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Macbeth Cura e introduzione di Gabriele Baldini Con un testo di Harold Bloom E simile a uno splendido metallo che giace sul nudo e oscuro terreno, la mia conversione, brillando sulle mie colpe, apparirà più esemplare. William ^ ^ C D Enrico iv Estratto della pubblicazione

William...limite ultimo, proprio come Amleto è la massima estensione dell’acume cognitivo del drammaturgo. Non so se possiamo immaginare l’investimento umano di Shakespeare in

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Page 1: William...limite ultimo, proprio come Amleto è la massima estensione dell’acume cognitivo del drammaturgo. Non so se possiamo immaginare l’investimento umano di Shakespeare in

Macbeth

Cura e introduzione di Gabriele Baldini

Con un testo di Harold Bloom

E simile a uno splendido metallo che giace sul nudo

e oscuro terreno, la mia conversione,

brillando sulle mie colpe, apparirà più esemplare.

William

C D

Enrico iv

Estratto della pubblicazione

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Opere

William

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Gabriele Baldini (Roma, 1919-1969), saggista, traduttore, critico

letterario e cinematografico, è stato direttore dell’Istituto Italiano di

Cultura a Londra e docente di Letteratura inglese a Roma.

La sua fama, in Italia e all’estero, è legata ai suoi meriti accademici

in anglistica e americanistica: dai suoi studi sono nati saggi di rilie-

vo, come Poeti Americani 1662-1945, Melville o le ambiguità, John Webster e il linguaggio della tragedia. È stato il primo curatore di

una rigorosa edizione dell’intero corpo degli scritti di Shakespeare,

in tre volumi: Opere Complete nuovamente tradotte e annotate

(Classici Rizzoli, 1963). Fanno ancora scuola la sua storia del teatro

inglese – Teatro inglese della Restaurazione e del ’700, La tradizio-ne letteraria dell’Inghilterra medioevale, Il dramma elisabettiano –,

le sue lezioni su Le tragedie di Shakespeare e il fortunatissimo Ma-nualetto shakespeariano.

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Williamz z

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WILLIAM SHAKESPEARE - OPERE

Edizione speciale su licenza per Corriere della Sera

© 2012 RCS MediaGroup S.p.A. Divisione Quotidiani, Milano

Direttore responsabile Ferruccio de Bortoli

ISBN 97888

Proprietà letteraria riservata

© 1954-2012 RCS Libri S.p.A., Milano

Titolo originale dell’opera:

Traduzione di Gabriele Baldini

Per il testo di Harold Bloom tratto da Shakespeare. L’invenzione dell’uomo© 2001 RCS Libri S.p.A.

Titolo originale dell’opera:

Shakespeare: the Invention of the Human© 1998 by Harold Bloom

Traduzione di Roberta Zuppet

Quest'opera è protetta dalla Legge sul diritto d'autore.È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

via Sol erino 28, 20121 Milano

Sede Legale via Rizzoli 8, 20132 Milano

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61261 49

Prima edizione digitale da edizione LLIAM SHA ESPEARE - OPERE WI2012 2012K

e noteThe History of King Henry IV

17 – Enrico IV

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PRESENTAZIONEdi Harold Bloom

Le doti di Shakespeare sono così numerose che è impossibile ridurle a un unico talento e sostenere che il drammaturgo sia importante solo per via di tale caratteristica. Le sue ca-pacità scaturiscono tuttavia dalla straordinaria intelligenza, che è ineguagliata in termini di completezza, e non solo tra i maggiori scrittori. La vera bardolatria deriva da questa consa-pevolezza. In Shakespeare incontriamo finalmente un’intelli-genza senza limiti. Quando leggiamo i suoi testi, cerchiamo sempre di raggiungere il suo livello, e la nostra gioia nasce dal fatto che il processo è infinito: il drammaturgo ci precede sempre. Mi meraviglio di fronte ai critici vecchi e nuovi, di qualsiasi corrente di pensiero, inclini a sostituire la propria saccenza (a dire il vero, il proprio risentimento) alla sofferenza e all’ammirazione per Shakespeare, che sono tra le principali manifestazioni del suo potere.

