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Damiano Mezzina- con il vento contro

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romanzo

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Damiano Mezzina

Con il vento contro

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Foto di copertina Vincenzo Bisceglie Progetto grafico Antonia Fiore Ideazione e stampa INPRINTING – BOOK ON DEMAND via F.Orsini, 5 - 70056 Molfetta

Tutti i diritti sui testi presentati sono e restano dell’autore.

Ogni riproduzione anche parziale non preventivamente autorizzata costituisce violazione del diritto d’autore.

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A mio fratello Enzo perché nel bene e nel male

lo squadrone siamo noi

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Prefazione

Amor omnia vincit, cita un passo di qualche autore latino. L’amore vince tutte le cose… È proprio l’amore l’elemento comune a questi tre racconti. L’amore che fa soffrire, che strazia il cuore fino a farti desi‐derare di morire; l’amore per la vita, per il prossimo, quell’amore che ti induce ad abbandonare tutto pur di vivere la gioia vera che nasce dal servizio verso chi ne ha più bisogno; l’amore che irrompe nella vi‐ta quando meno te lo aspetti e che infonde il coraggio di mettersi contro tutti, anche contro chi può rivelarsi davvero pericoloso.Tutto, in queste storie, muove dal bisogno di vivere d’amore, e non si tratta solo dell’amore più comune, quello che spesso solo per convenzione ci unisce passivamente ad un’altra persona, ma di un amore che, pur avendo la freschezza e la spensieratezza dell’adolescenza, ha la matu‐rità di un sentimento che non si basa sul possesso, bensì sull’oblazione, sulla capacità di donarsi agli altri gratuitamente. Un amor che al cor gentil ratto s’apprende direbbe Dante, ma che non conduce al peccato né all’Inferno; un amore con la A maiuscola che vuole essere di esempio in una società ormai svenduta agli interessi, ai soldi, al lusso. È per questo che i racconti di questo giovane autore, nuovo all’esperienza letteraria, con un linguaggio semplice e diretto, custodiscono un messaggio universale… Chi ama, ami prima di tutto la vita, se stesso, gli altri; non abbia paura di rischiare, di soffrire… So‐lo così rende merito alle sue stesse potenzialità di essere umano e so‐lo così può sperimentare la forza vera dell’amore, sì, dell’amor che muove il cielo e le altre stelle.

Prof.ssa Rosaria Mezzina

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“La notte era finita, e ti sentivo ancora: Sapore della Vita… …Meraviglioso...”

Domenico Modugno – Meraviglioso

(testo di R.Pazzaglia - 1968 RCA)

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RACCONTO PRIMO

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Adoro guidare: è la parte più bella del viaggio. Quando sto per arri‐vare a destinazione, anche se non è per lavoro, ma per piacere, mi rattrista l’idea di dover scendere dall’auto. Lasciarsi scorrere la stra‐da a fianco, e, con essa, tutto ciò che vi è intorno, alberi, pietre, ca‐se, odori che cambiano continuamente, secondo la zona, l’altitudine, l’ora del giorno. Mi piace godermi tutto questo con un sottofondo musicale adeguato, con uno dei miei cd preferiti nello stereo. Era il mio primo ritorno a casa da Milano con un passeggero a bordo. In quei primi cinque anni da operaio in Lombardia non ave‐vo mai avuto compagni di viaggio. Né tantomeno ce li avevo lì in cit‐tà. A lavoro avevo preso confidenza con un paio di colleghi, disponi‐bili e simpatici, e qualche volta avevamo passato la serata a giocare alla playstation o a carte, davanti a delle birre ghiacciate, ma niente amicizie profonde, come quelle che solo da bambini si possono vive‐re. Ma torniamo al passeggero di quel mio viaggio verso casa. Giulio. Un mio ex compagno di classe alle superiori, l’avevo incontrato al supermercato sotto casa. Tu guarda un po’ quanto è piccolo il mon‐do; pensare che dalle mie parti non l’avevo mai rivisto dopo il di‐ploma, per poi andare a beccarlo al banco frutta mentre sceglieva le mele. Lui ora lavorava per un’agenzia assicurativa di Bari, a una trentina di chilometri da casa (siamo entrambi di Molfetta, in pro‐vincia), che lo aveva spedito lì per un corso di aggiornamento, così aveva affittato un appartamento per studenti e ci doveva rimanere per un mese. A Milano c’era arrivato con un volo low‐cost e sarebbe dovuto tornare a Molfetta più o meno lo stesso giorno in cui avrei dovuto farlo io, così non ci avevo pensato due volte ad offrirgli un passaggio in macchina, quando mi aveva detto che non aveva anco‐ra prenotato il biglietto per il ritorno. E adesso eccolo al mio fianco, uno dei miei pochi amici fidati ai tempi della scuola, quando i pro‐blemi seri si riducevano al compito in classe di matematica e alle ra‐gazzine con cui uscire la sera. Ora, a ventotto anni suonati, i pensieri e i problemi erano cambiati, e forse, sarebbero stati destinati a farlo

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ancora, chi lo sa. L’unica cosa di cui mi ero accorto chiacchierando con lui durante il viaggio, era che alcune cose in comune le avevamo ancora. Una su tutte, la solitudine dal punto di vista sentimentale. Entrambi eravamo ancora alla ricerca della famosa persona giusta, quella di cui parlano tutti i perbenisti che cercano di consolarti di‐cendo “sei solo perché non hai trovato ancora quella giusta...” e al‐tre cazzate del genere pensando di migliorarti la vita. Per questo o‐dio confidarmi, per le risposte stupide che si ricevono nella maggior parte dei casi. E Giulio ora era lì a parlarmi delle sue storie, del suo posto di lavoro, dei leccaculo che sembravano moltiplicarsi come conigli e di come girava la vita giù a Molfetta. Io avrei voluto rispon‐dere “idem” a tutte le sue affermazioni, poiché la mia vita lì a Mila‐no non era per niente diversa. Fu sempre parlando delle donne però che notai una differenza bella grossa: Giulio andava a mignotte. Me lo confidò in realtà senza nessuna difficoltà, anzi ne parlò con totale disinvoltura, quasi come se stesse parlando di un bagno al mare. “Eh sì, Marco, purtroppo le mie repressioni sono costretto a sfogarle con delle brave bambine. O massaggiatrici, chiamale un po’ come vuoi, ma credimi, io quando entro in quel bordello mi lascio alle spalle tutto ciò che mi deprime e mi rende un uomo insoddisfatto”. Sembrava davvero contento mentre diceva “apro le valvole e via, mi lascio andare. Dio benedica quelle bambine. E Tu? Ci sei mai anda‐to?”. Io con un perentorio NO avevo subito dato la risposta che la‐sciava trasparire anche un po’ la mia idea a riguardo, anche se per come me ne stava parlando mi stava sinceramente incuriosendo. “Dici di no? Credimi, tu ne hai più bisogno di me. Domani passo a prenderti e vieni con me. Vedrai, è un posto bello, pulito e lussuoso, non è di certo la statale. E datti una mossa! Lasciati andare per una volta! Fidati di me!” “Ma stai scherzando? Io non ne ho affatto biso‐gno e, anche se fosse, non avrei mai la faccia di entrare in un bordel‐lo e se proprio devo essere franco, non so come abbia fatto tu a tro‐vare la forza di farlo”. Mi guardò con un’espressione soddisfatta, come se gli avessi fatto un gran complimento, e – cosa più grave – aveva captato la mia curiosità e sapeva che da lì al mio cedimento il

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passo era breve. Tutta la mia solitudine, i miei dilemmi e le mie teo‐rie sull’amore grande ed eterno, sulla moralità e sui sogni, mi stava‐no pesando un po’ negli ultimi tempi. Non che volessi liberarmene completamente, ma mi sarei preso una piccola pausa volentieri, an‐che trasgredendo un po’. Giulio continuò a guardarmi, come un co‐munista guarda un prete mentre predica a messa, poi scoppiò a ri‐dere, e la sua risata era così genuina e fraterna che contagiò anche me. Ridemmo per un po’, tanto che stavo inavvertitamente per oc‐cupare la corsia d’emergenza quando quel pazzo prese anche a darmi delle forti pacche sulla spalla e il mio stereo intanto prestava voce agli 883, e, nell’aria, gli odori dell’autostrada sembravano gli stessi che respiravamo sui motorini nei pomeriggi di primavera. Tut‐to in quei minuti era tremendamente un flashback. Come se aves‐simo di nuovo diciotto anni, come se, all’improvviso, tutto potesse tornare facile, tremendamente facile e divertente, come se bastava una canzone nello stereo e tanta strada davanti da fare insieme, verso casa, verso quello che si lascia ogni volta che si parte per lavo‐ro o per vacanza, e si rimpiange dopo appena dieci minuti, per esse‐re felici. Quella strada scorreva e io avevo ritrovato una persona che in passato era stata importantissima per me. Non sapevo però che era solo la prima.

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Dopo tutti quegli anni la casa di Giulio era ancora sempre nello stes‐so posto, niente era cambiato. Non avevano mai traslocato i suoi, e a lui non era mai venuta voglia di andare a vivere da solo, forse per‐ché non aveva una famiglia stressante come tanti. Avevo parcheg‐giato fuori dal giardino che circondava il complesso di palazzine del suo quartiere, e lo aspettavo ascoltando ancora vecchie canzoni de‐gli 883. Quelle canzoni per me non avevano tempo, mi sembravano ogni anno più nuove, mai, mai le avevo dimenticate o disprezzate, soprattutto perché alcune di esse appartenevano alla lunga compilation che stavo progettando da tempo e in cui volevo met‐terci tutti i pezzi legati a qualcosa o qualcuno, che avesse partecipa‐to al film della mia vita. Giulio non era cambiato neanche riguardo alla sua latitante puntualità: ero lì da mezz’ora e ancora nessuna traccia del playboy molfettese. Fu proprio quando misi mano al cel‐lulare per chiedergli a che punto fosse, che spuntò dal cancello ver‐de, con la sua giacca di pelle lucida e le immancabili scarpe di pelle di coccodrillo. Era un maniaco delle scarpe, ne collezionava e indos‐sava di tutti i tipi e marche. Appena mi vide mi mostrò il suo pollice in alto e si diresse verso la macchina. Solita pacca sulla spalla men‐tre io gli davo dello scemo e mettevo in moto la mia Punto. In pochi minuti eravamo a destinazione. La villetta adibita a bordello si tro‐vava su una strada di campagna non completamente isolata, poiché a pochi metri si trovavano altre ville o piccoli orticelli. Poco illumina‐ta all’esterno, appena s’imboccava il vialetto si cominciava a perce‐pire il senso di trasgressione, d’illegalità. Auto ferme nel piccolo parcheggio ricavato tra gli alberi. All’ingresso, due armadi più che uomini stavano già guardando verso di noi, poiché la macchina forse gli era sconosciuta. Ci fissarono finché non fummo usciti dall’auto. Quando arrivammo agli scalini, già sorridevano a Giulio: l’avevano riconosciuto, e sembravano addirittura avere confidenza con lui, probabilmente era un cliente fisso ormai da quelle parti. Dopo aver scambiato alcune battute con i gorilla, Giulio mi prese il braccio e mi

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trascinò con lentezza dentro. Ad attenderci c’era una donna sui qua‐ranta (è inutile che mi metta a descrivere com’era conciata poiché vi basterebbe guardare un film con Banfi e la Fenech per capire), che avvicinatasi a noi subito si rese utile. “Ciao bello – rivolta a Giulio –hai portato un amico nuovo?”. “Sì Susina, lui è un vecchio amico che ha bisogno di una bella scossa, e così l’ho portato da te, solo tu puoi curare questi problemi!”. Lei sembrò lusingata, manco fosse stata una suora missionaria cui avevano riconosciuto il merito della sal‐vezza di un malato di lebbra. Poi rispose: “Ok, allora non vi faccio perdere tempo, belli, sarete affamati! Giulio? La solita?”. Lui quasi non la fece finire di parlare che le rispose: “Sì, Claudia. Come sem‐pre!”. Allora lo sguardo della donna si girò verso di me. “E tu? Che cosa posso offrirti? Vediamo un po’… Guarda… dato che sei così ti‐mido ti do la ragazza più tranquilla che ho. Terza porta a destra. Ti raccomando, qui sei come a casa, divertiti!”. Giulio intanto le aveva messo nella mano destra un rotolino di banconote, poi guardò me e ammiccando mi disse “offro io”. Poi scappò al piano di sopra, dove lo aspettava evidentemente il suo solito passatempo. Io timidamen‐te m’incamminai verso la famosa terza porta a destra senza nean‐che sapere se dovessi bussare o entrare a sorpresa. Alla fine bussai. Da dentro una voce sensuale, in tono sommesso, esclamò: “Avanti”. Aprì la porta con una lentezza indicibile e poi feci il mio timido e gof‐fo ingresso. Quando alzai la testa per vedere chi ci fosse su quel let‐to rimasi per un attimo, forse un minuto o addirittura due, a guarda‐re negli occhi quella ragazza. Mi sembrava di conoscerla, anzi, ne ero assolutamente sicuro. Restammo lì a guardarci per tutto quel tempo indefinito, finché lei inclinando la testa leggermente a destra e muovendo lentamente le labbra, parlò: “Mar‐co?”. In modo quasi ridicolo anch’io inclinai la testa e risposi: “Sara?”.

