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Yves il provocatore. Yves Klein e l'arte del Ventesimo secolo

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Yves Klein (Nizza, 1928 – Parigi 1962) sapeva di essere un rivoluzionario. Un guerriero dell’arte incline a sfidare le barriere della materia e del tempo per essere sempre “oltre” i limiti delle cose. Un cavaliere del Graal che a un’intensa spiritualità coniuga i tratti intrepidi e irriverenti di un Tintin. La sua opera sintetizza le esperienze artistiche della prima metà del Novecento e anticipa i temi fondativi delle avanguardie degli anni sessanta e settanta, abbattendo i confini dell’arte esistente e annunciando una nuova via. Thomas McEvilley racconta l'artista Yves Klein e la sua Rivoluzione Blu.

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Biografie

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© 2014 Johan & Levi Editorewww.johanandlevi.com

Progetto graficoPaola Lenarduzzi

ImpaginazioneSmalltoo

StampaArti Grafiche Bianca & Volta, Truccazzano (mi)

Finito di stampare nel mese di dicembre 2014

isbn 978-88-6010-155-6

Copyright © 2010 by Thomas McEvilley. All rights reserved. Published by arrangement with McPherson & Company, Kingston, New York.

Copyright © Yves Klein, adagp, Parigi, 2015, per tutte le riproduzioni di opere, documenti e testi di Yves Klein.

Titolo originale: Yves the Provocateur. Yves Klein and Twentieth Century Art

Il presente volume è coperto da diritto d’autore e nessuna parte di esso può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dei proprietari dei diritti d’autore.

STAMPATO SU CARTA

Volume realizzato nelrispetto delle norme di gestione forestaleresponsabile, su cartacertificata Arcoprint Edizioni.

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Thomas McEvilley

Yves il provocatoreYves Klein e l’arte del Ventesimo secolo

Traduzione di Irene Inserra e Marcella Mancini

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Sommario

Prefazione di Rotraut Klein-Moquay 9

Introduzione dell’autore 11

1

Vivere una contraddizione 19

Yves Klein: Messaggero dell’era dello spazio 35

2

Yves Klein: Conquistador del vuoto 61

3

Yves Klein e il rosacrocianesimo 171

Cronologia 201

Note 229

Crediti e ringraziamenti 243

Indice dei nomi 245

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Prefazione

L’avventura di Yves Klein cominciò alla fine degli anni quaranta con le pri-

me esperienze influenzate dall’ambiente familiare; entrambi i suoi genito-

ri, infatti, erano pittori. Crescere nell’Europa lacerata dalle mostruosità della

Seconda guerra mondiale segnò in modo profondo il suo destino: tutto dove-

va essere ricostruito e niente poteva somigliare al passato. Questa visione lo

spinse a sviluppare sin dagli esordi un approccio nuovo: l’arte non poteva più

accontentarsi di essere una rappresentazione realistica, né una composizione

astratta di forme e colori come proclamato dall’École de Paris dopo la rottura

con l’eredità figurativa. Una città che tentava di ricostruire il proprio futuro,

cercando nuove strade, non si accorse che il mondo della pittura era già fuggi-

to verso orizzonti più luminosi.

Con la sua vitalità, la sua forza di persuasione, il suo carisma, Yves con-

quistò rapidamente la scena artistica europea (Milano, Parigi, Düsseldorf,

Londra). Il viaggio in Giappone, dove visse dal 1952 al 1954, così come il sog-

giorno in Spagna gli fecero capire la globalità della cultura, rendendolo cit-

tadino del mondo. Per lui l’arte era più di una giustapposizione di oggetti:

riguardava la filosofia, la spiritualità, la trascendenza. Il messaggio è chiaro:

l’immateriale, attraverso il colore blu, invade lo spazio; è la presenza ampli-

ficata dell’arte senza artificio.

La sua vita e la sua morte sono l’esempio più puro di un’œuvre senza com-

promessi, che chiama in causa l’individuo e ridà speranza nel genere umano.

Le numerose testimonianze e interpretazioni che si sono susseguite nel

corso degli anni ne sono la dimostrazione. «Lunga vita all’immateriale» –

Yves Klein.

Rotraut Klein-Moquay

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Introduzione dell’autore

Yves Klein morì trentaquattrenne nel 1962. La sua carriera artistica era du-

rata solo sette anni, ma per certi aspetti era stata clamorosa. Nel 1958, per

esempio, si parlò talmente tanto della mostra in cui avrebbe esposto una

galleria vuota – “Le Vide” (Il vuoto), allestita alla Galerie Iris Clert – che la se-

ra del vernissage accorsero tremila entusiasti, tra cui Albert Camus, che sul

libro degli ospiti scrisse «Con il vuoto, pieni poteri». La mostra divenne su-

bito un emblema dell’antiarte. Tre anni dopo, nel corso del suo unico viag-

gio negli Stati Uniti, Klein espose nelle due gallerie d’arte d’avanguardia

più prestigiose e importanti, la Leo Castelli a New York e la Virginia Dwan a

Los Angeles. Si potrebbe pensare che la sua sia stata una carriera di grande

successo, ma in realtà i problemi non mancarono.

“Le Vide” fu un evento sensazionalistico, durante il quale alcuni allie-

vi di judo di Klein ebbero il compito di regolare il flusso dei visitatori in

piccoli gruppi per mantenere la purezza del vuoto. La mostra fu accolta

perlopiù come un’azione neodada, anche se nelle intenzioni di Klein si

trattava di una seria manifestazione metafisica. Klein cominciò a essere

visto come un personaggio estroso e un uomo di spettacolo, anziché come

un autentico artista. Questa reputazione lo precedette a New York, dove

la stampa salutò il suo arrivo con titoli come “Little Boy Blue”, “Un Dalí di

grado inferiore” o “Siete mai stati tutti blu?”. Le mostre in cui erano espo-

sti i monocromi blu identici tra loro furono considerate delle buffonate.

Quando tornò a Parigi, fu preso in giro più di quanto non fosse accaduto

dopo “Le Vide”. All’epoca in cui morì, circa un anno dopo, Klein era con-

siderato un esibizionista che aveva avuto il suo quarto d’ora di celebrità e

poteva essere dimenticato.

Nel 1977 ero ricercatore alla facoltà di arte e storia dell’arte della Rice

University di Houston, benché mi occupassi anche di filologia classica,

disciplina in cui avevo conseguito il dottorato di ricerca. La facoltà e io in

quanto docente fummo coinvolti nel progetto dei collezionisti e mecenati

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Jean e Dominique de Menil. Alle spalle del campus sorgeva il grande edifi-

cio di metallo ondulato del Rice Museum, che era stato fondato di recente

da Jean e Dominique e sarebbe stato in seguito sostituito dalla Menil Col-

lection. In quello spazio Dominique aveva già presentato alcune mostre

importanti che includevano i pezzi forti della sua collezione, tra cui una

memorabile di Magritte e un’altra straordinaria di Ed Kienholz.