Trovo interessante l’osservazione di Hegel, secondo cui il drammaturgo trasforma i suoi personaggi migliori in «libe-ri artefici di se stessi». I più liberi tra i liberi sono Amleto e Falstaff, perché sono le creazioni o, se preferite, i ruoli shake-speariani più intelligenti. I critici assumono solo di rado un atteggiamento condiscendente verso Amleto, anche se alcuni, tra cui Alistair Fowler, lo disapprovano sul piano morale. Per Falstaff, la situazione è, ahimè, diversa; molti critici non solo lo condannano moralmente ma lo tiranneggiano, come se Sir John ne sapesse meno di loro. Questi critici definiscono «sen-timentalista» chi ama Falstaff (come faccio io e come dovrem-mo fare tutti, anche se lo consideriamo solo un ruolo). Qual-che anno fa, durante uno dei miei seminari su Shakespeare,

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una dottoranda mi disse con una certa veemenza che Falstaff non era degno di ammirazione, mentre la trasformazione del principe Hal in Enrico V era esemplare. Secondo lei, Hal rap-presentava l’ordine e Falstaff era il signore del disordine, e non riuscii a persuaderla del fatto che Falstaff trascendeva le sue categorie, come trascende quasi tutte le categorizzazioni del peccato e dell’errore umano. È evidente che Shakespeare aveva un rapporto personale con Amleto e riversò tutte le sue doti nel principe. A differenza di Amleto, Falstaff non turbò per lunghi anni il suo creatore e forse non lo lasciò affatto per-plesso. Oserei dire, tuttavia, che Falstaff colse Shakespeare di sorpresa e sfuggì al ruolo in origine stabilito per lui, che forse non era più grande di quello, per esempio, di Pistol in Enrico V. Le due parti di Enrico IV non appartengono a Hal ma a Fal-staff, e nella prima parte persino Hotspur viene eclissato dallo splendore di Sir John. Non nutro alcuna speranza di rivedere un Falstaff uguale a quello interpretato da Ralph Richardson cinquant’anni fa, perché Richardson non sottovalutava il per-sonaggio e non assumeva un atteggiamento condiscendente nei suoi confronti. Il suo Falstaff non era un codardo né un buffone, ma una figura dotata di un’arguzia infinita che si compiaceva della propria inventiva e trascendeva il proprio cupo pathos. Il coraggio di Falstaff si esprime come rifiuto di accettare il rifiuto, anche se, all’inizio di Enrico IV – Parte prima, Sir John sa che l’ambiguità di Hal si è risolta in una negatività omicida. Il deviato amore paterno di Hal costituisce la vulnerabilità di Falstaff, la sua unica debolezza e l’origine della sua distruzione. Il tempo annichilisce gli altri protago-nisti shakespeariani, ma non Falstaff, che muore per amore. I critici insistono nell’affermare che il suo amore è grottesco, ma sono loro a essere grotteschi. Il più grande tra i personaggi arguti della letteratura di fantasia muore la morte di un padre putativo rifiutato e anche di un mentore disonorato.

Gran parte dei drammi maturi di Shakespeare ci chiede implicitamente di immaginare gli avvenimenti che precedo-

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no il loro inizio, avvenimenti cui possiamo arrivare mediante una sorta di inferenza, come suggeriscono vari studiosi, da Maurice Morgann ad A.D. Nuttall. Nel caso di Enrico IV – Parte prima, questi fatti sono in parte contenuti in Riccardo II, il dramma in cui Bolingbroke usurpa la corona e diventa re Enrico IV. Qui, nell’atto V, scena iii, il nuovo re e Percy, che ben presto diventerà Hotspur, sostengono una conversa-zione profetica sul principe Hal:

Bolingbroke. È possibile che nessuno sappia darmi notizie di quel dissoluto figlio che ho? Sono ben tre mesi che non lo vedo. Se un flagello incombe su di noi, quel flagello è lui. Vorrei, miei signori, che fosse rintracciato. Fatene ricerche a Londra, per le taverne, perché è lì che passa le sue giornate, con compagni senza freno e senza legge, addirittura di quelli che si appostano nei vicoli, assalgono la nostra guardia notturna e rapinano i passanti, mentre lui, ragazzo viziato ed effeminato, si fa un punto d’onore di spalleggiare una ciurma tanto scellerata.Percy. Mio signore, vidi il principe circa due giorni fa e gli parlai dei tornei che saranno tenuti a Oxford.Bolingbroke. E che disse il galante giovanotto?Percy. Rispose che se ne sarebbe andato al bordello, avrebbe strappato un guanto alla più volgare prostituta e l’avrebbe portato come pegno d’onore sull’elmetto, dicendo che gli sarebbe bastato quello per scavallare il più forte degli sfidanti.Bolingbroke. Dissoluto quanto temerario! Pure in queste due sue qualità scorgo qualche favilla di speranza migliore, che l’età più matura potrà portare felicemente a maturazione.

