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 Innovare con la tecnologia: aspetti di sistema nell’organizzazione-scuola Pier Cesare Rivoltella, Università Cattolica di Milano, Presidente SIREM Question: How do you eat an elephant?  Answer: A p iece at a t ime Introduciamo la nostra analisi con due precisazioni che riteniamo ne possano favorire la corretta ricezione. La prima è relativa al punto di vista a partire dal quale il presente contributo intende riflettere sul problema dell’innovazione tecnologica e cioè quello dell’istituzione scolastica. Si tratta della prospettiva del dirigente, o comunque di chi nella scuola opera e incontra il problema di come organizzare il proprio intervento affinché la tecnologia trovi spazio e faccia la differenza. In questo senso, le policies di sistema, le logiche che muovono le scelte a livello nazionale, pur rimanendo sullo sfondo, non sono direttamente sotto la lente di ingrandimento. Questo asse, diciamo così, organizzativo – è la seconda precisazione - impatta su altre due dimensioni e cioè gli apprendimenti e la formazione degli insegnanti. Quando si cerca di affrontare la questione dell’innovazione nella didattica, infatti, ogni scelta organizzativa automaticamente coinvolge tanto l’apprendimento che la necessità per gli insegnanti di sviluppare competenze adeguate: se opto per l’introduzione della LIM in classe, inevitabilmente richiedo all’insegnante un training che lo renda capace di farne uso nella sua didattica e immagino (auspico) che quest’uso produca qualche effetto sul modo di apprendere degli studenti. Con queste due attenzioni sullo sfondo ci accingiamo a descrivere il nostro percorso di riflessione che sarà scandito in quattro passaggi. Muoveremo da una definizione dei termini in gioco (1); poi passeremo a presentare i principali modelli attraverso i quali è possibile spiegare l’innovazione tecnologica (2). Su questa base cercheremo di comprendere in profondità cosa significhi l’innovazione in questo contesto (3). Infine proveremo a disegnare un piano di azione praticabile per l’innovazione con le tecnologie didattiche nella scuola (4). Definizioni Le due parole-chiave attorno a cui si organizza la nostra riflessione sono “innovazione” e “tecnologia”. Si tratta di termini che spesso compaiono abbinati: l’idea che l’innovazione sia prodotta dalla comparsa e dall’adozione di una nuova tecnologia, infatti, attraversa buona parte delle teorie classiche dell’innovazione. Da queste teorie – pensiamo ad esempio alla prospettiva di Robert Solow (1957) - la tecnologia viene concettualizzata come il residuo dell’analisi economica , ovvero come ciò che rimane quale causa dell’innovazione quando tutti gli altri possibili fattori sono stati esclusi. In buona sostanza, se la produzione è determinata dal capitale, dal lavoro e dal cambiamento tecnologico, restando invariati il capitale e il lavoro, se si verifica un aumento della produzione questo si deve di certo addebitare al cambiamento tecnologico (Flichy, 1996; 22). Nella nostra analisi ci concentriamo sull’innovazione educativa (e di conseguenza sulle tecnologie didattiche). Vediamo in questa prospettiva come le due categorie possano essere definite.  Innovazio ne Quando si parla di innovazione si intende una trasformazione profonda delle pratiche, a livello organizzativo (micro) o sociale (macro), volta a un miglioramento delle stesse in termini di efficienza ed efficacia .

Innovare Con La Tecnologia

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Il testo della relazione di Pier Cesare Rivoltella al Congresso della SIREM di Roma 2010. Il testo è in corso di pubblicazione in un volume a cura di P. Limone.

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Innovare con la tecnologia: aspetti di sistema nell’organizzazione-scuolaPier Cesare Rivoltella, Università Cattolica di Milano, Presidente SIREM

Question: How do you eat an elephant?

 Answer: A piece at a time

Introduciamo la nostra analisi con due precisazioni che riteniamo ne possano favorire la correttaricezione.La prima è relativa al punto di vista a partire dal quale il presente contributo intende riflettere sulproblema dell’innovazione tecnologica e cioè quello dell’istituzione scolastica. Si tratta dellaprospettiva del dirigente, o comunque di chi nella scuola opera e incontra il problema di comeorganizzare il proprio intervento affinché la tecnologia trovi spazio e faccia la differenza. In questosenso, le policies di sistema, le logiche che muovono le scelte a livello nazionale, pur rimanendosullo sfondo, non sono direttamente sotto la lente di ingrandimento.Questo asse, diciamo così, organizzativo – è la seconda precisazione - impatta su altre duedimensioni e cioè gli apprendimenti e la formazione degli insegnanti. Quando si cerca di affrontarela questione dell’innovazione nella didattica, infatti, ogni scelta organizzativa automaticamentecoinvolge tanto l’apprendimento che la necessità per gli insegnanti di sviluppare competenzeadeguate: se opto per l’introduzione della LIM in classe, inevitabilmente richiedo all’insegnante untraining che lo renda capace di farne uso nella sua didattica e immagino (auspico) che quest’usoproduca qualche effetto sul modo di apprendere degli studenti.Con queste due attenzioni sullo sfondo ci accingiamo a descrivere il nostro percorso di riflessioneche sarà scandito in quattro passaggi. Muoveremo da una definizione dei termini in gioco (1); poipasseremo a presentare i principali modelli attraverso i quali è possibile spiegare l’innovazione

tecnologica (2). Su questa base cercheremo di comprendere in profondità cosa significhil’innovazione in questo contesto (3). Infine proveremo a disegnare un piano di azione praticabileper l’innovazione con le tecnologie didattiche nella scuola (4).