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Era la festa del suo diciottesimo compleanno quando Sara mi lasciò. L’avevo conosciuta due mesi prima, in una sera di maggio, mentre con i miei soliti due amici sfigati gironzolavamo sfottendo prima questa ragazza poi quella. Lei era con delle amiche, lì sul muretto del lungomare a ridacchiare chissà per cosa. Fu un incrocio di sguar‐di, veloce, di quelli che solo due adolescenti possono lanciarsi. Dopo tre giorni eravamo da soli sempre al lungomare, con lei che mi strin‐geva forte, come fossi sempre stato suo, sempre stato lì. Era stata una bella storia la nostra, forse un po’ troppo intensa, e forse per questo finita così presto. Ho sempre avuto una mia teoria a proposi‐to degli amori adolescenziali. Credo siano i migliori, i più forti, quelli che ti tolgono davvero l’appetito quando vanno via, che ti fanno passare ore a guardare il mare, a sognare film di vite unite dalla pas‐sione, dalla fedeltà, come se nella vita di un uomo (in futuro) non ci fosse altro. Poi quello che arriva dopo lo conosciamo tutti, o quasi. Sara era troppo strana a volte, mi aveva raccontato di avere pro‐blemi in famiglia, i suoi stavano combattendo una dura guerra tra di loro, e lei, che mai come in quel periodo aveva bisogno di loro, li a‐veva completamente persi. Entrambi coinvolti nei loro problemi da grandi, con i loro avvocati e i loro conti in banca. E lei? Lei che dice‐va di non poter stare con un ragazzo, di non avere tempo, di non poter più dedicare tutta se stessa a una storia. Io credo che avrei dovuto resistere, cercare di non farla andare via perché, in fondo, nessuno di quei motivi era vero. Invece no, da vigliacco e bamboccio come sono sempre stato, l’avevo salutata sotto casa, mentre lei si faceva bella per la sua festa, e me ne ero andato con la testa bassa, dissertando il party. Sara ora era lì, con un perizoma rosso e un reg‐giseno praticamente inesistente. In uno dei venti, lunghi secondi in cui ci guardammo senza parlare ricordo di aver pensato che stessi sognando. Non poteva essere possibile. Persone sparite da anni dal‐la mia vita vi stavano rientrando una dopo l’altra così improvvisa‐mente, così velocemente. Si, sicuramente era un sogno. Spesso mi

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capita, come credo anche a voi, di sognare situazioni particolari del‐la mia adolescenza. A volte, ad esempio, mi capita di sognarmi tra i banchi di scuola e cosa mi trovo davanti? Il compito in classe di ma‐tematica, la cosa che odiavo di più della scuola da sempre; la mate‐ria più brutta che avessi mai praticato (e infatti non l’ho mai pratica‐ta!). Ma, ora, Sara non era un sogno, e lo capii quando lei abbassò la testa per la vergogna e quasi iniziò a balbettare “Ma… Marco... tu…”. Io, intanto, ripresomi dallo shock iniziale e notata la sua gran‐de difficoltà, iniziai ad avvicinarmi a lei, fino a sedermi su quel letto al suo fianco. Volevo tranquillizzarla, forse addirittura sdrammatiz‐zare, ma, lo ammetto, ero sconvolto. L’immagine che conservavo di lei era diversa, ed ero terrorizzato, spaventato dal fatto di perdere quel ricordo, quell’immagine trasparente e pulita, che mi aveva ac‐compagnato, prima fra tutte, fra i miei ricordi. Volli provare in qual‐che modo a cambiare la sorte di quel clamoroso, lunghissimo minu‐to in quella stanza. “Sara, da quanto tempo. Come stai? Cazzo, che deficiente che sono. Giuro non è una domanda ironica. È che non lo so… è la prima volta che faccio una cosa del genere e…”. Sara im‐provvisamente mi rispose. “…e non pensavi che ad inaugurare la tua prima andata a mignotte ci fosse una special guest…”. Mi voltai ver‐so di lei e inspiegabilmente, paradossalmente, scoppiammo en‐trambi a ridere, come due bambini che cascano sul prato dopo es‐sersi inseguiti correndo. Non si era per niente offesa, era improvvi‐samente a suo agio, tranquilla, come se l’avessi incontrata in uno dei posti più comuni della città. Il ghiaccio ormai era rotto, così mi sentivo più tranquillo e libero di farle quelle domande che ormai mi stavano divorando il cervello. “Allora, Sara, cosa ci fai qui? Non so‐gnavi di fare la stilista?”. Parlavo con un sorriso rassicurante, per farle capire che nonostante la sorpresa non stavo lasciando spazio ai pregiudizi. “È una storia lunga Ma’”. Il mio cuore sussultò, come non lo faceva da anni; mi sentii per un attimo il ragazzino che spaccava il mondo sul suo scooter, solo perché lei mi aveva chiamato Ma’, come in quel periodo mi chiamavano tutti, tranne i miei. Fu una botta al pet‐

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to indescrivibile. Lei intanto tranquilla continuava a parlare. “Non credo di riuscire a raccontartela stasera, a meno che tu non paghi la tariffa maggiorata”. Altre risate da entrambi, mentre rispondevo: “No no, tranquilla, anche perché stasera ha offerto un mio amico. È lui che mi ha trascinato qui. Giulio, te lo ricordi?”. “Ah sì, quel maia‐le ci viene una volta a settimana qui, è tra i clienti vip ormai. E natu‐ralmente non sa neanche che io sono qui e che so qual è la sua pre‐ferita. Comunque, sul serio, non è facile da raccontare, e neanche veloce. Facciamo così, visto che ormai ci siamo, ci facciamo una si‐garetta e domattina ci vediamo per un bel caffè, così ti racconterò di me, ma anche tu hai almeno un paio di cose da raccontarmi, no?”. Fumammo in silenzio, parlando del più e del meno, senza toccare gli argomenti di cui si era già decisa la sede opportuna. L’ora di “affit‐to” passò velocemente e arrivò quindi il momento di salutarci. Fis‐sammo l’appuntamento in uno dei bar del centro per la mattina se‐guente e ci salutammo sorridenti. Uscii dalla stanza sentendomi an‐cora come quando a sedici anni avevo fissato il mio primo appun‐tamento con una ragazzina. Mi sentivo leggero, sereno, avvolto da una sensazione che portava con sé un retrogusto di ansia e attesa. Ad aspettarmi nel soggiorno del villone c’era quel porco di Giulio che, vistomi arrivare con quel sorriso, mi diede una forte pacca sulla spalla e presomi sottobraccio esclamò: “Visto? Che ti avevo detto? Ti ci voleva proprio!”. E io, trasformando il mio sorriso giovane in sorriso ironico: “Eh sì, mi ci voleva proprio”.

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La guerra tra i genitori di Sara aveva avuto un epilogo. Dopo anni di sbattimenti e di bombardamenti verbali e legali erano riusciti a redi‐gere un armistizio. Come due imprenditori davanti al fallimento del‐la loro società, i due coniugi si erano divisi il giusto e avevano defini‐tivamente preso le loro strade. Sara, ormai ventitreenne, aveva pre‐so la novità con sollievo, senza neanche immaginare che di lì a poco sarebbe rimasta completamente sola. Quella che prima era stata una vita da ragazzina contesa e viziata da entrambi i genitori, sareb‐be servita solo a farla diventare un bocconcino più prelibato del soli‐to per una società fatta di furbi e balordi. Spariti i genitori e saltate le prospettive degli studi, la bella ragazza ora aveva il papà negli Sta‐ti Uniti con la sua nuova compagna e la madre in giro per l’Italia con il suo nuovo partner. A lei avevano lasciato un appartamentino mo‐nolocale e, seppure avessero entrambi buone disponibilità econo‐miche, si erano in breve tempo dimenticati di lei. Chissà cosa aveva‐no di così importante di cui occuparsi per trascurare completamen‐te l’unica figlia fino a poco tempo prima ricoperta da tutte le loro attenzioni. E così, finita la scuola, Sara si era divisa tra il bancone di un bar per vecchi rimbambiti e quello di un negozio d’abbigliamento del centro. Si era accorta che la vita era una bella schifezza, che scorreva tra mille difficoltà per racimolare qualche spicciolo alla fine del mese e vivere con quel minimo di dignità la sua vita da ragazza nel paese delle meraviglie. Ma le meraviglie vere dovevano ancora arrivare, perché presto era arrivato un periodo ancora peggiore, in cui ogni piccola possibilità di lavoro si era estinta e mamma e papà erano ormai chissà dove, presi da chissà quale importante impegno tanto da non poter fare neanche una semplice, misera telefonata. E quando una donna giovane è sola e in difficoltà per i predatori del mondo è una passeggiata approfittarne. All’inizio, quel lavoro da “intrattenitrice” non le era sembrato così sporco e umiliante, né la spaventava la perdita dell’onore familiare, anche perché lei non a‐veva più una famiglia. Nei primi tempi il fatto di essere uscita dalle

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difficoltà economiche in modo rapido aveva addolcito un po’ l’amaro che la sua coscienza assaporava, ma poco tempo dopo, quando sarebbe stato troppo tardi, aveva, eccome, capito che era più povera così che senza un centesimo in tasca. Gino l’aveva incon‐trato una sera in uno dei pochissimi pub molfettesi, mentre stava finendo i suoi pochi spiccioli guadagnati in una piovosa e schifosa giornata di volantinaggio davanti a un litro di birra scura, come si vede nei film americani, solo che lei non indossava un cappello da cow‐girl né un paio di ridicole scarpe a punta. Lui si era avvicinato e avevano iniziato a parlare. Le era piaciuto subito come tipo perché non era lì a corteggiarla, a provarci, come tutti di solito fanno quan‐do ti vedono lì da sola. Gino ascoltava la sua storia e aveva maledet‐tamente sempre le parole giuste per commentare e consolare. Era‐no rimasti a parlare fino alla chiusura del locale come fossero amici da sempre. L’alcol, si sa, aiuta a familiarizzare con tutti, e spesso senza neanche accorgersene ci si ritrova abbracciati a un perfetto sconosciuto, e perché no, anche dello stesso sesso. Gino era stato gentile e rispettoso, per niente marpione. Non ci aveva provato e a Sara andava benissimo così. Non aveva tempo e mente per innamo‐rarsi. Ma a suo modo era stato comunque fondamentale quella se‐ra, perché prima di salutarla le aveva proposto di lavorare con lui. Cavolo, era stato maledettamente convincente, aveva trovato il modo per influenzarla, e il giorno dopo, anzi la sera dopo, lei era in quella maledetta villa al servizio di decine di uomini voglio‐si/frustrati. C’erano volute alcune notti perché soldi e soddisfazione lasciassero spazio a pentimento e umiliazione. E così dopo un mese aveva detto a Gino che gli era grata per quello che aveva fatto per lei, ma che quella non era la sua vita, che non riusciva più a sentirsi se stessa, a metabolizzare tutto quel sesso mercenario, quelle facce sconosciute, di signori e padroni, che pagavano il suo corpo in affit‐to, mentre la sua anima in quei momenti si dissociava, andando a farsi un giro fuori. Ma come ogni labirinto che si rispetti, anche quel‐lo di Sara non aveva un’uscita a portata di mano, anzi, sembrava che non ne avesse proprio. Gino aveva prima provato con le buone a

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farle cambiare idea, poi davanti alla sua ferma convinzione di voler‐ne uscire era stato costretto a ricorrere al mezzo più duro: le minac‐ce. Perché Gino era sì un uomo gentile e altruista, ma con lui i con‐tratti erano tutti a vita, per cui se proprio lei voleva licenziarsi a‐vrebbe sempre potuto farlo… da morta.

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Passati i primi mesi di esasperazione, a Sara era anche passata la speranza di poter denunciare la sua sventura, e la paura e la rasse‐gnazione avevano pian piano messo le loro radici dentro di lei. “Co‐sì, fino a ieri sera, fino a quando tu non sei rientrato a sorpresa nella mia vita, facendomi ricordare un po’ di quella passata, io sono stata un vegetale, non so più neanche per quanti anni”. Il suo cucchiaino girava e rigirava nella tazza tanto che la cioccolata calda era diventa‐ta un budino. Aveva raccontato tutto con aria tranquilla e confiden‐ziale. Io ero sempre più sorpreso di ritrovarla così, come l’avevo la‐sciata, anche se dal suo racconto, prima di avermi rivisto, non era stata sempre quella che io conoscevo. Il suo racconto era stato lun‐go eppure non mi ero accorto di tutto il tempo che era passato a‐scoltandola. Forse era perché mi stavo perdendo nei suoi occhi mai così familiari, mai così vivi nella mia mente. Era incredibile, stavo annegando nel desiderio di abbracciarla forte, non per pena, non per pietà, ma per qualcosa di magnetico, qualcosa che molti anni prima ci aveva legati in modo unico, e che quella mattina seduti a quel tavolino stava riaffiorando, riprendendo il sopravvento. Pas‐sammo la mattinata insieme, facendo un salto al centro commercia‐le e continuando a parlare, questa volta un po’ più di me. In realtà le mie novità erano poche, quasi unicamente lavorative. Le spiegai co‐sa facevo e dove vivevo, accennando anche alle poche e stupide storie che avevo avuto in quegli anni. Lei era molto divertita dalle mie espressioni e dai miei aneddoti, in più ebbi l’occasione di notare che aveva conservato la sua grande passione per i profumi: pas‐sammo mezz’ora in una profumeria a provare decine di fragranze. Poiché aveva esaurito subito lo spazio sulle sue braccia per testare i profumi, cominciò a usare le mie, cosicché quando uscimmo dal ne‐gozio mi sentivo un trans. Arrivammo a casa sua che era ormai pri‐mo pomeriggio e dopo un pisolino e uno spuntino aveva in pro‐gramma il suo turno serale alla “villa”. Fu gentilissima nell’invitarmi a entrare per bere ancora una coca prima di salutarci. Io ne fui feli‐

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cissimo. Mi accorgevo che essere al suo fianco era bellissimo, mi sentivo utile e in ottima compagnia, così ci ritrovammo al tavolino della sua pseudo cucina con due bicchieri di plastica e una lattina al centro. C’era una cosa che differenziava quegli attimi da quelli pas‐sati al bar e al centro commerciale, e non erano i bicchieri di plastica o la lattina economica, bensì il silenzio, così fitto da poter sentire i nostri respiri. Riconoscevo quello di Sara, lo stesso di quando, na‐scosti in quel vicolo, ora inaccessibile perché recintato, stretti stretti ci baciavamo ininterrottamente, sino a finire l’aria, entrando in una vera e propria apnea, con il naso chiuso dal raffreddore e la bocca magnetica che non voleva saperne di rinunciare al suo sapore. Fu Sara a rompere il silenzio. “Sai, io quel giorno durante la festa del mio compleanno non ho fatto altro che piangere dentro, non sai per quanto tempo ho sofferto. Ti vedevo da lontano la sera con gli amici e cambiavo strada, sono arrivata all’età adulta con storie lunghe e piccole, ma le emozioni, quelle emozioni, non le ho più provate. Se aspetti un secondo ti faccio vedere una cosa”. Si alzò e sparì nell’altra unica stanza presente in quella casa. Ricomparve poco do‐po con le guance rosse dall’ansia e l’imbarazzo di vedere la mia rea‐zione, la mano destra tesa verso di me chiusa a mo’ di pugno. La schiuse piano e dentro, con la bocca spalancata, ci vidi la collanina con il ciondolo a forma di cuore trasparente che le avevo regalato la sera in cui le chiesi se voleva stare con me, in un’altra vita, in un al‐tro sogno. “Tu sei stato l’unico Uomo che è entrato e uscito leal‐mente dalla mia vita. Un uomo di soli diciassette anni che sogna l’amore eterno non può che restare nel cuore di una donna per sempre”. La mia risposta fu stupida e sin troppo ironica, ma sincera e innocua. “Mi spiace solo che non ti abbia portato fortuna”. Lei era ancora in piedi davanti a me, con il pugno che arrivava esattamente davanti al mio volto, ma ora il braccio stava scendendo, piano, a ri‐prendere la sua posizione naturale, ora potevo quasi vedere il cuore di Sara che batteva contro la sua maglia, forte, come il mio, forse allo stesso ritmo, forse con lo stesso suono. Riaprii il pugno di Sara con le mie mani dolcemente, ne sfilai la collanina e la misi al suo col‐