[Riccardo II, V.iii.1-22]

Il capobanda di questa ciurma scellerata è Falstaff, le cui fortune preshakespeariane non coinvolgono lui, vale a di-re, l’immortale Falstaff, come lo definiscono giustamente

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Bradley e Goddard. L’immortale Falstaff è un’invenzione di Shakespeare, il proverbiale ciccione che combatte con vigore per uscire dall’esile Shakespeare. Molti critici sotto-lineano il gioco di parole parallelo: fall-staff (che in italia-no potrebbe corrispondere a «casca-bastone»), shake-spear («scrolla-lancia»). Altri trovano nel poeta dei Sonetti un Fal-staff che viene sminuito rispetto alla nobile giovinezza del principe Hal. Il legame personale mi pare tuttavia più forte se si osserva che Falstaff è l’arguzia di Shakespeare portata al limite ultimo, proprio come Amleto è la massima estensione dell’acume cognitivo del drammaturgo. Non so se possiamo immaginare l’investimento umano di Shakespeare in Fal-staff nella misura in cui immaginiamo quello in Amleto. Un illustre critico storicista di Shakespeare, rispondendo a un mio discorso sul valore delle personalità di Amleto e Falstaff, disse al pubblico che la mia lettura di quei perso-naggi o ruoli era «una politica dell’identità». Non so che cosa la politica abbia (o avesse) a che fare con il problema in questione, ma è difficile non riflettere sull’identificazione del drammaturgo sia con il figlio Amleto sia con il suo altro io, Falstaff. Non si possono creare Amleto e Falstaff senza reagire in maniera analoga a quella in cui Cervantes reagì a Don Chisciotte e Sancho Panza. La finzione narrativa non è finzione drammatica, e quindi in Shakespeare non possia-mo trovare espressioni di orgoglio e finta costernazione per i propri scritti simili a quelle di Cervantes. Prima William Epson e poi C.L. Barber e Richard P. Wheeler cercarono un commento obliquo su Falstaff nei Sonetti, con risultati contraddittori ma abbastanza convincenti. Quando posso, preferisco trovare lo spirito falstaffiano di Shakespeare nei drammi, perché i Sonetti, nelle loro espressioni più vigo-rose, mi sembrano più equivoci di qualsiasi altra opera del drammaturgo. Forse ci conducono ai drammi, ma Amleto e Falstaff illuminano i Sonetti più spesso di quanto i Sonetti facciano luce su quelle due gigantesche figure.

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Nelle cronache della storia inglese, un certo Sir John Fal-stolfe appare nei panni di un comandante codardo durante le guerre francesi, e come tale fa la sua comparsa in Enrico VI – Parte prima (atto I, scena i,130-140), dove la sua fuga determina il ferimento e la cattura del coraggioso Talbot. Il personaggio che divenne l’immortale Falstaff (nient’affatto codardo nei confronti del principe Hal, come sostengono Morgann e Bradley) si chiamava in origine Sir John Old-castle. Intorno al 1587, l’apprendista drammaturgo Shake-speare contribuì forse alla stesura di The Famous Victories of Henry VI, un dramma patriottico, avvincente e ampolloso, forse scritto in gran parte dall’attore comico Dick Tarlton. Qui il principe Hal elimina ed esilia il suo crudele compa-gno, Sir John Oldcastle. Il vero Oldcastle morì tuttavia come martire protestante, e ai suoi discendenti non fece piacere vederlo nei panni di un goloso malvagio e dell’incarnazione di tutti i vizi. Shakespeare fu costretto a modificarne il nome e inventò, così, Falstaff. Il drammaturgo, cercando di auto-censurarsi, permette a Hal di chiamare Falstaff «mio vec-chio ragazzone del castello», ma poi aggiunge una schietta sconfessione all’epilogo di Enrico IV – Parte seconda: «Perché Oldcastle morì martire, ma questo non è l’uomo». Come sarebbe bizzarro se l’opera di Verdi si intitolasse Oldcastle! Le circostanze del momento hanno guidato le scelte del dram-maturgo a molti livelli, e l’irritata progenie di Oldcastle ci ha regalato quello che ora sembra l’unico sinonimo possibile del genio comico: Falstaff.