Definizioni

Le due parole-chiave attorno a cui si organizza la nostra riflessione sono “innovazione” e“tecnologia”. Si tratta di termini che spesso compaiono abbinati: l’idea che l’innovazione siaprodotta dalla comparsa e dall’adozione di una nuova tecnologia, infatti, attraversa buona partedelle teorie classiche dell’innovazione. Da queste teorie – pensiamo ad esempio alla prospettiva di

Robert Solow (1957) - la tecnologia viene concettualizzata come il residuo dell’analisi economica,ovvero come ciò che rimane quale causa dell’innovazione quando tutti gli altri possibili fattori sonostati esclusi. In buona sostanza, se la produzione è determinata dal capitale, dal lavoro e dalcambiamento tecnologico, restando invariati il capitale e il lavoro, se si verifica un aumento dellaproduzione questo si deve di certo addebitare al cambiamento tecnologico (Flichy, 1996; 22).Nella nostra analisi ci concentriamo sull’innovazione educativa (e di conseguenza sulle tecnologiedidattiche). Vediamo in questa prospettiva come le due categorie possano essere definite.

 Innovazione

Quando si parla di innovazione si intende una trasformazione profonda delle pratiche, a livello

organizzativo (micro) o sociale (macro), volta a un miglioramento delle stesse in termini di

efficienza ed efficacia.

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Una definizione di questo tipo implica almeno tre conseguenze (che neutralizzano altrettanti modisuperficiali di pensare l’innovazione, soprattutto in relazione all’adozione dei nuovi media edell’ICT).In primo luogo la nostra definizione porta a escludere che l’innovazione sia solo una questione diprocedure o protocolli da adottare. Il problema, cioè, non è solo quello di adeguare uno standard

(come avviene all’interno di un certo modo di pensare la certificazione di qualità), quanto piuttostodi verificare se l’adozione del nuovo interviene in profondità sulle pratiche all’internodell’organizzazione. Quindi una scuola “certificata” non è per ciò stesso una scuola innovativa: èsolo una scuola che ha trovato il modo di rispondere alle richieste che uno standard di qualità leimpone. Che questo impatti sulle sue pratiche innovandole o rimanga un puro adempimento formaleè una questione aperta.In seconda istanza l’innovazione non è una questione di strumenti. Si può attrezzare un ambientecon le tecnologie più recenti e non promuovere la minima innovazione all’interno di quell’ambiente.Se la classe in cui opero appartiene a una wireless area, appesa al muro ho una LIM di ultimagenerazione, tutti i miei studenti dispongono di un laptop (o di un I-pad), non è detto che le miepratiche didattiche per ciò stesso miracolosamente si debbano adeguare al nuovo intercettandolo. Io

posso continuare a tracciare scarabocchi sulla lavagna (ora interattiva e digitale) mentre facciolezione, chiedere ai miei allievi di prendere appunti praticamente sotto dettatura (certo, magari nonpiù sulla carta), far aprire il libro digitale a pagina tale e leggere ad alta voce. Il nuovo non“contagia” le pratiche tradizionali producendo il cambiamento in maniera virale, come i sostenitoridel modello epidemiologico della propagazione per contatto pensano; al contrario è più probabileche siano le pratiche tradizionali a impadronirsi dei nuovi strumenti piegandoli a usi conformirispetto a quelli da sempre conosciuti e praticati.Da quest’ultima osservazione discende il terzo rilievo, ovvero l’invito a non confonderel’innovazione con il cambiamento. Cambiare – cioè, ad esempio, modificare il setting dell’aula,introdurre nuovi strumenti, sostituire il libro cartaceo con nuovi supporti digitali – non significagarantire che dal cambiamento derivi un’effettiva innovazione delle pratiche. Anzi, spesso è vero ilcontrario e cioè che l’organizzazione utilizzi proprio il cambiamento per mascherare la concretaindisponibilità a modificare alcunché. Come Tomasi di Lampedusa fa dire a Tancredi nella partefinale del Gattopardo: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi!”. 

Tecnologia

Per quanto riguarda, invece, la tecnologia, possiamo definirla come un insieme di artefatti,

intenzionalità, progetti, azioni e interazioni, il cui scopo è di produrre una trasformazione

dell’ambiente in funzione dell’uomo.Anche in questo caso – ma questa volta più dal punto di vista teorico che delle implicazioniorganizzative - la definizione impone alcune considerazioni.

In primo luogo essa fa riferimento a una definizione sottrattiva e non sommativia (Galimberti, 1999)del sinolo umano. Come è noto, la concettualizzazione dell’uomo più diffusa in Occidente è quellaaristotelica che lo pensa come animal rationale. Coerente rispetto alla teoria aristotelica delladefinizione, essa riconosce nell’uomo un genere prossimo (animale) che lo accomuna a tutti gli altriesseri del mondo animale (differenziandolo da soggetti appartenenti ad esempio al genere vegetale)e una differenza specifica (la razionalità) che costituisce ciò che all’interno del mondo animalerende l’uomo diverso da tutti i suoi altri appartenenti. In tal senso la definizione aristotelica si puòconsiderare “sommativa”: l’uomo, in questa accezione, è “qualcosa + qualcos’altro”, è animalitàrispetto alla quale la ragione determina la sua irriducibilità rispetto a qualsiasi altro essere. In questomodo, la razionalità diviene un surplus, viene concettualizzata come qualcosa di eccedente rispettoalla natura, aprendo la strada a quella considerazione dialettica tra istinto e ragione, natura e cultura,

su cui un po’ tutta l’antropologia dualista occidentale, dai Greci a Cartesio, si costruirà.Diverso è invece considerare il composto umano in termini sottrattivi. Cosa vuol dire? Per capirlooccorre tornare al mito di Prometeo così come i Greci lo hanno costruito. La vicenda è nota. Gli dei