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lo, poi la guardai, sembrava una bambina nel giorno della prima co‐munione, si sentiva osservata ed era imbarazzata. Gli occhi le prese‐ro a brillare, non posso descrivervelo, credetemi, brillavano vera‐mente. E allora pensai, pensai che non avevano brillato neanche du‐rante il suo racconto triste e tempestoso, nel mezzo di quei ricordi fatti di solitudine e frustrazione, ma lo stavano facendo ora, ora che improvvisamente le emozioni forti stavano riprendendosi quello che in modo assurdo avevano perso dieci anni prima, in una sera di fe‐sta. Continuavo a guardarla, le sue mani bellissime e curate che gio‐cherellavano tra di loro per il nervosismo, le sue guance sempre più rosse. Le presi il viso tra le mani e la baciai, in modo forte, deciso, come chi è nel deserto e trova acqua dopo giorni, come chi soffre la fame e trova cibo dopo mesi. Avevo fretta di non perdere più il suo sapore ora che lo avevo ritrovato. Era sempre lo stesso, dolce, uni‐co, assurdo. Era tra le mie braccia e anche il suo collo era sempre lui, il più liscio che avessi mai baciato, così con una mano sollevai i suoi capelli profumati e la riempii di baci, ogni centimetro della sua pelle doveva essere mio. Dopo poco tempo anche le sue mani erano sul mio corpo, per guidarmi nell’altra stanza, senza staccarci, senza interrompere il bacio. Crollammo insieme sul suo letto e lì facemmo l’amore, e proprio mentre la spogliavo pensai che se solo fossimo rimasti insieme dieci anni prima, la mia prima volta, sarebbe stata proprio con lei. Ora eravamo lì, a coccolarci, io che non smettevo di accarezzarle i capelli, e non c’era più imbarazzo, non c’era più nes‐suna distanza. In meno di ventiquattr’ore divenni clamorosamente convinto di aver trovato, o ritrovato, l’amore della mia vita. Poi, co‐me se mi fossi appena svegliato da un sogno, ricordai la sua triste e grottesca realtà. Bisognava fare qualcosa, risolvere la situazione. Ora che l’avevo ritrovata più forte di prima non potevo privarmene di nuovo. Dovevo prendermi cura di lei. I delinquenti sono le perso‐ne che più evito di affrontare, e se sono organizzati e con tanto di seguaci intorno mi fanno ancora più paura. In quel momento mi tornò in mente una frase di Don Vito Corleone: “al serpente non serve mozzargli la coda, ma la testa”. Non avevo speranze di poter

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convincere quel balordo a lasciar andare Sara, neanche se lei fosse fuggita. Gino ci avrebbe messo un giorno per riacciuffarla e, perché no, eliminarla per evitare future rogne. Gino doveva essere reso in‐nocuo, ma come? Stavo pensando in silenzio da parecchio tempo, tanto che Sara iniziò a preoccuparsi. “Marco, stai pensando al mio problema vero? Credimi, non è possibile per me adesso venirne fuo‐ri. Sarebbe pericoloso e tu non metterti in testa strane cose. Quella villa è la sua unica fortezza ed è inespugnabile. Ci passa in pratica tutta la giornata, tra la cocaina e quei due picciotti sempre all’erta e il suo bestione di Cayenne in giardino”. Non so perché ma quando nominò l’auto mi balzò in mente un’idea che raramente verrebbe a un vigliacco cagasotto come me. Ma forse sono queste le cose che ci fanno capire quando un amore è vero, forte e coraggioso al punto da non temere neanche la morte, forte della sua fiducia nell’indivisibilità materiale, nell’essenza che va oltre la materia stes‐sa. Comunque, delirio a parte, l’idea c’era e non era poi così male. Dovevo solo agire senza sbagliare nulla e curando i minimi particola‐ri. Mi sarei messo al lavoro subito, senza perdere tempo. Natural‐mente mi serviva una mano e sapevo di chi potevo fidarmi. Avrei fatto tutto quella sera stessa, senza dire nulla a Sara, senza farla preoccupare, spaventare. Mio padre diceva che solo in un film ame‐ricano (Titanic) il protagonista sacrifica la propria vita per una donna appena conosciuta, e che in realtà così come gli animali spesso si bada soprattutto a se stessi. Io non potrei spiegarvi il perché, ma ero sicuro che seppur fossi morto nel mio folle tentativo di salvare Sara e portarla via con me, non me ne sarei pentito. Dopotutto la mia vita era tutta lì: casa, lavoro, lavoro, casa. Non mi aspettavo al‐tro, forse neanche lo meritavo. L’unica cosa che sapevo con certez‐za, forse per la prima volta nella mia vita, era che volevo stare con lei, fino alla fine, in un modo sì improvviso ma altrettanto profondo.

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“Tu non sei normale. No fratello, tu non sei per niente normale.” Giulio scuoteva la testa come se avesse visto Monica Bellucci nuda entrare nella sua stanza mentre ubriaco era in preda alle allucina‐zioni. Un sorriso quasi isterico e le mani giunte come in preghiera. “Ma sai che cosa significa pestare i piedi a Gino? Quello è uno solo, lui e i suoi due gorilla, e da solo si è guadagnato il rispetto da tutti gli altri clan nella zona. E tu vorresti eliminarlo come fosse Topo Gigio? No Marco, tu a Milano hai battuto la testa.” Gli avevo spiegato cosa mi era successo con Sara, l’avevo ritrovata e non riusciva a crederci che lei fosse lì e lui non l’avesse mai vista. Così ora era lì a darmi (giustamente) del folle. Non era mai stato molto coraggioso (come me del resto) ed era evidente che per lui non era per niente fattibi‐le. Naturalmente ero andato da lui perché credevo fosse l’unico in quel momento a potermi aiutare nel mio piano. “Giulio, se proprio non te la senti io ti capisco, ma almeno per l’occorrente posso con‐tare sull’officina di tuo zio?” Lo guardavo con aria d’implorazione, e proprio quando credevo pronunciasse il no emise il suo ni. “Senti, io ti ci porto ma ti aspetto fuori. E se vedo o sento che qualcosa va storto sgommo e ti lascio là”. Questa risposta mi bastava, in fondo non volevo trascinarlo completamente nel mio guaio, non lo ritene‐vo giusto.“Te ne sarò sempre grato… Se sopravvivo naturalmente”. Ci facemmo una risata che nascondeva un po’ di nervosismo, ma comunque ce la ridemmo parecchio per una decina di minuti, poi mi chiese: “Quando hai intenzione di agire?”. Risposi subito. “Allora, considerando che il mio piano è diviso in due parti, la prima inizia precisamente tra cinque minuti. Mi servono un paio di attrezzi di tuo zio e il tuo passaggio naturalmente. Poi mi basta che ritorni a casa e preghi per me, cioè, per noi”. Esibì ancora quel sorriso isteri‐co. “Sei proprio sicuro?” Inutile dirvi che risposi di sì. Prendemmo la sua auto, più piccola e più facilmente manovrabile della mia in caso di fuga, e facemmo un salto prima dallo zio per prendere ciò che mi serviva (naturalmente in prestito), poi ci dirigemmo verso la villa di

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Gino. Durante il tragitto Giulio non fece altro che cercare di convin‐cermi a cambiare idea, a trovare un modo per convivere con questo problema di Sara senza stuzzicare la rabbia del boss cocainomane. Naturalmente, sempre sostenuto dal mio misterioso coraggio, non considerai le sue parole. Lo feci parcheggiare nella campagna atti‐gua alla villa, dietro un cespuglio bello grande. Erano le sette di po‐meriggio e c’era già il crepuscolo di marzo a lasciare spazio alle om‐bre. Questa situazione mi favoriva abbastanza. Appena sbirciai nel viale d’ingresso notai una cosa incoraggiante: il macchinone di Gino era parcheggiato proprio vicino all’entrata. Dovevo solo camminare quatto quatto come un deficiente da dietro al cespuglio laterale e soprattutto senza fare rumore. I due gorilla sembravano abbastanza lontani e occupati in una discussione alquanto allegra e questo mi fece sorridere perché pensai che se mi avessero beccato mi avreb‐bero ammazzato in un modo simpatico. Passai cinque minuti ab‐bondanti in mezzo al cespuglio, a lavorare sul lato sinistro della macchina (quello destro dava sul centro del viale ed era in pieno campo visivo dei due animali umani), ma credevo e soprattutto spe‐ravo potesse bastare. Non riuscivo a crederci quando mezz’ora dopo mi ritrovavo a casa sotto la doccia: la prima fase era stata portata a termine e i risultati si sarebbero visti un paio di ore dopo. Tutto così velocemente, tutto così drasticamente improvviso da farmi credere nel sovrannaturale. Già, perché è impossibile che per anni una per‐sona viva sola, isolata dal passato e dal resto del mondo, nella sua monotonia, nella prassi della vita quotidiana. Poi un banco di frutta al supermercato e ti ritrovi a vivere ventiquattro ore assurde, ricche di novità, dall’amicizia ritrovata all’amore folle, all’attentato, alla mafia. Tutto in un misero giorno. Ma ormai ero lì, avevo imparato la lezione del mai dire mai e ora ero a un passo da una vita felice, o da una morte atroce. Mi rivestii e mi feci un caffè bello forte, poi man‐dai un sms a Sara: “Stasera torno a trovarti Amore, ma da domani, mi spiace, sarai di nuovo una disoccupata”. Spensi il cellulare te‐mendo le sue chiamate. Non potevo desistere, non volevo. Scesi giù in garage e andai dal mio caro amato vecchio scooter. Che bello che

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era, ancora lì, invecchiato sì, ma sempre in forma. Lo usavo d’estate quando ero in ferie e tornavo a trovare i miei. Era ancora tutto ela‐borato, riverniciato ed erano diversi mesi che non lo mettevo in mo‐to. Sempre la mia mente folle mi aveva detto di sceglierlo come mezzo da usare. Il motivo non lo sapevo ancora, ma qualcosa mi di‐ceva che era così. Fui sorpreso di scoprire che mi stavo fidando di Me. Lo scooter si accese dopo pochi tentativi. Olio e benzina erano ok, il mio caro papà con i motori ci sa fare e non gli aveva mai fatto mancare niente neanche durante l’inverno. Grazie Papà. Ma lui, a casa davanti alla tv, non poté sentirmi. Indossai il casco e via, partii verso la mia avventura, la prima vera prova da uomo. Forse dovevo compensare il fatto di non aver fatto il militare, così ora ero uffi‐cialmente in missione, non per salvare la patria ma per qualcosa di più importante, di più personale. Ora che lo stavo guidando comin‐ciavo a capire il perché della scelta: anche lo scooter faceva parte del mio passato e mi dava forza, la stessa che sentivo quando a se‐dici anni credevo fosse impossibile morire, che tutto si risolvesse con un paio di auricolari e un lettore CD portatile. Così adesso sem‐bravo riacquisire un bel po’ di quel coraggio, di quella leggerezza con la quale affrontavo i miei giorni da adolescente. Quel motorino faceva parte della mia armatura. Stavo andando a liberare la mia Lucia dal terribile Don Rodrigo. Io, un Renzo a cavallo di un cinquan‐ta e il cuore (e qualcos’altro, non lo nego) in fiamme.

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C’è un film, un cult del genere demenziale italiano, in cui in una sce‐na il protagonista sta dando una controllata alla turbina di un aero‐plano fermo in cantiere, quando questo si mette in moto. Per un at‐timo la testa del malcapitato scompare per riapparire poi con una acconciatura spettacolare. Ebbene, appena tolto il casco, ero prati‐camente uguale. Se aggiungiamo l’espressione tesa e ansiosa che sicuramente avevo, ero nello stato perfetto per poter partecipare a un provino per un film demenziale. Sistemai lo scooter in una posi‐zione da “pronti‐via” e cercai di assumere un atteggiamento disin‐volto per evitare di destare sospetti. Tastai con la mano la tasca del‐la giacca a vento nel dubbio di aver dimenticato qualcosa e ci trovai tutto, o meglio, ci trovai l’unica cosa che mi sarebbe servita: il pe‐tardo. Ora aprirei una piccola parentesi a proposito dei petardi, quei giochi che spesso da piccoli ci prendono la mano (in alcuni casi se la portano proprio via) e che in realtà giochi non sono. Però possono tornare utili, nei momenti più impensabili, credetemi… A volte ciò che ci serve per risolvere i nostri problemi sono i petardi. Tornando a noi, ero riuscito a trovare uno dei vecchi petardi, della tipologia che dalle mie parti chiamano “TrikTrak”. Sono stupendi perché sembrano scariche di mitra, in alcuni casi seguite anche da un’ultima botta più forte delle altre. Ebbene, il mio TrikTrak riposava nella mia tasca pronto ad esplodere. Nell’altra tasca, naturalmente, un accendino. La macchina del capo, un suv da paura, era parcheg‐giata un po’ più in là, probabilmente vicino a un’entrata laterale. Quindi lui c’era e già mezzo lavoro era fatto. Appena entrato, notai che la prima foto mentale scattata nella visita del giorno prima ave‐va registrato bene. Subito dopo l’entrata, ci si trova nel piccolo atrio con delle scale, in fondo, che salgono al piano superiore, e accanto a queste altre scale che scendono probabilmente in cantina. Erano quelle scale che mi servivano. Eccomi all’interno, eccomi pronto. Una persona fin troppo normale, che si trova nel giro di ventiquat‐tro ore a mettere a rischio la propria vita per amore, amore arrivato

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(o ritornato) in modo altrettanto assurdo. Ero dentro, ero vivo, chis‐sà ancora per quanto. Il resto avvenne troppo in fretta.

