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Uno

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Stefano Pastor, mystery

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STEFANO PASTOR

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UNO Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Stefano Pastor ISBN: 978-88-6307-378-2

In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Settembre 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

Ad Angela

Io sono… La sua mano era fragile e leggera, come l’ala di un uccellino. Il mo-mento era arrivato, la vita stava per abbandonarla. Noi due soli, in quel-la camera d’ospedale, tra monitor e flebo. Le avevo già detto addio, ed era accaduto più di due giorni prima. Lau-ra era morta allora, ci eravamo scambiati un ultimo bacio. Era stata una sua scelta, perché non voleva più soffrire. Così i medici le avevano provocato un coma farmacologico, un lungo sonno dal quale non si sa-rebbe più svegliata. Quello che stavo vegliando era solo il suo corpo, un corpo consunto, scheletrico, da cui era scomparsa ogni bellezza. E ancora non riuscivo a capacitarmene, la ricordavo piena di forza e di vita, una perfetta bambo-la di porcellana, quale era stata fino a poche settimane prima. Quanto l’amavo, quanto l’avevo sempre amata! Due settimane, soltanto due settimane, per distruggere un’intera esi-stenza.

Due settimane prima…

Io sono Marcello DeRenzi

Avevo trentasei anni ed ero un finanziere. La mia famiglia lo era da ge-nerazioni. Banchieri, industriali, politici, una schiera di avi uno più illu-stre dell’altro. Mia moglie era una Valmonte. Laura Valmonte. Anche lei aveva un passato illustre. Tra i suoi avi si contava persino una regina, ai tempi di Napoleone. Suo nonno era imparentato con i Romanoff, l’ultima fami-glia imperiale russa. Ma non vivevamo delle glorie passate, nessuno dei due. Laura era intel-ligente, arguta, brillante, bellissima. L’avevo sposata per amore, ed ero certo che anche per lei fosse stato lo stesso. Insieme eravamo divenuti una potenza finanziaria, ma era stato solo un caso del destino. Però era così, le nostre due fortune, riunite, ci mettevano al di sopra di molti altri, ci davano una sicurezza che nessuno avrebbe mai potuto scalfire, o almeno era ciò che credevamo allora. Eravamo sposati da otto anni e la nostra era sempre stata una vita felice, senza ombre di alcun tipo. Eravamo una coppia perfetta, in grado di in-tenderci con un solo sguardo. Ma eravamo anche molto occupati, trop-po. Io con la compagnia, lei con le sue molteplici attività, e anche quando ci trovavamo insieme era difficile ritagliare un po’ di tempo so-lo per noi due, presi com’eravamo dalla vita mondana. Quella mattina stavamo facendo colazione. Seduti uno di fronte all’altra, ma comunque separati dal lunghissimo tavolo. Le cameriere ci servivano, impeccabili, senza far rumore. Lontana giungeva una musica di sottofondo. Io leggevo il giornale, sorseggiando il tè. Laura licenziò con un gesto le cameriere e appena ci ebbero lasciati soli iniziò a parlare. «Marcello, devo dirti una cosa, una cosa importante.» Aveva usato un tono colloquiale, senza alcuna enfasi, e io, distogliendo appena gli occhi dalle quotazione di borsa, le risposi con altrettanta

noncuranza. «Sì, cara. Dimmi pure.» Lei gettò la bomba. «Sto morendo. Non credo che mi sia rimasto molto da vivere.» La fissai, senza sapere che dire. Lei era così tranquilla, e questo suo at-teggiamento pareva smentire ciò che aveva appena detto. Poi mi resi conto che non era così, che sotto quella maschera covava qualcos’altro, un vulcano pronto a esplodere. Conoscevo Laura molto bene e sapevo che non avrebbe mai scherzato su certe cose. Scrutai il suo volto, alla ricerca dei segni esteriori di una qualche malattia, ma non trovai nulla. «Sei malata?» le chiesi «cos’hai?» «Cancro» rispose subito lei, senza entrare nei particolari «non mi resta molto. Un mese al massimo.» Scossi il capo, perché non potevo accettarlo. Arrivò la negazione, im-mediata, e già stavo per farle le domande più comuni in simili situazio-ni: se ne era certa, se aveva sentito il parere di altri medici. Poi mi ri-cordai chi fosse Laura, di come avesse sempre lottato per tutta la sua vita, come si fosse imposta, come non avesse mai piegato la testa da-vanti a nulla. E compresi che era la verità, che stavo per perderla. Avrei voluto alzarmi, correre da lei, ma non ci riuscivo. Allora cercai di parlare, di nascondere la paura. «Da quanto lo sai?» Non tentò neppure di mentire. «Otto mesi.» Tirai un lungo respiro, e sentii un dolore quasi fisico. Otto mesi da sola, a combattere contro la malattia, senza di me. Come aveva potuto na-sconderlo? «Hai fatto…» Mi interruppe: «Ho fatto ogni cosa, tutto ciò che era umanamente pos-sibile. Ho già subito tre operazioni, e neppure la chemio ha più effetto.» Non era possibile. Ci eravamo allontanati così tanto? Come poteva aver sopportato un calvario del genere senza che io mi rendessi conto del suo stato? Ricordai che era stata via un paio di settimane in primavera, per andare a trovare sua sorella. E prima ancora, a febbraio o marzo, per andare a non so quale convegno. Da quant’era che non facevamo l’amore? Soprattutto da quanto non lo facevamo con la luce accesa? Era lo stesso terribile che non me ne fossi accorto, mostruoso. «Non hai detto niente, niente!»

«E avrei continuato a non dirtelo, se fosse stato possibile. Avrei preferi-to che non lo sapesse nessuno, neppure tu. Ma le cose non sono andate come volevo, e presto dovrò entrare in clinica. Non posso più farne a meno. Dubito che ne potrò mai uscire.» Cercai di alzarmi per raggiungerla, ma il suo sguardo mi inchiodò alla sedia. «Non farlo! Non voglio la tua pietà! Non voglio la pietà di nessuno!» «Non è pietà» mormorai «ti amo.» «Lo so, adesso non lo è ancora. Ma lo diventerà. Fra non molto resterà solo quella.» «Laura…» Di nuovo il suo sguardo mi bloccò sulla sedia. «Adesso no. Non me la sento di parlare. Ho già detto anche troppo, ed è difficile per me. Stasera, parleremo stasera quando tornerai.» «Che sciocchezze!» sbottai «che vuoi che me ne importi del consiglio di amministrazione! Rimanderemo la riunione, basta una telefonata! Non intendo lasciarti sola.» «Io invece lo esigo» ribatté lei «ho tante cose da portare a termine, pri-ma del ricovero. Non ho intenzione di lasciare nulla di incompiuto.» «Ma…» «Non c’è niente da dire, Marcello. È così e basta. Non puoi fare nulla per cambiare ciò che sta accadendo, e parlarne non mi è di nessun aiuto. Non adesso, non sono ancora pronta.» Era lei, ma allo stesso tempo non era più lei. Sì, Laura aveva sempre avuto un carattere un po’ rigido, ma mai così distante. Ora era diversa, la malattia me l’aveva già portata via. Aveva alzato un ponte tra di noi, tra i vivi e i morti, forse l’aveva già fatto da molto tempo e io non me ne ero neppure accorto. Mi alzai, ma anche lei balzò subito in piedi. Cercò di sfuggirmi, indie-treggiando verso l’entrata, non voleva che la toccassi. Come poteva scambiare otto anni d’amore con pietà? Come poteva credere che avrei smesso di amarla solo perché era malata? Cercai di avvicinarmi lo stes-so, ma lei mi fermò tendendo le mani. «No! Non adesso! Non ce la faccio, non adesso!» «E quando allora? Ci resta così poco tempo!» Scosse il capo. «Va’ via! Ti stanno aspettando, va’ via!» «Perché mi stai facendo questo? Credi che io non soffra?»