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assegnano a Prometeo e al fratello Epimeteo il compito di distribuire i loro doni tra tutte le specieviventi. Epimeteo, preso dalla foga, dota gli animali di pellicce per resistere al freddo, di unghie edenti per difendersi e per cacciare, dell’istinto per riconoscere i pericoli e sopravvivere nelledifficoltà. Giunto all’uomo ed esauriti tutti i doni, lo lascia nudo, con una muscolatura fragile, senzazanne e senza artigli. È a questo punto che Prometeo entra in gioco e per mettere riparo all’errore

del fratello ruba agli dei il fuoco per farne dono all’uomo.L’interpretazione classica del mito, quella proposta da Eschilo, privilegia la dimensione teologica.Prometeo, eroe tragico, nella misura in cui invece di accettare il limite entro cui vive, sceglie con unatto di hybris di trasgredirlo (questo è il significato del furto del fuoco), commette ingiustizia ecompromette l’ordine divino delle cose. Solo la sua pena può rimuovere gli effetti della hybris eristabilire l’ordine. E infatti, nel Prometeo incatenato, Eschilo lo consegna a un destino eterno disofferenza, incatenato a una rupe, mentre dei corvi gli dilaniano il fegato: “Ho spartito/ con i mortaliun dono degli dei:/ per questo fui inchiodato al mio deatino./ Cercai la scaturigine segreta/ del fuocoche si cela nel midollo/ della canna, maestro d’ogni arte,/ via che si apre. Questo fu il peccato/ di cuipago la pena/ inchiodato e in catene in faccia al cielo” (Diano, 1980; 88-89).Il saggio di Galimberti evidenzia come si possa condurre una lettura alternativa del mito,

antropologica più che teologica. Esso indicherebbe la natura umana, pienamente umana, dellatecnica (di cui il fuoco è simbolo). Cerchiamo di capire in che senso. Galimberti si appoggiaall’analisi di Gehlen (1984) e fa osservare come, proprio attraverso la lettura attenta del mito diPrometeo, si possa dimostrare che la natura del sinolo umano non è sommativa (come volevaAristotele) ma sottrattiva. L’uomo non è un “animale + qualcosa” (la razionalità), ma un “animale –qualcosa” (l’istinto): la ragione, quindi, svolge nel composto umano, la stessa funzione che l’istintosvolge negli altri animali. Da qui derivano almeno due conseguenze.Anzitutto, a differenza di tutti gli altri animali, l’uomo non si adatta all’ambiente, ma lo trasforma inmodo tale che possa consentirgli di viverci. Questa è la funzione principale della tecnica e dellatecnologia: esse sono ciò attraverso cui l’uomo modifica l’ambiente circostante per renderlofunzionale alla propria esistenza. In questo senso la ragione umana è per definizione strumentale: loè nella misura in cui nella quasi totalità dei casi essa rivela una vocazione trasformativa.Se questo è vero, allora si capisce come la tesi weberiana di una presunta neutralità della tecnologiarispetto al valore, spesso ancora fatta valere, sia da smentire. Non ha senso dire che la tecnologianon è né buona né cattiva e che tutto dipende dall’uso che se ne fa, perché di fatto nel momentostesso in cui viene “inventata” e introdotta lo è già secondo una certa intenzionalità e in vista di unfine determinato.Da ultimo, nella prospettiva di Gehlen, si supera finalmente l’opposizione apparentementeirriducibile tra l’uomo e la tecnologia. L’uomo è tecnologico per definizione: nella misura in cui laragione strumentale lo costituisce strutturalmente, la tecnologia che della ragione strumentale èespressione va considerata parte integrante dell’essenza umana. Così, nel caso delle tecnologie

didattiche, non avrà senso rimpiangere il tempo in cui il maestro insegnava servendosi solo dellapropria voce contrapponendo a questo tempo della relazione autentica con il bambino il tempoattuale in cui la presenza delle tecnologie comporterebbe un ridimensionamento della qualità diquella relazione. Non ha senso perché la voce, nella misura in cui viene piegata a significare daicodici della comunicazione verbale, è già nella sua natura una tecnologia.Veniamo all’altro rilievo che ci sembra importante fare. Nella definizione, la tecnologia vienecompresa certo a partire da dispositivi e artefatti, ma viene sottolineato come essa risulti da uninsieme di questi e di altri fattori che non sono manufatti, ma intenzionalità, azioni, interazioni.Questo, oltre a ribadire il carattere profondamente umano della tecnologia, implica che il quadrosocio-tecnico sia considerato in maniera integrata (Flichy, 1996). Per quadro socio-tecnico siintende l’insieme indissociabile del quadro di funzionamento della tecnologia e del suo quadro

d’uso, contro le tentazioni riduzionistiche tanto della sociologia che della tecnologia. Cerchiamo dispiegarci. Un computer prevede un quadro di funzionamento (ovvero un’architettura e delle regoledi funzionamento) molto complesso: si tratta di fusibili e microprocessori, di periferiche, di

