Upload
others
View
3
Download
0
Embed Size (px)
Citation preview
Inner Wheel on the footsteps of Longobards in Europe CULTURAL INTERNATIONAL MULTI YEARS PROJECT
Inner Wheel Club di Cremona PHF - Distretto Italia 206
con il patrocinio della Biblioteca Statale di Cremona
ATTI DEL CONVEGNO
SULLE ORME DEI LONGOBARDI A
CREMONA
10 maggio 2014 - Cremona
A cura di Riccardo Groppali
Moderatrice Lynn Passi Pitcher. Interventi di Gastone Breccia, Mario Dadda, Marina Volonté,
Valerio Ferrari, Andrea Guereschi, Riccardo Groppali
Inner Wheel Club di Cremona PHF
1994-2014 - 20° anniversario
ATTI DEL CONVEGNO
10 maggio 2014 - Cremona
Indice
Lavinia Taraschi, presidente Inner Wheel Club di Cremona
Presentazione
Gastone Breccia
Cremona nel VI secolo: Goti, Bizantini e Longobardi nel cuore della
Valpadana
Mario Dadda
Cremona nell’ombra dei Longobardi
Marina Volontè
Ritrovamenti di età longobarda in provincia di Cremona
Valerio Ferrari
Tracce toponomastiche della presenza longobarda in provincia di Cremona
Andrea Guereschi
Il Grande Diluvio del 589
Riccardo Groppali
Natura, ambiente e paesaggio padano nel periodo longobardo
PRESENTAZIONE
È con entusiasmo che il Club Inner Wheel di Cremona ha pensato di aderire, nell’anno in cui
festeggia il ventesimo anniversario della sua fondazione, al progetto internazionale pluriennale
presentato durante il Convegno “Women for Europe - The role of Inner Wheel” svoltosi a Tuusula
in Finlandia. L’idea è diventata operativa in Italia grazie alla costituzione, con il benestare del
Consiglio Nazionale, di un comitato promotore formato dalle socie Mirella Ceni, Anna Cotta,
Almerinda Parrella, Paola Perrella e Luisa Vinciguerra che ne ha ridefinito il tema: ”L’Inner Wheel
sulle orme dei Longobardi in Europa”.
Il sodalizio rappresenta una realtà molto attiva in Europa e nel mondo, in grado di creare una rete di
sinergie e di comunicazione molto efficace. Numerose sono state le iniziative culturali realizzate su
base volontaria in particolare sui territori che custodiscono vestigia longobarde, con l’intento di
unire i Club delle terre del Nord a quelli del Sud e di costruire progetti condivisi.
Anche la provincia di Cremona è stata toccata dalla storia longobarda. Si è così pensato di
organizzare presso il Centro Culturale San Vitale, con il patrocinio della Biblioteca Statale di
Cremona, un convegno di studi con l’intervento di relatori qualificati che presentassero questo
argomento ancora poco noto a livello locale.
Gli atti del convegno forniscono una testimonianza alla città, affrontando con un approccio
multidisciplinare un argomento complesso, lontano nel tempo, sinora poco approfondito e del quale
sono scarse le testimonianze storiche.
In questo modo Inner Wheel di Cremona ha inteso portare il suo contributo ad un’opera corale di
respiro internazionale che ha riscosso molto interesse anche tra autorità e istituzioni.
La Presidente
Lavinia Taraschi
CREMONA NEL VI SECOLO: GOTI, BIZANTINI E LONGOBARDI NEL
CUORE DELLA VALPADANA
Gastone Breccia Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali dell’Università di Pavia
Storia di un’assenza La storia della città di Cremona in età bizantina è la storia di un’assenza. Le fonti disponibili non ne
fanno mai il nome, se non per citarne la conquista da parte del re longobardo Agilulfo nell’agosto
del 603; nei decenni precedenti, le grandi vicende militari e politiche della seconda metà del VI
secolo, che cambiarono per sempre la geografia etnica e politica dell’Italia settentrionale, sembrano
quasi girarle attorno, ignorandola o evitandola, come la corrente di un fiume che si divide ai lati di
una roccia.