Jean de Menil era morto nel 1973 e Dominique, per sopportare meglio la

vedovanza, aveva preso l’abitudine di organizzare delle cene a due nella sua

casa di River Oaks. Io fui uno dei fortunati invitati. Una sera del 1977 Domi-

nique e io condividemmo una piacevole cena chiacchierando di argomen-

ti di reciproco interesse. Fu forse in quell’occasione che mi chiese se fosse

il caso di costruire un museo sotterraneo, per proteggere le opere d’arte in

caso di guerra. Ricordo comunque che proprio quella sera le dissi che stavo

leggendo Late Modern Art di Edward Lucie-Smith (o era Art Since 1945?) ed ero

affascinato dalla descrizione delle opere realizzate dall’artista francese Yves

Klein negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale. Dopo cena Domi-

nique mi accompagnò fino alla porta e rimanemmo a chiacchierare ancora

un po’ nell’ingresso. Fu allora che, credo d’impulso, mi chiese: «Mi piace-

rebbe organizzare una mostra con lei. Lei si occuperà del catalogo, io pense-

rò alle opere. Quale artista preferisce?». Mi stava proponendo una mostra al

Rice Museum, che all’epoca era più o meno il suo spazio espositivo persona-

le. Mentre la guardavo mi accorsi che alle sue spalle c’era una straordinaria

antropometria di Klein, People Begin to Fly (La gente comincia a volare), quin-

di risposi: «Perché non Yves? Facciamo una mostra di Yves». Dominique,

che era francese e già possedeva opere dell’artista, fu subito d’accordo. Per

parte mia, visto che non avevo mai scritto nulla di storia dell’arte o critica

d’arte, iniziai a fare ricerche per il catalogo, soprattutto tra i materiali con-

servati nella biblioteca della Rice University.

Quell’estate trascorsi un paio di settimane nella casa di Parigi dei de

Menil, andando ogni giorno a consultare gli archivi del Centre Pompi-

dou, dove si trovavano i libri e i documenti di Klein. Nel frattempo riu-

scii anche a intervistare alcuni di coloro che l’avevano conosciuto. Par-

ticolarmente importanti furono le conversazioni con i migliori amici di

Yves, Claude Pascal e Arman, che lo avevano conosciuto sin dall’infanzia

a Nizza, e con la vedova Rotraut Klein, che fu gentilissima con me e di

cui, posso dire, diventai amico. Nei due anni successivi sarei tornato a

Parigi d’estate per continuare le mie ricerche sulla vita e sulla misteriosa

personalità di Yves.

Rientrato a Houston cominciai a scrivere una serie di testi per la mo-

stra. Fu la mia iniziazione alla critica d’arte, alla curatela e al funzio-

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namento del mondo dell’arte in generale. Data la mia formazione da fi-

lologo, scrissi per primo il saggio “Yves Klein e il rosacrocianesimo”, in

cui sostenevo che gli scritti di Klein – per quanto solitamente trattati alla

stregua di burle divertenti – risultavano perfettamente sensati se letti alla

luce della Cosmogonia dei Rosacroce di Max Heindel, il mistico tedesco fonda-

tore dell’Associazione rosacrociana (di cui Klein fece parte), che aveva la

propria sede centrale a Oceanside, in California. Scoprii che, analizzati

nel contesto della storia dell’arte, gli scritti di Klein erano una brillan-

te e neanche troppo nascosta rielaborazione di quel testo. Con il tempo,

grazie ad altri soggiorni a Parigi, altre interviste e ulteriori ricerche negli

archivi del Centre Pompidou, ho redatto un più lungo profilo biografico

intitolato “Yves Klein: Conquistador del vuoto”. In quel periodo Domini-

que era impegnata nella costruzione del museo che si sarebbe chiamato

Menil Collection. Aveva incaricato del progetto l’architetto Renzo Piano e

cercava qualcuno a cui affidare il ruolo di direttore. Un giorno mi annun-

ciò: «Credo di aver trovato la persona giusta». Si trattava di Walter Hopps,

noto curatore e direttore di musei. Di lì a poco Walter si trasferì nella re-

sidenza per gli ospiti di Dominique e iniziò a collaborare con entusiasmo

all’organizzazione della mostra “Yves Klein (1928-1962): A Retrospective”.

Ci ritrovammo spesso a lavorare fino a tardi sulle immagini. Walter si

occupò anche del layout del catalogo e, quando giunse il momento, seguì

con impegno l’installazione delle opere. Nondimeno, non interferì mai

con le mie scelte in quanto autore dei testi. Intanto, io scrissi il terzo pez-

zo per il catalogo, una cronologia ampliata che comprendeva eventi poli-

tici e scientifici collegati alle ambizioni, ai progetti e ai sogni di Klein. Il

catalogo prendeva forma e cominciavano ad arrivare le opere; le scatole si

accumulavano nel deposito del museo.

Man mano che il lavoro organizzativo proseguiva, la mostra assun-

se proporzioni che quasi sfuggivano al nostro controllo. Prima Pontus

Hulten, direttore del Centre Pompidou di Parigi, chiese a Dominique di

poter ospitare l’esposizione; poi fu la volta di Tom Messer, direttore del

Guggenheim Museum di New York. Non si trattava più di un piccolo even-

to allestito in una galleria universitaria, ma di una mostra importante

da presentare nei principali musei del mondo. Quando anche il Museum

of Contemporary Art di Chicago si aggiunse alla lista, la cosa passò quasi

inosservata. Io ero sempre più coinvolto nel progetto e nel mondo di Do-

minique. Pierre Restany venne a Houston e fu mio ospite; Walter Hopps

accettò l’incarico di direttore della Menil Collection, che sorgeva a pochi

metri da casa mia; Jean Tinguely si vedeva spesso da quelle parti. Abitavo

di fronte alla Rothko Chapel, che andavo a visitare quasi tutti i giorni.

· Introduzione dell’autore ·

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· Thomas McEvilley ·

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La sera mi recavo spesso da Dominique per lavorare con chiunque si tro-

vasse in città e fosse collegato alla mostra di Klein. Rotraut e il suo nuovo

marito Daniel Moquay passavano da casa mia, come facevano Restany,

Arman e altri che partecipavano al costante scambio con Parigi: curato-

ri del Beaubourg, consulenti con cui stavo collaborando, vecchi amici di

Yves e via dicendo. Ingrid Sischy, all’epoca direttrice di Artforum, mi chiese

un articolo su Yves da pubblicare sul numero che sarebbe uscito in conco-

mitanza con l’apertura della mostra al Guggenheim; fu allora che scrissi

“Yves Klein: Messaggero dell’era dello spazio”.

Finalmente arrivò il momento delle varie inaugurazioni, prima al

Rice, poi al moca di Chicago, al Guggenheim e infine al Beaubourg. A

New York, dato che Walter non poteva, lo sostituii come curatore esecuti-

vo. Fu in quell’occasione che ideai e realizzai l’enorme installazione pavi-

mentale di pigmento ikb. (Scrissi un testo al riguardo, “The Impregnation

of the Guggenheim Museum”, che poi firmai insieme a Rotraut, Arman

e Claude in qualità di rappresentanti dell’International Klein Bureau.)

Sembrava che mezza Parigi fosse a New York quel giorno e, poco tempo

dopo, quando la mostra si trasferì al Beaubourg, che mezza New York fos-

se a Parigi.