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linguaggio-macchina con cui è stato programmato per montare un sistema operativo e del software.Tutto questo armamentario da ingegneri elettronici e informatici, nell’informatica moderna non sivede. Chi si occupa di questo genere di problemi spiega questo fatto parlando di una perdutatrasparenza della macchina (Turkle, 1997): essa è divenuta opaca, non consente più di vedere al suointerno, non mette sotto gli occhi di chi la usa il meccanismo mentre opera. Questa opacità della

macchina va ricondotta all’ascesa inarrestabile delle interfaccia tattili – la metafora della scrivaniaprima nel Mac e poi in Windows, piuttosto che lo schermo touch di tutti i cellulari di ultimagenerazione – grazie alle quali il quadro di funzionamento si è progressivamente venutoemancipando dal quadro d’uso: quando faccio drag and drop con un file sul mio desktop, stooperando nel quadro d’uso del computer trascinandolo grazie al tasto sinistro del mouse, ma aquesta operazione percettivamente “naturale” corrisponde nel suo quadro di funzionamento unasequenza di comandi complicatissimi che per me sarebbe impossibile dare se stessi operandodirettamente sul quadro di funzionamento.Ora, lo sviluppo dell’informatica recente è stato caratterizzato proprio da questo duplice processo:la complessificazione progressiva dei quadri di funzionamento (tanto che se un dispositivoelettronico si guasta non c’è alternativa a rispedirlo in fabbrica se non di sostituirlo) e la progressiva

semplificazione di quadri d’uso sempre più user friendly. Ma questo fa comprendere molto benecome la macchina e il suo utilizzatore, le pratiche e i dispositivi, siano strettamente interdipendenti:qualsiasi input su una qualsiasi delle due facce del quadro socio-tecnico produce degli effettisull’altra. Occorrerà tenerlo presente quando più avanti parleremo di come l’innovazionetecnologica si possa comprendere e promuovere.

Modelli dell’innovazione

Il rapporto tra tecnologia e innovazione è stato tradizionalmente pensato (anche in relazione alletecnologie didattiche) secondo due modelli che sinteticamente si possono definire come modello delmarket pull e del technological push. È interessante notare come essi siano ancora largamentepresenti nelle retoriche e nelle politiche pubbliche che riguardano il rapporto tra la scuola e latecnologia.

 Il data-base delle intenzioni

Il primo è il modello del market pull (o del pilotaggio della domanda). Secondo questo modellosono i bisogni dei mercati (gusti, richieste, bisogni da indurre, costi da comprimere) a influiresull’introduzione di tecnologia. Basti pensare alla meccanizzazione e a come a frontedell’intenzione dichiarata di liberare tempo all’uomo per prestazioni meno alienanti e più creative,essa si sia spesso tradotta in un dispositivo per incrementare la produzione senza aumentare (o

addirittura riducendo) la forza-lavoro. Oppure, se si parla di bisogni indotti, si ragioni sull’effettivobisogno dei dispositivi mobili, su quanto nella loro introduzione vi sia di risposta ad una realeesigenza di comunicazione delle persone e quanto invece di alimentazione innaturale di una perennetendenza a rimanere in contatto per una semplice motivazione fàtica al di là dei contenuti effettivi diquel che si vuole comunicare. In questa logica è evidente come il mito - nel senso barthesiano deltermine (Barthes, 1994; Rivoltella, 2003) – conti più che la realtà e come il marketing divenga parteintegrante delle strategie politiche e aziendali (Scott, 1997). Questa è la ragione per cui oggi ilvalore è rappresentato dal numero dei contatti, poiché sui loro profili fatti di abitudini, hobbies,tendenze, il mercato si modella. Le corporations che stanno dietro ai principali servizi Web, daTwitter a Facebook , su questo valore hanno costruito le loro quotazioni in borsa. Google, comeBattelle (2006; 17) ha indicato con un’immagine suggestiva, con i suoi 900 milioni di utenti

rappresenta da questo punto di vista un vero e proprio “data-base delle intenzioni”; nei loro profilisono iscritte le mode, le passioni, le linee di sviluppo dell’umanità per il prossimo futuro: «Linkdopo link, click dopo click, la ricerca sta costruendo forse il più durevole, poderoso e significativo

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manufatto culturale nella storia dell’umanità: il Database delle Intenzioni, ovvero il risultatoaggregato di ogni ricerca inserita nel motore, di ogni lista di risultati presentata, e di ogni percorsoseguito sulla base di quei risultati. (…) una storia in tempo reale della cultura post Web».Come si può ben capire, la logica del market pull non è estranea al rapporto della scuola con latecnologia. Pensiamo ad alcuni casi concreti, come ad esempio a quando si adotta un LMS (una

piattaforma e-learning) e si producono contenuti digitali da rendere disponibili in essa agli studentiper bilanciare le carenze di organico (e di fondi) che altrimenti non consentirebbero di attivare corsidi recupero dei debiti scolastici. Ma una logica analoga ha giustificato in tempo recente l’enfasisulla tecnologia in relazione alla scuola in ospedale e ai progetti di educazione domiciliare: dietro laragione ufficiale secondo la quale compito della tecnologia (ad esempio dei sistemi divideoconferenza) sarebbe di garantire al bambino ospedalizzato di rimanere in contato con lapropria classe, si cela di fatto la necessità di comprimere gli organici per far fronte alla più generalenecessità di far dimagrire il comparto dell’impiego pubblico. E ancora, l’adozione di tecnologia inscuola risponde al modello del market pull quando essa intercetta e prova a soddisfare le richiestedei genitori (che chiedono una scuola più al passo con i tempi, maggiormente capace di rispondereai bisogni del mercato delle professioni) o più in generale cerca di stare in modo più efficace nel