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“Eccoti ancora qui, mi ricordo di te sai!” La voce squillante e sensua‐le da venditrice di viagra in tv non poteva non ricondurre alla cara Susina. “Sei l’amico di Giulio! Beh? Soddisfatto vero? Sei fortunato perché la camera di ieri anche oggi è libera! Che fai? Scegli ancora lei?” Praticamente isterica, la signora Susina mi venne incontro sor‐ridente, soddisfatta, mentre sicuramente pensava al suo nuovo cliente fisso che le avrebbe portato complimenti e magari un au‐mento dal capo. “Buonasera signora. Sì, sono qui di nuovo per lei, posso?” La guardai con sguardo gentile e convincente, come quando si sta per concludere l’affare dell’anno. “Ma certo bello mio, vai vai, è tutta tua!” “Grazie mille, pago ora?” Non volevo sbagliare nulla, perciò cercai di essere fin troppo preciso. “Ma figurati, gli amici di Giulio sono affidabili, fai con calma, e divertiti!”. Le mandai un altro sorriso, e mi voltai verso la porta dopo averla ringraziata di nuovo. Un altro sguardo alle scale che portavano al piano sotterraneo e poi mi diressi verso la porta della stanza di Sara. Bussai ed entrai. Era bellissima. Nel vederla così, per me, pronta alla fuga, ebbi la con‐ferma che ne ero innamorato davvero, e tanto. Dopo averla abbrac‐ciata e baciata, dovetti fermare la sua ansia, mista a paura, per la quale cominciò a farmi mille domande. “Cosa vuoi fare? Come? Ma lo sai che ci rimarrai secco? Perché?” Posai l’indice sulle sue labbra, poi le parlai dolcemente. “Tranquilla, ho tutto pronto. Tu devi solo fare una cosa. Non appena sentirai scoppiare i petardi esci dalla por‐ta e dirigiti verso l’uscita, mi troverai lì. Al resto ci penserò io. Aspet‐ta il segnale. Ora devo tornare all’ingresso, ci vediamo tra poco.” I suoi occhi erano spaventati, ma non mi impedirono di baciarla anco‐ra e di tornare a pronunciare le due parole magiche, quelle che oltre tutte le leggi di fisica tengono in piedi il mondo. “Ti Amo Sara, andrà tutto bene. Sì, perché ti amo.” Credo che lei avrebbe voluto dirmi tante cose, ma non ci riuscì. Rimase lì, con le mani giunte, seduta a quel letto, e mi guardò uscire. Riassunsi la mia faccia tranquilla e u‐scii dalla stanza dirigendomi verso Susina. “Signora? Mi scusi ma ci

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siamo accorti ora che mancano gli asciugamani. Sa com’è…” Lei sembrò scandalizzata, a quanto pare controllava così bene tutte le stanze che non si perdonava una sciocchezza del genere. “Non scu‐sarti più giovanotto! Anzi, mi scuso io! Vado subito di sopra a pren‐derti un paio di asciugamani e per farmi perdonare una bella botti‐glia di champagne! Aspettami qua.” Avevo pregato che gli asciuga‐mani fossero di sopra e la fortuna mi mostrò il suo primo aiuto. Su‐sina si diresse verso le scale e dopo poco sparì. Avevo pochissimo tempo. Mi avvicinai alle scale, estrassi il petardo, lo baciai a mo’ di benedizione e con l’accendino innescai la miccia. Poi il lancio. Finì proprio in basso, vicino a una porta subito dopo le scale. “1‐2‐3‐4 – TA – TA – TATTÀ!!!!!” E così via... Si aprirono le porte delle stanze, uomini nudi e seminudi e altrettante ragazze nelle stesse condizioni si riversarono in corridoio, curiosi e impauriti, mentre entravano, estraendo le loro pistole, i due gorilla di Don Gino. “Che è stato?” Uno di loro urlò allarmato. Io colsi l’occasione. “La porta laterale! Sono entrati di là e sono scesi di sotto! Erano armati!” Mentre urla‐vo la mia risposta vidi arrivare verso di me Sara, confusa tra le “col‐leghe” e gli altri clienti. I due gorilla corsero giù per le scale. Ma ecco arrivare il diretto interessato, un tipo pelato e panciuto arrivava dal piano di sopra armato di rivoltella: Don Gino. Sinceramente me l’immaginavo più imponente, più spaventoso. Mi sembrò buffo, molto buffo. Mentre scendeva vide i suoi che andavano nel sotter‐raneo e li seguì urlando domande e bestemmie. Era il momento giu‐sto. Presi Sara per un braccio e arrivato all’uscita mi voltai gridando: “Don Gino! Ti è piaciuto il TrikTrak?” Eccolo spuntare con il fiatone insieme ai due picciotti, ancora spaventati ma soprattutto affannati. Mi guardò e si fermò. La situazione era fin troppo confusa. Stava cercando di capire. Altro punto a mio favore. Era quello che vole‐vo.“Uè e tu chi sei? Che cazzo vuoi? È tuo il triktrak?” Non riuscivo a crederci ma gli stavo ridendo addosso. “Beh sì, è proprio mio, è il segnale della fine caro mio Gino. La tua fine. Io rappresento il sinda‐cato delle prostitute innamorate. La signorina Sara si licenzia. E ti saluta. Per la liquidazione non ti preoccupare, pagati la dieta e il

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trapianto dei capelli. Ah, com’è che si dice? Baciamo le mani!” Non so come arrivai a tanto sarcasmo, ma la cosa certa è che funzionò. Rimase qualche secondo in silenzio, tutti intorno guardavano lui e noi, una scena assurda, gente nuda che incredula guarda uno che è ancora più confuso di loro. Gino continuò a guardarmi, poi diventò tutto rosso. “Tu hai finito di campare!” E prese la rincorsa verso di noi. I gorilla lo seguivano. “Sara andiamo!” esclamai, e ci catapul‐tammo fuori. Saltammo sullo scooter e misi in moto con le mani tremanti, ormai c’ero dentro, mi ero spinto oltre e non potevo più fermarmi. Si accese subito, e nel momento in cui diedi la prima ac‐celerata Gino cadde con la faccia per terra, convinto di avermi ac‐ciuffato. Polvere e fumo lo saziarono e mentre imboccavo il cancello per uscire dalla villa lo vidi nello specchietto entrare nella sua mac‐chinona con i picciotti, poi vidi accendersi i fari. Era partito l’inseguimento. Dopo venti secondi erano a una trentina di metri da me, che mi dirigevo verso il luogo predefinito. Nelle campagne dalle mie parti sono frequenti lame e scarpate, a volte abbastanza pro‐fonde da far paura. Ce ne era una in particolare che ricordavo ed era lì che mi sarei giocato l’ultima carta. Se chi guidava quella macchina non conosceva quella curva sarebbe potuto cadere di sotto e restar‐ci. A un tratto la vidi, il bello era che non aveva un recinto a delimi‐tarne il ciglio, per questo sapevo che anch’io avrei rischiato. Eccola, sempre più vicina. Tirai dritto e Sara capì, perché mi strinse fortissi‐mo, aveva paura e non potevo biasimarla. Eccomi là, pronto a frena‐re prima della discesa, pregando di riuscirci e che il boss si dimenti‐casse di frenare. Arrivato a qualche metro dal ciglio frenai con forza, mi inclinai a destra e lo scooter sgommò a fondo, e lo fece fin trop‐po dato che per poco non scivolammo per terra. Ero fermo, a trenta centimetri dal fossato. Sentivo l’auto arrivare e con una mezza acce‐lerata mi spinsi dietro un albero vicinissimo. Eccoli arrivare, e… ec‐coli frenare. Sì, evidentemente sapevano di quella curva, avevo sba‐gliato i miei calcoli. In più i bulloni che nel pomeriggio avevo mollato miracolosamente avevano tenuto. Il gorilla alla guida, visto lo scooter con a bordo i due bersagli viventi, fermo sul ciglio della

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scarpata, ci si fermò proprio di fianco, e capita anche la mia strate‐gia fallimentare scoppiò in una risata fragorosa, alla quale si aggiun‐sero quelle del boss e dell’altro gorilla. Puntavano il dito verso di noi, due ragazzi ricaduti con i piedi per terra che avevano sognato la fuga per meno di un minuto, e che ora probabilmente sarebbero morti entrambi, pagando caro il prezzo della libertà. Sentii il rumore di un’altra auto che arrivava e in quel momento immaginai di tutto: rinforzi per lui, polizia per me. Ormai ero rassegnato, riaccendere lo scooter sarebbe stato inutile. Le risate dei tre finirono, evidente‐mente erano pronti a risolvere il malinteso. Sentii sbloccarsi la sicu‐ra centralizzata e una porta si aprì. Fu in quel momento che il rumo‐re che avevo udito si avvicinò ancora, e ancora, e ancora. La mac‐china di Giulio arrivò sfrecciando, rallentò, quasi esitando, poi evi‐dentemente, capito il tutto, riprese velocità. Frenò solo poco prima di tamponare il suv, che dovette camminare solo per mezzo metro, lentamente, per finire di sotto. La fortuna aveva pensato ancora a me: quell’ebete alla guida aveva dimenticato il freno a mano, e pro‐vò ad azionarlo mentre l’auto, con il suo stesso peso, scivolava giù, per finire improvvisamente nello strapiombo. Lì provare a buttarsi fuori sarebbe equivalso a schiantarsi su un albero o sotto la macchi‐na stessa. Sentimmo qualche urlo, poi più niente.Non riuscivo a cre‐derci, ce l’avevamo fatta. Giulio era ancora al volante. Fermo, bian‐co. Al suo fianco la sua ragazza preferita, Claudia. Anche lei, con tan‐to di cintura di sicurezza e faccia scioccata, guardava verso di noi senza battere ciglio. Restammo tutti così per alcuni secondi, finché Giulio scoppiò in un urlo di esultanza, a cui uno dopo l’altro ci u‐nimmo tutti. Lasciai lo scooter cadere sul terreno e corsi ad aprire la portiera dell’auto per abbracciare il mio amico. Dopo alcuni secondi eravamo tutti stretti a saltellare per la gioia. Anche Giulio aveva li‐berato quella che ormai era diventata la sua ragazza e senza nean‐che accorgersene aveva risolto il mio piano, che si era messo deci‐samente male. Dopo il minuto di gioia però tornammo piuttosto se‐ri. Con una mano sulla spalla Giulio mi parlò. “Fratello, ora però dobbiamo allontanarci da qui. Anzi, è meglio se si sparisce per un

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po’.” Era vero, non potevamo starcene lì ancora per molto, dove‐vamo dileguarci subito. “Hai ragione Giulio. Noi partiamo oggi stes‐so. Il tempo di prendere le cose di Sara e parto per Milano”. “Forse intendevi dire partiamo!” rispose pronto Giulio. “Anche noi aveva‐mo deciso di andare a Milano, guarda un po’ che coincidenza”, e mi fece l’occhiolino. “Immagino che vorrete un passaggio per andare su”, e ricambiai l’occhiolino. “Beh… se c’è posto… volentieri…” Gli feci un sorriso e con una pacca sulla spalla lo salutai. “Certo fratello, te lo devo, è il minimo. Ci vediamo tra un’ora da me. Noi andiamo.” Lo abbracciai ancora, poi io e Sara tornammo sullo scooter. Dopo aver messo in moto tornai sulla carreggiata e accelerando progres‐sivamente mi rimisi in corsa. Dovevo passare prima da casa di Sara, lei aveva qualcosa sicuramente da portare con sé, poi da me, e poi via, due ragazzi e due ragazze, verso una vita decisamente nuova, decisamente libera. La strada per arrivare da Sara era breve, ma mi concessi un ultimo rischio: presi la via per il mare. Volevo percorrere la litoranea, volevo farlo a tutta velocità, con il crepuscolo ormai a‐vanzato e le luci del centro storico che cominciavano a brillare forte sul mare, e il mio cuore che piano piano, abbandonata la tensione e la paura, tornava a battere regolarmente. Sara, dietro di me, con il volto appoggiato alle mie spalle e le braccia unite sulla mia pancia, a stringermi forte. Alla nostra destra, il mare. Davanti a noi, la nostra nuova vita. E continuavo ad accelerare, verso la novità, verso le mie emozioni rispolverate e un amore tutto da vivere, tutto da condivi‐dere. Chissà cosa ci aspettava, chissà quali altri ostacoli sarebbero arrivati nel tempo a venire. L’unica certezza in quel momento, però, era di aver vinto una guerra in cui le probabilità di vincere erano quasi nulle. Come se una squadra giocasse una finale di coppa schie‐rando la primavera. Puoi perdere facilmente, ma se hai almeno un fuoriclasse da schierare può fare la differenza. L’amore è certamen‐te un fuoriclasse, come lo è l’amicizia. Io li avevo schierati entrambi: l’amore dopo quel gol avrebbe vinto il pallone d’oro, ma l’amicizia, sicuramente, avrebbe guadagnato la fascia da capitano. Lo scooter

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ormai era su di giri, a novanta all’ora sfrecciavo verso il sole ora spa‐rito dietro il Gargano. Sul mio volto, solo il vento contro.

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RACCONTO SECONDO

Utile

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La tesi di laurea rilegata in mano, un sorriso sorpreso, stremato, di chi quasi non crede di aver chiuso con i libri, con gli esami, con i tre‐ni delle sette pieni zeppi di gente in piedi e con l ‘ansia prima degli esami. Centodieci e lode, dottore in medicina, con tanto di compli‐menti della commissione, ed ecco le strette di mano, i cioccolatini, i fiori, le foto, gli amici, i parenti, e Laura. Laura che con quei tacchi sembrava avesse nel didietro una spina gigante che le impedisse di camminare come Dio insegna. Eccola, con in mano buste e bustine, a sorridere ai flash come se a chiudere sei anni di sacrifici tremendi fosse stata lei. Francesco la guardava ogni tanto con la coda dell’occhio, poi a volte lei si avvicinava, gli metteva un braccio intor‐no al fianco e poi via, di nuovo a starnazzare con gli altri. Centodieci e lode, e un domani ancora tutto da costruire, da mettere a punto, con nuovi sacrifici, nuovi tentativi, sempre a testa alta, con la forza di volontà, con dei punti in più. Finiti gli auguri, li aspettava la ceri‐monia che i genitori di Francesco avevano organizzato in una sala ricevimenti in campagna. Pietro e Chiara, fierissimi e visibilmente commossi, abbracciavano ripetutamente il loro ragazzo, contenti di aver potuto assistere a tale traguardo, al quale anche loro avevano contribuito. Le soddisfazioni sono sempre meravigliose. In macchi‐na, con l’entusiasmo calato e la serenità padrona, viaggiavano Fran‐cesco, i suoi genitori e Laura. La sala ricevimenti non era proprio vi‐cina ePietro pensò che forse era il momento giusto per annunciare la propria volontà al figlio, animato da quell’entusiasmo che, a diffe‐renza degli altri, in lui non si era ancora affievolito. “Chiara, France‐sco, vi devo dire una cosa. Ora che ne vale la pena, ora più che mai, vi dirò la verità. Chiara, ti ricordi quando tre anni fa sono andato in pensione lasciando la fabbrica di pneumatici? Ricordi a quanto am‐montava la mia liquidazione?” Chiara ci pensò un po’ su, poi rispose con aria ancora confusa. “Ventimila euro, che abbiamo speso per riparare casa”. Pietro sorrise, perché pregustava l’effetto che le sue stesse parole avrebbero avuto, poi disse: “Ecco, dovevo solo dirvi

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che in realtà erano venticinquemila. E che ho messo da parte il resto per questo momento. Francesco, hai a disposizione quei soldi per un viaggio. Quand’eri piccolo non ho mai avuto abbastanza denaro per mandarti in gita o in colonia estiva. Ora devi rifarti di tutto, scegli un posto e vacci, naturalmente con Laura. Divertitevi, rilassatevi, e quando tornerai potrai pensare a cosa fare del tuo futuro.” A Fran‐cesco brillavano gli occhi, non riusciva a crederci, finalmente poteva realizzare uno dei suoi più grandi sogni, che tra l’altro aveva tenuto nascosto a tutti, da sempre. “Maldive stiamo arrivando!” urlò Laura, sollevandosi dal sedile posteriore per baciare su una guancia Fran‐cesco, che era alla guida. Lui rimase fermo, il suo sorriso si spense, e restò un attimo in silenzio, perché sapeva che stava per contraddir‐la. “Ecco, io ho un desiderio che porto con me da tempo, io… voglio andare in Africa. Laura, andremo in Nigeria, quei posti mi affascina‐no, il popolo, le tradizioni… vedrai ci divertiremo. Grazie papà, gra‐zie mamma, domani stesso prenoto tutto, è il regalo più bello che abbia mai ricevuto.” Francesca rimase in silenzio, i genitori di Fran‐cesco, capito il disappunto della ragazza, non dissero una parola. Il viaggio proseguì in silenzio. Durante il ricevimento Laura sfoggiò sorrisi uguali a banconote da quindici euro, Francesco la guardava e pensava a quanto valesse la pena continuare quella storia. Stavano insieme da parecchi anni, ma negli ultimi tempi stavano emergendo le prime differenze, le incompatibilità. Lui aveva notato tutto que‐sto, ma non aveva mai avuto la forza di affrontare le cose e aveva semplicemente lasciato che fosse il tempo a decretare quello che sarebbe stato. Guardava Laura e pensava a come sarebbe stata la vacanza in Africa. Troppo faticosa come vacanza per una ragazza vi‐ziata e oziosa come lei. Ma non importava, il sogno era suo, e lei sa‐rebbe stata sua ospite, per cui alla fine avrebbe fatto sì che le pia‐cesse la meta.