Mi sconvolse il suo sorriso amaro. «Tu vivrai. Io morirò e tu continuerai a vivere. No, non puoi capire co-sa significhi.» Con queste parole si girò e uscì dalla stanza. Ero rimasto troppo sbalordito persino per seguirla.

C’era stato un errore? Un punto in cui le nostre vite si erano separate e non me ne ero accorto? No, ero certo che non fosse così. Il nostro amo-re era immutato, e tra noi c’era sempre stata la piena libertà, il rispetto reciproco dei propri spazi. Laura aveva la sua vita e le sue attività, io le mie. Molte cose le facevamo insieme e altre no. Era così da sempre e la cosa non ci aveva mai disturbato. Era la malattia che me l’aveva portata via. Che l’aveva condotta in un’altra dimensione, separandola da me. L’aveva cambiata, le aveva fatto conoscere nuove emozioni: la paura, la disperazione, la solitudine. Che potevo fare io? Come penetrare il gelido castello nel quale si era rinchiusa? Laura non voleva morire, non così giovane, non all’apice del successo. Non poteva accettarlo e io la capivo. Capivo anche che non era la morte in sé a spaventarla, ma la malattia, la lenta degenerazione, la sofferenza. Il terrore di non essere più autosufficiente, di dover dipendere dagli al-tri. Perché no, anche la pietà. Io avevo già incontrato la morte, così tante volte che ormai ero rasse-gnato. Questo non sminuiva il mio amore per Laura, avrei fatto qualsia-si cosa pur di non perderla, eppure non riuscivo più a farmi illusioni su ciò che ci aspettava. Ma non sarebbe stata pietà. Mai, in nessun caso, lo sarebbe stata. Nel mio ufficio all’ultimo piano potevo vedere la città di fronte a me, attraverso le grandi vetrate sigillate che non venivano mai aperte. La stanza era insonorizzata e non mi giungeva alcun rumore dalla strada sottostante. Potevo solo vederle, migliaia, milioni di operose formiche, che nascevano, vivevano e morivano. L’umanità. «Ci stanno aspettando» disse Franzi, entrando. Lui era il mio braccio destro, il vice-presidente, non si curava di farsi

annunciare. Portava un fascio di cartelle, indifferente al fatto che ci fos-sero decine di assistenti per quei compiti. Ne gettò una sulla scrivania, davanti a me. «Dacci un’occhiata. Fingi almeno di sapere di cosa stiamo parlando! Non far fare sempre tutto a me!» Guardai quella cartella come se fosse uno scarafaggio, e Franzi aggrottò la fronte. «Che hai? Qualche problema?» Non era il tipo adatto per quell’incarico, non aveva prestanza né cari-sma. Era troppo vecchio e grasso, e sudava sempre nonostante l’aria condizionata al massimo. E poi era tecnico, noioso, puntiglioso all’eccesso. Nessun altro l’avrebbe scelto, ma io sapevo che era l’uomo che faceva per me, quello in grado di dirigere la compagnia senza per questo esaltarsi. Perché era proprio questo il suo compito, anche se io ero il presidente le decisioni spettavano tutte a lui. Presi la cartella ma non accennai ad aprirla. «Mi spieghi tutto tu mentre andiamo.» Franzi fece un gesto rassegnato. «Ma ascoltami! Per favore ascoltami!»

Io sono Jung Park

Avevo quarantatré anni e da trenta facevo il contadino. Lo era stato mio padre prima di me, e mio nonno, e tutti gli avi di cui avevo memoria. Coltivavo riso, solo riso. Lo facevo ancora nel modo tradizionale, per-ché avevo sempre aborrito i marchingegni moderni. Amavo il mio lavo-ro, perché mi dava tante soddisfazioni. Ero sposato da vent’anni con Minji. Lei mi aveva dato tre figli e lavo-rava nei campi con me. La nostra era una piccola fattoria, avevamo un solo operaio ad aiutarci. In realtà Cholsu era diventato uno di famiglia, ormai. Non era mai stato un tipo molto brillante e aveva vissuto con la madre, finché lei non era morta. Poi si era lasciato andare, perché non era in grado di mantenersi da solo. Era diventato una specie di vaga-bondo, deriso da tutti per la scarsa intelligenza, finché non era approda-to qui. Io ero stato colpito dal suo sguardo innocente, da quel viso di eterno bambino, e allora gli avevo concesso di occupare la baracca, poi gli avevo offerto anche un lavoro. Da dieci anni viveva con noi. Ai ra-gazzi piaceva. Avevo tre figli, tutti maschi, e questo mi rendeva orgoglioso. Il più gio-vane aveva otto anni, il maggiore quattordici. Andavano ancora a scuo-la, tutti quanti. Presto, molto presto, Jin avrebbe finito, ed era già pronto a venire a lavorare con noi. Era un ottimo studente ed ero certo che sa-rebbe stato promosso con i voti migliori. Non ne avevo ancora parlato con Minji, ma avevo già deciso di fargli continuare gli studi. Sapevo bene che non potevamo permettercelo, che non avevamo da parte abba-stanza soldi, ma volevo di più per lui, una vita lunga e felice. Avrei dovuto spiegarle da dove arrivavano quei soldi, inventare qualche storia, ma non mi importava. Mio figlio avrebbe continuato gli studi, lo avrebbero fatto tutti quanti, se quello sarebbe stato il loro desiderio. Era già accaduto e sarebbe successo anche stavolta. Minji avrebbe capito, ne ero sicuro.

Il nostro era un piccolo paesino nei dintorni di Gwangju, dove non suc-cedeva mai niente. La vita scorreva monotona e tranquilla. Anche quel pomeriggio sembrava come tutti gli altri, ma io ero sbadato, facevo continuamente errori, troppo preso dai miei pensieri. Stavo cercando il modo di parlare a Minji. Di dirgli di Jin e di quello che volevo per lui. Del suo futuro. Cercavo un modo per spiegarle che i soldi per fargli proseguire gli studi c’erano. Per fargli frequentare persino l’università, se lo avesse desiderato. Avrei dovuto spiegarle come ne ero entrato in possesso, e questo sarebbe stato molto difficile. Avrei dovuto inventar-mi una bugia molto più credibile di un’improvvisa eredità di un qualche zio scomparso. Cholsu era sempre tra i piedi e si intrometteva in ogni discorso. Ogni tentativo di allontanarlo era andato a vuoto. Era quasi ora che Minji ci lasciasse, che tornasse alla fattoria, perché presto sarebbero arrivati i ragazzi, e non ero ancora riuscito ad affrontare l’argomento. Avrei po-tuto parlarle quella sera, a letto, ma non volevo che i ragazzi ci sentisse-ro, era qualcosa che dovevamo risolvere tra noi. L’avevo già fatto, in un paio di occasioni. Avevo trovato soldi che non avrei dovuto avere. L’avevo ingannata, l’avevo riempita di bugie, e lei alla fine mi aveva creduto. Ma allora era molto più giovane e fiduciosa. Stavolta era diverso. Stavolta Minji conosceva perfettamente l’entità delle nostre finanze, mi teneva costantemente d’occhio per timore che io spendessi troppo. Certe volte ero tentato di dirle tutto, di raccontarle la verità. Ma non avrebbe capito, ne ero certo, non mi avrebbe creduto o, se pure lo avesse fatto, dopo mi avrebbe odiato. «Cholsu, non potresti…» Lui sembrava incantato, a bocca aperta. Guardava fisso in direzione della fattoria. Seguii il suo sguardo. C’era un estraneo, che ci stava os-servando. Puntava proprio noi e si trovava sul bordo del campo. Non poteva andare oltre, perché si sarebbe bagnato i piedi. Era un occidenta-le, un uomo imponente e muscoloso, vestito in modo formale ed ele-gante. Pareva un uomo d’affari e la ventiquattrore che teneva in mano sembrava confermarlo, ma il suo volto contraddiceva questa impressio-ne. Un volto squadrato, legnoso, con capelli cortissimi e biondi, quasi bianchi. Indossava un paio di occhiali scuri. Un militare, questa fu la mia prima impressione. Un poliziotto, forse. Anche sulla nazionalità non riuscivo a essere certo. Poteva trattarsi di un russo, probabilmente proveniva da qualche paese dell’est, ma non