Il catalogo fu pubblicato prima in inglese, poi in francese e incontrò

subito un vasto consenso. Ted Castle del British Art Monthly dichiarò con

toni anche troppo grandiosi che si trattava «del miglior catalogo d’arte

mai pubblicato». Grace Gluck del New York Times scrisse soddisfatta che i

miei scritti erano «brillanti», e Kay Larsen del New York Magazine sosten-

ne che il saggio biografico “Yves Klein: Conquistador del vuoto” era «la

migliore vita d’artista a memoria d’uomo». Secondo Werner Spies del

Frankfurter Allgemeine Zeitung il saggio “Yves Klein e il rosacrocianesimo” era

fondamentale per comprendere le opere di Klein. Da allora ho continuato

a occuparmi d’arte e di artisti.

Poco tempo dopo la mostra al Beaubourg un editore tedesco mi contat-

tò chiedendomi il permesso di pubblicare un volume con i miei scritti su

Klein. Firmai un contratto, ma il progetto non fu mai realizzato. Passava-

no gli anni e l’interesse per Klein continuava a crescere. Quando Harald

Szeemann mi chiese un saggio per il catalogo della mostra di Klein che

stava organizzando al Jean Tinguely Museum di Basilea, scrissi “Vivere

una contraddizione”. Come io e Dominique ci eravamo augurati sin dall’i-

nizio, la nostra attenzione aveva sottratto Yves Klein all’oblio.

Adesso, in occasione della recente retrospettiva internazionale di

Klein, ho il piacere di vedere pubblicata una raccolta dei miei scritti

sull’artista. Ringrazio Bruce McPherson per aver concepito e dato alle

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stampe questo volume, e Rotraut Klein-Moquay per avermi generosamen-

te fornito molte fotografie e aver scritto la breve prefazione. Il mio saluto

va a Dominique, Walter, Claude, Pierre, Arman e altri amici che ho cono-

sciuto preparando la mostra di Klein e non ci sono più.

· Introduzione dell’autore ·

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Yves Klein durante la performance alla Galerie Internationale d’Art Contemporain di Parigi,

9 marzo 1960.

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Vivere una contraddizione

Più apertamente della maggior parte di noi, Yves Klein incarnò una contrad-

dizione. E, più di tanti altri, visse il proprio momento storico con sensibi-

lità e naturalezza non comuni. Per dirla in parole semplici: Klein riteneva

di essere storicamente designato ad annunciare visivamente l’astoricità. In

termini più personali, sentiva di essere una figura astorica o archetipica e

di dover presentare se stesso agli altri, giustificando in qualche modo la pro-

pria presenza nella storia. Era convinto – e lo pensavano anche molti di co-

loro che seguirono la sua breve carriera (durata solo sette anni) – di essere

un individuo trans-storico o cosmico-storico in senso hegeliano: per quanto

agisse dentro la storia, infatti, le sue azioni avevano una forza archetipica

che trascendeva il momento storico. Tuttavia, quell’aspirazione era così as-

surda, e lui ne era così consapevole, che pensò bene di portare su di sé il peso

della storia con l’estro chapliniano di un clown.

L’opera di Klein è un tentativo consapevole di conciliare le esigenze con-

trastanti di questo ruolo contraddittorio. Da una parte, il pittore moder-

nista – fedele all’idealismo trascendentale di Hegel o di Schelling – doveva

occuparsi solo dell’oltre. Secondo Schelling, un grande artista che dipinge

un quadro in qualche modo toglie la cortina che nasconde il mondo pla-

tonico delle idee. Klein si impegnò per essere all’altezza di questo ideale,

pur dovendo bilanciarlo con la comicità dadaista, un po’ come Alphonse e

Gaston che sbattono l’uno contro l’altro nel tentativo di passare dalla stes-

sa porta. Dall’altra parte, l’artista postmodernista, che non crede più in

un oltre trascendente, è tenuto a collocare la propria opera nelle minuzie

della storia con la massima precisione possibile. Questi sono gli impera-

tivi opposti del Modernismo, con le sue ambizioni trascendentali, e del

post Modernismo, con il suo desiderio di rimettere in piedi la storia (come

sosteneva Marx nella critica a Hegel) o di demistificarla.

Klein sentiva che sia il Modernismo sia il post Modernismo (o, dal suo

punto di vista, il rosacrocianesimo1 e il Dadaismo) erano sue personali re-

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· Thomas McEvilley ·

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sponsabilità. In accordo con la sua particolare sensibilità nei confronti di

entrambi, era combattuto su temi come l’influenza storica o l’eredità ar-

tistica. A volte pensava che la dimensione astorica o trans-storica della

sua opera rendesse marginale o paradossale la questione delle eventuali

influenze. In altri momenti era convinto che i banali grovigli dei nessi

storici fossero un’avvilente autoparodia che, perlomeno, offriva una “sa-

nità innata”.2

Questo sentimento complesso si manifestava nell’atteggiamento verso

due artisti di cui parlava con riluttanza, o che cercava in ogni modo di

ignorare: Kazimir Malevič e Marcel Duchamp. La complicazione nasceva

dal fatto che gran parte dei suoi stessi lavori era paragonabile alle opere e

alle posizioni espresse dai due artisti nei primi anni del secolo. Sensibi-

le alle questioni di priorità, ossessionato dall’idea modernista dell’artista

come innovatore allo stesso tempo disposto a fare il buffone, Klein soste-

neva che, a voler interpretare correttamente il concetto di tempo, lui in

effetti precedeva Malevič. Quello che intendeva dire (Klein non era mai

superficiale, intendeva sempre dire qualcosa di specifico) era che la trans-

storicità del suo lavoro lo rendeva, per così dire, onnipresente nel tempo.

Un’argomentazione del genere gli consentiva di mettersi al riparo dalla

dimensione storica del trans-storico. In altre occasioni andò nella direzio-

ne opposta.

In quanto francese, Duchamp rappresentava una minaccia più imme-

diata. Più di una volta Klein respinse l’idea, apparentemente plausibile,

di essere un dada o un neodada, una definizione che non rendeva giustizia

a quella che lui avvertiva come una missione spirituale. Quando lo spirito

di Malevič minacciava di sopraffarlo, Klein agiva come un dada; quand’e-

ra Duchamp a profilarsi all’orizzonte, si arroccava in difesa del deserto di

pura forma di Malevič (interpretato in termini rosacrociani).

Tuttavia, era in gioco qualcosa di più profondo del semplice rifiuto di

influenze o predecessori. Klein sapeva che la sua pratica era contradditto-

ria e difendeva quella contraddizione come la massima verità. Sentiva che

né l’occultismo di Malevič né il Dadaismo di Duchamp potevano contenere

il dualismo o l’unità della sua posizione, che, nella sua specificità,

implicava un aspetto sostanzialmente tardomodernista, vale a dire la con-

vinzione di essere unico e di essere stato consacrato al ruolo di individuo

cosmico-storico. Sicuro di essere la persona necessaria al mondo in quel

particolare momento, non credeva di doversi prestare a banali confronti

storico-artistici; lui era al di sopra di tutto ciò. Da questo punto di vista, la

sua intensa storicità serviva a prevenire i discorsi sulle influenze, mentre

in altri momenti era la sua trans-storicità ad assolvere tale funzione.

