteriormente l’oramai esanime platea degli antropologi universitari (167 a fine
2013) compare la SIAA (Società Italiana di Antropologia Applicata), nuova Società creata da studiosi
in passato piuttosto chiaramente associati all’una e all’altra alleanza, e quindi, più recentemente,
attestati su posizioni accademiche meno schierate.
Riviste
Alla polverizzazione dello spazio associativo lungo linee di faglia sostanzialmente coerenti con
la grande opposizione Alleanza del Sud / Alleanza del Nord, corrisponde la parcellizzazione e la
polarizzazione lungo le medesime linee di tensione strutturale delle riviste e delle sedi di
pubblicazione. Abbiamo già visto come a ciascuna Associazione corrisponda tendenzialmente una
rivista (Etnoantropologia – e poi Etnoantropologia on line - per AISEA, AM – Antropologia Museale
per SIMBDEA, Anuac per l’ANUAC) rivista che in qualche misura si fa portavoce, sul piano della
produzione intellettuale e scientifica, della rete accademica che nella associazione di riferimento si
riconosce. A queste si affiancano altre riviste specificamente antropologiche, di diversa storia e di
peso differente. Tra queste La Ricerca Folklorica - Erreffe che, nata nel 1980 intorno al nucleo
problematico dei rapporti tra folklore, cultura popolare e studi antropologici in Italia e grazie
21 In realtà tra il 1988 e il 1989 a Perugia, grazie a Tullio Seppilli, era stata fondata la SIAM (Società Italiana di Antropologia Medica) che ha subito costituito un punto di riferimento trasversale per studiosi di diversa provenienza accademica interessati alle tematiche dell’antropologia medica. Dal 1996 la SIAM pubblica AM – Antropologia Medica, rivista presto divenuta, almeno in Italia, centrale nel campo specifico di studi. Sia la SIAM che AM non sono mai apparse in contrapposizione o in competizione con le altre associazioni. 22 Non posso non segnalare che mentre sono iscritto ad ANUAC sin dal momento della sua fondazione, sono stato membro di AISEA solo fino ad un certo momento (il 2001), decidendo di non rinnovare più l’iscrizione in seguito al personale disaccordo con la gestione di un mio scritto, presentato come relazione al convegno “Beni Culturali. Identità, Politiche, Mercato” tenutosi a Roma nel giugno di quell’anno, e mai pubblicato. In ANUAC ho ricoperto il ruolo di membro del Consiglio Direttivo, dal quale mi sono dimesso nel momento in cui ho dovuto operare come Esperto Valutatore nel GEV 11 della VQR 2004-2010.
23
all’opera di studiosi di diversa formazione (linguisti, antropologi e studiosi di folklore) e provenienza
accademica, è riuscita nel corso di un trentennio a rimanere equidistante tra i diversi schieramenti
accademici e a conquistarsi uno spazio ben definito nel campo antropologico; Lares, rivista storica
(1912) della tradizione italiana di studi antropologici, con una precisa caratterizzazione demologica
che, dopo esser stata diretta per quasi trent’anni da Giovan Battista Bronzini – ed essere stata
almeno in parte espressione del gruppo accademico che a questo importante studioso faceva
riferimento – è passata sotto la direzione di Pietro Clemente, esponente di primo piano della
chefferie dei ciresiani 23. Altra rivista storica del panorama italiano, anch’essa capace di costruirsi uno
spazio di rifermento scientifico e di autonomia rispetto agli schieramenti accademici è AM –
Antropologia medica, rivista della SIAM edita dal 1996 e fondata, soprattutto nel primo decennio
della sua esistenza, sul prestigio intellettuale e politico e la capacità di muoversi tra le due Allenze
proprie del suo fondatore, il perugino Tullio Seppilli. Diversa la sorte toccata a L’UOMO, rivista
legata dapprima all’ Istituto di Etnologia della Facoltà di Lettere e Filosofia della “Sapienza” di Roma,
quindi al dipartimento di Studi glotto-antropologici. Fondata nel 1976 da Vinigi Grottanelli, è stata
punto di riferimento degli studi etnologici e antropologici, soprattutto extra-europei, ma ha avuto
alterne vicissitudini che ne hanno determinato varie chiusure e riaperture (l’ultima delle quali nel
2012, dopo 13 anni di sospensione delle attività): vicenda emblematica, quella de L’UOMO, degli effetti
distruttivi che le tensioni tra le due contrapposte alleanze hanno avuto su aspetti decisivi del campo
antropologico. Il dipartimento del quale è stata, ed è tutt’oggi, espressione è stato a lungo il più
numeroso e, forse, il più importante dipartimento di antropologia del paese (il primo, ad esempio, a
far partire una formazione dottorale). Esso, però, a partire dai primi anni ’90 del secolo scorso, è
divenuto terreno di scontro tra le due alleanze, entrambe significativamente rappresentate proprio
all’interno di quel dipartimento da studiosi di particolare rilievo e indubbio peso accademico. Scontro
che si è inevitabilmente proiettato sulla rivista e sulle sue possibilità di esprimere, anche solo
all’interno dello stesso dipartimento, una linea editoriale e scientifica unitaria. Più lineari, paiono