mercato della formazione usando la tecnologia come indicatore di qualità e aggiornamento rispettoalla domanda di formazione.Per quanto diffuso e, per certi versi, economicamente funzionale, questo modello produce almenodue problemi.Anzitutto è difficile prevedere a priori la curva della domanda. La riprova evidente di questo fattoviene dalla vexata quaestio dei contenuti digitali. Salutati come una panacea – costano meno, stannosu un e-book o altra piattaforma mobile che serva alla lettura di documenti, risolvono il problema dizaini ingombranti e molto pesanti – non hanno visto fino ad oggi grandi investimenti da parte deglieditori scolastici (se si eccettuano gli sforzi di editori solo digitali come Garamond, o di grandetradizione nella scolastica come Zanichelli e Mondadori). La ragione sta proprio nella sproporzioneesistente tra l’investimento medio che un editore è costretto a fare per progettare un corso informato digitale, e la possibilità di prevedere con ragionevole margine di successo quali saranno lemosse del Ministero, l’accoglienza degli insegnanti, lo sviluppo della tecnologia stessa rispetto aiformati e ai dispositivi. Ma lo stesso problema attanaglia il dirigente scolastico di fronte all’acquistodi tecnologia: dota le classi di I-pad secondo la logica del one-to-one computing e dopo 6 mesiApple immette sul mercato I-pad 2 che rende immediatamente obsoleta la dotazione che solo 6 mesiprima era il top di quanto il mercato potesse mettere a disposizione.Il secondo problema consiste nel fatto che spesso il bisogno, reale o presunto, alimenta profezie chenon sempre si autoavverano. Negli ultimi anni hanno funzionato in questo modo tutte quelleprevisioni che prefiguravano un futuro ineluttabile “fatto” di tecnologie: ne è stato in qualche modol’icona il convegno “Un giorno di scuola nel 2020” organizzato dalla Fondazione per la Scuola

della Compagnia di San Paolo a Torino il 26-27 marzo del 2009.Technology, no more

L’altro modello cui facevamo riferimento è quello del technological push. La prospettiva in questocaso è rovesciata rispetto a quella del modello precedente: è infatti il progresso della scienza a farsviluppare nuove tecnologie che esercitano una pressione su gusti e comportamenti delle personeimponendone il cambiamento. Si tratta di una prospettiva molto diffusa che obbedisce a una logicadeterministica: presuppone, infatti, l’idea che sia sufficiente introdurre tecnologia in un qualsiasicontesto perché la tecnologia, taumaturgicamente, per il semplice fatto di essere presente, producatrasformazioni significative nelle pratiche dei soggetti e negli assetti del contesto. Nel caso dellascuola questo modo di pensare è responsabile della convinzione che introdurre tecnologia in classe

serva a migliorare l’insegnamento, o a potenziare gli apprendimenti ed è alla base di uno dei duesistemi attraverso i quali, anche nel nostro Paese, si è provato negli ultimi venticinque anni aguidare l’innovazione delle pratiche attraverso la tecnologia. Facciamo riferimento alle ripetute

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azioni di sistema – dal primo PSTD del 1985 al recentissimo “Scuola digitale” – mediante le qualisi è provveduto, per ondate successive, ad attrezzate le scuole con i computer piuttosto che con leLIM, al fine di colmarne il gap rispetto agli standard europei.Come si può facilmente comprendere, la relazione tra le tecnologie e l’innovazione è molto piùcomplessa. Come Cantoia (2009) ha ben evidenziato, a fronte della credenza diffusa in base alla

quale con i computer si può fare e sapere tutto e gli insegnanti e gli studenti che adoperano i mediasembrano più competenti e affidabili, occorre sottolineare alcune evidenze che la ricercainternazionale ha fissato negli ultimi anni:- «gli strumenti multimediali non garantiscono necessariamente risultati di apprendimento migliorio diversi, almeno non a livello di comportamento spontaneo»;- «i media tool migliorano l’apprendimento solamente quando a lezione viene proposto uninsegnamento orientato allo studente con un minor controllo da parte dell’insegnante sull’uso dellecomponenti multimediali»;- «la diffusione dei media non corrisponde a una reale conoscenza degli stessi»;- «le capacità attentive non sono influenzate dalle tecnologie in sé, quanto dalle attività chepropongono».

In sintesi, si può dire che le presenza dell’insegnante, gli obiettivi educativi e didattici che neregolano l’uso, l’integrazione delle tecnologie rispetto alle normali pratiche didattiche di classe èciò che decide della incisività dei dispositivi tecnologici rispetto agli apprendimenti. La qualitàdell’insegnamento non è un risultato che le tecnologie possono produrre, quanto piuttosto unaprecondizione che esse richiedono.

Comprendere l’innovazione tecnologica

Le impasse registrate a margine dei due modelli “classici” dell’innovazione tecnologica spingono acomprendere meglio il rapporto che lega l’innovazione con la tecnologia. Lo facciamo ragionandosulle due questioni che ci pare a questo riguardo stiano al centro dell’attenzione e cioè:- come si può correttamente concettualizzare il rapporto tra innovazione tecnologica e scuola al finedi mantenersi distanti dai limiti dei modelli che abbiamo analizzato?- E come si ottiene dalle organizzazioni che assumano l’innovazione tecnologica?

Pensare l’innovazione tecnologica

Alla prima questione si risponde tornando al quadro socio-tecnico di Flichy (1996) ed evidenziandol’importanza di tre elementi.Anzitutto contano le affordances della tecnologia. Il concetto di affordance viene introdotto nel1966 dallo psicologo J.J. Gibson (1979) e poi ripreso da Donald Norman (1995a, 1995b) e, dopo di

lui, da tutti coloro che si occupano di interfacce tecnologiche e di ergonomia cognitiva. In italianoviene per lo più tradotto con “invito” e non fa riferimento né a una proprietà dell’artefatto (comespesso erroneamente si ritiene), né all’attività del suo utilizzatore, ma al sistema di relazioni che sistabiliscono tra l’uno e l’altro. In altre parole: la affordance predispone un artefatto ad essereimpiegato per certi usi e non per altri, ma l’impiego effettivo dipende da quanto l’utilizzatorepercepisce di questo programma d’uso decidendo di tradurlo in atto. Con tutti gli sforziimmaginabili, con un computer non posso fare il caffé, non posso bagnare il mio gelsomino sulterrazzo, non posso fermentare una biére d’abbaye. Ma posso sicuramente impiegarlo in modidiversi da quello che si suppone normale (farci girare del software, navigarci in internet): possofarne un complemento di arredo, usarlo per fermare una porta che sbatte nel mio appartamento,esporlo in un percorso museale sulla storia dell’evoluzione tecnologica.