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· Vivere una contraddizione ·

In un’ottica che Klein tendeva a non considerare, Malevič e Duchamp

insieme potevano costituire un parallelo di ciò che le sue due anime con-

traddittorie mettevano in scena come per virtù di un’immacolata conce-

zione. In altre parole, se volessimo collocare Klein in un’ipotetica carta

geografica della storia dell’arte del suo secolo, dovremmo immaginare

l’intersezione delle traiettorie di Malevič e Duchamp e tentare di capire

quale tipo di intelligenza potrebbe occupare quell’incrocio altamente pe-

ricoloso e autodistruttivo, in cui il minimo che potesse capitare era uno

scontro frontale. Quei due artisti, in fin dei conti, rappresentano gli anti-

podi dell’arte del Novecento e con ogni probabilità l’uno avrebbe conside-

rato l’altro una sorta di nemico in base a quello che riteneva fosse il ruolo

dell’arte nel mondo.3

La storia

Il 1913 – l’anno precedente lo scoppio della Prima guerra mondiale – potrebbe

servire come data simbolica per l’articolazione di questi due percorsi oppo-

sti. Fu l’anno del Quadrato nero di Malevič, della prima inclusione della casua-

lità di Duchamp (Tre rammendi tipo) e del suo primo readymade (Ruota di bici-

cletta). Con Quadrato nero e gli scritti che l’accompagnavano Malevič inaugurò

la corrente centrale dell’astrattismo modernista: la tradizione del sublime

astratto e il desiderio ossessivo di intuire l’oltre e di rendere in termini visi-

vi parte di quella intuizione. Con la Ruota e i Tre rammendi Duchamp mise in

moto le forze opposte: con un’enfasi demistificante verso la vita quotidiana.

Tale conflitto si fondava su una tradizione – di cui si trova traccia in He-

gel e in una serie di teorie dell’occulto, tra cui la teosofia, l’antroposofia e

il rosacrocianesimo – secondo la quale l’epoca presente, fatta di complica-

zioni e difficoltà materiali, stava per lasciare il posto a un’era di puro spiri-

to.4 Nella visione di Hegel l’evento avrebbe segnato la fine della storia, vale

a dire che nel mondo non ci sarebbe più stato bisogno di altri cambiamen-

ti; il filosofo non precisò ulteriormente il concetto. I profeti dell’occulto

– Helena Blavatsky, Rudolf Steiner, Max Heindel e altri – furono più prodi-

ghi di dettagli. L’era della materia densa, pensavano, sarebbe stata presto

sostituita da un’era di levitazione, viaggio fuori dal corpo, comunicazione

telepatica, visione in quattro dimensioni e così via: l’era di una superu-

manità eterea, non soggetta alle limitazioni del corpo e alle sue esigenze.

L’umanità sarebbe in qualche modo tornata allo stato primario dell’anima

descritto nel Libro dei morti degli egizi, quand’era una stella, aveva un corpo

di luce e si nutriva di luce.

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Un aspetto solitamente trascurato nell’entusiasmo generato da questa

idea è che tanto il modello hegeliano quanto quello occultista, concentra-

ti com’erano sulla prospettiva di entrare nello spirito, presupponevano,

senza provare rimpianti, la fine del mondo materiale: la distruzione di

montagne, foreste e oceani; della Terra, della Luna e del Sole; la fine di

uccelli, animali e insetti; delle costellazioni e del succedersi delle stagio-

ni; dell’alternanza di giorno e notte e via dicendo. Il nero del Quadrato di

Malevič e la vacuità della profondità blu di Klein erano una profezia apo-

calittica neanche troppo velata, l’annuncio oscuro ma inequivocabile di

un’ecpirosi universale.5

L’arte astratta, soprattutto quella del sublime, era molto coinvolta in

questa spiritualità da fine del mondo. Per certi aspetti considerava se stes-

sa un segno visivo, o un portento, dell’ormai prossima fine dell’epoca del

corpo e dell’inizio imminente dell’era dello spirito. L’Astrattismo mostrava

gli oggetti quotidiani nel momento in cui perdevano i contorni e si riuni-

vano, o si scioglievano, in un’uguaglianza universale, preparandosi al sor-

gere dell’era del puro spirito. Era una profezia o una rivelazione, un modo

di prefigurare e immaginare in termini fisici come sarebbe stata la dimen-

sione postfisica del puro spirito. Malevič la descrisse come una ricerca in

cui, mentre ci si inerpica su per una montagna che svanisce sempre più,

il mondo degli oggetti si assottiglia finché si raggiunge un «deserto oltre

la forma». Questa arte riduttivista era talmente proiettata verso il subli-

me, la realtà di un oltre, il deserto oltre la forma, da denigrare il mondo

presente della realtà quotidiana, arrivando persino a evocarne profetica-

mente la distruzione.

Confusione

Le rappresentazioni di qualsiasi genere comportano rischiosi parallelismi

con la magia. Nell’ampia categoria della pratica rituale che è stata defini-

ta “magia simpatetica”, creare una rappresentazione di ciò che si desidera

equivale a fare in modo che ciò che veramente si desidera appaia. Se compa-

re qualcosa di simile a ciò che si desidera, allora ciò che si desidera potrebbe

non essere lontano. In termini visivi, se compare qualcosa che somiglia a ciò

che si desidera, allora ciò che si desidera potrebbe essere prossimo ad appari-

re. Per questo la rappresentazione pittorica delle cose è stata talvolta confusa

con l’imminente presenza delle stesse. La rappresentazione assume la con-

notazione metafisica di un processo ontogenetico. Analogamente, la storia

dell’arte così com’è stata espressa dalle culture occidentali (e forse anche da

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· Vivere una contraddizione ·

altre) ha implicato una teoria della conquista attraverso la rappresentazio-

ne. In quest’ottica, rappresentare visivamente qualcosa significa ottenere

una sorta di controllo cognitivo sulla cosa stessa, per certi versi ristabilire

una gerarchia metafisica a proprio favore. La storia dell’arte occidentale pre-

supponeva che tale processo di dominio mediante la rappresentazione avan-

zasse per gradi nell’universo. Quando sembrava ormai padrona della rap-

presentazione del mondo fisico con le varie forme di realismo dell’Ottocento,

l’arte rivolse la propria attenzione al livello di realtà che sta oltre il mondo,

al sublime inteso come astrazione universale che divora tutti i particola-

ri. Nella costante confusione tra rappresentazione e presenza, il passaggio

all’astrazione fu avvertito come un annullamento spirituale del mondo del-

la forma, lo spostamento ufficiale dello sguardo umano sull’oltre. Tutto ciò

accadde all’incirca tra il 1860 e il 1950. Il mondo della forma era stato creato,

o in qualche modo sostanziato nel suo esistere, dalla lunga avanzata dell’ar-

te figurativa; adesso la scena era pronta per il dominio visivo del mondo con

una modalità che andava al di là della forma specifica: la dimensione dell’a-

stratto e del sublime.