mi sarei neanche stupito se fosse stato americano. «Che vorrà?» chiese Minji «tu lo conosci?» Non ne avevo idea, noi non ricevevamo mai visite, ed era il primo occi-dentale che mi fosse capitato di vedere personalmente. Lei fu sbrigativa: «Vado a vedere io, tanto è ora di rientrare.» Non nascosi una smorfia, perché così era sfumata la possibilità di parla-re con lei, ma non mi opposi. La vidi allontanarsi, mentre si rassettava il vestito, i capelli raccolti a crocchia sulla nuca. Era una donna pratica, Minji, sapeva farsi valere, non si spaventava mai davanti a niente. Neppure allora. Andò spavalda verso lo sconosciuto e iniziò a interro-garlo. Gli chiese cosa stesse cercando, se avesse magari smarrito la strada, ma lui non rispose. Aprì la ventiquattrore davanti a sé, e io im-maginai che stesse per prendere qualche documento. Mi preoccupai e mi convinsi che fosse un avvocato. Invece estrasse una pistola. Una pistola lucida e brillante con una lunga canna nera. Riconobbi all’istante un silenziatore, ma non feci in tempo a gridare. Minji l’aveva vista e si era fermata, sbalordita. Non riuscì a reagire con la velocità necessaria, del resto era troppo vicina e non ave-va alcuna possibilità di sfuggirgli. L’uomo fu velocissimo, puntò la pi-stola contro di lei e sparò. La colpì in piena testa, perché vidi il corpo di Minji volare all’indietro e atterrare in mezzo alle piante di riso. L’uomo lasciò cadere la ventiquattrore e si fece avanti. Vidi chiaramen-te la sua smorfia quando entrò nel campo e fu costretto a bagnarsi le sue lucide scarpe nere. Lui non era dotato di stivali di gomma come noi. Avanzava spedito. Cholsu era ancora a bocca aperta, troppo spaventato per muoversi. Io comprendevo di non avere scampo. Sarebbe stato inutile tentare la fuga, nelle nostre condizioni. Era me che voleva, ne ero sicuro. Era me che era venuto a uccidere. Guardai il corpo di Minji, immersa nell’acqua, e mi sentii pieno d’angoscia. Presto, molto presto, sarebbero tornati i ra-gazzi. Avrebbe ucciso anche loro? Scrollai Cholsu e gli urlai: «Scappa! Va’ via!» Forse all’assassino lui non interessava, forse lo avrebbe lasciato andare. L’uomo era sempre più vicino, e allora mi drizzai in piedi e lo fronteg-giai. Gli chiesi chi fosse e cosa volesse. E dato che quell’uomo non ri-spondeva, ripetei le stesse domande, in inglese, in russo, poi anche in francese e tedesco. Avrei potuto continuare ancora, ma alla fine com-presi. No, non era né un avvocato né un poliziotto, quell’uomo era un

killer, e stava solo facendo il suo lavoro. Cholsu era ancora lì, non si era mosso, troppo sbalordito per avermi sentito parlare in lingue che non avrei dovuto conoscere, al punto che quasi aveva scordato la presenza dell’assassino. «Vai!» gli gridai ancora, ma era ormai troppo tardi. Un colpo secco, sincopato, e si aprì un buco proprio in mezzo alla sua fronte, quasi un terzo occhio. Il povero Cholsu si afflosciò con uno sguardo incredulo stampato sul volto. Era finita, era arrivato il mio momento. Il killer stava già puntando l’arma. «Perché?» gli chiesi. Poi mi resi conto che non mi restava più tempo, che non potevo morire così, che dovevo impedirgli di spararmi in fronte. Riuscii a spostarmi, mentre l’uomo faceva fuoco. Di poco, pochissimo. La pallottola mi centrò in pieno nell’occhio destro. Lo sentii esplodere e tutto divenne nero. Dovevo resistere, non dovevo morire, non ancora. Almeno finché il tra-sferimento non fosse stato ultimato. Un secondo. Due. Tre. Quattro. Tutto si stava fermando, dentro al mio corpo. Una parte del cervello era stata danneggiata. Cinque. Sei. Non ce la facevo! Non ci riuscivo! Non c’era abbastanza tempo! Sette. Otto.

Io sono Marcello DeRenzi

Ero a capo di una finanziaria multinazionale fondata da mio nonno. Avevamo interessi in ogni parte del mondo. Le persone intorno a quel tavolo erano lì per me. Stavo facendo qualcosa… sì, ero lì per fare qualcosa… «Signor DeRenzi, si sente bene?» Era la voce di Giovanna, sì, era la sua. «Marcello, che hai? Ti sei bloccato.» Questo era Franzi. Sì, Franzi, ne ero sicuro. Otto secondi! Otto! «Guardi com’è pallido! Sta per svenire, faccia qualcosa!» «Aiutatelo a sedersi!» «Che sta succedendo?» Troppe voci, non riuscivo più a riconoscerli. Nella mia mente la confu-sione era totale. Dovevo ancora riorganizzarla, rimetterla in ordine. Otto secondi non erano stati sufficienti! Ne sarebbero serviti almeno venti! E comunque molte parti del cervello erano comunque lesionate, gran parte della memoria era andata persa. Ma in modo casuale, senza un criterio. Se non fossi riuscito a spostare la testa sarebbe stato assai peggio. Mi stavano toccando, sentivo che mi stavano facendo sedere. Lottai per recuperare le mie facoltà. Non avevo tempo di riorganizzare i ricordi, di dividerli. Di tentare di scoprire cos’era andato perduto. Tanto non ci sa-rei riuscito lo stesso, se un ricordo era stato cancellato, come scoprire quale fosse? Altre priorità. Priorità. Sì. La mia voce suonò irriconoscibile: «Un telefono.» Sentii la voce di Franzi: «Prenda un telefono, presto!» Riuscii a muovere la mano e gli afferrai un braccio. Lo strinsi forte. «Un cellulare.»