Qui troviamo un primo aspetto importante: quando si colloca tecnologia in scuola occorre prestareattenzione alle sue affordances. Spesso anche solo la sua collocazione nello spazio non tienepresente di questo aspetto: sistemare lo spazio di proiezione della LIM di fianco alla cattedra

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significa attualizzarne solo le affordances che ne fanno uno strumento di rappresentazionedell’insegnante. Sarebbe molto diverso disporla in fondo alla classe, o adagiarla su un piano dilavoro orizzontale: usi che sono tranquillamente compresi nelle sue affordances.In secondo luogo contano i bisogni che vengono dalle pratiche. La tecnologia è in fondo quello chenoi “ci pensiamo dentro”. Questo significa che se le affordances, pur nella loro natura relazionale,

costituiscono comunque qualcosa che ha a che fare con l’artefatto così come è stato progettato, lepratiche hanno decisamente a che fare con le rappresentazioni, le convinzioni, le esigenze di chi letecnologie le usa. Come i teorici degli Uses and Gratifications sottolineavano a proposito dellatelevisione, il problema non è cosa essa faccia agli spettatori, ma cosa gli spettatori facciano conessa. Si tratta di un aspetto molto importante. Se un insegnante ha fissato nel tempo determinatepratiche, queste saranno determinanti ai fini dell’appropriazione che egli farà di qualsiasi nuovatecnologia potrà accettare di accogliere nel proprio setting d’aula. La ricerca dice che la forza diqueste pratiche è decisamente maggiore di quella che la tecnologia ha di suggerirne di nuove.Si tratta di un secondo punto di attenzione quando si introduce tecnologia in scuola: essa vasostenuta dal punto di vista culturale con una formazione che produca riflessività sulle pratiche;solo modificando quest’ultime si consentirà alla tecnologia di liberare le sue potenzialità (dove si

capisce chiaramente che fare questo significa fare esattamente il contrario di quello chenormalmente ci si aspetta, ovvero che sia la tecnologia a mutare le pratiche).Evidentemente la tecnologia con le sue affordances e le pratiche dei suoi utilizzatori non sonodecontestualizzate: il terzo elemento su cui riflettere è rappresentato dai discorsi sociali cheaccompagnano sia la diffusione della tecnologia che gli usi che se ne possono fare. Nerappresentano un esempio eloquente nel caso della scuola degli ultimi anni i discorsi che hannoaccompagnato la diffusione delle LIM e il costrutto 2.0. In tutti e due i casi, per citare Breton (1995),ci troviamo di fronte a racconti di emancipazione. Il “racconto della LIM” suggerisce che solocollocandola in classe sarà possibile risultare innovativi, motivanti, efficaci, al passo con i tempi.Sostanzialmente lo stesso discorso è soggiacente a tutto ciò che negli ultimi tempi si è fattodiventare 2.0 per sottolinearne l’eccedenza rispetto al vecchio, la proiezione nel futuro, la capacitàdi intercettare il nuovo. Pur comprendendo le ragioni economiche e politiche di chi ha costruito ealimenta questi “racconti”, crediamo che a questo livello occorra innalzare la capacità di letturacritica dei fenomeni; solo quando si riesce ad abbassare l’impatto delle rappresentazioni (tutte leforme di discorsivizzazione sociale lo sono), si favoriscono gli usi e, con essi, l’appropriazione dellatecnologia nelle possibilità fattive che essa dischiude alla didattica.

Guidare l’innovazione tecnologica

Avere presenti le tre logiche cui abbiamo fato cenno nel paragrafo precedente è funzionaleall’analisi delle forme attraverso le quali i contesti organizzativi (e quindi anche la scuola) siappropriano dell’innovazione tecnologica. Per farlo si può tornare alla proposta di Everett Rogers

(1983) che indicava cinque fattori alla base di qualsiasi processo di acquisizione e incorporazionedella tecnologia da parte di un’organizzazione.Il primo fattore è la visibilità. Si tratta naturalmente di una visibilità “informativa”, non percettiva:non si tratta di popolare la scuola di dispositivi, ma di favorire l’ingresso della tecnologia nelmondo rappresentativo e nelle routines discorsive degli insegnanti. Devono “sapere” di tecnologia,anche solo a livello superficiale, devono avere accesso al lessico-base senza del quale la tecnologiarimane un territorio inesplorato, da specialisti.Peraltro, la visibilità da sola non basta. È importante che ad essa si accompagni una percezione di

 facilità. A questo scopo chi introduce la tecnologia in scuola deve individuare un livello di accessominimale, che riduca al massimo le complicazioni. Per l’insegnante è importante percepire quasiuna continuità naturale tra le sue pratiche ordinarie e quelle assistite dalla tecnologia; occorre

ridurre tutto a pochi click, individuare le poche procedure essenziali che consentano l’uso standarddei dispositivi. Ci sarà tempo in seguito, superate le riserve iniziali, per far maturare laconsapevolezza dell’esistenza di livelli più sofisticati d’uso: tutto deve essere molto graduale per