L’intersezione

La teoria estetica di Duchamp, enunciata a partire dalle opere del 1913, anda-

va nella direzione opposta a quella di Malevič. Mentre quest’ultimo seguiva

il corso dell’arte trascendentale spingendosi fino alle vette del non oggettivi-

smo e scartando il mondo della vita quotidiana come fosse una cosa di poco

conto, Duchamp metteva in risalto la presenza estetica nella vita quotidia-

na, quasi non fosse possibile trovarla altrove, quasi non ci fossero alterna-

tive. Mentre il Malevič suprematista realizzava quadri senza rappresentare

alcun oggetto riconoscibile, Duchamp presentava oggetti riconoscibili sen-

za alcuna rappresentazione pittorica, oggetti di tutti i giorni che auto-di-

chiaravano apertamente la propria presenza. Mentre Malevič rinunciava al-

la rappresentazione perché troppo realistica, Duchamp la rifiutava perché

troppo illusoria. E se per Malevič l’arte era il progetto metafisico più serio,

per Duchamp era un mezzo per prendersi gioco delle aspirazioni solenni e

metafisiche. Uno esprimeva l’impulso costruttivo, l’altro quello decostrut-

tivo. Uno era metafisico, l’altro dialettico. Unità e identità erano i feticci

dell’uno, molteplicità e differenza quelli dell’altro.

Da questi due poli, o articolazioni primarie, derivarono le principa-

li aree di significato dell’arte del Novecento. Per comodità di comunica-

zione, le si potrebbe descrivere come il sublime e il ridicolo: astrazione

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· Thomas McEvilley ·

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trascendente e parodia decostruttiva, Action Painting e Pop Art, Neoe-

spressionismo e Simulazionismo. In generale, gli artisti del Novecento

enfatizzarono l’una o l’altra di queste spiritualità. Molti – forse la mag-

gior parte – si richiamarono a elementi di entrambe. Tuttavia, forse Klein

più di chiunque altro ha incarnato tutte e due le tendenze, lavorando con

grande trasparenza e impegno su ambedue i fronti, pur rimanendo sem-

pre credibile secondo i criteri della storia dell’arte.

Le conseguenze

L’œuvre di Klein ha sintetizzato le principali correnti artistiche del primo No-

vecento e allo stesso tempo ha anticipato quelle future con arcana precisio-

ne. I lavori realizzati tra il 1955 e il 1962 affrontavano quasi tutti i temi su cui

si sarebbero fondate le avanguardie degli anni sessanta e settanta. La mono-

cromia, l’antipittura, lo spostamento dell’attenzione sulla scultura e sull’in-

stallazione, la smaterializzazione dell’arte, il rifiuto dell’illusione, l’inclu-

sione degli objets trouvés e dei nuovi media, la Body Art, la Land Art, l’Arte

Concettuale e la Performance: tutti gli aspetti delle nascenti avanguardie

erano unificati in modo coerente nel corpus di opere realizzate da Klein in

quei sette anni. Tracce della sua presenza si riscontrano in tutta la genera-

zione successiva alla sua morte, soprattutto in Europa ma anche, e in modo

significativo, negli Stati Uniti. I suoi passi risuonano ancora in ciò che so-

pravvive della pittura metafisica e nella sua parodia. L’intensità e la varietà

della sua breve carriera impressero all’arte uno slancio talmente forte che,

alla sua morte prematura, poté essere sfruttato da altri.

Pittura e antipittura

Klein morì come un irriverente guerriero dell’arte, difendendo ora un fron-

te ora l’altro ed esaltandoli entrambi. Poco dopo la sua scomparsa comin-

ciò la guerra dei successori. Le due tendenze contrastanti della sua opera si

separarono e sopravvissero entrambe. Ancora oggi alcuni pittori realizzano

monocromi mistici e altri usano il piano di un unico colore come critica con-

cettuale alla pratica pittorica espressionista. In Europa le due eredità si dif-

fusero immediatamente. In Italia Piero Manzoni e Lucio Fontana raccolsero

il testimone e lo portarono – o ne furono trasportati – in direzioni opposte.

I monocromi tagliati di Fontana riformulavano il programma metafisico-

futurista di Klein con l’aggiunta formale della scissura aperta sull’infinito.

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· Vivere una contraddizione ·

Gli Achromes di Manzoni erano risposte argute alla metafisicità di Klein, un

tentativo di confutarla con una forte dichiarazione materialistica: dall’oro

agli escrementi. In Germania gli artisti del Gruppo Zero – Heinz Mack, Otto

Piene, Bernard Aubertin – cominciarono a professare il vuoto come accaniti

sostenitori della monocromia metafisica di Klein, per poi evolversi gradual-

mente in altre direzioni, più cinetiche e concettuali. Da questa corrente fece

in tempo a nascere Fluxus, che portò avanti l’eredità del criptodadaismo di

Klein anziché il suo discorso metafisico.

Negli Stati Uniti il monocromo metafisico emerse negli anni cinquanta

per arrivare a una sorta di predominio nel decennio successivo, con i di-

pinti quasi monocromi di Mark Rothko, Barnett Newman, Ad Reinhardt

e altri. Questi eventi si verificarono contemporaneamente alla carriera di

Klein; non ne furono una conseguenza, ma nacquero dalla stessa spiri-

tualità postbellica e finemondista da cui ebbe origine la sua opera. Per gli

esponenti della Scuola di New York come per Klein, la monocromia era

un’importante dichiarazione di morte della pittura fisica e insieme di

un’epoca storica, se non addirittura della storia stessa. La pittura fisica

stava per consumarsi, portando a conclusione la sua lunga danza di cam-

biamenti d’identità e di forma; con il monocromo si tuffava nell’oceano

del colore e scompariva.

Negli Stati Uniti la straripante intensità della monocromia postbel-

lica si prosciugò nella deflazione spirituale della pittura minimalista e

del Color Field. Nel 1959 Frank Stella espose la sua prima serie di quadri

neri e Robert Irwin realizzò i suoi primi dipinti con le linee, quasi mo-

nocromi. Jasper Johns rese monocroma la bandiera statunitense e Robert

Rauschenberg fece lo stesso con la carta di giornale. Negli anni sessanta

lo slancio riprese vigore. Nel 1961 Dan Flavin iniziò a realizzare lavori

monocromatici che includevano tubi al neon e lampadine elettriche,

mentre Brice Marden cominciò a esporre monocromi a encausto. Nel 1967

la prima personale di Robert Ryman a New York comprendeva la serie

Standard, tredici dipinti su acciaio tutti bianchi. Per quanto non sia pos-

sibile affermare che gli sviluppi americani fossero dovuti all’influenza di

Klein, tuttavia essi assunsero significato in un contesto internazionale

plasmato e pervaso dall’aura del suo lavoro e dei suoi atteggiamenti. Da

questo punto di vista, le opere americane dipendevano in effetti tanto da

Klein quanto dai loro predecessori statunitensi, ma forse non avrebbero

acquisito piena importanza nella storia dell’arte senza le sue dichiara-

zioni, sia visive sia verbali. In linea con la dialettica della contraddizione

connaturata, Klein era tanto un pittore quanto un antipittore. I dipin-

ti immaginari che creò per il volumetto Yves Peintures, l’uso della mono-

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· Thomas McEvilley ·

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cromia come stratagemma demistificante per ridurre a insensata l’idea