Non potevo usare un telefono della società. Mi schiarii la voce e dissi distintamente: «Un cellulare non rintracciabile.» Franzi era stupefatto: «Come?» Lo fissai negli occhi. «Ho bisogno di un telefono che non sia riconducibile a noi. È chiedere tanto?» C’era confusione nei suoi occhi, quelle erano cose a cui non era abitua-to. Lui non era un uomo d’azione, aveva l’anima del contabile. La signora Wong, in fondo al tavolo, prese qualcosa dalla sua cartella e chiamò una delle assistenti. La vidi consegnare un cellulare microsco-pico. Lei era la responsabile del settore asiatico e veniva dal Giappone. Una donna sulla sessantina, di poche parole, con uno sguardo di ghiac-cio. Seguii quel cellulare mentre mi veniva portato di corsa. L’assistente era imbarazzata. «La signora Wong ha detto…» La bloccai con un gesto e glielo strappai quasi di mano. Se la signora Wong aveva detto che non era rintracciabile non potevo che fidarmi sulla parola. Non avrei voluto fare una telefonata del genere proprio lì, in mezzo a tutti loro, però non avevo la forza di alzarmi da quella sedia. Avrei potuto farmi aiutare, ma a scapito di secondi preziosi. Stavo trop-po male, i ragazzi sarebbero tornati a casa da un istante all’altro e il kil-ler poteva essere ancora lì. L’unica speranza era che nessuno in quella stanza conoscesse il coreano. Composi il numero a memoria. Poi, prima che rispondessero, ordinai a Giovanna: «Mi cerchi Brandi, subito. Lo faccia venire qui.» Franzi s’irrigidì, ma Giovanna non perse un istante e si avviò verso la porta, prendendo da una tasca il suo cellulare. Nessuno aveva capito cosa fosse successo. Davanti ai loro occhi mi ero interrotto nel bel mezzo di un discorso, restando paralizzato. Per otto secondi. E ora mi stavo comportando come un pazzo. Uno squillo. Due. Tre. Avevo il cuore in gola. Quel disgraziato di certo si trovava in qualche bar a ubriacarsi, come sempre. Che razza di tutore della legge ci era capitato! Tanto non succedeva mai niente, nel nostro paese. Non era mai successo niente, prima. Seung rispose, con voce gracchiante. Lo conoscevo bene, ci eravamo ritrovati più di una volta a bere e chiacchierare fino al sorgere del sole. Lui un po’ mi invidiava. Invidiava la mia vita, la mia famiglia. Non si era mai sposato. Però ora non poteva riconoscermi, non con quella vo-

ce. Non gli lasciai il tempo di interrompermi. «Mi chiamo Lang, sono il cugino di Jung Park. C’è stata una tragedia alla fattoria dei Park, qualcuno ha ucciso la moglie e credo che abbia ucciso anche lui.» Questo era solo l’inizio, dovevo insistere. Dirgli che l’assassino poteva essere ancora lì, che stavano per tornare i ragazzi, che avrebbe potuto uccidere anche loro. Lui non aveva mai sentito parlare di me, ma gli raccontai particolari che nessun altro avrebbe potuto sapere, e lo con-vinsi che ero davvero suo cugino. Sentii dal tono di voce che stava ini-ziando a credermi. Gli dissi che eravamo al telefono, quando Minji era stata uccisa, che avevo sentito gli spari, che a un certo punto Jung aveva smesso di par-lare. Gli dissi che non abitavo lì, ma a Daegu, che facevo il giardiniere. Lo riempii di bugie, e non c’era dubbio che se ne sarebbe accorto fin troppo presto: non c’era alcun telefonino accanto al cadavere di Jung, come non c’era nessun cugino Lang. L’unica cosa che mi premeva in quel momento erano i miei figli, e Seung doveva arrivare in tempo per salvarli. Alla fine fu lui a interrompere la comunicazione, perché l’ansia che gli avevo trasmesso fu tale che non poteva più perdere tempo. Restai a guardare quel cellulare spento col cuore in gola. Poi alzai gli occhi sulle persone di fronte a me. «Che lingua era?» chiese Franzi, stupefatto. Una delle mille che non avevo studiato e non avrei dovuto conoscere. La signora Wong era silenziosa e non mi guardò neppure, ma ero certo che lei avesse compreso ogni parola della telefonata. Lessi altri due sguardi stupefatti, un giovane dirigente inglese e una delle assistenti, probabilmente con funzioni di interprete. Non mi importava, in fondo ero io a pagare i loro stipendi, non dovevo rendere conto a nessuno di quello che facevo. «Continua tu» dissi a Franzi «io non mi sento bene.» Avrei voluto alzarmi ma non ci riuscii, le gambe ancora non mi regge-vano. Franzi fece un cenno e arrivarono due agenti della sicurezza per aiutarmi. Mi sollevarono con facilità. Lo sguardo di Franzi era pieno di domande, ma io scossi il capo. «Non adesso.»

Mi coricarono sul divano, nel mio ufficio, e li mandai via con un cenno. Restò solo Giovanna, e per una volta anche lei era turbata. Aveva ab-bandonato la maschera della segretaria efficiente e non nascondeva la preoccupazione. «L’hai trovato?» le chiesi. «Sta venendo qui.» «Bene.» Quanto avrebbe impiegato Seung ad arrivare alla fattoria? Non avrei dovuto puntare tutto su di lui. Se l’assassino fosse stato ancora lì avreb-be avuto facilmente la meglio anche su di lui. Ma era l’unico abbastan-za vicino, chiunque altro avrebbe impiegato troppo tempo. Adesso stava arrivando lo shock: Minji era morta. Mia moglie era mor-ta. La mia compagna, che aveva diviso ogni momento della mia vita! Era troppo, tutto in un giorno solo. Prima la rivelazione di Laura, poi la morte di Minji. E non sapevo neppure se i miei figli fossero ancora vi-vi! Giovanna si permise una confidenza per lei insolita. Si chinò davanti a me. «Stai male? Cosa ti succede?» Neppure lei era il prototipo della segretaria perfetta. Aveva dieci anni più di me e non si poteva certo definire una bellezza. Ma era l’efficienza in persona e sarei stato perduto senza il suo aiuto. Fui tenta-to di parlarle di Laura, questo avrebbe potuto fornire una spiegazione del mio stato d’animo, ma sapevo che mia moglie non avrebbe appro-vato. Lei non voleva che qualcuno fosse a conoscenza del suo stato. Scossi solo il capo e fissai gli occhi sull’orologio. I minuti scorrevano. Cinque, dieci. Giovanna non sapeva più cosa fare. Stava per andare via, poi cambiò idea e si sedette di fronte a me. Doveva essere arrivato. In quel momento Seung doveva trovarsi alla mia fattoria. Forse aveva già scoperto i cadaveri. Composi il numero sul cellulare. Aspettai. Cinque squilli e poi rispose. «No adesso!» gridò. Gridai anch’io, prima che riattaccasse: «Sono Lang! Li avete trovati?»