invece le vicende di due altre riviste, l’Archivio Antropologico Mediterraneo, fondata nel 1998, e Voci,
nata nel 2004, che negli ultimi anni si sono sempre più aperte a contributi di provenienza
accademica e scientifica diversificata, ma che sono state e, in gran parte sono, espressione di
chefferies (quella dei palermitani e quella dei luigiani) che, come detto, costituiscono il nucleo
portante dell’Alleanza del Sud. In maniera in qualche modo speculare, le riviste Ossimori (1992-1998),
Annuario di Antropologia (fondata nel 2001) e Archivio di Etnografia (n.s. dal 2006), sia pur in forme
diverse possono considerarsi espressione di chefferies o singoli docenti legati all’Alleanza del Nord. La
sorte di Etnosistemi (1994-2004), rivista nata come tentativo di costruire uno spazio di pubblicazione
esterno e in qualche modo trasversale alle diverse chefferies, ha finito con il tempo per mutare di
senso, prima, e rallentarsi, dopo, proprio a partire dalle difficoltà di mantenere concreti margini di 23 Significativamente il cambio di Direzione di Lares è coinciso con il passaggio di importanti membri dal gruppo di Bronzini, ristretto e localizzato in alcune università pugliesi e lucane, nella sfera di influenza della chefferie dei ciresiani e, dunque, in quella dell’Alleanza del Nord.
24
autonomia 24. In un simile, frastagliato, frammentato e burrascoso campo disciplinare, la sorte di
Achab, rivista di antropologia nata “nel 2004 dall’iniziativa di alcuni studenti del corso di Laurea
Magistrale in Scienze antropologiche ed etnologiche dell’Università degli Studi di Milano – Bicocca”,
era in qualche misura facilmente prevedibile 25.
Collane
Anche lo spazio delle collane editoriali specificamente dedicato all’antropologia appare molto
frammentato. Ad uno sguardo sommario non meno di 30 case editrici, di vario livello e diversa
importanza nello scenario editoriale nazionale, pubblicano con una qualche sistematicità testi di
antropologia 26. Tra queste, oltre 20 hanno collane dedicate all’antropologia, quasi sempre dirette da
singoli studiosi appartenenti al campo disciplinare. Nella maggior parte dei casi non si tratta di
collane che adottano il sistema della (blind) peer review - sistema che solo di recente e sulla spinta
dell’introduzione di sistemi di valutazione nazionale della ricerca alcune case editrici sembrano aver
adottato – preferendo delegare ai direttori la scelta dei testi da pubblicare e proponendo, in alcuni
casi, agli autori contratti che prevedono il pagamento di (rilevanti) contributi monetari alla stampa.
La centralità e il ruolo pressoché egemonico esercitato dai direttori delle collane sono indici sia della
personalizzazione del campo editoriale, con la conseguente proliferazione di collane (di fatto ve ne è
una per ogni 8/9 antropologi strutturati), sia del suo strutturarsi lungo linee coerenti con le
partizioni del campo accademico. Considerando, infatti, l’affiliazione dei singoli direttori alle diverse
chefferies e, quindi, alle differenti alleanze, si nota come le collane si distribuiscano in maniera eguale
tra quella del Nord e quella del Sud. Altro dato di un certo rilievo è che la percentuale di libri di
antropologia nei cataloghi dei principali editori italiani resta comunque minima, non superando mai l’
1,5%, ed aggirandosi di media intorno a valori spesso di molto inferiori all’1%. Delle principali case
editrici nazionali, poi, solo Laterza e Sellerio hanno delle specifiche collane di antropologia, mentre Il
Mulino, Feltrinelli, Bollati Boringhieri, Einaudi non hanno né collane, né antropologi formalmente
incaricati di seguirle, preferendo o delegare ad altre competenze la scelta dei testi antropologici da
pubblicare (come ad esempio fa il Mulino), o basarsi piuttosto su reti di conoscenze informali (Bollati
Boringhieri, Feltrinelli, Einaudi). Siamo dunque in presenza di un campo accademico che produce
anche nello spazio editoriale specialistico una forte parcellizzazione e che, riproducendo in esso le
proprie linee di tensione, sembra volersi condannare ad un pulviscolare marginalità. Anche quando
gli antropologi accedono ad ambiti di pubblicazione di sicura rilevanza nazionale tendono, del resto, a
saturarli con pratiche abitudinarie diverse da quelle che governano il mercato editoriale scientifico in
24 Insieme a Flavia Cuturi, Mariano Pavanello, Leonardo Piasere, Giovanni Pizza e Fabio Viti sono stato uno degli iniziatori di Etnosistemi, rivista cui ho partecipato dal 1994 al 1999. 25 Citazione presa dal profilo facebook della rivista. 26 Un elenco anche solo approssimativo dovrebbe comprendere (in corsivo gli editori con specifiche collane antropologiche): Il Mulino, Bollati Boringhieri, Einaudi, Feltrinelli, Carocci, Bruno Mondadori, Jaca Book, UTET, Aracne, Raffaello Cortina, F. Angeli, Meltemi, Pacini, Clueb, Guaraldi, Mimesis, SEID, Dedalo, Liguori, Laterza, Sellerio, Armando, Argo, Morlacchi, Besa, CUEC, Pensa, Rubettino, Patròn, UNICOPLI, CISU, Bonanno.