In The Famous Victories, Sir John Oldcastle è solo uno spaccone di poca importanza. Shakespeare trovò Falstaff sol-tanto in Shakespeare, anche se il linguaggio e le personalità di Berowne e Faulconbridge il Bastardo, di Mercuzio e Bottom non ci preparano in maniera adeguata a Falstaff, che pronun-cia quella che è tuttora la migliore e più vitale prosa in inglese. L’abilità linguistica di Sir John supera persino quella di Am-leto, poiché Falstaff ha un’assoluta fiducia sia nella lingua sia

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in se stesso, che non perde mai, e sembra quindi scaturire da uno Shakespeare più primordiale di quello di Amleto. Falstaff diviene la più grande e sottile vittoria di Shakespeare su Ba-rabba e sugli altri imbroglioni di Marlowe, perché il grosso cavaliere ne supera i personaggi machiavelliani in veste di re-tore, pur non utilizzando mai il suo splendido linguaggio per convincere qualcuno di alcunché. Benché debba difendersi di continuo dall’aggressività infinita e quasi omicida di Hal, Falstaff non cerca di convincerlo e nemmeno di difendersi. L’arguzia è il suo dio, e, poiché dobbiamo immaginare che Dio sia dotato di senso dell’umorismo, possiamo osservare che i vivaci discorsi di Falstaff, la sua bella oratoria divertente (come Yeats disse di Blake), sono davvero la forma di devo-zione tipica di Sir John. Il suo obiettivo consiste nel rendere gli altri più arguti; il cavaliere non è solo arguto di per sé, ma è anche la causa dell’arguzia di Hal. Sir John è un Socrate comico. Shakespeare aveva imparato quello che sapeva sul filosofo da Montaigne, il cui Socrate e il cui Platone erano due scettici. Falstaff è più che scettico, ma, a differenza di Amleto, ama troppo insegnare (la sua vera vocazione, ancor più di quella di bandito) per seguire lo scetticismo oltre i suoi confini nichilisti. L’arguzia scettica non è uno scetticismo arguto, e Sir John non è un maestro della negazione come Amleto o Iago. Nei panni del Socrate di Eastcheap, Falstaff non deve preoccuparsi di insegnare la virtù, perché la lotta tra l’usurpatore Enrico IV e i ribelli non ha alcun rapporto con l’etica o la morale. Falstaff schernisce i ribelli dicendo che «non offendono che i virtuosi», persone che, com’è evidente, non si trovano certo nell’Inghilterra di Enrico IV o Enrico V.

Quali sono allora gli insegnamenti del filosofo di East-cheap? Il mangiare, il bere, la fornicazione e gli altri vizi non sono al centro del falstaffianesimo, benché occupino senza dubbio gran parte del tempo del cavaliere. Non ha alcuna importanza, perché Falstaff, come ci dice subito Hal, non ha nulla a che vedere con l’ora del giorno. Possiamo insegnare

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solo quel che siamo; Falstaff, che è libero, può istruirci solo in materia di libertà... non libertà nel contesto sociale, bensì dal contesto sociale. Il saggio di Eastcheap vive nei drammi storici shakespeariani ma li tratta come commedie. Gli stu-diosi hanno denominato Enriade la tetralogia composta da Riccardo II, Enrico IV – Parte prima, Enrico IV – Parte seconda ed Enrico V, ma io riassumo la seconda e la terza delle opere citate sotto la definizione di Falstaffiade (e non aggiungerei Le allegre comari di Windsor, il cui «Falstaff» è un imposto-re melodrammatico). La Falstaffiade è una tragicommedia; l’Enriade è un dramma patriottico con qualche venatura sto-rica. Vorrei che Shakespeare non ci avesse raccontato la morte di Falstaff in Enrico V e che avesse portato Sir John fino alla foresta di Arden, dove avrebbe potuto mettere la propria ar-guzia a confronto con quella della Rosalinda di Come vi piace. Benché Falstaff incarni la libertà, la sua libertà non è assoluta. Noi spettatori non godiamo di una prospettiva privilegiata ri-spetto a quella di Rosalinda, mentre possiamo vedere le qua-lità machiavelliane del principe Hal con maggiore chiarezza di quanto riesca a fare Falstaff e avvertiamo il rifiuto di Sir John sin dal discorso di apertura di Hal in Enrico IV – Parte prima. Ai margini della gioia comica della Falstaffiade vi è la più ampia Enriade, e, da una prospettiva legittima, che cos’è Hal se non il genio malvagio di Falstaff?