della pittura da cavalletto ridicolizzandone l’intensità narcisistica, il ri-

fiuto della tradizione del “tocco” a favore del rullo prima e del «pennello

vivente» poi, la riduzione ad assurdo dell’arte della figura nelle Empreintes

(Impronte), la simbolica distruzione della pittura da cavalletto nei dipin-

ti eseguiti con il fuoco, la creazione di quadri con metodi casuali nelle

Cosmogonies, l’esposizione e la vendita di “quadri invisibili”: tutto ciò era

parte del progetto di antipittura che Klein elaborò in modo molto detta-

gliato e con grande precisione nel giro di alcuni anni. In seguito, nell’era

dell’Arte Concettuale, le opere si basarono su sfumature diverse di tale

progetto. Questo era uno dei passaggi attraverso cui un artista poteva

rivendicare il diritto di definirsi concettuale. A partire dal 1966 Daniel

Buren realizzò “dipinti” identici di tessuto rosso, che rappresentavano

un’estensione dell’elemento parodistico dei monocromi di Klein. L’anno

seguente, riformulando il concetto di immaterialità di Klein, o l’idea di

assenza che prevale sulla presenza, Buren e altri appesero i loro quadri in

una sala inaccessibile di una galleria parigina e distribuirono un volanti-

no con le loro descrizioni. Storicamente, l’episodio si riferiva al fatto che

alcuni anni prima, nella stessa galleria, Klein aveva compiuto il gesto di

rimuovere tutti i dipinti da una sala. Per tutti gli anni sessanta e settan-

ta proliferarono le varianti di quel gesto, carico di elementi da assorbi-

re, tra cui l’unificazione della tradizione pittorica con la Performance e

l’Arte Concettuale. Ben presto nacque una nuova tradizione. Di lì a pochi

anni Mel Ramsden espose un quadro nero con accanto una targa in cui

si spiegava che in realtà il vero dipinto era nascosto sotto la superficie

nera; Jannis Kounellis propose una tela nascosta dietro una tenda nera;

Gerhard Richter realizzò una serie di dipinti grigi identici, che richia-

mavano alla mente i monocromi blu che Klein aveva esposto a Milano

nel 1957. Tali gesti sono forse la traccia più caratteristica dell’influenza

di Klein sulla tradizione di cui tanto desiderava far parte. Ma ce ne sono

altri ugualmente incisivi.

Creazione per designazione

Duchamp designava oggetti comprati nei negozi come proprie opere d’arte

firmandoli. La firma – l’atto di designazione – sostituiva il tradizionale atto

di creazione. Klein fu il primo, decenni dopo, a farsi carico con vigore delle

affascinanti implicazioni di questa tecnica. Nel 1947 immaginò di firmare

il cielo rendendolo una propria opera d’arte. Nel “Théâtre du vide” del 1960

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· Vivere una contraddizione ·

designò il mondo intero come suo teatro per un giorno, e tutti coloro che si

trovavano al suo interno erano al tempo stesso attori e spettatori. Dopo aver

brevettato la formula dell’ikb (International Klein Blue), dipinse di questo

colore oggetti già esistenti, designandoli come proprie opere. Così la Nike

di Samotracia entrò nel suo portfolio, e lo stesso accadde all’intero pianeta

quando immerse nel suo blu un mappamondo.

La creazione per designazione fu uno degli strumenti principali dell’Ar-

te Concettuale degli esordi, nonché uno dei suoi temi e tratti stilistici pri-

mari. L’elaborazione di nuovi metodi di designazione fu la cifra stilistica

dei primi artisti concettuali. Questi sviluppi tendevano a fondersi con l’e-

tica della performance di Klein, espressa nella celebre affermazione secon-

do cui un pittore deve dipingere un solo capolavoro: se stesso. La designa-

zione al posto della creazione si unì all’enfasi sulla vita anziché sull’arte.

Manzoni, per esempio, sviluppò la sua “base per scultura vivente” in ri-

sposta alle designazioni blu di Klein: chiunque salisse sul piedistallo di-

ventava un’opera d’arte. Gli “attestati di autenticità” tramite cui Manzoni

dichiarava che uno specifico individuo era un’opera d’arte si basavano sul-

le ricevute rilasciate da Klein per le Zones de sensibilité picturale immatérielle. Il

concetto espresso dalla Terre bleue di Klein fu ripreso da Manzoni nel Socle

du monde, un piedistallo capovolto che si presupponeva sostenesse la Terra,

trasferendola così dal portfolio di Klein al suo.

Ben Vautier, erede dell’École de Nice, proseguì questa linea di gesti te-

orici facendone la propria specialità. Nel 1962 designò come propria opera

d’arte la morte di Klein e un anno dopo firmò anche la morte di Manzoni.

Sempre nel 1962 si mise in vetrina come “scultura animata”, un gesto pre-

sto riecheggiato in una serie di lavori di Gilbert & George, James Lee Byars

e altri. Insieme alla designazione, la presentazione del corpo dell’artista

o della sua vita quotidiana come opera d’arte divenne uno dei temi prin-

cipali dell’epoca dominata dall’Arte Concettuale e dalla Performance. La

vena concettuale dell’œuvre di Klein fu isolata e resa esplicita quando Ben

designò il mondo intero come propria opera d’arte.

La smaterializzazione dell’arte

Per Klein la vera arte era la manipolazione dello spirito mediante la pu-

ra volontà; l’arte più nobile era del tutto priva di materia. A dispetto della

loro sfumatura teosofica, queste idee esercitarono un’influenza formativa

sull’Arte Concettuale e la sua denigrazione dell’oggetto fisico. Il vuoto o le

opere smaterializzate di Klein furono i punti di riferimento intorno a cui si

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· Thomas McEvilley ·

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formò l’atmosfera di permissività degli anni sessanta e settanta, i decenni

in cui l’Arte Concettuale esercitò la sua breve egemonia. L’opera più impor-

tante sotto questo aspetto fu Le Vide, del 1958, in cui fu esposta una galleria

in apparenza vuota, ma presumibilmente piena di presenze estetiche non

fenomeniche. L’ambiente immateriale intitolato Raum der Leere (Stanza del

vuoto), del 1961, era un vuoto più intensamente atmosferico, in cui la lu-

ce definiva lo spazio in evidenti volumi geometrici che brillavano in modo

trascendente. Quasi volessero analizzare le implicazioni di questo lavoro,

nel 1968 Robert Irwin e James Turrell iniziarono a esporre i loro spazi vuoti

carichi d’atmosfera che tentavano di concretizzare l’idea del pieno/vuoto,

annullando le distinzioni geometriche in una lucida confusione di luce.

Per certi versi i loro spazi, con l’uso di luci nascoste e di schermi trasparen-

ti, erano più elaborati in termini di percezione sensoriale rispetto a Le Vide

di Klein e persino alla Raum der Leere, ma rientravano ancora nella tradizio-

ne inaugurata da quelle opere.

In un’altra direzione, soprattutto in Europa, Le Vide portò a una serie

di lavori concettuali collegati alla tradizione duchampiana della designa-

zione. In questo caso gli eventi seguirono uno sviluppo molto razionale.