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L’agenzia di viaggi sembrava una novità assoluta per Francesco. Ap‐pena entrato si rese conto che effettivamente non ci era mai stato prima. Il posto più lontano che aveva visitato era Venezia, durante una gita scolastica alle superiori. Non aveva mai preteso di poter viaggiare, conscio dei sacrifici enormi che i suoi stavano già facendo. Ora era lì, seduto davanti a un suo probabile coetaneo in giacca e cravatta e con il sorriso a trentadue denti a sua completa disposi‐zione. “Uno schiocco di dita e ti faccio andare dove vuoi” sembrava dire la sua espressione, così coinvolgente da non poter fare a meno di sorridergli a tua volta. Francesco espresse subito l’intenzione di visitare un posto africano, preferibilmente la Nigeria. L’addetto non impiegò molto ad indicargli una città. Si chiamava Abuja, era consi‐gliata poiché era abbastanza grande e aveva anche un aeroporto abbastanza vicino. Arrivare e ripartire non sarebbe stato affatto complicato. Francesco mostrò la sua fiducia accettando e saldando subito il conto. Due settimane ad Abuja con la sua ragazza, festeg‐giando la laurea e realizzando contemporaneamente uno dei suoi più grandi sogni. Appena fuori dall’agenzia prese il cellulare ancora tremante dall’entusiasmo e telefonò a Laura. “Laura, ho tutto pron‐to, lunedì partiamo, comincia a prepararti!” Nonostante la sua voce mostrasse felicità e ansia autentiche, Laura non perse l’occasione per avvelenargli l’umore con le sue battute acide. “Wooow! Non vedo l’ora di visitare i casinò e le spiagge affollate!” E riattaccò. Na‐turalmente Francesco sapeva benissimo che era tutto sarcasmo il suo e che di casinò, ma soprattutto di spiagge, non ce ne sarebbero state. Laura si comportava così semplicemente perché sapeva che malgrado tutto era lei a tenere in mano le redini della loro storia, che gli avrebbe potuto fare anche il torto più grande del mondo, sa‐pendo che lui sarebbe stato sempre lì, ad aspettarla. Francesco lo sapeva, e sapeva anche che non riusciva a cambiare, non riusciva a tirar fuori la sua forza, a imporre il suo modo di essere, non riusciva soprattutto a superare la paura di poter restare solo, di guardare in

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faccia la loro storia, di domandarsi se davvero c’era amore o solo una forte abitudine. Ma non voleva pensarci ora, in fondo, se era riuscito a imporre la sua scelta riguardo alla meta da visitare, forse un passo in avanti il suo orgoglio lo aveva fatto. Chissà…

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Appena atterrati all’aeroporto di Abuja, Francesco si rese conto che probabilmente non era poi così povero quel paese. L’aeroporto era bello grande, spazioso e ben organizzato, gente di tutte le razze gi‐ronzolava indaffarata nei vari negozi e/o uffici. “Eccoci nell’Abissinia del duemila!”, esclamò sarcastica Laura. Francesco le fece un sorri‐so, fingendo di avere interpretato la frase come una battuta leggera, e chiamò un taxi. L’hotel che li avrebbe ospitati non era poi così ma‐le: piscina, sala da biliardo, campo da tennis e sala da ballo. France‐sco aveva puntato sul meglio perché il gruzzolo da spendere era consistente e gli era anche avanzata una cifra bella grossa, ma in fondo voleva solo che Laura si divertisse almeno un po’, così magari avrebbe protestato meno del dovuto. Dal momento che era primo pomeriggio ne approfittarono subito per un bel pranzo e un pisoli‐no. La sera stessa Francesco portò Laura nella sala da ballo dell’hotel, dove lei sembrò per un po’ dimenticare il suo disappunto su quel luogo e si lasciò andare tra le sue braccia. Non andavano mai a ballare, condividevano l’antipatia per il ballo, ma quella sera, lon‐tani migliaia di chilometri da casa e con il sottofondo di una musica così lenta e nobile, lui immerse il naso nei suoi capelli e chiuse gli occhi. Continuavano a danzare, e Francesco pensava, pensava che non era cambiato affatto il profumo dei suoi capelli. Lo stesso pro‐fumo che avevano quando li annusò la prima volta, a soli diciotto anni. E lei forse pensò la stessa cosa, perché lo strinse forte, talmen‐te forte da rabbrividire entrambi. Quella sera fecero l’amore, e quel‐la notte Francesco si illuse che la tarma che corrodeva la stabilità della loro storia potesse davvero scomparire, sconfitta dalla passio‐ne ritrovata, seppure per una sera sola. Il giorno dopo finalmente uscirono. Passarono tutta la giornata fuori, visitarono monumenti e grandi negozi, alzando la testa per guardare quei palazzoni a punta o a cupola. La miriade di gente che camminava per strada fece riflet‐tere Francesco sul paesaggio che lui si aspettava di trovare, quello indigeno, quello povero, e in quel momento capì che anche lì stava‐

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no imparando a nascondere al mondo di passaggio l’Africa vera, quella che invece le tante associazioni umanitarie proiettano nei no‐stri occhi e che puntualmente spingono i più vigliacchi a cambiare canale. Ne sembrò quasi deluso, aveva voglia di conoscere alcuni suoi “colleghi” che lavoravano negli ospedali dei villaggi più poveri, che cercavano quotidianamente di salvare donne e bambini da mor‐te certa. Molti di questi medici erano occidentali, trascinati lì da una misteriosa attrazione, dalla voglia e dalla forza di cambiare le cose, o perlomeno di provare a frenare il corso del male, che tutti ignorano, che tutti nascondono dietro la superficialità, dietro un cellulare all’ultimo grido e a pantaloni da mille euro. Quella sera, prima di addormentarsi, Francesco confidò i suoi pensieri a Laura. “Hai nota‐to anche tu quello che ho notato io?”, la sua voce assonnata non nascondeva il suo tormento. “Io ho notato tante cose, ad esempio la moltitudine di italiani che c’è in giro. Ma non c’era la crisi da noi?” Lei non sembrò percepire la serietà della questione. “Non sono riu‐scito a intravedere i poveri. I bimbi affamati e ammalati, le mamme rassegnate ma non per questo avvilite. Insomma, l’Africa povera, bisognosa, io non l’ho vista, eppure era proprio quello che sono ve‐nuto a cercare qui”. A queste parole Laura si voltò nel letto a guar‐darlo, come per capire se dicesse sul serio, e sapeva benissimo che Francesco non era tipo da scherzare su certe cose. “Fra’ hai preno‐tato una vacanza, non una missione. È normale che l’agenzia ti abbia mandato qui. Se volevi vedere l’altra faccia saresti dovuto andare all’Unicef, e naturalmente senza di me.” Eccola lì, impeccabile nel suo egoismo. La sua risposta in fondo era stata sincera, realistica, ma pur sempre ricca di sarcasmo e cattiveria, e Francesco, come al solito, non sembrò dare un grosso peso a quelle parole. Annuì con un gemito fingendo di essere lì lì per addormentarsi e non parlò più. Poco dopo Laura si addormentò. Francesco capì che ciò che era suc‐cesso la sera precedente era stato soltanto un semplice, sporadico episodio.

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Quella notte Francesco continuò a pensare, a farsi mille domande. No, non era soddisfatto, sentiva che se quella vacanza fosse conti‐nuata così gli avrebbe solo lasciato l’eterno tormento di non essere stata come lui la voleva. Alle sette di mattina, mentre Laura dormiva ancora (e avrebbe dormito ancora per molto, dato che aveva l’abitudine di svegliarsi in tarda mattinata), si vestì in silenzio, scese di sotto e chiamò un taxi. Il tassista conosceva bene l’italiano e, no‐nostante Francesco non avesse problemi con il francese e l’inglese, si sentì più a suo agio. “Dove la porto?” L’autista, diligente e sorri‐dente, si mise subito a disposizione. “Voglio che mi mostri la zona povera di questa città, ti pagherò bene non preoccuparti, ma mo‐strami ciò che ti chiedo”. Francesco temeva che l’autista lo prendes‐se per un masochista, invece quell’uomo sembrò annuire quasi con ammirazione nello specchietto retrovisore, e partì. Più strada per‐correva il taxi, più quei palazzoni di città si vedevano meno per la‐sciare gradualmente posto ad una zona quasi deserta, laddove poi comparvero le prime baracche. Ai bordi della strada le prime donne con le giare sul capo si dirigevano verso pozzi ubicati chissà dove, per procurarsi acqua dalla dubbia affidabilità e provenienza. “Mi di‐ca solo dove fermarmi, qui la strada prosegue così fino all’uscita dal villaggio”. “Fermati pure qui e se puoi aspettami, pagherò tutto.” Francesco uscì dall’auto e incominciò a camminare senza neanche sapere verso dove. Si limitò a guardare dal bordo della strada la folla di indigeni alle prese con le faccende della vita quotidiana, che sem‐brava totalmente indifferente alla sua presenza. Mentre si guardava intorno, il suo sguardo incontrò quello di una piccola e buffa bambi‐na, che dall’ingresso della sua baracca lo guardava e, cosa più bella, sorrideva. Francesco si sentì fulminato da quel sorriso e non poté fare a meno di incamminarsi altrettanto sorridente verso di lei. Quando le fu vicino lei corse dentro più per semplice timidezza che per paura. Francesco arrivò sull’uscio, temporeggiò un po’ mentre sentiva la voce di una donna che in lingua locale chiedeva forse alla

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bimba perché fosse entrata così di corsa. Poi la tenda si aprì e la donna (che in realtà Francesco capì essere una ragazza, probabil‐mente una sua coetanea) gli si imbattè contro, emettendo anche un gridolino dovuto allo spavento. Praticamente se lo era ritrovato da‐vanti. Francesco l’aiutò a rialzarsi e sfoderò un sorriso di quelli che lasciano intendere l’inoffensività di una persona. Lei ricambiò il sor‐riso e gli squadrò i vestiti: non capitava tutti i giorni di ritrovarsi dei bianchi benvestiti fuori dalla propria baracca! Francesco si chiese quale lingua potesse provare a utilizzare per comunicare con quella gente, e non ci mise molto a capire che forse il francese avrebbe funzionato. “Ciao, mi chiamo Francesco e sono italiano, scusami se ti ho spaventata.” Detto ciò le porse la mano e lei lentamente fece lo stesso. È un gesto poco utilizzato da quelle parti, di conseguenza poco conosciuto. “Io sono Dalila”, rispose la ragazza timidamente, come se si vergognasse di ciò che era e di come gli si presentava. Francesco seppe metterla subito a suo agio e iniziò, non senza diffi‐coltà per via della lingua, una conversazione con lei. Ad un tratto notò che dalla tenda sporgevano due occhietti indagatori. Sorrise indicandoli. “Lei? Ha paura?.” Dalila entrò e trascinò la bambina fuo‐ri. “Lei è Shakia, mia figlia”. Francesco le accarezzò il capo e poi pro‐vò a parlarle. “Ciao Shakia, io sono Francesco. Dov’è il tuo papà?” Dalila cambiò espressione quando sentì questa domanda. “Mio ma‐rito è morto, è stata la malaria”, rispose al posto della bambina, che sicuramente molte cose doveva ancora capirle. “Mi spiace davvero, perdona la mia domanda… E come fai con la bambina? Come fate a tirare avanti?” La sua commozione era autentica, così come lo era anche la sua curiosità. “Lavoro nei campi in cambio di poco cibo, quanto basta per far crescere lei”, rispose la donna mentre indicava la sorridente Shakia, che nel frattempo aveva iniziato a tirare Fran‐cesco dalla sua polo nuova. “Vuoi giocare con me?” Francesco si bloccò, ormai le sue emozioni erano miste. “Giocare”, una cosa che, nonostante tutto, tutti i bambini del mondo facevano, al di là della fame e della sete, della perdita di un padre o di un fratello, delle guerre e delle malattie. Giocarono a nascondino, dentro e fuori la

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tenda, mentre Dalila preparava una bevanda alle erbe, una sorta di malriuscita simulazione del caffè o del tè di noi occidentali. France‐sco non la trovò poi così brutta, anzi, trovò il sapore piuttosto inten‐so. Poi guardò l’orologio, si erano fatte le undici, Laura poteva es‐sersi svegliata. Salutò e ringraziò Dalila, baciò Shakia e le promise che sarebbe tornato presto, molto presto, per giocare con lei. Il tas‐sista aveva mantenuto la promessa, era lì che leggeva un giornale, lo riaccompagnò e gli fece anche uno sconto consistente. Quando Francesco arrivò in albergo trovò Laura che faceva colazione in ca‐mera. “Non mi sarai andato a letto con la cameriera?” gli disse ap‐pena lo vide entrare. Naturalmente scherzava, era così menefreghi‐sta da non essere neanche capace di provare un sentimento come la gelosia. Francesco le spiegò dov’era andato e cosa aveva fatto. Lau‐ra riuscì a mostrarsi interessata, ma quando lui le disse che voleva portarla al villaggio per farle conoscere la piccola Shakia, lei non esi‐tò a rispondergli: “Ma scherzi? Non sono vaccinata per le malattie che girano in questi posti, e poi sai che puzza in giro! No, caro, vacci tu per me.” Lui la prese in parola. La loro vacanza continuò tra pisci‐na e relax, shopping e souvenir, cartoline e profumi. Ma Francesco ogni singolo giorno dedicava ore a Shakia, arrivava lì ogni giorno con del cibo e un giocattolino e giocava con lei, mentre Dalila li guardava con gli occhi che le brillavano e senza rendersi conto che Francesco spesso la guardava trovandola bellissima con i suoi riccioli neri e il suo vestito indescrivibilmente etnico. A volte si chiedeva se quando le dicevano che la loro povertà era causata dai bianchi dicessero la verità; non sarebbe potuto essere così se tutti i bianchi avessero a‐vuto come Francesco una forte luce negli occhi, una luce che faceva trasparire amore per la vita e un affetto sincero per il prossimo, per Shakia. Francesco era lì e stava bene, glielo si poteva leggere in fac‐cia anche a lunga distanza: era sereno, felice, come fosse un bambi‐no anche lui. Dopo tre giorni ai giochi di Francesco e Shakia si ag‐giunsero tutti i bambini del villaggio e lui non poteva che sentirsi fe‐lice. Stava regalando sorrisi, chi non ne sarebbe stato soddisfatto?