E.E. Stoll confronta l’uso che Shakespeare fa della sua arte comica dell’isolamento nei confronti di Shylock e di Falstaff. Shylock non è mai solo sul palcoscenico; di lui possiamo ave-re solo una prospettiva sociale. Nella seconda parte della sua tragicommedia, Falstaff è in compagnia di Hal soltanto due volte, prima quando il principe lo vede impegnato in una vol-gare scena di pathos erotico con Doll Tearsheet e poi quan-do viene insultato e ripudiato dal nuovo re. Vorremmo che Falstaff godesse di una libertà assoluta, e in parte lo vorrebbe anche Shakespeare, ma la mimesi shakespeariana è troppo abile per una simile fantasia. Falstaff, in veste di Socrate co-

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mico, rappresenta la libertà solo come dialettica educativa della conversione. Se vi accostate a Falstaff pieni di rabbia e indignazione, siano esse rivolte verso di lui o verso qualcun altro, Sir John trasformerà le vostre oscure passioni in arguzia e riso. Se, come Hal, vi accostate a Falstaff con un’ambiguità in cui prevale la componente negativa, Sir John vi eviterà laddove non riuscirà a convertirvi.

Non credo che queste caratteristiche facciano di Falstaff un pragmatista dello scambio economico, come afferma Lars Eagle quando dice che Falstaff «è una figura non tanto di libertà dai sistemi di valori quanto di partecipazione gioiosa alla loro attuazione contingente e manipolabile». È possibile sfruttare un sistema di valori, come fa Falstaff con la guerra civile, guardando attraverso e al di là di esso. L’immortale Fal-staff, che non è mai ipocrita e non è affatto ambiguo o falso quanto Hal, è sostanzialmente un satirico che lotta contro ogni forma di potere, vale a dire ogni forma di storicismo (spiegazione della storia), anziché contro la storia. Falstaff, un guerriero veterano che ora si ribella al codice d’onore cavalle-resco, sa che la storia è un flusso ironico di capovolgimenti. Il principe Hal si rifiuta di imparare questa lezione perché, essendo un ammasso di ambiguità nei confronti di tutti e anche di Falstaff, non può permetterselo.

Le energie di Falstaff sono personali: la sua relativa libertà è dinamica e può essere trasmessa a un alunno, ma solo a rischio di una pericolosa distorsione. Nonostante i suoi at-tuali critici «materialisti», Falstaff si rifiuta di approfittare dei propri sentimenti, ma insegna senza dubbio a Hal ad appro-fittare di chiunque: Hotspur, il re e lo stesso Falstaff. Hal è il capolavoro di Falstaff: uno studente del genio che adotta la visione della libertà del maestro per sfruttare un’ambiguità universale e trasformarla in arguzia selettiva. Hal è ambiguo verso tutto e verso tutti: la sua arguzia è selettiva, mentre quella di Falstaff è universale. Hotspur e re Enrico IV osta-colano Hal, ma non lo minacciano sul piano interiore. Dopo

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l’incoronazione di Hal, Falstaff diventa una figura da temere, da esiliare costringendola a vivere a dieci miglia dalla persona del re. Nel suo crudele discorso di disconoscimento, Enri-co V ha qualche difficoltà a impedire che Falstaff prenda la parola: «Non rispondermi con un lazzo degno d’un buffone nato» (V.v.54). In quanto «maestro e fomentatore dei miei stravizi» (V.v.61), il povero Falstaff non ha alcuna scappato-ia e riceve sostanzialmente una condanna a morte. Proprio come Shylock riceve l’ordine di convertirsi subito al cristia-nesimo, Falstaff viene esortato a diventare «più conforme a saggezza e decoro» (principe Giovanni al giudice supremo), a sottoporsi a una dieta ferrea e probabilmente ad avvicinarsi a Dio quanto Enrico V. Schiere di studiosi della vecchia e della nuova guardia trovano varie giustificazioni per Enrico V, assicurandoci allo stesso tempo che Shakespeare non con-divide la nostra irritazione: l’ordine è nell’ordine; Enrico V è un monarca perfetto, il primo vero re inglese, il modello dell’ideale politico shakespeariano.

Partendo dal presupposto verosimile che Shakespeare fos-se più falstaffiano che enricano, confermo l’opinione dei cri-tici «umanisti», tra cui il dottor Johnson, Hazlitt, Swinburne, Bradley e Goddard, che ora vengono derisi e che giudicano assurda quest’idea di ordine. Ripudiare Falstaff equivale a ri-pudiare Shakespeare. Per parlare in termini puramente stori-ci, la libertà che Falstaff rappresenta è innanzitutto libertà da Christopher Marlowe, il che significa che Falstaff è il marchio dell’originalità di Shakespeare, del suo cammino verso un’ar-te più sua. Parlando per gran parte dei suoi contemporanei storicizzanti, Engle ci dice «che l’opera di Shakespeare è sot-tomessa a ciò in cui opera», ma mi domando perché la mano del tintore della tradizione abbia sottomesso Shakespeare me-no di quanto abbia fatto, per esempio, con Ben Jonson, per non menzionare le varie decine di drammaturghi postmar-lowiani. Falstaff, che non è marlowiano, è chauceriano: è il figlio della vitale Comare di Bath. Dopo l’influsso iniziale,

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Marlowe cominciò senza dubbio a opprimere Shakespeare; Chaucer no, perché il genio di Shakespeare per la commedia fu molto più spontaneo dell’attitudine alla tragedia.