25
contesti internazionali. Prendiamo, ad esempio, due collane di antropologia, “Percorsi – Antropologia”
dell’editore Laterza e “Antropologia Culturale” dell’editore Armando, “cencellianamente” riferibili alle
due alleanze contrapposte. Si tratta di due collane importanti nel panorama nazionale degli studi
antropologici, all’interno delle quali sono stati pubblicati lavori di sicuro spessore scientifico. Detto
ciò, se proviamo a leggere i volumi in esse pubblicati a partire dalla collocazione accademica degli
autori, in relazione a quella del direttore della collana, emergono elementi di riflessione di un qualche
interesse. La prestigiosa collana di Laterza, diretta da Francesco Remotti, presenta 16 titoli 27. Di
questi, 2 volumi sono dello stesso Remotti, 9 sono scritti da suoi allievi diretti, 2 da studiosi che
hanno con lui conseguito il dottorato o che lavorano nel suo stesso dipartimento, 1 da una persona
che, insieme al direttore della collana, partecipa di una fondazione torinese dedicata allo studio della
morte, 2 da antropologi non direttamente connessi con lo stesso Remotti, ma il cui posizionamento
accademico non è (stato) mai distante dal suo. Una collana prestigiosa, dunque, nella quale sono stati
pubblicati lavori antropologici importanti, la quale, però, nel contempo si declina in termini quasi del
tutto autarchicamente torinesi.
La collana “Antropologia Culturale” dell’editore Armando, anch’essa caratterizzata da lavori di
significativa rilevanza scientifica, ha una storia più articolata e dunque presenta, rispetto a quella di
Laterza, un maggior numero di volumi pubblicati (39) e una più complessa composizione. La nuova
serie della collana è diretta oggi da Luigi M. Lombardi Satriani, punto di riferimento, come abbiamo
visto, di un propria chefferie e dell’intera Alleanza del Sud. All’interno di tale schieramento, come
detto, troviamo accorpati frammenti di quelli che erano stati, fino agli inizi del secolo corrente,
chefferies autonome; in particolare nelle file dei luigiani si aggregano studiosi legati, in passato, ad
un’altra importante figura dell’antropologia culturale italiana, Tullio Tentori che, appunto, nel 1990
fonda e dirige la collana in questione. Se cerchiamo di esplicitare l’afferenza accademica degli autori
pubblicati nella collana, possiamo constatare come, insieme ad alcune importanti traduzioni di
antropologi stranieri, 16 tra i libri di autori italiani sono direttamente legati all’attuale curatore, 2 lo
sono solo in maniera indiretta, mentre 12 sono testi scritti da studiosi connessi con la figura di
Tentori. Anche in questo caso, quindi, il campo accademico con i suoi schieramenti gioca un ruolo
decisivo nel determinare forme e contenuti del campo intellettuale e della sua organizzazione 28.
27 Altri libri di antropologia sono pubblicati dallo stesso editore al di fuori della collana: oltre ad importanti traduzioni di autori classici e ad alcuni testi più antichi di studiosi italiani, spiccano alcuni volumi dello stesso Remotti, capaci di suscitare gli interessi di un pubblico più vasto di quello specialistico e di produrre dibattiti culturali di ampio respiro nella cultura pubblica nazionale. 28 Può non essere inutile ricordare che le quattro monografie da me fino ad ora pubblicate sono state edite, in ordine cronologico, nella collana di Antropologia Culturale e Sociale di Franco Angeli, fondata e diretta, in quegli anni, da Bernardo Bernardi (1991, Madre Madrina), professore alla Sapienza di Roma; nella collana Mnemosyne dell’editore Argo (1997, Identità nel tempo), diretta da Stefano De Matteis, (all’epoca studioso non strutturato in accademia e comunque di formazione “italiana” lontana dalla mia); nella collana Argonauti, dell’editore Meltemi, diretta nel 2003 da Luigi M. Lombardi Satriani (L’Unesco e il campanile) e infine (2009, Politiche dell’inquietudine) nella serie Saggi dell’editore Le Lettere. Ho cercato, in alcuni casi, contatti con editori diversi (Il Mulino, Laterza, Raffaello Cortina) ma i manoscritti non sono nemmeno stati letti dai diversi curatori o dai responsabili editoriali delle collane (men che mai da lettori anonimi), i quali hanno comunque espresso un parere negativo attraverso la lettura di una breve scheda di proposta. In ogni caso nessuna delle sedi in cui ho alla fine pubblicato i miei libri era connessa con quelli che potevano essere, all’epoca delle rispettive pubblicazioni, miei (ipotizzabili) posizionamenti nel campo accademico.