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Francesco non si era reso conto che la vacanza stava volgendo al termine tra le passeggiate con Laura, che sembrava sempre più an‐noiata, e i pomeriggi passati nel villaggio con Dalila e i bambini. Mancavano poco più di quarantotto ore alla partenza e, quando se ne accorse, pensò immediatamente a Shakia. Era impressionante la velocità con la quale si era affezionato a lei e come si trovasse a suo agio in mezzo a delle persone socialmente e culturalmente così di‐verse da lui. E poi c’era Dalila. Dalila che ogni giorno lo guardava con un’espressione indefinibile, un misto di stupore, meraviglia, ammi‐razione; Dalila che preparava con cura quella bevanda calda; Dalila che provava ad acconciare nel modo migliore i riccioli di Shakia e che compariva solo nel tardo pomeriggio, tornando dal lavoro visi‐bilmente distrutta ma non priva dell’entusiasmo di rivedere la sua piccola sana, salva e sorridente. È Difficile provare a mettere in pra‐tica il concetto di famiglia in un posto come quello, quasi impossibi‐le. Bambini rapiti per diventare poi spietati guerrieri, donne al lavo‐ro tutto il giorno, uomini che provano a intraprendere viaggi prima attraverso il deserto e poi su barche malandate, per sbarcare (am‐messo che si superino le angustie di un viaggio assurdo) in una terra diversa, una terra della speranza, pullulante di umilianti carità o di razzisti che si celano dietro svariate forme di falso perbenismo, di notti al freddo sotto i ponti e di luci chiare e sporche. Difficile davve‐ro poter paragonare quello che i nostri moralisti predicano ininter‐rottamente a quello che Francesco stava vedendo lì. Quel pomerig‐gio, prima di uscire per andare al villaggio, comprò delle buste e‐normi di caramelle da distribuire ai bambini, con una dose di riguar‐do a Shakia. Lei sarebbe stata felice, avrebbe avuto la sua scorta per un bel po’. Quando arrivatò Shakia gli corse incontro piangendo, era visibilmente spaventata ma sembrava anche arrabbiata, di quella rabbia che ti viene quando ti succede qualcosa di brutto e, non sa‐pendo con chi prendertela, ti sfoghi in lacrime. Francesco si chinò verso di lei e le prese il visino tra le mani, parlandole in quel suo

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pseudo‐francese sufficiente comunque a comunicare. “Shakia! Su su, stai calma, dimmi cos’è successo.” Le lacrime della piccola ba‐gnavano le sue mani per poi cadere nella terra polverosa. Singhioz‐zava, ma pian piano prese a parlare. “Irim, Irim… lui… stanotte l’hanno portato via… stava male… Irim…”, e riprese a piangere a di‐rotto. Irim, il suo migliore amichetto, nonché compagno di culla, la notte era stato vittima di una forte febbre, probabilmente causata dalla malaria, ed era stato portato nell’ospedale più vicino, uno di quelli in cui molti medici occidentali lavoravano come volontari, af‐frontando ogni giorno situazioni indescrivibili, rese più sopportabili a volte da qualche miracolosa e sofferta guarigione, prezioso inco‐raggiamento a non mollare, a continuare la loro missione. Francesco rimase a guardarla e continuò ad accarezzarle le guance con i pollici. Poi si rialzò. “Dov’è tua madre? A lavorare?” “Sì, è ai campi”. Shakia sembrò improvvisamente essersi tranquillizzata, quasi sapesse che Francesco potesse salvare la vita di Irim. Francesco chiese al tassi‐sta, ormai suo fidato compagno di escursioni, un pezzo di carta, sul quale scrisse una riga a Dalila: SHAKIA È CON ME. La lasciò in casa sul primo appoggio che trovò e corse nel taxi con la bimba. L’autista impiegò poco tempo per raggiungere l’ospedale. Non appena furo‐no scesi dal taxi Francesco prese a correre tenendo per mano Sha‐kia. Nei corridoi dell’ospedale numerosissimi volti occidentali erano impegnati nel loro quotidiano lavoro e Francesco li salutava in ingle‐se. Ne fermò uno a cui, dopo essersi presentato come un giovane medico, chiese dove fosse il reparto di pediatria. Qualcuno dovette riconoscere il suo accento: un medico alle sue spalle intervenne ri‐spondendogli in italiano. “Qui è tutta pediatria, paesano. Qui è diffi‐cile trovare adulti, perché all’età adulta non ci arrivano in tanti”. Francesco si girò di scatto. Un italiano! Certo la sua presentazione non era stata delle più formali, anzi, poco aveva avuto dei soliti con‐venevoli, ma Francesco gli strinse subito la mano, tenendo nell’altra quella di Shakia. “Mi chiamo Francesco Mandri e mi sono laureato da poco in medicina. Ero qui in vacanza e… mi perdoni, la storia è davvero lunga e credo lei abbia da fare. Comunque, sto cercando un

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bambino che hanno portato qui nella notte per una crisi o qual‐cos’altro. Sa dove l’hanno portato?” “Irim? Il piccolo è nella stanza in fondo a destra. Sta meglio, ce la farà, se fosse rimasto fino a sta‐mattina a casa sua però…”, abbassò la testa scuotendola lentamen‐te per poi riprendere, “in ogni caso non si preoccupi, venga a tro‐varmi nel mio studio dopo, ci prendiamo un bel caffè. Ah, dimenti‐cavo, mi chiamo Mario Bassi e sono il responsabile di questa mode‐sta struttura. Spero di rivederla allora. A presto.” Si allontanò con le mani nelle tasche del camice, con la testa leggermente inclinata, camminando lentamente. Francesco e Shakia arrivarono di corsa in fondo al corridoio, la piccola saltò improvvisamente sul letto di Irim abbracciandolo e ricominciando a piangere, questa volta per la gioia di rivederlo. Francesco intanto rassicurava entrambi a proposito dell’imminente e certa guarigione di Irim. Nella stanza c’erano altri due bambini e nelle altre vicine ce n’erano tantissimi altri ancora. Francesco si ricordò di una cosa che poteva tornargli utilissima in quella situazione: le caramelle comprate per i bambini del villaggio! Raggiunse velocemente il taxi, prese i suoi dolcetti e in men che non si dica tutte le caramelle furono distribuite ai bambini dell’ospedale, che sorridevano sopresi e felici per qualcosa di inaspettatamente dolce, unico. Lasciò Shakia nella stanza di Irim, chiese all’infermiera dove fosse lo studio del dottor Bassi, e quando ci arrivò e bussò il dottore aprì la porta e lo fece accomodare. Scartò un sigaro, ne offrì uno a Francesco che declinò l’offerta e poi lo mise tra le sue labbra accendendolo. “Posso darti del tu, Francesco?” “Certo dottore, si figuri.” “Diamoci del tu allora. Francesco, sei un laureato in medicina se ho capito bene. Hai avuto modo di visitare l’ospedale? Sai, te l’ho letto negli occhi, non c’è bisogno che tu mi racconti come sei arriva‐to qui. Vuoi sapere una cosa? Sono sicuro che è lo stesso che è ac‐caduto a me. Ci sono venuto come semplice responsabile in una in‐fermeria di una base petrolifera. Poi venni qui perché seppi che c’era un mio vecchio professore di facoltà e ora eccomi qua, a sosti‐tuirlo. E la sai una cosa? Non me ne sono mai pentito.” Francesco lo guardava con interesse e ammirazione, poi gli rispose: “A me è an‐

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data diversamente. Sono qui in vacanza, con la mia ragazza. Il se‐condo giorno che ero qui ho fatto un salto in villaggio e mi sono af‐fezionato a Shakia, la bimba che era con me. Sono andata a trovarla tutti i giorni. La gente di quel posto ha un qualcosa che va oltre l’umiltà e l’amore. Ne sono rimasto subito affascinato. Ciò che mi turba è che domani dovrò ripartire.” Mario a questa affermazione cambiò espressione. “Capisco, sei ormai legato a quella bambina. Sarà che noi medici abbiamo spesso un’indole altruista, ma era ciò che avevo provato anch’io all’epoca. Turbamento. Però, vedi, in questo caso tu hai una ragazza, sei neolaureato e hai un avvenire davanti. Fa’ tesoro di questa esperienza e guarda dritto davanti a te. Io non ho nessuno se non i miei ammalati, i miei collaboratori e Dio. Magari ricordati di noi e organizza dei finanziamenti per queste strutture, ma per ora segui la tua strada, quella per la quale i tuoi genitori si saranno sicuramente sacrificati.” Francesco lo guardava un po’ perplesso e non poté fare a meno di ribattere. “Dottor… cioè Mario… come sai che ho provato la forte voglia di restare qui? Mi conosci da un minuto e...” Mario lo interruppe portandosi l’indice davanti alle labbra. “Lo so perché hai gli occhi che avevo io quando guardandomi allo specchio mi accorsi che quell’infermeria l’avrei lasciata il giorno stesso per venire qua. Fidati di me, pensaci fino in fondo. Io ti ripeto che non me ne sono mai pentito, ma… sei giova‐ne… ed è una scelta importante.” Proprio in quel momento squillò il cellulare di Francesco. Era Laura, ed era più incazzata che mai. “Pronto? Fra’? Ma insomma, dove cavolo sei finito? Qui ci sono del‐le valige da preparare e stasera c’è l’ultima serata danzante. Che fai? Non ti muovi?” I suoi continui interrogativi lo innervosirono. Le rispose con calma. “Arrivo là. Un quarto d’ora e sono da te. Ciao.” Riattaccò. Quella telefonata aveva interrotto la serie di confidenze tra i due nuovi amici, e Francesco non la riprese. Salutò il dottor Bassi con una forte stretta di mano e un arrivederci, prese Shakia e tornò in albergo. Dopo che fu uscito dallo studio, Mario restò lì sulla sua poltroncina a pensare agli occhi di quel ragazzo, uguali ai suoi di vent’anni prima quando, aggiustandosi il bavero della camicia da‐

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vanti allo sporco specchio di quella fottuta infermeria, aveva preso le valige e a testa alta se n’era andato. Il suo flusso di pensieri fu in‐terrotto da qualcuno che bussò alla sua porta. Era un’infermiera con dei documenti da firmare. Mentre lui se ne occupava lei interruppe il silenzio. “Dottore, ha visto i bambini? Non ho mai visto dei pazien‐ti sorridere così, tutti insieme, in cinque anni che sono qui.” France‐sco alzò gli occhi dalla scrivania. “Perché sorridono? Cosa è succes‐so?” “È venuto un ragazzo italiano e ha distribuito con dei sacchi una quantità enorme di caramelle a tutti i bambini. E ora sono felici, anche quelli nelle condizioni peggiori. La cosa più assurda è che so‐no bastate delle caramelle. È bellissimo.” Continuò a guardarla dal basso della scrivania con gli occhi all’insù, poi si riabbassò scuotendo la testa e sorridendo borbottò “Benvenuto tra noi…”

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Valige pronte, aperte solo per poterci rimettere i vestiti da utilizzare quella sera per il ballo. Laura si truccava con cura davanti allo spec‐chio, ancora imbronciata per la lunga assenza di Francesco durante quella giornata. Francesco seduto a lato del letto, che guardava nel vuoto. E pensava, pensava a Shakia. Le aveva promesso che sarebbe passato a salutarla prima di andare in aeroporto; l’ aveva già accen‐nato anche a Laura, che con stizza aveva subito puntualizzato che non si sarebbe mossa dal taxi. “Sveglia! Sei pronto? Andiamo giù che si comincia.” Ballarono, cenarono e cercarono di tracciare un bilancio della vacanza. Lei si chiedeva se avesse spedito le cartoline a tutti o se avesse dimenticato qualcuno; lui fingeva di interessarsi ricordandole nomi di amiche che gli passavano per la mente così, per sembrare partecipe. Poi a mezzanotte tornarono in camera, e mentre si spogliavano lui vide la sua schiena liscia, nuda e profuma‐ta e iniziò a baciarla. Poi le fece un massaggio, la baciò ancora, fece‐ro l’amore. La fece sua con passione ardente, stringendola a sé più forte che poteva, annusando i capelli, il collo e la pelle con un impe‐to insolito, come qualcuno che torna da un viaggio durato mesi, an‐ni, e ritrova la sua amata. O come qualcuno che la sua amata la sta per perdere. Inevitabilmente. Quella notte il sonno andò a farsi be‐nedire e mentre Laura dormiva lui era in preda a pensieri e paure: l’amore per Laura, se era ancora autentico o no, l’attrazione che provava verso quei posti, per quei bambini, se era solo momenta‐nea o una vera e propria vocazione. Per un momento si chiese se anche i giovani sacerdoti provassero ciò che quella notte stava pro‐vando lui. Poi guardò l’orologio, erano le quattro. Aveva sete e ave‐va mal di testa. Andò in bagno, in silenzio, orinò e mentre si lavava le mani si guardò allo specchio. Vide i suoi occhi, guardò dentro se stesso, e finalmente, inevitabilmente, capì.