Duchamp aveva collocato gli oggetti del quotidiano in un contesto arti-

stico e li aveva definiti arte. Klein pensò che se collocare le cose in un

contesto artistico le rendeva arte allora era il contesto e non l’oggetto a

contenere l’essenza dell’arte; e dunque espose la galleria stessa. Prose-

guendo il ragionamento, Buren giunse alla conclusione che se l’oggetto

d’arte era la galleria allora lui avrebbe decorato la galleria, a partire dalla

tenda sul marciapiede. Per tutto il primo periodo concettualista l’idea

di esporre il vuoto fu, come la designazione, una delle aree in cui l’ar-

tista poteva creare una propria cifra stilistica. Nel 1967 Claes Oldenburg

installò una “scultura invisibile” dietro il Metropolitan Museum of Art

di New York, scavando una fossa delle dimensioni di una bara per poi

riempirla di nuovo. Nel 1968 Ron Cooper propose quelli che definiva volu-

mi di atmosfera; Robert Barry espose onde elettroniche invisibili. James

Lee Byars presentò The Ghost of James Lee Byars: una sala apparentemente

vuota che, al pari di Le Vide di Klein, si presumeva contenesse un’entità

invisibile che l’osservatore poteva percepire tramite una forza dinamica

nascosta. Nello stesso anno Takis, già collega di Klein a Parigi, espose

sale apparentemente vuote, ma piene di campi magnetici; Tom Marioni

curò una mostra intitolata “Invisible Painting and Sculpture” per il Rich-

mond Art Center, mentre la “Exhibition, Number 7” organizzata da Lucy

Lippard in una galleria di New York consisteva in una sala vuota conte-

nente diverse opere invisibili, tra cui un campo magnetico installato da

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· Vivere una contraddizione ·

Barry, le correnti d’aria di Hans Haacke e le ombre esistenti di Robert

Huot. Nel 1969 Barry presentò il suo Telepathic Piece rimanendo di fronte

a un pubblico a cui comunicava per via telepatica l’aspetto fisico della

propria opera, che la gente non vide mai direttamente. L’anno dopo, a

Los Angeles, espose una galleria chiusa. Zero-Mass Space, realizzato da Eric

Orr nel 1973, consisteva in una grande stanza vuota, fatta di carta, con

un’illuminazione ridotta al minimo. Questi e molti altri lavori simili tra-

sferirono l’influente gesto di Klein in nuove aree di significato, alcune

delle quali suggerivano mondi paralleli metafisici, mentre altre si pren-

devano gioco della funzione sociale della galleria.

Mettere in pericolo se stessi

Nel 1960 Klein pubblicò la celebre fotografia del Saut dans le vide (Salto nel

vuoto), per realizzare la quale aveva già fatto un salto pericoloso in almeno

due occasioni.6 Altri suoi gesti pubblici implicavano il rischio di morte o la

promessa del sacrificio di se stesso, come La Tombe – Ci-gît l’espace (La tomba.

Qui giace lo spazio). Insieme al ritualismo, l’idea di mettere in pericolo se

stessi esercitò una forte influenza sulla successiva Performance Art. Il Sal-

to nel vuoto fu ripetuto da altri artisti, tra cui l’americano Paul McCarthy e

il taiwanese Tehching Hsieh. Più in generale, si venne a creare una forma

di espressione in cui l’artista offriva il proprio corpo, o un suo surrogato,

in una sorta di sacrificio cosmico. Yves Klein, Joseph Beuys, gli esponenti

dell’Azionismo viennese, Carolee Schneemann, Marina e Ulay, Terry Fox,

McCarthy e moltissimi altri furono influenzati profondamente da que-

sto modello. In realtà, la Performance Art degli anni sessanta può essere

suddivisa in due correnti storiche, una ispirata a Klein e l’altra all’Hap-

pening americano nato negli anni cinquanta nell’enclave di Cage al Black

Mountain College. La corrente kleiniana si distingue per una forte enfasi

sull’idea che l’opera d’arte non possa essere scissa dalla persona dell’arti-

sta, e i gesti che mettono in pericolo l’autore sono una dimostrazione di

obbedienza a tale principio.

Nuovi media

Gli anni sessanta e settanta furono caratterizzati da una costante ricerca

di nuovi media e materiali che sostituissero quelli ereditati dal Moderni-

smo morente, scartati come reliquie. Un aspetto cruciale fu lo spostamento

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· Thomas McEvilley ·

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dell’attenzione dalla pittura alla scultura, e in particolare il tentativo di tro-

vare delle aree intermedie tra i due mezzi d’espressione. Andavano in questa

direzione negli Stati Uniti i primi Combines di Rauschenberg e in Europa la

pratica, inaugurata da Klein nel 1957, di collocare i dipinti ad alcuni centi-

metri di distanza dalla parete, come fossero oggetti nello spazio reale anzi-

ché finestre illusorie su un altrove. Quello fu uno dei primi gesti che tende-

vano a considerare il quadro come un oggetto reale, che occupava un proprio

spazio e aveva un significato di per sé e non per ciò che raffigurava. Alcuni

anni dopo, nelle prime articolazioni della tradizione californiana della lu-

ce-spazio che tante affinità aveva con i gesti di Klein, Robert Irwin e Doug

Wheeler iniziarono a esporre i loro quadri lontano dalle pareti. Da allora Ri-

chard Jackson, Imants Tillers e altri hanno utilizzato tele tese e dipinte come

oggetti scultorei.

Allo stesso modo, i Reliefs éponges (Rilievi spugne) di Klein non erano né

pittura né scultura; in quanto oggetti del mondo reale affissi su tela, co-

niugavano elementi di entrambe, come faceva Manzoni in Italia con gli

Achromes e Rauschenberg negli Stati Uniti con i Combines, presto seguiti da

Jim Dine e altri. Ancora di più, i suoi calchi di corpi umani si collocavano

al confine tra scultura e vita, o tra rappresentazione e presenza. Anche in

questo caso Klein anticipava una modalità di scultura che altri avrebbe-

ro ripreso, soprattutto gli americani Ed Kienholz, Duane Hanson e John

Ahearn. I Portraits reliefs (Ritratti rilievi) di Klein si avvicinano alla presenza

reale e le sue Empreintes perseguono la stessa finalità teoretica: confutare la

distinzione tra presenza e rappresentazione.

Il fascino dell’alchimia portò Klein a sperimentare anche nuovi mate-

riali. È considerato il padre, per esempio, dell’uso artistico del fuoco. Nella

sua concezione, il fuoco non è soltanto una forza alchemica di riduzione

e trasformazione, ma è anche un materiale adatto per l’incapsulamento

dell’inferno o apocalisse tardomodernista, è il fuoco della conflagrazione

della storia che brucia tutti i capolavori, i libri e gli spartiti e li distilla in

una pura essenza di fumo che rimane momentaneamente sospesa davanti

agli occhi prima della perdita di coscienza. Molti lavori di Jannis Kounel-

lis, Eric Orr e altri hanno approfondito questo tema.

Progetti di Klein quali la creazione di un clima controllato in tutta la

Francia, l’architettura dell’aria, il riassetto della topografia della Terra e

così via sono per certi versi i precursori della Land Art. Roden Crater di James

Turrell, Lightning Field di Walter De Maria, Spiral Jetty di Robert Smithson e

altre opere simili partecipano all’ambizione utopica dell’arte e dell’archi-

tettura di “museificare” l’ambiente per dare un nuovo slancio trasformati-

vo alla società e all’individuo.