26
Concorsi
In un interessante articolo David Moss (2012) ha recentemente comparato i concorsi
universitari italiani (con particolare riferimento a quelli del settore antropologico) ai combattimenti
di galli studiati da Geertz a Bali. La sua attenta ricostruzione, in parte auto etnografica, delle
procedure e delle modalità di reclutamento e di avanzamento di carriera in antropologia dal 1999 al
2010 riesce a cogliere importanti aspetti del sistema concorsuale proprio dell’accademia italiana nel
periodo considerato. Il carattere mai “neutro”, mai socialmente asettico dello spazio concorsuale
(Moss 2012; 221); la presenza di quelli che chiama “stili differenti” nella pratica antropologica
obbligati a costruire, all’interno del meccanismo dei concorsi, una “coesistenza pacifica” (ibid.: 228) o
l’esistenza di “consultazioni” e riunioni tra generici gruppi di “Antropologi Senior” prima di alcune
tornate concorsuali (ibid.: 225), sono tutti aspetti della logica dei concorsi che rinviano, sia pur in
forma non esplicita e oggettivante, a tratti del campo accademico antropologico fin qui presi in
considerazione. Se affianchiamo alle attente osservazioni di Moss una lettura degli esiti dei concorsi
tenutisi in antropologia tra il 1999 e il 2008 che faccia proprie le partizioni native in cui ci è apparso
organizzato il campo dell’antropologia accademica, mi sembra possibile cogliere ulteriori dimensioni
del suo funzionamento.
Un primo dato, già segnalato da Moss (2012: 221-222), riguarda la forza del principio del
genius loci in base al quale il candidato dell’Università che ha bandito il concorso risulta comunque
vincitore. Nei 17 concorsi per professore ordinario banditi in antropologia, il candidato locale è
risultato sempre vincitore, mentre solo in un caso, tra i 24 concorsi per professore associato, questo
non è avvenuto. Tra gli 86 concorsi per ricercatore il candidato locale ha vinto sempre, salvo in un
caso. Al di la di questo dato, comunque interessante, e al di là degli aspetti performativi propri
dell’evento concorsuale analizzati da Moss, se si considerano gli esiti dei concorsi nella loro globalità,
appare evidente come le coalizioni (le alleanze tra chefferies) siano (state) in grado di produrre effetti
sistemici e strutturali. Questo è avvenuto, in buona parte, anche a prescindere dal meccanismo
concorsuale in vigore. Dopo l’ultimo “concorsone” nazionale del 1997 (per professori di II fascia), che
in antropologia aveva visto un “accordo” trasversale tra le diverse chefferies, o meglio, con più
precisione, tra un gruppo ristretto di “big men”, capace di garantire una equilibrata ripartizione dei
vincitori tra quelli che Moss (cit.: 228) chiama “stili diversi di ricerca antropologica”, i concorsi
espletati tra 1999 e il 2001 (con un’appendice nel 2004) si sono basati su un meccanismo di
formazione delle commissioni diverso da quello vigente in precedenza; tale meccanismo è stato poi
ulteriormente modificato per i concorsi espletati tra il 2002 e il 2008 e, infine, abbandonato con
l’introduzione dell’Abilitazione Scientifica Nazionale 29. Tra il 1999 e il 2008 le commissioni per un
posto da professore (associato e ordinario) dovevano essere composte da cinque membri (fino al 2001
29 Proprio la fine della “grande alleanza” stabilita tra alcuni importanti “big man” prima del concorso del 1997 può essere considerata il momento iniziale dello scenario qui descritto, scenario in qualche misura ancora oggi vigente. Sull’origine di una simile rottura corrono, nel campo, varie voci la cui analisi esula dagli obiettivi di questo scritto.