È difficile, per uno studioso, descrivere un vuoto. In genere si dichiara la propria impotenza, e si
preferisce passare oltre: il compito dello storico non è quello di ricreare il passato, ma di spiegarlo
sulla base dei documenti superstiti. Ci sono però delle zone d’ombra che non è possibile ignorare;
come ha scritto Carlo Ginzburg, la storia è una «divinazione rivolta al passato» (Miti emblemi spie,
Torino 1986, p. 183), un’indagine alla ricerca dei più labili indizi che permettano di intuire, prima
ancora che descrivere e comprendere, eventi sottratti per sempre alla nostra analisi diretta. In alcuni
casi è necessario affidarsi a tracce appena visibili, da interpretare con cautela ma senza dichiararsi
vinti in partenza: per ciò che riguarda Cremona, spingere lo sguardo nel buio della seconda metà del
VI secolo può servire comunque a chiarire - anche se limitatamente - il ruolo e il destino della città
in uno dei periodi più critici della sua esistenza.
La guerra greco-gotica
«Cremona bizantina» è un’espressione che, all’epoca, nessuno avrebbe compreso. Bisanzio aveva
cessato di esistere nel momento in cui l’imperatore Costantino aveva rifondato la ricca città sul
Bosforo come Nuova Roma, capitale dell’impero che ben presto sarebbe stato rigenerato dal
Cristianesimo (11 maggio 330). Il destino delle province occidentali, nei due secoli successivi, fu
caratterizzato dall’immigrazione massiccia di popolazioni germaniche, che trasformarono
progressivamente le strutture politiche, economiche e sociali della pars Occidentis; ma la Nuova
Roma aveva resistito a tutti gli assalti, e l’idea di uno Stato ecumenico era stata mantenuta viva fino
al regno di Giustiniano (527-565), che si era trovato nella condizione di mettere mano al grandioso
progetto di restitutio imperii inviando flotte ed eserciti in Africa, in Italia e in Spagna.
Cremona bizantina non è mai esistita, dunque. La città nel cuore della pianura padana, in posizione
strategica per controllare il traffico fluviale sul Po, era stata occupata dai Goti nel 489, ripresa da
Odoacre l’anno successivo e definitivamente riconquistata da Teodorico dopo la decisiva vittoria
sull’Adda (11 agosto 490). Nessun grande assedio; eserciti che passavano nelle vicinanze della città
e abitanti che aprivano loro le porte, in attesa di capire quale delle due parti in lotta avrebbe finito
per prevalere. È certamente sbagliato vedere nella lotta tra Odoacre e Teodorico uno «scontro di
civiltà»: quali che fossero i loro rapporti con il legittimo imperatore romano Zenone, lontano sul suo
trono di Costantinopoli, i due capi rivali erano entrambi espressione di una stessa cultura, sintesi
originale di elementi romani e germanici. Il prevalere dell’uno o dell’altro non avrebbe mutato in
maniera sostanziale il destino d’Italia, la cui prosperità e sicurezza sarebbe stata comunque legata
alla forza militare del vincitore e alla sua capacità di costituire un dominio stabile, proteggendo la
popolazione e permettendone lo sviluppo economico.
Cosa che riuscì a fare Teodorico. Il regno nato dal suo trionfo merita a pieno titolo l’appellativo di
romano-germanico, perché la civiltà che si stava sviluppando nella penisola manteneva in essere
tratti dominanti della tradizione imperiale, rinvigorita dall’energia dei «popoli biondi». Il grande
sovrano ostrogoto, educato a Costantinopoli e nominato da Zenone patricius e console, scelse di
modellare il proprio dominio sull’esempio glorioso di Roma antica. Nei suoi desideri, l’economia e
la società delle province italiane avrebbero dovuto svilupparsi e prosperare dialogando con la pars
Orientis; ma due ostacoli si rivelarono insormontabili - la fede ariana degli immigrati germanici e la
rigida concezione del potere ecumenico, che non prevedeva altro che un solo imperatore e alcuni
sovrani minori, tollerati come dominatori locali solo finché non avessero la presunzione di trattare
su una base di parità con il legittimo augustus assiso sul trono di Costantinopoli.