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· Vivere una contraddizione ·

Il ruolo dell’artista

Dopo un’epoca in cui l’artista, al pari di uno scienziato, si era concentra-

to su un’area limitata di ricerca formale, Klein restituì ampiezza al proget-

to artistico. La molteplicità della sua opera e l’ampiezza inclusiva della sua

concezione lasciarono un segno sulle generazioni che seguirono. Scultore,

pittore, fotografo, ideatore di performance, artista concettuale, precursore

della Body Art e della Land Art: la sua carriera fu la prima di un genere po-

limorfo che negli anni seguenti divenne tipico. Artisti come Beuys, Kounel-

lis, Dennis Oppenheim e altri, che perseguivano l’idea di una carriera leo-

nardesca, ripercorrevano le orme di Klein o si muovevano in campi che lui

aveva reso accessibili; benché in alcuni casi la consapevolezza dell’influen-

za subita fosse debole, l’atmosfera in cui l’opera si manifestava era già sta-

ta ampliata e preparata. Tuttavia, Klein volle andare grandiosamente oltre,

estendendo il ruolo dell’artista alla sfera pubblica sulla falsariga della conce-

zione romantica secondo cui poeti e artisti erano, per citare Percy Shelley, «i

misconosciuti legislatori del mondo». Klein voleva interpretare questo ruo-

lo apertamente. L’Architecture de l’air (Architettura dell’aria) era un tentativo,

ispirato a Le Corbusier, di includere il contributo dell’artista nelle questioni

di ingegneria sociale utopica. Propose una nuova forma di governo per la

Francia, che alla fine avrebbe portato a un nuovo governo del mondo, e un

nuovo sistema educativo chiamato Centro mondiale di sensibilità. Le stesse

idee furono alla base della Libera università internazionale e del Partito de-

gli studenti tedeschi fondati da Beuys, e di altri gesti che miravano all’este-

tizzazione delle istituzioni pubbliche. I richiami all’unificazione di scienza,

arte e religione lanciati da Beuys sono affini al modo di pensare di Klein (il

rosacrocianesimo heindeliano di Klein aveva le stesse origini dell’antropo-

sofia steineriana di Beuys), così come l’autocelebrazione. Al pari di Klein,

l’artista tedesco diede prova di un esagerato reazionarismo, oltre che di una

straordinaria capacità d’innovazione. Entrambi attuarono il facile cambia-

mento dal ruolo di «misconosciuto legislatore» a quello di «principe di un re-

gno immaginario», come Disraeli definiva il dandy.

Dopo un’epoca di grande confusione tra il ruolo del pittore e quello

dell’illustratore, Klein fu il primo artista di rilievo che non imparò mai a

disegnare. Rinunciò al prezioso culto formalista del tocco, dipinse usando

i rulli. Newman aveva dichiarato di poter realizzare un quadro dettando-

ne le indicazioni per telefono, ma non lo fece mai. Klein più o meno sì,

nella prima chiara articolazione del principio che anni dopo avrebbe reso

famoso Lawrence Wiener, secondo cui l’opera può essere creata dall’arti-

sta stesso, fabbricata da altri oppure non essere realizzata affatto. Klein

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· Thomas McEvilley ·

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solitamente affidava l’esecuzione delle parti tecniche e meccaniche dei

suoi lavori a degli specialisti, come poi divenne normale per gli artisti del-

la generazione successiva. Sul finire degli anni sessanta John Baldessari

completò una sequenza kleiniana facendo realizzare i suoi quadri da un

pittore d’insegne, con un gesto che irrideva la sacralità della concentra-

zione dell’artista e dell’espressione di sé. La collaborazione, insieme ad

altre forme di decentramento dell’io, diventò uno dei tratti caratteristici

del post Modernismo. Klein fu un pioniere anche in questo. Il gruppo dei

nouveaux réalistes si formò sotto la sua influenza e il suo rapporto con Tin-

guely virò in più occasioni verso una collaborazione assoluta. Nel 1960 fon-

dò l’International Klein Bureau, autorizzando gli altri membri – Mirouze,

Restany, Pascal e Arman – a realizzare monocromi ikb e a firmarli con il

suo nome.7 Opere che designavano la fine del Modernismo come i disegni

di Sol LeWitt, che dovevano essere eseguiti da altri e firmati dall’artista,

erano un ampliamento di questo gesto. Quasi tutti gli artisti che si affer-

marono dopo Klein trovarono qualcosa da ammirare ed emulare nella sua

carriera. L’inaugurazione della retrospettiva al Guggenheim Museum del

1982 fu accompagnata da una tavola rotonda a cui partecipai insieme a

Julian Schnabel, Arman, Joseph Kosuth e Olivier Mosset. Tutti riconosce-

vano di aver assimilato parte dell’essenza di Klein nelle rispettive, e molto

diverse tra loro, pratiche artistiche.

Riavvicinarsi all’intersezione

Nel promuovere se stesso Klein rivendicava la propria funzione di indivi-

duo cosmico-storico, adottando, quindi, un’immagine di sé essenzialmente

modernista. Allo stesso tempo, però, il suo compito era annunciare la fine

dell’era modernista e l’avvento dell’era della pura spiritualità, vale a dire ca-

lare il sipario sul mondo della forma storica e dell’individuo cosmico-storico.

Il titolo del suo saggio Le Dépassement de la problématique de l’art (Il superamento

della problematica dell’arte), pubblicato nel 1959, è un’aperta dichiarazione

della fine del Modernismo. Nel 1960, durante un incontro presso La Coupo-

le, fondò l’adam, l’Association pour le Dépassement de l’Art Moderne (Asso-

ciazione per il superamento dell’arte moderna). Nell’essere convinto dell’e-

sistenza di un necessario passo successivo della storia dell’arte Klein era

un classico modernista, mentre la costante autoironia sulla partecipazio-

ne all’assurdo esistenziale lo rendeva tipicamente postmodernista. La sua

opera è attraversata da entrambe le tendenze: da una parte il monocromo

metafisico e l’approccio solenne al vuoto; dall’altra le performance che paro-

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· Vivere una contraddizione ·

diavano la solennità, l’ironia decostruttiva, le buffonate da clown. In questo

senso Klein può essere considerato un fenomeno della fine del Modernismo.

I suoi omaggi alle ambizioni mistiche e metafisiche dell’arte erano rigorosa-

mente modernisti, rientravano in una tradizione che risaliva all’ideologia

romantica di Schelling e dei fratelli Schlegel. Tuttavia, non riusciva a fare

quegli inchini in maniera del tutto seria, ma doveva includervi un punto

di vista contrario o un capovolgimento ironico, e in questo il suo lavoro era

essenzialmente postmodernista. Forse è così che la sua dualità deve essere

percepita: Klein superò l’impasse Modernismo/post Modernismo con estre-

ma chiarezza e intensità. Praticò le due ideologie con eguale passione, incar-

nando il momento storico, le sue forze contrastanti e le realtà opposte del-

le loro rivendicazioni. Per certi versi il suo personale Mistero della Passione

mise in scena la morte del Modernismo e la contemporanea nascita del post

Modernismo. In questo senso Klein diceva la verità quando, dopo la mostra

“Le Vide” del 1958, dichiarò: «Al di là della mia modesta persona, è la brusca

estrapolazione di quattro millenni di civiltà che viene a trovare il suo defini-

tivo coronamento».

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Dimanche 27 novembre 1960 (Le journal d’un seul jour), carta stampata in bianco e nero, 55,5 x 38 cm.