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Le otto di mattina arrivarono, insieme al taxi (sempre lo stesso) che li aspettava già fuori dall’albergo. Caricarono i bagagli ed entrarono nell’auto. Francesco diede delle indicazioni in francese all’autista e parlarono per due minuti abbondanti. Poi l’autista prese la ricetra‐smittente, chiamò qualcuno e sembrò dare a sua volta indicazioni a un suo probabile collega e s’incamminò. Entrò nel villaggio e Fran‐cesco vide Laura guardare fuori dal finestrino. Sembrava schifata, sorpresa, quasi spaventata. Si fermò vicino alla casa di Dalila, appo‐stato qualche metro più avanti c’era un altro taxi. Il tassista scese e aprì il portabagagli. Francesco si girò verso Laura con gli occhi rigati già dalle lacrime.“ Laura, devo dirti una cosa. Ho deciso di restare qui. Non posso, non riuscirei mai a spiegartelo, tutto quello che so è che quando ho visto questi bambini, questa gente, mi sono sentito subito a mio agio, subito parte di loro. Ho sentito di volere, di pote‐re dare qualcosa, anche solo un semplice sorriso. Ieri quando mi hai chiamato ero in ospedale. Lì mi è successo qualcosa di ancora più grande, di ancora più indescrivibile. Quando ti accorgi che con una caramella rendi felice un bambino morente capisci che il NIENTE è ciò che regna qui. Non importa se non salverò tutte le vite, se non sarò poi così utile. Io resto qui Laura, sento di doverlo fare. Ti prego, cerca di capire. Ti ho amata tantissimo e credo di amarti ancora, se c’è una cosa che ho capito con certezza è che non si può imbavaglia‐re un sogno.” Lei inizialmente restò ad ascoltare con espressione tranquilla, addirittura interessata, poi gli occhi le diventarono rossi, e ora piangeva, lo stringeva a sé. Chi lo avrebbe mai detto. Laura, che lo minacciava in continuazione di lasciarlo, che decideva sempre il da farsi, che ricattava e rinfacciava. Laura l’orgogliosa, ora in gi‐nocchio con le lacrime agli occhi, che lo implorava di ripensarci. “Sposterò i miei bagagli in quel taxi, ti porterà in orario all’aeroporto. Riferisci per piacere ai miei che li chiamerò presto e spiegherò loro tutto. Perdonami, ora devi andare altrimenti perdi l’aereo, e magari un giorno chissà, ci rivedremo.” Le accarezzò le

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guance, la strinse forte e pianse con lei per un minuto che sembrò un anno. Poi aprì la portiera e cominciò a spostare i bagagli nell’altro taxi. Tornò nel taxi di Laura, le diede un ultimo bacio e poi in silenzio tornò fuori. L’auto si rimise in moto e, mentre partiva, lei continuò a guardarlo in lacrime, mentre le labbra di lui scandivano lentamente la parola addio. Il secondo tassista chiese a Francesco se dovesse aspettare lì, lui rispose di sì, avrebbe fatto presto. Shakia dalla sua stanza sentì la sua voce e corse fuori. Lui la prese in braccio e girò su se stesso innumerevoli volte. “Resto qui Shakia. Resto con te.” Lei esplose in una risata gioiosa mentre gridava “evviva evvi‐va!”, ricordando a Francesco per un attimo il cartone di Heidi, quando la piccola saltella tra le pecorelle. Arrivò anche Dalila che aveva sentito le urla della bambina, e mentre Francesco la posava per terra Shakia cominciò ad urlare alla mamma “Resta qui! France‐sco resta con noi!” A questa notizia anche Dalila la prese in braccio e la strinse forte. Era notevolmente felice anche lei e il motivo France‐sco lo avrebbe scoperto presto. Dopo il breve ma intenso festeggiamento, Francesco disse a Dalila di doversi allontanare un attimo, sarebbe tornato presto. Aveva una faccenda da sbrigare. Mario Bassi aspettava nel suo studio guardan‐do l’orologio e fumando il sigaro con paziente attesa. Quando vide dalla finestra arrivare il taxi agitò il pugno in gesto di esultanza e‐sclamando “Lo avevo detto!”, e si incamminò rapidamente verso l’ingresso. Francesco uscì dal Taxi, e non appena l’ebbe visto puntò dritto verso Bassi. Quando gli fu davanti si guardarono negli occhi silenziosamente per un minuto, poi Bassi gli strinse la mano chie‐dendo “Come l’hai capito?” Francesco rispose continuando a guar‐darlo negli occhi. “Lo specchio, ho fatto come te… lo specchio.” Si abbracciarono. “Benvenuto tra noi Francesco. Che Dio ti benedica.” Entrambi entrarono in ospedale mentre il sole fuori continuava a salire nel cielo. Laura saliva da sola sull’aereo del ritorno e Shakia saliva sulle spalle della mamma continuando a gridare “Evviva!”

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RACCONTO TERZO

A un passo

dal salto

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Non ricordo precisamente il perché. Il mare, il parabrezza bagnato dalle mille goccioline di pioggia e poi…. fumo… la nuvoletta di fumo esalava piano piano dalla mia bocca semichiusa e distratta. Si e‐spandeva, mi avvolgeva, infine si dissolveva fino a scomparire, men‐tre il vento, il forte vento, sollevava lacrime salate di mare, schian‐tandole con impeto sulla mia auto. Me ne stavo lì: la sigaretta in una mano, il telecomando dell’autoradio nell’altra. Tendeva a scivolare sempre quel maledetto telecomando, ma poi, puntualmente, ogni volta riuscivo a raccogliere quelle poche forze necessarie per strin‐gerlo più forte e salvarlo dalla caduta. Io che fumavo, mah! Si parla tanto della depressione, forse così tanto da rendere tutt’altro che facile la possibilità di capire cosa essa sia realmente. È una di quelle cose che ognuno interpreta a modo suo, che ognuno osa attribuirsi anche quando non c’è. Beh, io non sono un medico, ma vorrei esser‐lo per potervi dire se in quel momento il sottoscritto fosse un sog‐getto depresso; ma, d’altronde, a nulla servirebbe capirlo, adesso così come allora. Era finito tutto. La pallina di neve aveva iniziato a rotolare dalla cima del nostro amore già da un anno ormai. Sbaglio dopo sbaglio, le cose erano peggiorate sempre di più, perché, si sa, se un grande amore non trova la forza di prima, se non si avverte più, lascia il posto a qualcosa di molto simile all’odio reciproco, a qualcosa che ti porta a non salutarsi più per strada, a farsi vedere per dispetto con un altro/a al proprio fianco, solo per il gusto per‐verso di cercare un modo, un pretesto per scambiarsi battutine cat‐tive o, peggio ancora, insulti... Tutto pur di avere un contatto. La pa‐rola fine tra noi era stata inevitabilmente scritta e ricalcata: FINE… e buonanotte ai suonatori! Eccolo lì signore e signori, il pupazzo con la barba lunga, con la stessa felpa vecchia di sei giorni, con lo sguardo spento, fisso su una delle tante goccioline ferme sul parabrezza, stanco anche di pensare: ero solo perso, perdutamente perso e non nei suoi baci, non nel suo caldo abbraccio, ma nella solitudine che mi ero trovato a dover affrontare. E nella mente quelle parole che

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riecheggiavano senza concedermi tregua “gli sbagli si pagano.” Evi‐dentemente, gli sbagli dovevano essere stati tanti se ora mi ritrova‐vo a dover pagare un conto così salato. Eccola lì la nostra canzone che si concedeva il suo turno nella playlist di quel fottuto stereo, Don’t pretend you sorry… cantavano i Backstreet Boys in Drowing, la nostra canzone. Mi veniva in mente un episodio legato proprio a quella canzone, a quando lei credeva gli mentissi, che in realtà io collegassi quel pezzo ad un’altra storia. Non era vero: quella canzo‐ne era la nostra e credo lo resterà in eterno. Ma perché, mi chiede‐vo ora assalito dal rimpianto, perché se sapevo che lei si sbagliava, che quella canzone era davvero nostra non ho mai lottato per pro‐vare la verità? Perché? La verità è che il mio arrendermi, il mio la‐sciare che lei avesse sempre ragione mi aveva solo reso, soprattutto ora, un essere inerme rinchiuso nella sua auto a guardare il mare senza più lacrime né speranze. La sigaretta era finita, il filtro come sapete non è fatto per essere fumato. Giù il finestrino, via la cicca. Il vento da fuori quasi me la respinse indietro, verso la faccia, poi le fece cambiare traiettoria e la trascinò via con sé. Il mio viso, intanto, non si era per nulla scansato; non aveva temuto neanche per un at‐timo l’eventuale ustione, era totalmente fuori dal mondo. Non ave‐vo nulla da ricordare precisamente ora, non ancora: c’era un treno velocissimo di immagini sfocate e taglienti che mi sfrecciava davanti spietato, ma nessun momento unico, nessun particolare. E intanto scivolavo sempre più giù, credo di aver toccato il fondo in quel pre‐ciso momento della mia vita. Già, la mia vita… L’avevo basata su quella storia d’amore, portavo a termine le mie giornate sorridendo perché, ogni giorno, sapevo chi mi aspettava, cosa mi aspettava e, nel bene e nel male, non mi ero mai sentito solo. Mai avevo guarda‐to fuori dal finestrino consapevole del fatto che esclusa la famiglia e un paio di amici mi era rimasto il nulla, in un mondo che è nulla. A‐vevo fatto poco per proteggere e consolidare quella storia e sicura‐mente ora era troppo tardi per darmi da fare, il giudice aveva deci‐so, l’udienza era tolta. Si erano fatte le undici, una giornata intera isolato in macchina, a casa si chiedevano che fine avessi fatto. Ben‐

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ché consapevole che ciò fosse ingiusto, anche questa cosa non mi interessava: di certo a casa non meritavano tanta ansia e preoccu‐pazione per me che, in fin dei conti, i fallimenti me li sono sempre andato a cercare. La costa intanto si era riempita di macchine, piano piano, una a fianco all’altra; le vedevo che si appannavano, che con‐sumavano i minuti di sesso o di lite o chiarimento o pace o addio. Lì, tra quelle auto, a volerle dividere in categorie ci sarebbero stati pa‐recchi insiemi da creare: quello del sesso con amore, del sesso senza amore, del tradimento fuggitivo, del tradimento recidivo… Insom‐ma, il mio cervello ricominciò piano a connettere, non nel migliore dei modi, ma il pensare a quelle macchine ferme vicine alla mia era sempre meglio che non pensare a niente. Pian piano mi sollevai, riti‐rai su il sedile, mi diedi una strofinatina agli occhi, misi in moto. Un altro giretto e poi a casa, affinché i miei fossero più tranquilli. La macchina si mise in moto, ingranai la retromarcia, ma mi accorsi so‐lo allora che i vetri erano completamente appannati, la condensa era così tanta che aveva iniziato a colare e non bastò passarci sopra la mano per vedere qualcosa, dovetti usare il giubbotto. Partii verso casa.

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A volte ci si chiede se davvero la vita è così bastarda nel voler vede‐re fino a che punto si può sopportare il male. Più di me se lo saran‐no chiesto quei malati terminali che, illusi più volte dall’apparente guarigione, erano poi tornati sistematicamente sotto i ferri della speranza. Io me lo chiesi fermo a quell’incrocio, con le mani treman‐ti sul volante e una totale debolezza. Me lo chiesi più e più volte, quante precisamente non saprei, perché dopo piansi così tanto che sembrava fossi entrato in un nuovo tipo di coma, fatto di tremore, pianto, incomprensione. Ero a poco più di cento metri da casa, quando mi passò davanti un’auto blu. A guidarla c’era un ragazzo. Tutto normale, direte voi, se non che come passeggero c’era Gaia, lì al suo fianco. Si fermarono per aspettare che la macchina alla mia destra svoltasse a sinistra, e nel frattempo si baciarono con una tale passione che sembravano usciti da un film alla Via col vento. Bene, benissimo, l’opera era completa. La scena mi fece drasticamente capire che davvero non c’erano speranze di riprendersi, di riavvici‐narsi. Lei aveva già la sua nuova vita, la sua nuova passione e quello che spingeva la lama più a fondo nel mio cuore era pensare a quan‐to per lei fosse stato facile mettermi da parte, spegnermi dall’interruttore principale e arrivederci. A casa c’era già la cena cal‐da in tavola, ma provate voi a buttar giù qualcosa con lo stomaco appallottolato, provate solo a deglutire, credetemi, è davvero im‐possibile. “Ciao, Alex! Finito tardi di lavorare?”mia madre, come o‐gni mamma che si rispetti, fingeva di non sapere nulla, di non aver colto la mia tristezza. “Già”, era tutto quello che avevo da dire, una forte pigrizia mi aveva afflitto e non riuscivo a trovare neanche la forza per spogliarmi e mettermi il pigiama. “C’è l’arrosto nel piatto.” “No ma’, non ho fame, sono così stanco che non ho nemmeno vo‐glia di mangiare. Me ne vado a dormire, mangerò domani”. Lei non rispose. E quando una mamma non risponde, ha accusato il colpo, ha avuto la conferma di cui ha bisogno: sono problemi di cuore, il mio fanciullo ha il cuore spezzato, ecco perché non mangia. Passai

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in bagno a buttarmi un po’ d’acqua sul viso, mi guardai allo specchio e vidi i miei occhi gonfi e smarriti: sembravano quelli di una persona appena svegliatasi dal coma che guarda la luce dopo chissà quanti mesi. Mentre l’acqua mi gocciolava dal mento mi accarezzai la bar‐ba, iniziava a farsi davvero lunga e sicuramente non era quello il momento in cui avrei avuto interesse a raderla, anzi fosse stata an‐cora più lunga mi ci sarei impiccato. Misi su il pigiama ed entrai nella mia stanza. Accesi il pc sperando di trovare Sandro sul messenger, e infatti era lì, quasi come se avesse il sesto senso e sapesse che pri‐ma o poi sarei arrivato per dirgli qualcosa. Digitai lentamente, con debolezza. “Ciao fratello, sono a casa. È tutto ok.” Lui mi rispose con la solita famosissima faccina con il sorriso, che sicuramente gli svanì subito dopo, quando mi disconnessi e mi buttai sotto le coperte. Piangere in silenzio, il mio auto‐comandamento, me lo stavo ripe‐tendo mentalmente, nessuno doveva sentire. Prima o poi il sonno sarebbe arrivato e la mattina dopo avrei fatto quel che avevo piani‐ficato con totale lucidità, seppure in uno stato di confusione pro‐fonda. Il mio treno era alle sei e trenta, Molfetta‐Roma, niente sca‐lo, niente sosta. Il sonno arrivò davvero, e sognai pure, ma vi ri‐sparmio i particolari, sarebbero scontati e noiosi. La sveglia suonò e mi diede quasi l’impressione di farlo in anticipo; in realtà ero sveglio a guardarla già da un’ora dal momento che il sogno mi aveva desta‐to completamente dal sonno. Mi alzai, mi vestii in fretta, racimolai le poche cose che sarebbero tornate utili solo per le prossime venti ore al massimo, scrissi un biglietto ai miei e lo lasciai sul tavolo in soggiorno. Per fortuna nessuno fu destato dai pochi rumori che pro‐vocai e così una volta fuori di casa m’incamminai verso la stazione.

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La strada che porta alla stazione della mia città è un rettilineo che costeggia la ferrovia. Il freddo di dicembre era amplificato in quella via larga e ventilata. Al primo mattino poi era difficile non sentire freddo, anche se, naturalmente, mentre camminavo la mia mente andava oltre. Immagini confuse mi passavano per la mente, come se fossi il regista di uno spettacolo in teatro. Lo scopo del viaggio era già compiuto nei miei pensieri, potevo immaginare anche i partico‐lari più piccoli e crudi. Il treno non partì in ritardo. Durante il viaggio conobbi un ragazzo che andava a Roma per lavoro, un giovane cala‐brese che aveva negli occhi quello che forse avevano i miei bisnonni quando partirono per l’America. Mi parlò del suo paesino, delle tra‐dizioni sempre suggestive e coinvolgenti, della nostalgia che già provava per la sua famiglia. Avrei potuto essere influenzato dalle sue parole, ma per la prima volta in vita mia ero così determinato e poco riflessivo che non provocarono nessun effetto. Niente di nien‐te. Ascoltavo con rispettoso e coinvolto silenzio, ma tutto finiva lì. Scesi dal treno senza neanche pensare al fatto che mi trovavo in una città che, se potesse parlare, avrebbe da raccontare le storie più af‐fascinanti di sempre. Non poteva importarmi, non si ha più paura quando si sta per affrontare la cosa più brutta del mondo, o forse sì, la paura c’è; ciò che negli ultimi momenti manca davvero è la preoc‐cupazione, il pensiero, qualsiasi cosa che possa proiettare la mente anche nei successivi cinque minuti. Niente taxi, né bus, eppure ave‐vo abbastanza risparmi in tasca per potermeli pagare, ma niente. Volevo camminare, dare ai miei piedi la possibilità di calpestare an‐cora la terra; in fondo anche se non avevo progetti non avevo co‐munque fretta.