Un attimo di silenzio. «Come fa ad avere questo numero?» Già, quello che avevo chiamato era il numero del suo cellulare, ma non potevo fare altrimenti. Non c’era modo di spiegare come potessi cono-scerlo, e non tentai neppure. «I bambini, come stanno i bambini?» Non gli avevo chiesto niente di Minji e Jung, se fossero vivi o morti, e questo accentuò i suoi sospetti. «Come fa a sapere certe cose? Chi è lei?» «I bambini! Stanno bene?» tornai a insistere. «Deve dirmi…» Urlai, pieno di rabbia: «Ha ucciso anche i bambini?» Un altro breve silenzio. «Qui non c’è nessun bambino. Solo tre cadaveri. Non c’è nessuno anco-ra in vita.» Tirai un sospiro di sollievo, ma subito tornò l’ansia. Guardai di nuovo l’ora e calcolai la differenza di fuso orario: avrebbero già dovuto essere lì. Arrivò la voce di Seung: «No, no, no!» Poi lo sentii gridare, ma non stava parlando con me: «State lontani, non avvicinatevi, non guardate, rientrate in casa!» Sentii una voce urlare e riconobbi Jin. Staccai all’istante la comunica-zione e mi misi a piangere. Giovanna mi guardava a bocca aperta, mentre davo sfogo a tutta la ten-sione accumulata. Il mio sollievo era grande, ma non c’era niente di cui gioire. Piangevo, e singhiozzavo. Per Minji, per Laura, anche per Chol-su, ma soprattutto perché i miei figli erano ancora vivi. Perché non li aveva uccisi. Poi sentii il bisogno di parlare, di sfogarmi, e lo dissi a Giovanna: «Laura sta morendo.»

Brandi arrivò dieci minuti dopo. Non sapevo neppure il suo nome, non gliel’avevo mai chiesto. Ufficialmente non era neppure un mio dipen-dente. Ci servivamo della sua agenzia di sorveglianza solo in casi stra-

ordinari, per organizzare la protezione di visitatori esteri, o per reperire informazioni delicate. Mi aveva sempre servito più che egregiamente. Lui era giovane, forse anche più giovane di me, e aveva un volto ano-nimo, difficile da notare. Non faceva mai domande, eseguiva soltanto. Non persi un istante in convenevoli. «Deve partire per la Corea del Sud, Gwangju. Non ho tempo adesso di spiegarle ogni cosa, ma Giovanna le faxerà in aereo tutte le informazio-ni di cui ha bisogno. Il suo compito è di proteggere tre bambini, con molta discrezione. Accertarsi che nessuno faccia loro del male. Hanno appena ucciso i loro genitori, quindi è probabile che andranno a vivere con la sorella della madre. Sì, Yurim vive sola, sono certo che si occu-perà di loro. Lei cerchi di aiutarli. Faccia il possibile, ma si mantenga nell’ombra.» Un lieve movimento delle sopracciglia fu l’unica reazione di Brandi. «Un’ultima cosa. Le faxerò anche un identikit. È quello dell’uomo che ha ucciso i loro genitori. Deve stare attento che non si avvicini a loro. Cerchi anche di scoprire chi è, se è possibile.» Non aggiunsi altro. Brandi attese ancora qualche secondo, sempre senza far domande. Poi volse lo sguardo verso Giovanna. Lei riuscì a nascondere la propria confusione. «Sì, venga, le fornisco subito i particolari del viaggio.» Neppure mi accorsi che se n’erano andati. Un’altra esistenza cancellata. Minji, Cholsu, i miei figli che non avrei mai rivisto. Sì, avrei cercato di aiutarli, per quanto era in mio potere, senza apparire, ma non li avrei potuti incontrare mai più. Avrei dovuto resistere alla tentazione, anche se era la cosa che desideravo maggiormente, perché loro avrebbero po-tuto capire. Nonostante tutto, certe cose i figli le capiscono. Il loro pa-dre era morto e tale doveva restare. Per sempre. Quanti ricordi avevo perso, in quei dodici secondi mancanti? Ricordi di loro, della loro madre, ma anche ricordi delle mie vite precedenti? Quante delle mie forme erano andate perdute? Chi era quell’assassino? Perché voleva uccidermi? Voleva uccidere me o Jung? Ma nessuno sapeva della mia esistenza, l’avevo sempre tenuta nascosta a chiunque. Però aveva mirato alla testa, al cervello. Era stato un caso, sicuramente sì. Una firma personale, aveva fatto la stessa cosa con Minji e Cholsu. Giovanna tornò dopo pochi minuti. Bussò in modo discreto e sporse la testa.

«È arrivato il disegnatore che mi avevi richiesto.» «Fallo passare» risposi.

Non avrei potuto avere altre notizie fino al giorno dopo, Brandi sarebbe dovuto arrivare a Seoul nelle prime ore del mattino. Ma non mi sarei stupito se prima di allora fosse già riuscito a mettere in moto gli ingra-naggi. Era un uomo dalle mille risorse e dalle mille conoscenze. Non ero riuscito a restare in ufficio. Avevo rifiutato di parlare con Franzi e pure l’offerta di aiuto di Giovanna. Ora si sarebbero persi in mille supposizioni sugli eventi assurdi a cui avevano assistito. Ma non ce la facevo, proprio non ne ero in grado. Avrei dovuto mentire, come sempre, perché la mia storia non poteva essere condivisa con nessuno. E poi desideravo restare con Laura, passare un po’ di tempo con lei, cercare di parlarle. La morte di Minji era stata una dura lezione, mi aveva fatto capire quanto fosse importante passare ogni momento possibile con le persone che amavo. Povero Jin, e i miei sogni di farlo studiare, di mandarlo all’università. Quante inutili preoccupazioni svanite nel nulla. Chissà cosa sarei riuscito a fare per lui, se sarebbe mai riuscito a ritrovare la serenità. Laura mi aveva mentito, o forse anche lei non era riuscita a resistere. La trovai già a casa, seduta in giardino, su una panchina. Guardava le aiuo-le fiorite, un tripudio di vita di fronte a lei. Mi avvicinai e le accarezzai una spalla. Questa volta non si ritrasse, si aggrappò al mio braccio e mi fece sedere al suo fianco. Poi mi abbracciò e restammo così, stretti, senza parlare. La riempii di baci, e lei si accucciò su di me, come a cer-care protezione. «Com’è morire?» mi chiese, alla fine «te lo sei mai chiesto?» Avrei potuto dirglielo, io ero già morto cento e cento volte, ma dubita-vo che la mia esperienza potesse esserle di conforto. «Non sei sola» mormorai «non ti lascerò mai, resterò sempre al tuo fianco.» Mi accarezzò una guancia. «Che farai dopo, quando io non ci sarò più?»

Non riuscivo ad accettarlo, sembrava ancora così bella, così perfetta, e pareva impossibile che fosse malata. Dovetti ricredermi quasi subito, perché appena rientrati in casa Laura si sentì male e vomitò, e il suo vomito era rosso di sangue. Non andai in ufficio, il giorno dopo, restai a letto con lei, la tenni stretta per tutta la mattinata. Solo quando andai in bagno telefonai di nascosto a Brandi. Tutto stava procedendo bene, lui era arrivato e i miei figli e-rano ancora vivi. Forse il peggio era passato.