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Dal punto di vista cronologico, Enrico IV – Parte prima viene subito dopo Il mercante di Venezia, ma il dramma storico e la commedia hanno in comune solo una profonda ambiguità, che può essere quella dimostrata da Shakespeare sia verso se stesso sia verso il bel giovane e la Dama bruna dei Sonetti. Come hanno osservato tutti i critici, l’ambivalenza di Hal verso Falstaff prende il posto dell’ambivalenza suscitata nel principe dal padre, il re Enrico IV, dal quale il figlio si allonta-na del tutto già alla fine di Riccardo II. Shylock e Falstaff sono due figure antitetiche: l’amara eloquenza dell’ebreo, puritana e contraria alla vita, è totalmente diversa dall’affermazione falstaffiana di un vitalismo dinamico. I due condividono però un’esuberanza che è negativa in Shylock e positiva in Falstaff. Entrambi sono personaggi antimarlowiani; la loro forza è in-dispensabile per la creazione dell’umano da parte di Shake-speare, per l’apertura di una finestra sulla realtà.

Falstaff è tutto fuorché una figura elegiaca; sarebbe com-pletamente presente alla coscienza se riuscissimo a raccogliere in noi stessi una coscienza capace di contenere la sua. È l’am-piezza della sua coscienza a mettere Falstaff più avanti di noi, non nel senso della trascendenza di Amleto, bensì nel senso dell’immanenza di Sir John. Solo pochi personaggi della let-teratura mondiale possono eguagliare la presenza concreta di Falstaff, che, da questo punto di vista, è il maggior rivale di Amleto nella produzione shakespeariana. La presenza di Fal-staff è qualcosa più della semplice presenza di spirito elogiata da Hazlitt. L’illusione (se così volete chiamarla) di essere una persona vera accompagna sia Falstaff sia Amleto. In qualche

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modo, Shakespeare ci trasmette tuttavia l’idea che queste due figure carismatiche sono nel loro dramma e non del lo-ro dramma; Amleto è una persona, mentre Claudio e Ofelia sono creazioni della fantasia. Allo stesso modo, Falstaff è una persona, mentre Hal e Hotspur sono creazioni della fantasia.

Il carismatico shakespeariano non ha molto in comune con il carismatico sociologico di Max Weber e prefigura piut-tosto la tesi di Oscar Wilde, secondo cui, quando la rappre-sentazione della personalità è la preoccupazione prioritaria, l’ampiezza della coscienza è il valore più sublime. Shakespeare riporta altre magnifiche vittorie (Rosalinda, Iago, Cleopatra), ma, come continuo a ripetere, nessuna figura regge il con-fronto con Amleto e Falstaff in termini di perimetro della coscienza. L’Edmund di Re Lear è forse intelligente quan-to Falstaff e Amleto, ma è privo di sentimenti finché non riceve la ferita mortale e deve pertanto essere giudicato un carismatico negativo in confronto a Sir John e al principe di Danimarca. Benché derivi dalla religione, il senso del carisma proposto da Weber presenta chiare affinità con l’esaltazione del genio eroico da parte di Carlyle ed Emerson. Nella conce-zione di Weber, le istituzioni e le abitudini neutralizzano ben presto l’effetto che l’individuo carismatico esercita sui suoi seguaci. Il cesarismo e il calvinismo non sono tuttavia movi-menti estetici; è impossibile istituzionalizzare o trasformare in abitudine Falstaff e Amleto. Falstaff disdegna qualsiasi tipo di compito o missione, mentre Amleto non sopporta di essere il protagonista di una tragedia della vendetta. In entrambe le figure, il carisma torna allo stadio che precede il modello di Gesù e ci riporta al suo antenato, il re Davide, che ricevette la benedizione di Yahweh in maniera unica. Sebbene venga deriso dai critici virtuosi e ripudiato dal virtuoso re Enrico V, Falstaff conserva la benedizione nel suo significato più auten-tico: nuova vita.