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Il Ponte Milvio, il ponte dei film adolescenziali, quelli che odio più di tutti, il ponte che ha risolto la crisi del settore ferramenta e che dà la possibilità di lavorare agli extracomunitari ambulanti, era lì, e io ci ero sopra. Mi affacciai. Sì, faceva proprio per me. Non sapevo e non so nuotare, la corrente non sembrava mancare per cui ci avrei mes‐so davvero poco. Quanti nomi, scritti dappertutto, nomi e date, date e nomi. Quanti amori dopo aver agganciato quei lucchetti erano an‐cora saldi? Quanti erano finiti? Quanti distrutti dai tradimenti, sepa‐rati dalla morte o semplicemente dal destino? Bello pensarci, chie‐dersi se davvero le chiavi buttate lì in acqua non finiscano poi in ma‐re, dove poi vengono ingoiate dal pesce più grande di tutti: il tempo. Decisi di andarci di sera, naturalmente quella sera stessa, intanto era già pomeriggio. Mi incamminai per la città e nella ferramenta più vicina comprai due lucchetti. Quando il sole tramontò erano le quattro e mezza circa. Per due ore avevo vagato per la grande Ro‐ma, vagare da soli nelle grandi città è bello poiché nella frenesia del‐la vita degli altri a nessuno viene in mente di chiedersi come mai cammini a testa bassa, da solo, verso il niente. Il ponte di sera è suggestivo, ben illuminato, affascinante. C’erano turisti e coppiette che attaccavano i loro lucchetti, scattavano foto, si baciavano, an‐davano via. Mi affacciai e restai fermo lì, a guardare l’acqua che scorreva. Nessuno sembrava notarmi, nessuno sapeva cosa avrei fatto. Vi sembrerà assurdo ma erano arrivate le due di notte e non lo sapevo. Una mano in tasca, ecco il cellulare. Lo accesi e trovai la marea di messaggi di persone che mi cercavano, mi supplicavano: volò per primo nell’acqua. Poi tirai fuori i lucchetti e mi avvicinai al primo lampione alla mia destra. Il pennarello l’avevo portato con me, così ci scrissi su ognuno un nome: Gaia, Alex, con dei cuoricini, quelli che non sapevo disegnare, tanto che lei storceva il naso quando ci provavo, prima che quel naso glielo prendessi tra le dita e le saltassi addosso. Una lacrima. Due. Eccoci al momento decisivo. Agganciai i due lucchetti, guardai le due chiavi, ci versai sopra senza

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volerlo anche due lacrime e poi volarono anche loro giù, nell’acquascura della mia ultima notte. Dopo ore di silenzio parlai, da solo per di più. “È il momento, bello mio, stai per chiudere e lo stai facendo dal ponte che proprio tu odiavi e deridevi quando com‐pariva in quello stupido film.” Non so se vi è mai capitato, quando siete in un momento importante, un momento cruciale, forte, emo‐zionante, e si alza quel vento leggero, improvvisamente, quasi a vo‐ler ritoccare l’atmosfera. Bene, quel vento si alzò anche lì e mi fece rabbrividire, quel poco che basta a far cadere le lacrime appese al mento o al naso. Sollevai una gamba, mi sporsi… Ero pronto… “Hai visto Roma prima, almeno?” Giurerei che un attimo prima guardan‐domi intorno non c’era assolutamente nessuno, né vicino né lonta‐no. Alle mie spalle adesso, invece, c’era una ragazza, capelli lunghi, spettinati e scuri. Gli occhi chiari erano due lampadine azzurre nel buio. Mi ammaliarono subito, mi vergognai della posizione in cui mi trovavo e di quello che stavo per fare. Mi sentii un coglione di quelli davvero enormi, quelli che vengono beccati a spiare sotto le gonne o in bagno con i giornaletti. La cosa più assurda, più bella, più affa‐scinante, era che sorrideva. “Hai così tanta fretta di fare il bagno? Potresti aspettare maggio almeno!”, e sorrideva, e il vento, quel vento scenico le mosse un po’ i capelli. In quel momento capii che dovevo rimandare il gesto. Provai a pronunciare qualche parola, ma… da dove cominciare?

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“Ehm… ciao… guarda che non è come pensi tu… è un gioco stupido che faccio sempre… mica mi butto davvero…” Lei inclinò la testa ap‐pena, come fanno i cani quando odono suoni nuovi. “Sì? Un gioco? Molto originale… Il gioco del suicidio dal ponte, interessante! Perché non lo fai brevettare? Ci faresti una fortuna!” Era evidente che la scusa non aveva funzionato. Iniziai ad arrossire come un bambino colto con i lecca lecca in tasca all’uscita del supermercato. “Beh… veramente…”, iniziai piano. “ Veramente niente. Adesso ti giri e vie‐ni con me a fare due passi.” A quel punto mi sentii come uno zom‐bie in Resident Evil, stavo obbedendo involontariamente alla volon‐tà del mio padrone, e avreste dovuto vedermi: volto inespressivo, né sorridente né musone, obbediente. Iniziammo a camminare lun‐go il marciapiede. Se qualcuno ci avesse visti insieme avrebbe pen‐sato che ci conoscevamo da sempre. “Quanti chilometri hai fatto? Guarda che non sono scema, hai detto due parole ma ho capito dall’accento che non sei affatto della zona.” Non aveva torto visto che la mia dizione pecca da sempre. Mi sentivo già più sciolto, rilas‐sato, quasi a mio agio, così le risposi tranquillamente, addirittura punzecchiandola. “Bari, provincia. Ma scusami un attimo, non mi hai ancora detto il tuo nome, e comunque alle tre di notte una ragazza cosa ci fa in giro per Roma?” “Soffro di insonnia, roba ereditaria, co‐sì a casa non so restarci, i miei si sveglierebbero e gli verrebbe l’ansia tanto da non dormire più, così vado a farmi due passi. In ogni caso io sono Cristina.” Mentre parlava i suoi lunghi capelli si muove‐vano, un po’ qui e un po’ là, portati via da quel vento leggero e per niente fastidioso. Io improvvisamente mi sentivo calmo. “Piacere, Alex.” Lei subito riprese. “Senti Alex, non sono una moralista né una presuntuosa. Ma cosa ci facevi lì? E, soprattutto, tutta sta strada per farla finita? Perché?” Le raccontai l’accaduto, della mia storia d’amore finita in macerie, del fatto che mi ero reso conto che la mia vita era ormai basata su Gaia, che mi ero sentito inutile a tal punto da premeditare una fine così, con tanto di sceneggiatura melo‐

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drammatica. Lei ascoltava attenta e nel frattempo eravamo finiti non so dove, in un parco illuminato al punto giusto, naturalmente deserto, seduti su una panchina, sotto un albero, una accanto all’altro. Il freddo gelido della notte invernale ci costringeva a muo‐verci ogni tanto, alzandoci e saltellando oppure restando fermi e gonfiandoci come uccellini quando dormono. Io parlavo, e in alcuni momenti lei era così bella mentre ascoltava che perdevo quasi il filo del discorso, poi lo ritrovavo per tornare a balbettare un minuto do‐po. Nessuna, neanche Gaia aveva mai mostrato così tanta attenzio‐ne alle mie parole. “Siamo uguali, Alex.” Lo disse dopo aver taciuto un po’, al termine del mio racconto. “A me Giulio mi ha mollata per una ventiseienne, tu pensa, lui ne ha ventuno, io venti. Per poter di‐re al mondo che è ufficialmente nel mondo dei grandi. Ho dovuto lasciarlo andare, eppure è dura da accettare.” E così la mia doman‐da fu più che spontanea. “È per questo che soffri di insonnia, vero? Non c’entra la tua famiglia…” “ In realtà c’entra lo stesso, io cerco solo un po’ di pace dentro, come si fa a dormire quando sei in un letto e cominci a pensare? Mi chiedo come facciano i criminali con le coscienze nere di morte.” “Hai ragione”, risposi prontamente, “la mancanza di pace è la cosa che forse contribuisce di più alla mia tri‐stezza.” n quel momento lei fece una cosa bellissima, si spostò più in là sulla panchina e prese la mia testa sulle sue ginocchia, iniziando ad accarezzarla dolcemente. Sentivo le mani affusolate e profumate che mi coccolavano come un bimbo, i lunghi capelli che mi solletica‐vano il viso. Poi, lentamente, sentii le sue parole lente, flebili, come il mare quando lo senti sbattere sugli scogli da dentro un’auto con i finestrini chiusi. “So qual è il tuo vero problema, Alex. Tu hai creato un mondo intorno a te che non esiste. Un mondo dove secondo te per essere completi, felici, basta trovare una fidanzata, qualcuno che ci dica cosa dobbiamo fare anche quando magari, noi stessi, ri‐flettendoci un po’, faremmo scelte più sagge. È quello che credevo anch’io, finché non ho capito che in realtà non è così. Quando ti guardi intorno e vedi la gente felice accanto a qualcuno, non è sem‐pre gente felice per davvero, spesso è gente che teme più di te la

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solitudine.” Le sue parole scorrevano dolci e forti, sembrava uno di quei discorsi che farebbe un genitore premuroso a un figlio adole‐scente. Non ero solo calmo e rilassato ma mi sentivo anche protet‐to. “Appena avremo finito questo discorso tornerai in stazione e prenderai il primo treno per la tua città. Vai, rimetti in moto la tua vita e alza la testa per guardare il sole. Sorridi per tutte le cose belle, anche quelle più piccole che sono presenti nelle tue giornate, nella tua quotidianità. Sii felice per ogni mattina in cui ci sei, per ogni sera in cui andrai a dormire e sarai lì, in casa tua, con i tuoi, vivo, vegeto e sano come un pesce. La vita è fatta di tante cose, non solo di quel‐le che non abbiamo. Vai e chiedi scusa anche a Dio.” Il suo alito lo sentivo sulla mia faccia così come i suoi capelli. La sua immensa dol‐cezza mi fece sentire perduto, avrei voluto baciarla, subito, morder‐le le labbra per trascinarla nella passione che lei stessa aveva provo‐cato in me, in così pochi minuti, e lo avrei fatto se non fosse che im‐provvisamente mi addormentai e di quello che è successo dopo non ricordo più niente.

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Era mattino. L’alba era passata da poco e nel parco in cui avevo pas‐sato la notte già gironzolavano i primi padroncini con i loro cani che facevano qui e là i loro bisognini. E naturalmente, molti di loro mi guardavano straniti, come a chiedersi cosa ci facesse un barbone così giovane lì su quella panchina. Rimasi un po’ intontito senza ne‐anche sapere cosa ci facessi in quel posto, poi improvvisamente ri‐cordai: ero a Roma, stavo per fare il salto finale, mi tornò in mente, con prepotenza, l’immagine di Cristina. Lei non c’era più. Mi guardai intorno, nemmeno l’ombra della ragazza. Poi notai una cosa strana. Avevo dormito come un barbone in tutti i sensi, perché qualcuno mi aveva coperto con dei fogli di giornale, ero sicuro di non averlo fatto da solo. Dovevo alzarmi, pensare al da farsi prendendo in considera‐zione ciò che Cristina mi aveva detto, mentre con la sua mano pro‐fumata mi accarezzava gli zigomi. Stavo per mettermi in cammino quando spostando dalle mie gambe l’ultimo foglio di giornale rimasi bloccato non so per quanto tempo nel leggere questo titolo: “CRI‐STINA, UN ANNO DOPO. Parlano a distanza di un anno dal suicidio i genitori di Cristina, la ragazza ventenne che in seguito a una delu‐sione d’amore si lanciò dal ponte Milvio la notte del 3 dicembre…” Qualsiasi cosa vi scrivessi ora non basterebbe a qualificare il mio sta‐to d’animo in quel momento. Ero felice, scioccato, spaventato, ma di una cosa ero certo, ero innamorato pazzamente della vita e, so‐prattutto, ero stato fortunato, graziato da chi aveva deciso di darmi una seconda possibilità, di farmi capire quello che io da solo non ero mai riuscito minimamente a concepire. Presi il primo treno, senza biglietto, arrivai a casa senza che il controllore passasse (altro picco‐lo miracolo). Corsa perdifiato verso casa, quasi sfondai la porta e mi gettai su mia madre. L’abbracciai forte e le chiesi scusa non so quan‐te volte, piangendo. Ero tornato alla mia vita, anzi credo che sia co‐minciata quel giorno stesso. Da allora il mio dolore per Gaia è svani‐to in modo più rapido e costante, fino a ridursi a un piacevole e spe‐ciale lontano ricordo. Mi sono dedicato alla mia vita, alle mie pas‐

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sioni e alla mia famiglia. Vivo di cose semplici e spesso anche futili, ma che mi rendono sorridente quel tanto che basta per dire a me stesso “Sto bene, andiamo avanti!” Spesso penso a Cristina, alle sue notti lì, da sola su quel ponte, se le manca la sua vita, se è vicina a me anche qui, in questa città scura e piatta, e se un giorno, per ciò che ha fatto, sarà premiata, magari con un bel paio di ali.

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Ringraziamenti Grazie a Te lettore, che mi hai dato la possibilità di entrare nel tuo tempo e raccontare di questi tre fantastici ragazzi. Grazie ad Antonia, senza il suo tocco questo libro non avrebbe un’identità. Grazie ad Antonio Cesari per il supporto, la pazienza e la professio‐nalità. Grazie a mia sorella Rosaria, per aver curato e corretto i testi. Grazie al Dottor Leone per le trasferte ad Accettura pro ispirazione. Grazie a Mamma, Papà e Birillo: una famiglia inimitabile, la mia. Grazie ai Nonni, mi mancate spesso e sovente mi chiedo come sa‐rebbe oggi con voi. Un grazie all’amore, che manca sempre ma si fa sentire sempre. Grazie a Milly, Cristina, Alpina, Valentina, Alessandra dai capelli rossi e Alessandra dai capelli neri e ad Alessia per il sostegno, l’affetto e per tutto ciò che di incoraggiante mi hanno detto. Grazie a tutti gli amici d’infanzia, d’adolescenza, di scuola, di gioco. Perché più passa il tempo, più mi rendo conto che l’amicizia, quella vera, sta un gradino sopra.

Se ho dimenticato qualcuno vi chiedo perdono.

GRAZIE DI CUORE A TUTTI

Damiano

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I miei pensieri…

le mie emozioni...

continuano su… www.conilventocontro.com