27
tre ordinari e due associati, per i posti di II fascia, tutti ordinari per i posti di I fascia; solo e
comunque ordinari dopo il 2001). Se uno dei cinque membri era nominato dall’Università che aveva
bandito il posto, in qualità di membro interno, gli altri quattro venivano invece eletti (fino al 2001) o
sorteggiati (a partire dal 2002). Analoghi il meccanismo e la sua vicenda storica per i concorsi di
ricercatore, nei quali, però, i membri della commissione erano solo tre (in rappresentanza di ciascuna
fascia di docenza, fino al 2001, solo ordinari dopo il 2002), con un membro interno, e due membri
eletti (1999-2001) o sorteggiati (2002-2008). Per avere un’idea corretta del quadro, va inoltre
aggiunto che mentre per i posti di ricercatore poteva esservi un solo vincitore, per i posti da
ordinario e da associato i vincitori possibili erano tre (fino al 2001) o comunque due (tra il 2001 e il
2008). Nel caso delle procedure con elezione dei 4/5 (o dei 2/3) della commissione, il peso esercitato
dalle chefferies e delle alleanze è, anche intuitivamente, evidente. Il membro interno veniva sempre
determinato dalla sede che chiamava e, quindi, dal big man (o woman) in carica in essa o capace di
esercitare su di essa la propria influenza. Poteva quindi essere o lo stesso big man di riferimento o, in
sua assenza, qualcuno che ne sostenesse gli interessi. L’affiliazione del membro interno ad una
chefferie e, quindi, ad un’alleanza creava, per la coalizione di riferimento, una situazione di vantaggio,
potendo concentrare i voti a propria disposizione sull’elezione di due soli altri commissari; al
contrario l’altra coalizione, qualora avesse avuto intenzione di controllare il concorso avrebbe dovuto
poco realisticamente sperare di ottenere voti sufficienti ad eleggere tre propri commissari. Le alleanze
quindi si concentravano sui concorsi nelle “proprie” sedi, dove erano abbastanza sicure di ottenere
una maggioranza, e spesso, ma non sempre, sceglievano di lasciar scoperte quelle in cui sarebbero
sicuramente state minoranza. In alcuni casi – quando ad esempio si pensava di poter sostenere, da
minoranza, un certo candidato, o quando si riteneva di dover andare a dar fastidio alla coalizione
avversa – si sceglieva, invece, di far eleggere due docenti della propria parte, di modo da avere
quantomeno una minoranza di 2/5 capace di ottenere (almeno) uno dei tre (o due) idoneati.
Il quasi meccanico costituirsi delle maggioranza su base di adesione a chefferies e coalizioni
ha prodotto, in effetti, esiti strutturalmente rilevanti. Se si prendono in considerazione i concorsi per
professore basati sull’elezione della commissione, si può facilmente notare come al colorarsi (ad
esempio di rosso e di blu) dei componenti le commissioni sulla base del loro partecipare dell’orbita
dell’una o dell’altra alleanza (rossa quella del sud / blu quella del nord), corrisponda una simmetrica
colorazione degli idonei. Si tratta, evidentemente, di un’analisi molto grezza ed elementare che non
riesce nemmeno a sfiorare la complessità delle dinamiche, delle contrattazioni e dei rapporti personali
che ogni singolo professore (sia ordinario, sia associato), al di là del suo orbitare in una o nell’altra
sfera di influenza in cui di divide lo scenario dell’antropologia accademica, riesce a mettere in moto
per giocare le proprie carte in uno simile, competitivo (stanti le sue regole) e certo conflittuale
campo di forze. Quel che qui mi interessa, però, non è analizzare con attenzione le molteplici
strategie attraverso le quali singoli individui tentano di controllare, riuscendovi in maniera
proporzionale alla loro forza accademica, i meccanismi della riproduzione disciplinare. Piuttosto sono
28
interessato comprendere se, e come, big men, chefferies e alleanze, al di là delle capacità tattiche e
strategiche dei singoli giocatori coinvolti nel campo accademico, in un arco di tempo ristretto (1999-
2008) riescono a plasmare il quadro globale della riproduzione disciplinare 30. Il quadro fornito dagli
esiti dei concorsi costituisce, in effetti, un buon banco di prova.
TABELLA N. 7a: rapporto affiliazione membri di commissione / affiliazione idonei nei concorsi di I fascia (elaborazione dati CINECA)
Legenda: in corsivo: candidato locale / membro interno rosso: candidato / commissario alleanza del sud blu: candidato / commissario alleanza del nord verde: candidato / commissario ambivalenti nero: candidato / commissario non allineato CON VOTAZIONI