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non spaventare e non autorizzare atteggiamenti di evitamento motivati dalla percezione dellapropria inadeguatezza.Conoscere la tecnologia e comprendere che in fondo adottarla non comporta difficoltàinsormontabili nella consapevolezza dell’insegnante non sono tuttavia ancora elementi sufficienti,soprattutto se dell’adozione non si individua chiaramente il vantaggio relativo. È il classico

problema del rapporto tra costi e benefici: per convincere l’insegnante a modificare le sue pratiche,la tecnologia non può costare più fatica e più tempo rispetto ad esse e in compenso deve potergarantire migliori risultati. Come si capisce si tratta di una questione critica. Infatti chiunque si siaoccupato di tecnologie didattiche sa che esse richiedono normalmente un consistente investimentoiniziale, di tempo ed energie: lo richiedono l’allestimento del setting, la familiarizzazione con glistrumenti, la produzione dei contenuti digitali, la dilatazione del tempo-aula oltre i limiti dellalezione (Ardizzone, Rivoltella, 2002). Ma a fronte di questo investimento, la creazione di unarepository di contenuti, magari condivisi con i colleghi, abbatte poi i tempi della preparazione delladidattica; quest’ultima si presta più facilmente alla personalizzazione da parte dello studente; neguadagnano un po’ tutte le attività dell’insegnante. Il difficile è far accettare di spendere subito perguadagnare in seguito, soprattutto se si pensa agli attuali diffusi livelli di frustrazione e

demotivazione della nostra classe-docente.Il quarto elemento è la reversibilità. Mai dare l’impressione che indietro non si possa tornare. Èimportante che l’insegnante percepisca che l’innovazione è un processo fluido, non deterministico,che prevede movimenti in avanti ma anche possibili stop o ritorni all’indietro. Far percepire chetutto è ineluttabile e che una volta partiti indietro non si torna potrebbe spaventare e convincere chein fondo è meglio assestarsi su quel che è conosciuto piuttosto che avventurarsi in territori di cuinon si controllano confini e possibilità.Tutti gli elementi cui abbiamo fatto cenno finora sono individuali, riguardano il singolo dentrol’organizzazione. L’ultimo elemento, invece, è collettivo: esso riguarda i valori del gruppo cui sitratta di far adottare la tecnologia. Se il gruppo è conservatore, se è convinto che la Cultura siaquella del libro e che i media siano solo fonte di distrazione, perdita di tempo, ostacoloall’approfondimento serio delle questioni, sarà difficilissimo per la tecnologia far breccia, anche afronte di una diffusa accoglienza dei precedenti fattori a livello di singoli individui. Il cambiamento,quindi, deve diventare organizzativo e investire in primo luogo proprio la culturadell’organizzazione nel suo complesso.

Per concludere. Un piano di azione

I cinque punti di Rogers costituiscono già, a loro modo, una piccola road-map per il dirigente cheintenda spingere l’innovazione tecnologica nella sua scuola. In questo paragrafo conclusivo

cerchiamo di tradurre in azioni concrete questa road-map individuandone almeno quattro versanti:formativo, didattico, gestionale e tecnologico.

Formazione

Sul piano della formazione si tratta anzitutto di definire un frame di competenze da far sviluppareagli insegnanti. Da quasi due decenni questa prospettiva è stata assunta a livello europeo nellalogica di una certificazione che in qualche modo potesse riprendere, adattandolo alle competenzetecnologiche dell’insegnante, il modello dell’ECDL (Midoro, 2007; Calvani, Fini, Ranieri, 2010). Illimite di tutti i progetti che in questa linea si sono incamminati è stato quello di funzionaretassonomicamente, senza verificare la sostenibilità concreta di modelli eccessivamente analitici eburocratizzati. Più di recente, si sono fatti strada altri approcci, basati su ricerche che sono andate a

verificare sul campo le reali esigenze e competenze agite dagli insegnanti (Cattaneo, Boldrini, 2007;Fantin, Rivoltella, 2011). Qui l’obiettivo è probabilmente di bilanciare le due istanze, mettendo inequilibrio le esigenze della certificazione possibilmente secondo standard, con le pratiche effettive

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degli insegnanti in contesto. Ma soprattutto si tratta di non sprecare ancora una volta l’occasione diporre la questione in relazione alla formazione iniziale degli insegnanti, ai nastri di partenza con lenuove lauree in Scienze della Formazione Primaria e i percorsi di formazione per gli insegnantidella Secondaria.Proprio in tale prospettiva ci pare strategico non ridurre il problema alle competenze tecnologiche.

La ricerca internazionale in materia di Media Literacy, così come i documenti ufficiali dellaComunità Europea, hanno evidenziato l’importanza per la scuola di adottare i linguaggi dell’oggifacendone oggetto di intervento a tre livelli: alfabetico (conoscenza degli strumenti e dei codici),critico (capacità di riflessione critica sui contenuti), espressivo (produzione responsabile dimessaggi). Dalla capacità di organizzare il curricolo mediale a questi tre livelli dipende in largaparte la possibilità di leggere le culture giovanili garantendo ad esse ospitalità nella didattica(Jenkins, 2010).