Io sono Esther Dickerson

Avevo cinquantasei anni ed ero un’insegnante di scuola superiore. La materia che insegnavo era la filosofia. Non mi ero mai sposata ma avevo avuto due relazioni significative. La prima quando ancora ero molto giovane, con un uomo sposato e più vecchio di me, che era durata quattro anni e alla fine mi aveva lasciata distrutta. La seconda in età più matura, con un mio collega, ed era anda-ta avanti per otto anni. Alla fine il nostro interesse reciproco si era spento senza drammi. Ero leggermente sovrappeso, ma non troppo, e non curavo abbastanza il mio aspetto fisico. Passavo tutto il mio tempo libero tra concerti e rap-presentazioni, seminari e congressi. Cercavo di tenermi aggiornata su tutto ed ero amante dell’arte classica. Come insegnante non ero affatto male, almeno i miei studenti erano soddisfatti di me. Avevo fama di essere un po’ sbadata e sempre con la testa tra le nuvole, ma ritenevo che non fosse giustificata. Io non mi consideravo così. Abitavo a Sherbrooke, quasi ai confini con gli Stati Uniti, e nonostante il mio nome fosse inglese, la lingua che parlavo era il francese. La mia casetta era pittoresca e d’estate il giardino si riempiva di fiori. Era una bella vita, la mia? Era una vita piena, sì, una vita che meritava di essere vissuta. Ma era già troppo tardi, anche se non me ne rendevo conto era già troppo tardi. Mi trovavo nell’ufficio della preside, chiacchierando di sciocchezze, in attesa che arrivasse l’ora della lezione, quando mi affacciai per caso al-la finestra. Non avevo avuto alcun sentore, nessuna premonizione, era stato solo una casualità. Lo vidi scendere da un’auto, proprio davanti all’edificio scolastico. L’auto era un taxi, ma il passeggero inconfondibile. Non ebbi neppure un attimo di incertezza. Era l’uomo che mi aveva ucciso, solo il giorno

prima, in Corea. Mi paralizzai. Era incredibile che fosse già arrivato lì, doveva aver pre-so un aereo per il Canada appena avvenuta la strage. Ma come faceva a sapere della mia esistenza? Era impossibile. Mi restava poco, pochissimo tempo per scappare, temevo che fosse già troppo tardi. Soprattutto non volevo che mi trovasse lì, né in qualunque altra aula dell’istituto, sapevo bene che non avrebbe avuto alcun riguar-do verso i testimoni, e quella scuola era la mia casa, amavo ognuno di quei ragazzi, non volevo metterli in pericolo. Piantai Catherine, la preside, senza alcuna spiegazione, e mi precipitai fuori dall’ufficio. Lei mi corse dietro, spaventata. «Che ti succede, Esther? Cos’hai visto?» Non potevo fermarmi, non c’era più tempo. «Telefona alla polizia!» le urlai «falli venire subito!» Poi mi misi a correre. Un’idea fissa in mente: venti secondi!

Io sono Marcello DeRenzi

Mi trovavo in camera di Laura quando ebbe inizio il trasferimento. Lei stava preparando la valigia per andare in ospedale. Una cameriera la stava aiutando. Era un momento tristissimo per me, mi sentivo inutile. Laura aveva accettato che fossi io ad accompagnarla. Le avevo giurato che non l’avrei lasciata mai, neppure per un secondo. Quando vidi arri-vare il killer alla scuola mi paralizzai, ma Laura e la cameriera non si accorsero di nulla. Avrei dovuto reagire, ma il timore dell’estinzione era troppo grande. Diedi il via al trasferimento. La cameriera fu la prima ad accorgersene. «Il signore…» mormorò, stupita. Laura sobbalzò, guardandomi. «Marcello, che hai? Che ti succede?» Non potevo risponderle. La vita di Esther stava fluendo dentro di me, tutti i suoi ricordi personali e anche gli altri di cui era depositaria. Una marea senza fine di sentimenti ed emozioni. Ne fui travolto. Iniziai a smistarli, a dividerli, a scegliere quelli davvero importanti, perché non ero in grado di contenerli tutti. «Oh mio Dio! Oh mio Dio!» incominciò a gridare la cameriera, mentre Laura accorreva a reggermi, prima che crollassi. «Mi aiuti!» urlò, per scuotere quell’incapace che sapeva solo lamentar-si. Mi costrinsero a sedermi su una poltrona. Io contavo i secondi. Undici, dodici, tredici. Anche Esther doveva esse-re crollata, nel pieno del trasferimento, e in quel momento era comple-tamente indifesa. Ci sarei riuscito? Avevo sbagliato? Mi ero arreso troppo presto, forse potevo ancora scappare? Ma quell’uomo era un professionista, non c’era modo di sfuggirgli. Come aveva fatto a tro-varmi?

«Non stia lì impalata! Vada a chiamare un medico!» gridò Laura. Mi teneva stretto, ed era sconvolta. «No, tu no, ti prego. Non ammalarti anche tu, non lasciarmi sola!» Doveva essere una scena spiacevole, ma io non potevo risponderle. Il trasferimento occupava tutti i miei sensi, ed era difficile ragionare. Diciannove. Venti. Crollai di botto, afflosciandomi nella poltrona, e Laura urlò più forte: «Presto!» Ero sommerso dai ricordi, annientato. Li stavo ancora smistando e que-sto mi avrebbe bloccato ancora per qualche minuto. Però non c’era tempo, non ce n’era. «Un telefono» riuscii a mormorare «un telefono, presto!» Laura non capì, o ignorò volutamente la mia richiesta. Alzò solo la vo-ce. «Allora? L’ha trovato? Gli dica di venire subito!» Mi aggrappai al suo braccio con tutta la forza che mi era rimasta. «Dammi un telefono!» Era lì, sulla scrivania, a pochi passi, ma non avevo modo di arrivarci. «Non sei in grado» mormorò Laura. «Ti prego.» Lo andò a prendere, ma era confusa, e a me parve così lenta, troppo len-ta. Era tardi, non ci sarei riuscito. Stava per succedere di nuovo. Stavo per essere ucciso.

Io sono Esther Dickerson

Ero crollata a terra, e c’erano tante persone intorno a me. Troppe. Per-sino Catherine era accorsa, disubbidendo alla mia richiesta di chiamare la polizia. Il killer doveva essere entrato, ormai, era nell’edificio. Avrebbe fatto una strage pur di raggiungermi. Cercai di risollevarmi, ma ero debolissima. I ricordi era salvi, e questa era la cosa più importante. Barcollavo, cercando di allontanare da me tutte quelle mani che volevano aiutarmi. Dio, era pieno di ragazzi, i miei alunni. «Professoressa Dickerson, si sente male?» «Cosa le è successo?» «Chiamate l’infermeria!». «Esther, che hai, come ti senti?» Catherine non mi lasciava andare, si era aggrappata al mio braccio. Io fissavo il corridoio, perché da lì sarebbe arrivato l’assassino. Era troppo tardi, non avevo modo di uscire dall’edificio, e tutti i corridoi erano af-follati. «Lasciatemi!» urlai, e mi liberai con rabbia dalle loro mani. L’uscita sul retro. Avrei dovuto attraversare tutto l’edificio per rag-giungerla, ma non potevo fare altrimenti. Mi allontanai barcollando, senza dare alcuna spiegazione. Catherine e uno dei bidelli mi vennero dietro. «Esther, dovresti farti vedere dall’infermiera. Forse…» Li ignorai, continuando a guardarmi intorno. Dov’era quel bastardo, perché non era ancora arrivato? Aveva capito il mio gioco? Mi avrebbe atteso davanti all’uscita secondaria? Attraversai l’edificio, senza rallentare. Le parole di Catherine si persero in lontananza, passai da un corridoio all’altro, ma le lezioni non erano ancora riprese e c’erano ovunque studenti che bighellonavano.

Quando raggiunsi le scale mi paralizzai. Su o giù? Era molto probabile che il mio assassino mi stesse aspettando in fondo a quelle scale. Salendo mi sarei messa in trappola, non avrei più avuto modo di fuggire. Però avrei potuto nascondermi, attendere l’arrivo della polizia. Era in gioco la mia vita. Una vita piena, a cui non avevo intenzione di rinunciare. Presi la mia decisione e iniziai a salire.