Anno Sede Idonei Commissari
1999 S A, B, C 1, 2, 3, 4, 5
2000 B. A, B, C 1, 2, 3, 4, 5
2000 C. (A), B, C 1, 2, 3, 4, 5
2000 P. A, B, C 1, 2, 3, 4, 5
2000 R. A, B, C 1, 2, 3, 4, 5
2000 S1. A, B, C 1, 2, 3, 4, 5
2000 S2. A, B, C 1, 2, 3, 4, 5
2001 U. A, B 1, 2, 3, 4, 5
2001 S. A, B 1, 2, 3, 4. 5
2004 N. A, B 1, 2, 3, 4, 5
CON SORTEGGIO
2002 G. A, B 1, 2, 3, 4, 5
2003 F. A, B 1, 2, 3, 4, 5
2008 B. A, B 1, 2, 3, 4, 5
2008 C. A 1, 2, 3, 4, 5
2008 M. A, B 1, 2, 3, 4, 5.
2008 S. A, B 1, 2, 3, 4, 5
2008 M. A, B 1, 2, 3, 4, 5
TABELLA N. 7b: rapporto affiliazione membri di commissione / affiliazione idonei nei concorsi di II fascia (elaborazione dati CINECA)
30 Un’analisi attenta delle capacità strategiche dei diversi attori sociali, con particolare riferimento al campo antropologico è, come detto, in Moss 2012. Per analisi concernenti altri settori, cfr. Romanelli 1990, 1991, 2000, Checchi 1999, Palermo 2010.
29
ASSOCIATI: CON VOTAZIONE:
Anno Sede Idonei Commissari
1999 T. A, B, C 1, 2, 3, 4, 5
1999 A. A, B, C 1, 2, 3, 4, 5
2000 F. A, B, C 1, 2, 3, 4 5
2000 B. A, B, C 1, 2, 3, 4, 5
2000 C. A, B, C 1, 2, 3, 4, 5
2001 S. A, B 1, 2, 3, 4, 5
2001 T. A, B 1, 2, 3, 4, 5
2002 P. A, B 1, 2, 3, 4, 5
2002 B. A, B 1, 2, 3, 4, 5
2002 M. A, B 1, 2, 3, 4, 5
2002 P. A, B 1, 2, 3, 4, 5
2003 C.. A, B 1, 2, 3, 4, 5
2003 C. A, B 1, 2, 3, 4, 5
2003 P. A, B 1, 2, 3, 4, 5
2004 S. A, B 1, 2, 3, 4, 5
2004 M. A, B 1, 2, 3, 4, 5
2004 N. A, B 1, 2, 3, 4, 5
2004 R. A, B 1, 2, 3, 4, 4
2005 M. A, B 1, 2, 3, 4, 5
CON SORTEGGIO
Anno Sede Idonei Commissari
2008 S. A, B 1, 2, 3. 4, 5
2008 R. A, B 1, 2, 3, 4, 5
2008 M. A, B 1, 2, 3, 4, 5
2008 C. A, B 1, 2, 3, 4, 5
2008 B1. A, B 1, 2, 3, 4, 5
2008 B2. A, B 1, 2, 3, 4, 5
Nella quasi totalità dei concorsi presi in considerazione, oltre alla sistematica vincita di
almeno un candidato locale – che non si verifica in 2 soli concorsi su 42, assistiamo ad un altrettanto
strutturale predominio della maggioranza venutasi a creare, sia attraverso il meccanismo della
30
votazione, sia anche attraverso quello del sorteggio. In 30 casi su 42 i candidati idoneati sono tutti
omogeneamente ascrivibili alla coalizione dominante nella commissione, Nei restanti 12, in 5 concorsi
gli idoneati riflettono sia la coalizione di maggioranza, sia quella di minoranza all’interno della
commissione; negli altri 7, almeno uno dei candidati risultati idonei non risulta ascrivibile a nessuna
alleanza 31 Una conferma della tenuta strutturale del sistema di alleanze e coalizioni è data dal fatto
che, anche nel caso in cui si abbiano delle forti tensioni in seno alla commissione, arrivando fino alla
rottura di alleanze interne ad una coalizione, queste si producono intorno a candidati che comunque
a quella coalizione fanno riferimento (è il caso, ad esempio, del concorso per ordinario 2008 B, dove
vincono due candidati riferibili all’ allenza del nord, anche se poi nella commissione si assiste allo
scontro proprio di due big men di chefferies schierate in quella coalizione). O anche dal fatto che
laddove la composizione della commissione risulta particolarmente frammentaria (come nel caso del
concorso da ordinario S 2008), i risultati aprono il fianco a complesse contestazioni extra
concorsuali. In soli 6 concorsi su 42, comunque, uno dei candidati idonei non sembra riferibile a
nessuno degli schieramenti operanti nel campo e rappresentati in commissione.
Il quadro si irrigidisce ulteriormente se si guardano i concorsi per ricercatore che,
prevedendo un solo vincitore, ribadiscono sia la regola del genius loci, sia quella della supremazia
della maggioranza. In questa fascia su 84 concorsi solo in un caso, probabilmente, l’esito non è stato
quello che ci si sarebbe potuti attendere osservando la composizione della commissione.