Anche sul letto di morte, la personalità mantiene il pro-prio valore unico. Ho conosciuto alcuni filosofi intelligenti e

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numerosi brillanti poeti, romanzieri, narratori e drammatur-ghi. Non dobbiamo aspettarci che parlino bene come scri-vono, ma nemmeno i migliori tra loro riescono a eguagliare, nelle loro giornate migliori, quegli uomini creati con le pa-role: Falstaff e Amleto. Ci domandiamo: in Shakespeare la rappresentazione della cognizione come si differenzia dalla cognizione in sé? Dal punto di vista pragmatico, riusciamo a notare la differenza? Ci domandiamo anche: in Shakespeare la rappresentazione del carisma come si differenzia dal cari-sma in sé? Per definizione il carisma non è un’energia sociale; nasce al di fuori della società. L’unicità di Shakespeare, la sua maggiore originalità, può essere descritta come una cognizio-ne carismatica, che scaturisce dall’individuo prima che questi prenda parte al pensiero collettivo, o come un carisma cogni-tivo, che non può essere tramutato in abitudine. L’esperienza teatrale decisiva della mia vita ebbe luogo cinquant’anni fa, nel 1946, quando avevo sedici anni e vidi Ralph Richardson interpretare Falstaff. Nemmeno il virtuosismo di Laurence Olivier, che recitava Hotspur nella Parte prima e Shallow nel-la Parte seconda, riuscì a distrarmi dal Falstaff richardsoniano. Quando Richardson non era in scena, il pubblico avvertiva un’assenza concreta, e tutti aspettavamo con impotente im-pazienza che Shakespeare ci proponesse di nuovo Sir John. Commentando tale fenomeno, W.H. Auden dice che Falstaff è «un simbolo comico dell’ordine soprannaturale della cari-tà». Benché ammiri i saggi di Auden su Shakespeare, sono confuso dal suo Falstaff cristiano. Il superbo Sir John non è infatti Cristo o Satana e nemmeno una loro imitazione.

La rappresentazione di immanenza secolare sul palcosce-nico, la più convincente di cui disponiamo, indurrà anche i critici più saggi a formulare interpretazioni bizzarre. Non credo che Shakespeare intendesse presentare Falstaff come immanente o Amleto come trascendente. Ben Jonson creava ideogrammi e li chiamava personaggi; negli esempi migliori, come Volpone e Sir Epicure Mammon, queste figure sono

Estratto della pubblicazione

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piene di vita ma non sono ritratti di persone. Benché gran parte degli attuali critici delle università anglofone si rifiuti di riconoscere il mondo creato e popolato da Shakespeare, questo è il principale motivo che spinge molti ad assistere o a leggere le sue opere. Sebbene sia vero che i personaggi di Shakespeare sono solo immagini o metafore complesse, il nostro piacere deriva soprattutto dalla convincente illusio-ne che queste ombre vengano proiettate da entità concrete quanto noi. Shakespeare riesce a convincerci di questa il-lusione perché ha la sorprendente capacità di rappresentare il cambiamento, una capacità ineguagliata nella letteratura mondiale. Le nostre personalità possono ridursi a un flusso di sensazioni, ma quel concorso di impressioni richiede una presentazione molto vivida se ciascuno di noi vuole distin-guersi dall’altro. Una versione jonsoniana di Falstaff sarebbe solo un «baule d’umori», come dice l’infuriato Hal quando recita la parte del padre nel bozzetto comico dell’atto II, sce-na iv di Enrico IV – Parte prima. Nemmeno Volpone, il più grande tra i personaggi di Jonson, subisce un cambiamento significativo, mentre Falstaff, come Amleto, si trasforma di continuo, pensa, parla e origlia se stesso di continuo in un’in-cessante metamorfosi, sempre disposto a cambiare e sempre tormentato dal cambiamento che è il tributo shakespeariano alla realtà della vita.