Io sono Marcello DeRenzi

Posai il telefono lentamente, col cuore in gola, e alzai gli occhi verso Laura. Anche lei si era seduta, sul bordo di una sedia, e nuove rughe erano comparse sulla sua fronte. «Non sapevo che parlassi francese» mi disse. Lei non lo capiva, ne ero certo. Forse qualche parola, qua e là, ma non abbastanza da comprendere il succo della telefonata. Avevo chiamato la centrale di polizia di Sherbrooke, avvertendoli che un pazzo armato a-veva fatto irruzione nell’edificio scolastico. L’avevo descritto accura-tamente. Avevo detto di essere uno degli insegnanti, avevo dato il nome di un professore che esisteva davvero, ed era pure molto conosciuto in zona, per essere certo che prendessero seriamente la mia chiamata. «Come stai adesso?» «Meglio» risposi, ma non era vero, ero ancora sfinito, non avevo la for-za di alzarmi, e proprio in quell’istante un ignoto killer stava per ucci-dermi, all’altro lato del globo. «Hai bisogno… posso prenderti le pillole, se vuoi. Sono tornate le emi-cranie?» Impiegai qualche istante a capire di cosa stesse parlando, poi riconobbi la sua espressione tesa. «No, no!» mi affrettai a rassicurarla. «Il medico aveva detto che sarebbe potuto tornare.» Era questo il suo timore, che anch’io avessi il cancro? «Era solo una ciste, Laura. Non era un vero tumore. Sta’ tranquilla.» Avevamo passato un brutto periodo, due anni prima, quando si temeva che fossi stato colpito da un tumore al cervello. Ero pure stato operato, ma alla fine era andato tutto bene, e il pericolo si era ridimensionato. «Non è quello» aggiunsi ancora. Laura lo stava vivendo, il cancro, ed era molto sensibile su certi argo-menti. Cercai di raggiungerla per stringerle una mano, ma era troppo

faticoso. «Mi dispiace di darti queste preoccupazioni, proprio adesso. Ma ti assi-curo che è stato solo un mancamento. Niente di importante.» «Fatti vedere lo stesso» rispose lei «non puoi sentirti male adesso, non adesso!» Riuscii a sollevarmi e la abbracciai. Lei si appoggiò alla mia spalla e scoppiò a piangere. Avrei tanto voluto consolarla, ma in quel momento non ce la facevo. Stavo correndo per salvare la mia vita, in alto, sempre più in alto.

Io sono Esther Dickerson

Avevo raggiunto il punto del non ritorno. Più in alto di così non era possibile andare. Mi trovavo sul tetto dell’edificio. C’era un ampio terrazzo, circondato dal tetto spiovente e cinto da una ringhiera. Anche se l’ultimo tratto della scala era interdetto a tutti gli studenti, beccai ugualmente un quartetto che stava fumando. Quando li sorpresi uno dei maschi si mise a imprecare. Non persi tempo e usai la mia voce più autoritaria. «Buttatele via subito e scendete nelle vostre classi!» Obbedirono, ma fin troppo svogliati. Ogni secondo di ritardo poteva costare loro la vita. Se fossero stati ancora lì quando fosse arrivato il killer, avrebbero fatto la mia stessa fine. «Muoversi! Muoversi!» urlavo, e quasi arrivai a spingerli con la forza. Mentre li vedevo rientrare tirai un sospiro di sollievo, poi mi guardai intorno cercando un nascondiglio, ma non ne trovai. Inutile tentare di salire sul tetto, non ne sarei stata in grado. Non lo sarebbe stato il mio corpo, almeno. Ero troppo vecchia e troppo grassa, incapace di usare tutta la memoria accumulata. Cosa lasciavo al mondo? Non avevo più nessuno che fosse importante per me, neppure un animale domestico. Avrei lasciato solo ricordi, a coloro che mi avevano conosciuta. Ricordi piacevoli, speravo. Era tutta lì la mia vita? Non era stata una gran vita, priva di alcunché di rilevan-te. Con gli anni i miei ricordi si sarebbero assottigliati, e alla fine sarei stata solo una delle tante vite senza infamia e senza lode, sterile in ogni senso. Mi aggrappavo a quella ringhiera e mi chiedevo com’ero arrivata a quel punto. Perché non avevo un marito e dei figli? Perché avevo fatto solo le scelte sbagliate? Secoli di esperienza non mi avevano aiutato, l’essere umano restava fallibile, sempre. Forse era meglio così, in quel momento. Era meno doloroso sapere che

altri non avrebbero sofferto per la mia morte, che nessuno si sarebbe disperato. Già il dolore per quei tre bambini era troppo forte, e per la loro madre che avevo perduto. Era bene che non se ne aggiungessero altri. Non mi girai quando sentii aprire la porta del terrazzo, lo sapevo già che lui era arrivato. Pensai che sarebbe stato più facile non vedere. «Hai fallito, sai?» gli dissi «non riuscirai comunque a uccidermi del tut-to. Io sono già salva.» Nessuna risposta, e allora fui costretta a voltarmi. Era proprio lui, e mi sovrastava. Era così alto, imponente, spaventoso. Indossava lo stesso abito con cui l’avevo visto in Corea, o uno molto simile. Non aveva alcuna valigetta, ma nella sua mano era comparsa quella maledetta pistola. «Dimmi perché lo fai» gli chiesi. Non mi avrebbe dato nessuna risposta, lo sapevo. Invece parlò, mentre puntava la pistola. «One» disse, in inglese. Non capivo. «Uno?» ripetei, e gli chiesi nella sua lingua: «Cosa significa?» Le sue parole mi annientarono. «Jung Park, Esther Dickerson, Miguel Figueroa, Amy Benson, Dominic Ferri e Marcello DeRenzi.» Lo guardai con occhi sbarrati, e lui sorrise. «Significa qualcosa per te? Ci teneva che te lo dicessi, prima.» «Ma… ma…» riuscii solo a dire. Poi mi puntò la pistola tra gli occhi e sparò.

Io sono Marcello DeRenzi

Ero morto! La mia seconda morte nel giro di due giorni. E c’era di più, quell’uomo conosceva tutte e sei le mie identità. Era una catastrofe, peggio, la fine di tutto. Mi misi a tremare, e Laura se ne accorse. «Non stai ancora bene» disse «resta a casa, vado da sola.» Abbandonarla adesso? Lasciarla affrontare in solitudine il momento più triste della sua vita? Le strinsi un braccio. «Io ci sono» le dissi «e ci sarò sempre.» Eppure avevo bisogno disperato di usare il telefono, di chiamare, di chiedere aiuto, e non l’avrei potuto fare con lei accanto. Cosa implicavano le parole di quell’assassino? Lui conosceva tutte le mie identità e mi avrebbe ucciso, uno dopo l’altro. Mi erano rimasti so-lo quattro corpi, quattro! Presi la valigia di Laura, ma era troppo pesante per me, ancora mi sen-tivo debole. Arrivò subito l’autista ad aiutarmi. Uscimmo insieme dalla villa, io e Laura, abbracciati. Uno dei due so-steneva l’altro, ma non avrei saputo dire chi fosse a farlo. Lei si voltò ancora una volta per dire addio alla sua casa, e in quell’istante le scivolò sulla guancia una lacrima solitaria. Salimmo in macchina, e questa partì subito, senza che fosse necessario dare alcun ordine.