6. Eppur si muove
Fin qui, adottando la finzione di una narrativa etnografica old fashioned, ho cercato di
mettere in atto una oggettivazione di quelle che, sulla base della mia partecipazione “nativa” (Narayan
1993) al campo accademico dell’antropologia italiana, ritengo essere le sue principali linee di
organizzazione e di tensione. Nel far questo ho volutamente tenuto fuori la dimensione più
specificamente scientifico-culturale (i contenuti disciplinari, le ricerche svolte, le metodologie,
l’aggiornamento, le specificità intellettuali delle tradizioni di studio nazionali e le aperture
internazionali), scegliendo invece di soffermarmi sugli effettivi quadri istituzionali di produzione del
sapere scientifico. Diverse sono le ragioni di una simile scelta. In primo luogo aderisco all’idea che
l’organizzazione dello spazio accademico abbia la capacità di condizionare, se non proprio di definire,
in maniera significativa il sapere scientifico che gli appartenenti a quel campo producono, fissandone
le condizioni di legittimità e di verità e stabilendo le regole di un gioco altamente conflittuale
31 Tra i concorsi elencati vi sono anche i due (uno da associato, l’altro da ordinario) nei quali sono risultato idoneo. Nel primo, bandito dall’università dell’Aquila, vi erano 6 candidati, tre dei quali fummo dichiarati idonei. Tra questi il candidato locale e un secondo, legati per formazione alla scuola palermitana, rappresentata in commissione da due autorevoli esponenti, affiancati da un altro studioso afferente all’alleanza del Sud, mentre gli altri due membri erano espressione dell’alleanza del nord. Pur non essendo io direttamente connesso con le rispettive chefferies cui maggioranza e minoranza nella commissione facevano riferimento, il terzo posto di idoneo venne a me attribuito. Il concorso per ordinario, bandito dall’università di Genova vedeva tre candidati. La commissione era formata da un membro designato e due commissari eletti, esponenti di primissimo piano dell’alleanza del nord, da un esponente di rilievo di quella del sud, e da un quinto membro collocato in uno spazio di prossimità con il primo schieramento. L’abilitazione venne concessa oltre che al candidato locale, anche e me, mentre restò escluso il terzo candidato, allievo diretto del membro designato.
31
(Foucault 1972, Bourdieu 1984, Latour 1998). Ritengo, quindi, che il carattere polemologico e
sostanzialmente segmentario del campo accademico antropologico abbia, tra i suoi effetti, quello di
impedire la formazione di spazi istituzionali “neutri” nei quali e attraverso i quali fissare le condizioni
per la produzione di criteri di verità condivisi, comparabili a quelli che, sulla base di campi e
meccanismi certo diversi, operano negli scenari internazionali 32. In assenza di collane editoriali, di
riviste e di associazioni che non siano espressione più o meno diretta di specifici segmenti del campo,
in mancanza di un’abitudine sistematica a seri e consolidati sistemi di valutazione anonima degli
scritti, ogni chefferie, ogni big man, ogni alleanza ritiene – molto spesso in buona fede - di produrre
e riprodurre un sapere pienamente legittimo e, in ultima istanza, più valido di quello prodotto da
altri analoghi segmenti 33. Se Moss (2012) ha potuto utilmente comparare il momento concorsuale –
la parte terminale e in qualche misura ritualizzata del processo accademico in Italia - al
combattimento dei galli studiato da Geertz a Bali, quando osserviamo la produzione di un sapere
antropologico ritenuto legittimo, l’analogia etnografica più utile mi pare essere quella con lo spazio
genealogico-politico della produzione di un sapere storiografico orale tra i lignaggi beduini della
Giordania studiato da Andrew Shryock (1997) 34. Nell’analizzare le basi sociali, le valenze politiche, gli
stili narrativi delle diverse tradizioni orali di gruppi beduini giordani, Shryock (1997: 151-160) parla di
“territori di discorso”: spazi narrativi socialmente localizzati, “privati” e mai “pubblici”, legati
all’autorità politica del narratore e del gruppo agnatico cui questi appartiene, nei quali, fondandosi su
fonti ritenute incontestabilmente superiori a quelle utilizzate in altri e contrapposti territori, si
producono “verità” storiche presentate come inoppugnabili, e quindi inevitabilmente contestate dagli
avversari. Tali “territori” discorsivi sono organizzati in “sfere retoriche” a loro volta centrate sul
prestigio politico di singoli “sceicchi”; sfere che risultano più dense e forti quanto più si è socialmente
vicini agli spazi da questi controllati, facendosi via via meno intense e vincolanti quanto più ci si
allontana socialmente e spazialmente dal singolo sceicco. Lo spazio “storiografico” beduino, dunque,
non è mai neutro, non prevede luoghi socialmente e politicamente non schierati di
narrazione/discussione pubblica, non ammette la possibilità che la “verità storica” non sia inscritta
nella “sfera retorica” prodotta dalla forza di uno sceicco e del suo patrilignaggio. Semplicemente,
laddove tale forza si affievolisce, un’altra inizia a produrre il proprio potere narrativo. Per quanto la
retorica ufficiale adottata nel campo accademico sia quella universalistica della “scienza sociale” (e
questo è un primo, non irrilevante, elemento di diversità tra i due contesti), le condizioni strutturali
32 Fin dal 1990 Bernardi (p. 10) notava il carattere sciovinisticamente conflittuale del campo accademico antropologico in Italia. 33 Diviene qui importante rimarcare come l’assenza di preventivi spazi/momenti/luoghi e modalità di confronto scientifico in spazi istituzionalmente neutri produca, tra gli altri, in coloro che operano nelle commissioni concorsuali un effetto di (legittimo) auto convincimento della correttezza delle proprie scelte. In altri termini non occorre affatto immaginare l’esistenza di “accordi” o “condizionamenti” per render conto dell’efficacia strutturale del meccanismo concorsuale sopra mostrato: semplicemente vincono quei candidati che, facendo riferimento a quell’alleanza o a quella chefferie, praticano stili di ricerca antropologica ritenuti (più) validi (di altri) da quegli specifici commissari in quella particolare contingenza concorsuale. 34 Pietro Clemente, già in uno scritto del 1993 usava la metafora della “tribù” per descrivere il campo degli studi antropologici italiani.