Algernon Charles Swinburne, superbo poeta e critico or-mai dimenticato, paragonò Falstaff ai suoi veri compagni, il Sancho Panza di Cervantes e il Panurge di Rabelais. Conferì la palma della vittoria a Falstaff, non solo per la sua grande intelligenza ma anche per la varietà dei suoi sentimenti e per-sino per la sua «possibile elevazione morale». Swin burne si riferiva a una moralità del cuore e dell’immaginazione anzi-ché alla moralità sociale che è l’eterna maledizione degli stu-diosi e dei critici shakespeariani e che affligge sia gli storicisti vecchi e nuovi sia i puritani religiosi e secolari. Da questo punto di vista, Swinburne anticipò A.C. Bradley, che osser-

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vò giustamente che tutti i giudizi morali negativi su Falstaff erano antitetici alla natura della commedia shakespeariana. Potremmo aggiungere al terzetto la Comare di Bath di Chau-cer, ottenendo così quattro grandi vitalisti che ricevono tut-ti la benedizione (intesa come «nuova vita») e ci colpiscono per la loro comicità. Il fatto che Shakespeare lasci il giudizio al pubblico permette a Falstaff di essere ancora più libero e svincolato di Sancho, Panurge e della Comare. La voglia di vivere, sconfinata in tutti e quattro, acquista particolare acu-tezza in Sir John, un soldato professionista da tempo ribel-latosi all’assurdità della «gloria» e dell’«onore» militare. Non abbiamo motivo per credere che Shakespeare privilegiasse il bene sociale rispetto al bene individuale. Anzi, i drammi e i Sonetti ci danno molte buone ragioni per credere quasi il contrario. Dopo aver passato una vita a contatto con altri docenti, metto in dubbio la loro capacità di comprendere, per non dire giudicare, l’immortale Falstaff. Il compianto Anthony Burgess, che ci ha regalato una splendida versione joyciana di Falstaff in Enderby, il suo poeta fannullone, ha anche espresso un’interessante critica su questo personaggio:

Lo spirito falstaffiano è un grande sostenitore della civiltà. Scompare quando lo Stato è troppo potente e gli individui si preoccupano troppo per la loro anima... Nel mondo di oggi è rimasta solo una lieve traccia della sostanza di Falstaff, e, man mano che il potere dello Stato si espande, quel che resta verrà cancellato.

Il potere dello Stato sarà incarnato da re Enrico V, il cui at-teggiamento verso Falstaff non è molto diverso da quello dei puritani accademici e dei fanatici del potere. L’irriverenza di Falstaff rafforza la vita ma distrugge lo Stato; rende in-verosimile l’idea secondo cui Shakespeare condivide l’atteg-giamento enricano nei confronti di Sir John. Dicendo che Shakespeare è anche Hotspur, Hal o re Enrico IV non si ag-giunge nulla di nuovo: il drammaturgo dovrebbe essere anche

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Romeo, Giulietta, Mercuzio, la Nutrice e centinaia di altri personaggi. Come Amleto e a differenza di Amleto, Falstaff ha un altro tipo di rapporto con il suo creatore. L’immediata popolarità di Sir John tra il pubblico ispirò prima Le allegre comari di Windsor e poi Enrico IV – Parte seconda. La scena della morte di Falstaff, raccontata mirabilmente dall’ostessa in Enrico V, testimonia sia l’incapacità di Shakespeare di la-sciare incompiuta la storia del grande cavaliere sia la sua acuta consapevolezza del fatto che le pretese eroiche di Agincourt non avrebbero potuto sostenere il giudizio di Falstaff, un con-trocoro che avrebbe fatto inabissare il dramma, per quanto gloriosamente.

Quando Falstaff affascinò la regina Elisabetta e il resto del pubblico, la relazione tra il drammaturgo e il suo travolgente personaggio comico dovette cambiare. Avverto una certa an-sia nelle Allegre comari di Windsor, dove Falstaff non è del tut-to se stesso, e una certa lotta in Enrico IV – Parte seconda, dove Shakespeare sembra a tratti indeciso se ampliare lo splendore di Falstaff od oscurarlo. Gli studiosi possono scrivere quello che vogliono, ma un Falstaff sminuito è una loro creazione, non una creazione di Shakespeare. La festa del linguaggio di Falstaff non può essere sottovalutata o accantonata. Ancor più dell’arguzia, la maggiore dote di Sir John è la mente nel suo significato più ampio; chi può dire se a possedere la co-scienza più intelligente sia Amleto o Falstaff? Nonostante la sua varietà, il teatro shakespeariano è in sostanza un teatro della mente; l’elemento più importante di Falstaff è la vita infusa all’intelletto, in netto contrasto con Amleto, che tra-sforma la mente in una visione di annichilimento.

Mi è spiaciuto molto osservare che nelle recenti rappresen-tazioni di Enrico IV Falstaff è stato ridotto a un vile spaccone, un astuto promotore del vizio, un leccapiedi del principe, un vecchio furfante inebetito e altre dissacrazioni del testo di Shakespeare. La risposta più idonea consiste nel proporre un breve centone delle frasi di Sir John:

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