Io sono Amy Benson

Avevo trentadue anni e abitavo a Port Elizabeth, in Sudafrica. Facevo l’interprete di mestiere, dividevo la mia casa soltanto con un gatto, Ma-tisse, e quel giorno ero innamorata come una ragazzina. Il caso aveva scelto per me. Dopo una serie ininterrotta di relazioni sfortunate, era arrivato lui. Da due settimane era venuto ad abitare nel mio palazzo, proprio nell’appartamento di fianco al mio. Aveva la mia stessa età ed era un artista. Un pittore, un vero pittore, di quelli che fan-no mostre e riescono pure a vendere i propri quadri. Io mi ero già infiltrata dentro al suo appartamento, spinta dalla curiosi-tà, ed era davvero stupendo. Così pieno di quadri e di colori. Lui di cer-to mi trovava invadente, ma non potevo farne a meno, mi ero innamora-ta nel momento stesso in cui l’avevo visto. Inutile dire che il sentimento non era ricambiato, ma non lo consideravo un problema insormontabile, ero certa che sarei riuscita a conquistarlo, con perseveranza. Lui si chiamava Ricky, portava i capelli lunghi e una barbetta che gli contornava il volto. Era proprio l’opposto di me. Alto, abbronzato, ca-pelli corvini e occhi neri. Accanto a lui parevo anemica e fragile. Però ero certa che saremmo diventati una coppia perfetta. Perfino in quel momento, mentre telefonavo, tenevo d’occhio la finestra del suo studio, che confinava con la mia camera da letto. Mi bastava sporgermi dal terrazzo per vederlo vagare a petto nudo nello stanzone. Non riuscivo a smettere di guardarlo. «Signor Brandi?» chiesi, anche se era superfluo. Il numero che avevo fatto era quello del suo cellulare, ed eravamo in pochi a conoscerlo. «Le telefono per conto di Giovanna. Ho altri ordini per lei.» Avrei potuto fingere di essere Giovanna, ma lui non ci sarebbe cascato. Era sempre molto attento ai particolari, e non dimenticava mai una vo-ce.

«Dove si trova in questo momento?» La risposta tardò ad arrivare. Di certo sentire la voce di una sconosciuta l’aveva messo in allarme. «Dovrebbe saperlo dove mi trovo.» Troppo lontano per fare qualunque cosa. Mandarlo all’inseguimento del killer? No, sarebbe comunque arrivato tardi. Precederlo? Ma dove? Far-lo venire lì, in Sudafrica, ma avrebbe fatto in tempo? Non era meglio concentrarsi su Dominic? «È necessario che torni in Europa.» «Il signor DeRenzi…» «Il signor DeRenzi è in pericolo. Rischia di essere ucciso e va immedia-tamente protetto.» Un silenzio brevissimo. «Dove si trova?» «All’Ospedale Belmonti, insieme alla moglie. Resterà lì per qualche tempo.» Potevo immaginare la sua smorfia. Un ospedale non era il posto più di-fendibile del mondo. «Non uscirà dalla camera della moglie» aggiunsi, anche se non ero cer-ta che fosse possibile. E se Laura avesse desiderato scendere in giardi-no? Accidenti, quante complicazioni. «Deve organizzare la sua protezione il più in fretta possibile.» «Sto già provvedendo» rispose con voce fredda. «Ed è necessario organizzare altre tre protezioni. Tutti i soggetti sono in pericolo di vita. Pensa di farcela?» Aggirò la domanda: «L’assassino è sempre lo stesso?» Non potevo esserne certa, ma considerato quello che aveva detto a E-sther, era molto probabile che fosse stato assunto per eliminare tutti i nominativi di quella lista. Ma perché me l’aveva fatto sapere? Aveva così fiducia in se stesso da non temere di essere fermato? «Ha già scoperto chi è?» «Sto attendendo delle risposte. Ci sono stati dei riscontri, ma non sono certo della loro attendibilità.» «Non può fare alcuna anticipazione?» «Farebbe qualche differenza avere un nome?» No, non era importante. Era solo un killer, era stato pagato da qualcuno. Solo che nessuno nel mondo intero era a conoscenza della mia esisten-

za. Se anche nei secoli qualcuno aveva sospettato, non avrebbe avuto comunque modo di conoscere tutti i miei corpi. Eppure stavolta era successo. «Le tre persone da mettere sotto protezione sono Miguel Figueroa di Buenos Aires, un bambino di dieci anni, Dominic Ferri, un diciasset-tenne che vive a Nantes, in Francia, e…» Aggiunsi il mio nome, cer-cando di essere impersonale. Continuai: «Immagino che il primo a essere colpito sarà Miguel Figue-roa.» Poi sarebbe toccato a me. Era evidente che il killer si stava spostando in linea retta. Dalla Corea al Canada, dal Canada all’Argentina. E poi il Sudafrica. Persino la lista che aveva snocciolato non lasciava dubbi. Eppure… Qualcosa non funzionava. In linea d’aria Nantes era senz’altro più lon-tana dell’Italia, allora perché Marcello era stato lasciato per ultimo? Perché era il più ricco e potente di tutti, l’unico in grado di difendersi? Dubitavo che fosse così semplice. Qualcosa mi stava sfuggendo. Perché avvisarmi? Sarebbe stato logico convergere tutti verso un unico punto, fuggire prima che il killer potesse arrivare. Ci stava facendo sor-vegliare? Sapeva dove ci trovavamo in qualunque momento? Le domande che mi assillavano erano sempre di più. Perché non ci ave-vano uccisi contemporaneamente? Di certo chi ci voleva morti aveva i mezzi per farlo. Invece ci aveva avvertiti. Sarei dovuta andare in Italia? Dovevamo convergere tutti là? Finora non era mai successo, in tutta la mia esistenza, di avere contatti con gli altri miei corpi. Era questo che voleva? «Signorina?» Mi riscossi, quel silenzio doveva aver messo Brandi in agitazione. «Miguel sarà il primo a essere colpito, ne sono certa» ripetei. «Ed è un bambino.» «Sì, un bambino.» Questo rendeva tutto più difficile, le sue risorse erano limitate, e pure le sue capacità. «Cercherà di nascondersi, finché non arriveranno i vostri uomini» ag-giunsi. «Sa già di essere in pericolo?» Ero intrappolato in quel corpo, non sarebbe stato per niente facile. «Si sbrighi» dissi soltanto «Giovanna le farà avere tutti i dati di cui ha

bisogno.» Forse mi ero tradita, forse Brandi aveva capito che non ero solo una se-gretaria qualunque, che avevo un potere che lui non poteva comprende-re. «Dov’è più necessaria la mia presenza?» Anche questa era una decisione importante da prendere. Quale corpo era essenziale? Io no, di questo ero certa. Miguel, Dominic? Erano troppo giovani. Importanti, sì, ma privi del potere necessario. «Vada a Roma. Si occupi dell’incolumità del signor DeRenzi.» Interruppi la chiamata, senza aggiungere altro. Gettai un’occhiata a Ricky, prima di rimettermi a telefonare. Non ci voleva, proprio non ci voleva. Non adesso che avevo finalmente trovato il ragazzo giusto, non adesso che avrei potuto essere felice. Feci una smorfia, poi composi il numero. «Giovanna? La chiamo da parte del signor DeRenzi…» FINE ANTEPRIMA CONTINUA…

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