Così, alla morte di Teodorico (526) e all’avvento al trono di Giustiniano (527), si verificò una
congiuntura del tutto particolare e fatale per il destino d’Italia: nella Nuova Roma le redini del
potere finirono nelle mani di un sovrano determinato a imporre la «vera fede» ortodossa estirpando
l’eresia ariana dai confini dell’ecumene cristiana; a Ravenna, al contrario, l’eredità del primo re
ostrogoto venne raccolta da un bambino, Atalarico, sotto la reggenza della madre Amalasunta,
osteggiati dalla maggior parte della nobiltà del regno. Giustiniano, oltre che la volontà, aveva il
denaro necessario a lanciare una serie di campagne militari destinate a riportare il bacino
occidentale del Mediterraneo sotto il dominio diretto dell’impero: dopo la rapida vittoria sui
Vandali in Africa settentrionale, le truppe agli ordini di Belisario sbarcarono in Sicilia nel 535;
l’isola venne conquistata senza difficoltà entro la fine dell’anno, e nella primavera successiva
Belisario invase la penisola, riuscendo ad occupare Roma il 9 dicembre.
Ma era solo l’inizio di una guerra durissima: le forze imperiali sarebbero riuscite a spezzare la
volontà di resistenza dei Goti solo dopo quasi vent’anni di lotta, al prezzo di sofferenze e
devastazioni tali da mettere in ginocchio l’economia e la demografia delle province italiane.
Cremona fu interessata solo marginalmente dalle operazioni belliche: nella prima fase del conflitto
l’esercito di Belisario, avanzando con cautela verso Ravenna, passò gli Appennini solo all’inizio del
539, senza riuscire però a consolidare le proprie posizioni nella pianura padana. Un piccolo
contingente imperiale - appena un migliaio di uomini - sbarcato a Genova nell’aprile del 538 era
riuscito ad avanzare fino a Milano, accolto festosamente in città dal vescovo Datius, e aveva
«liberato» molte altre piazzeforti della regione tra le Alpi e il Po, tra cui Bergamo, Novara e forse la
stessa Cremona; ma di fronte alla controffensiva nemica non aveva potuto far altro che scendere a
patti con gli assedianti e consegnare la vecchia capitale della pars Occidentis (marzo 539). I Goti
rispettarono gli accordi e risparmiarono gli uomini della guarnigione, ma «rasero al suolo Milano, e
uccisero tutti i maschi di qualsiasi età che ammontavano a non meno di trecentomila» (Proc. Caes.,
Bell. Goth., 2.21.10). Cremona - se davvero era stata occupata dagli imperiali nei mesi precedenti -
fu probabilmente tra le città che si arresero ai Goti da seguito del disastro; subito dopo, nel pieno di
quell’estate terribile, venne sfiorata da un’incursione a lungo raggio dei Franchi di re Teudeberto I,
che passarono il Po poco a valle delle sue mura puntando verso la via Emilia, prima di essere
costretti a ripiegare verso le Alpi, decimati dalla dissenteria.
Il sacco di Milano fu uno dei momenti più terribili dell’intera guerra, almeno per quanto riguarda la
pianura padana; negli anni successivi, infatti, non si hanno notizie di operazioni militari di rilievo
nell’intera regione tra le Alpi e il Po. Non deve stupire: gli eserciti erano relativamente piccoli, e le
loro campagne somigliavano a grandi incursioni in profondità, volte a guadagnare vantaggi
materiali attraverso il saccheggio e la distruzione delle risorse nemiche, o vantaggi morali
dimostrando la debolezza dell’avversario, ma erano del tutto incapaci di occupare il territorio nel
senso moderno del termine. Le città maggiori avevano spesso poco da temere: potevano soltanto
essere assediate in forze, ma questo avveniva di rado, perché l’operazione comportava un impegno
logistico tale da condizionare per mesi interi ogni altra iniziativa bellica. Napoli e Roma, o ancora i
porti dell’Adriatico, vitali per le comunicazioni con Costantinopoli, potevano meritare un simile
dispendio di tempo e risorse, ma non città tutto sommato secondarie come Cremona. Le grandi
battaglie campali vennero combattute altrove (Tagina, ovvero Gualdo Tadino, nel 552; Vesuvio,
553; Volturno, 554); con la sconfitta dell’ultimo re goto, Teia, la penisola tornò ad essere governata
da Costantinopoli, e Cremona tornò ad essere come in passato un importante punto d’appoggio nel
cuore della valle padana, essenziale per il controllo del traffico fluviale, ben difesa dalle sue mura e
difficilissima da assediare finché il corso del Po restava in mani amiche. Tutto sommato, nel
turbolento orizzonte del VI secolo, un luogo ragionevolmente sicuro dove vivere e condurre i propri
affari.