 Didattica

Sul piano della didattica l’analisi si può organizzare lungo tre assi di oscillazione. Il primo è relativoalla continuità tra formale e informale. La diffusione della pratiche di social networking, più in

generale la diffusione dei media digitali nella vita quotidiana dei soggetti, fa sì che attraverso di essipassino buona parte delle esperienze di apprendimento. I ragazzi di oggi apprendono videogiocando,scambiandosi contenuti digitali, negoziando significati in rete: per la scuola è di fondamentaleimportanza intercettare queste modalità, creare le condizioni perché possano trovare cittadinanzaanche in classe. Se i dispositivi e le pratiche del tempo libero sono gli stessi dispositivi e le stessepratiche che regolano in scuola gli apprendimenti formali, si riduce il gap culturale che invecerischia di allontanare sempre di più i due tipi di contesto.Un secondo asse di oscillazione è quello di individuale-collaborativo. La nostra tradizione didatticaè largamente improntata a un approccio individuale alla conoscenza e al lavoro scolastico: è pocofrequente il lavoro di gruppo come metodo di lavoro, l’apprendimento è normalmenteconcettualizzato come appropriazione individuale dei contenuti (lo studio domestico), la stessavalutazione è sempre individuale, tanto è vero che quando si ricorra a prove collaborative nascesempre il problema di come valutarle e spesso si tende a riconoscere ad esse un peso diverso. Farespazio ai media e alle tecnologie significa correggere sostanzialmente questo tipo di approccio: lacentralità della didattica laboratoriale, l’importanza della dimensione realizzativa (fare media inclasse), la necessità di valutare il processo e non solo il prodotto, spingono a una profondaridefinizione delle pratiche didattiche e valutative.Infine, sull’asse autoistruzione-costruzione, va sfatata l’idea secondo la quale i più giovanisarebbero espertissimi di media e tecnologie, tanto esperti da rendere superfluo il compito dellascuola al riguardo. Su questo punto va fatta chiarezza. Certo, per ovvie ragioni non ultima la“vicinanza generazionale” dei media digitali e sociali, bambini e adolescenti dimostrano una grande

naturalità nell’approccio ai dispositivi, ma questa naturalità non configura per ciò stesso unacompetenza elevata. Al contrario è facile accorgersi di come anche solo a livello di conoscenze deicodici di linguaggio sia necessario un intervento di formazione: la cittadinanza digitale non èqualcosa che si determini da sé, ma richiede l’azione educativa dell’adulto come sempre è accadutonelle diverse epoche quando una società si è trovata di fronte al problema di socializzare le nuovegenerazioni ai valori di essa costitutivi (Rivoltella, 2008).

Organizzazione

Il discorso sul management digitale, ovvero su come la diffusione dei media tool fornisca oggi alleorganizzazioni nuovi e importanti strumenti, potrebbe essere lungo. Ci limitiamo a indicare solo dueaspetti che ci sembrano di particolare rilevanza.

Anzitutto la complessità crescente dei sistemi organizzativi e la centralità che in essi la conoscenzae la sua gestione vanno sempre più assumendo configura come decisiva la questione di comeorganizzare i flussi documentali. Da questo punto di vista si può dire si sia entrati in un Knowledge

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Management di seconda generazione (Rivoltella, 2010a) nell’ambito del quale il problema nonconsiste più nella tecnologia (come era il caso delle intranet aziendali nel KM di prima generazione),quanto piuttosto nelle operazioni che attraverso di essa è possibile guidare in funzione di una piùrazionale possibilità di costruzione, accesso e recupero delle informazioni. In questa direzionemeritano di essere ricordate almeno due linee di ricerca e sviluppo: l’impiego delle Web Ontologies

come supporto alla selezione intelligente della conoscenza (Rivoltella, 2010b) e l’adozione delsocial tagging come forma di indicizzazione dal basso delle risorse.Proprio quest’ultimo accenno ci consente di introdurre un secondo aspetto che fa capo a quella cheha cominciato ad essere definita come organizzazione 2.0. La crisi delle piattaforme e lacontemporanea affermazione del Web 2.0 sta dischiudendo alle organizzazioni – e quindi anche allescuole – nuove opportunità doppiamente interessanti, in quanto molto economiche (spesso gratuite)e assolutamente facili da gestire. Si pensi alla diffusione dei blog di classe, alla disponibilità diambienti di virtual classroom 2.0 come Twieducate, Edmodo o Schoolog, alla possibilità di allestiredelle job-bank di Istituto in Linkedin o di fare marketing formativo attraverso i gruppi e gli eventi diFacebook .

TecnologiaQueste ultime considerazioni indicano già oltre il modello della piattaforma perché sostituiscono alVLE (Virtual Learning Environment), ovvero a un software rigido che normalmente prevederequisiti di sistema di un certo tipo e competenze di installazione e amministrazione, un PLE(Personal Learning Environment), ovvero un aggregatore di risorse Web che il singolo utente puòsviluppare in maniera personale e del tutto coordinata con i suoi interssi. In questa direzioneindicano i contributi di tutti coloro che negli ultimi anni hanno usato la metafora dell’e-learning 2.0per indicare appunto un cambio di paradigma nei sistemi dell’online education e del loro impiegodidattico (Downes, 2005; Buonaiuti , 2006; Frignani, 2009). Si tratta di una svolta all’insegna dellaleggerezza e dell’usabilità: sistemi sempre meno “istituzionali”, sempre più a portata di mano,sempre più capaci di collocarsi in continuità rispetto agli spazi e ai tempi informali delle persone.Una logica questa che viene ribadita dal protagonismo sempre più marcato della portabilità. In talsenso, per la scuola, il futuro sembra essere molto diverso da quello prefigurato dai sostenitori delone-to-one computing. Più che acquistare netbook, sembra sensato favorire l’uso scolastico deicellulari o dei tablet: in questo modo la scuola potrebbe chiedere ai genitori l’acquisto del device eprovvedere al resto, ovvero a tastiere e schermi “agganciabili” grazie al bluetooth dai dispositivi deiragazzi (Rivoltella, Ferrari, 2010).

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