32
di organizzazione del campo stesso, quelle della produzione del sapere e quelle della trasmissione del
capitale accademico finiscono per produrre effetti che ricordano da vicino quelli tipici dei territori
narrativi nei quali si articola e si costruisce il sapere storiografico dei beduini giordani.
Parcellizzazione e scarsa comparabilità / comunicabilità dei saperi, centratura sulla doxa prodotta da
e per la figura dello studioso di riferimento di una chefferie, difficoltà, se non proprio impossibilità,
nel mettere a punto criteri condivisi di valutazione del sapere prodotto, sapere che, di fatto, anche se
non in linea di principio, riceve la sua validità dalla forza accademico-intellettuale del big man al
centro della macchina cultural-accademica di una chefferie o di una alleanza. L’estrema rarità di
dibattiti, anche polemici, la mancanza di recensioni che non siano semplicemente elogiative e/o
interne alla logica delle chefferies, l’assenza di una rivista unitaria, capace (come l’Homme in Francia,
il JRAI nel Regno Unito, l’American Ethnologist e l’American Anthropologist negli USA) di fornire una
visione in qualche modo ufficiale della ricerca svolta, il complementare moltiplicarsi e lo spesso
rapido esaurirsi di riviste espressione delle articolazioni politiche del campo accademico, la gestione
ancora decisamente personalistica degli accessi alle riviste e alle collane editoriali (assenza o solo
timido e talvolta nicodemico utilizzo del sistema dei lettori anonimi), il moltiplicarsi delle
associazioni, il prevalere di logiche d’alleanza nel momento concorsuale, sono tutti tratti che rendono
lo spazio accademico dell’antropologia italiana abbastanza diverso da quello che parrebbe
caratterizzare tradizioni disciplinari più centrali nella scena internazionale e, come detto, per quel che
riguarda le condizioni strutturali di produzione del senso (ma, si noti bene, non per i suoi contenuti),
più simile ai “territori discorsivi” e alle “sfere retoriche” descritte da Shryock in Giordania.
Nonostante questo – e qui emerge un paradosso che disegna il limite dell’analogia appena
proposta e il punto terminale di questo scritto – la produzione scientifica degli antropologi italiani,
soprattutto nel corso degli anni presi in considerazione e in particolar modo quella di studiosi che,
per età anagrafica e/o percorsi individuali, hanno avuto l’opportunità di seguire una formazione
dottorale specifica, appare capace di inserirsi, per qualità e oramai anche sedi di pubblicazione, nei
molteplici scenari disciplinari internazionali. Resta da comprendere come questo sia stato possibile e
come si sia determinata una simile frattura/disgiunzione tra le strutture della produzione e (una
parte non irrilevante) dei suoi prodotti scientifici. E quindi riflettere sulle forme che occorrerebbe
dare ai quadri organizzativi della disciplina se si vuole che una simile disarticolazione possa ridare
vigore e vitalità ad un campo a rischio di estinzione. Ho intenzione di cercare risposte a tali questioni
in una seconda, successiva, parte di questo mio lavoro. Nell’attesa non ci resta che leggerli, questi
messaggi lanciati in sorte all’arbitrio delle correnti:
“L’apprenti sorcier qui prend le risque de s’intéresser à la sorcellerie indigène et à ses fétiches, au lieu d’aller chercher sous de lointains tropiques les charmes rassurants d’une magie exotique, doit s’attendre à voir se retourner contre lui la violence qu’il a déchaînée” 35,
“Qui n’a plus qu’un moment à vivre n’a plus rien à dissimuler” 36.
35 Bourdieu 1984
33
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36 Quinault 1676
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Berardino Palumbo Università di Messina Dipartimento di Scienze Umane e Sociali Via Bivona s.n. 98122 Messina [email protected]