Gli uomini biondi dalle lunghe barbe
Il 14 agosto 554, su richiesta di papa Vigilio, Giustiniano emanava la celebre Pragmatica sanctio
pro petitione Virgilii (ed. in Corpus Iuris Civilis, III, Novellae, a cura di R. Schöll, Berlino 1928, p.
799) per rimediare ai disastri causati dalla tyrannorum bellica confusio e dalla gothica ferocitas nei
vent’anni precedenti: il grande imperatore sperava così di inaugurare una nuova era di prosperità
restaurando le condizioni dell’epoca di Amalasunta e Atalarico e abrogando tutti gli atti dei re goti a
loro illegittimamente succeduti, che avevano gravemente turbato l’ordine sociale d’Italia. Vennero
riaffermati i diritti degli antichi proprietari terrieri contro ogni forma di usurpazione delle loro terre
- il re Totila (541-552), in particolare, aveva cercato di far leva sul malcontento dei contadini per
trovare sostegno nella lotta contro l’impero - e si cercò di alleggerire la pressione tributaria,
riordinando anche il sistema dei pesi e delle misure, l'amministrazione della giustizia, la riscossione
dell’annona, e disciplinando il corso della moneta. Difficilissimo valutare i risultati di simili
provvedimenti su un paese spopolato e impoverito: Giustiniano non visse abbastanza per verificarli,
e comunque meno di tre anni dopo la sua morte finì bruscamente la tregua concessa all’Italia.
La pace conquistata da Giustiniano a caro prezzo durò infatti una sola generazione. Alboino, re dei
Longobardi - tribù germanica fino ad allora stanziata in Pannonia e alleata dell’impero - sotto la
pressione degli Avari fu costretto a varcare le Alpi entrando in Italia da nord-est, questa volta come
invasore e non come foederatus. La penisola era scarsamente presidiata: i nuovi arrivati non
incontrarono grosse difficoltà nel raggiungere la pianura padana, occupando buona parte dell’Italia
settentrionale quasi senza combattere.
La strategia difensiva imperiale, nelle province più lontane da Costantinopoli, era realisticamente
improntata a lasciar lavorare il tempo, lo spazio e le malattie. Le poche guarnigioni restavano al
riparo delle mura delle città maggiori, meglio se con il mare o un fiume navigabile alle spalle, e
aspettavano che la storia facesse il suo corso: gli invasori, molto spesso, se ne tornavano oltre
frontiera senza arrecare danni irreparabili; ovvero, se restavano, finivano in buona parte per
confondersi nel volgere di qualche decennio con la popolazione, arricchendo l’impero di nuovi
contadini e soldati. Restava il problema dei loro capi: in molti casi potevano essere cooptati nella
gerarchia politica e militare; altrimenti, se non si riusciva a metterli nella condizione di non
nuocere, se ne tollerava l’autonoma gestione del potere locale, si pagava loro un tributo e si
aspettavano giorni migliori.
Ma i Longobardi, fin dall’inizio, si dimostrarono un ospite difficile per il vecchio impero. Non
avevano alcuna patria dove far ritorno; i loro usi e costumi, a quanto sembra, erano più rudi di quelli
di molti altri popoli germanici, per essere stati meno a contatto col mondo romano; il loro sistema di
valori ideali e sociali era saldamente e irriducibilmente centrato sulla guerra. Ed erano ancora ariani
in un’epoca in cui l’eresia subordinazionista (che considerava il Figlio generato e creato dal Padre,
quindi a lui inferiore per essenza), era stata sconfitta quasi ovunque, cessando di costituire un
pericolo per l’unità del mondo cristiano. Bisognava combatterli: i Bizantini li conoscevano piuttosto
bene, perché un contingente longobardo aveva preso parte all’ultima fase della guerra gotica agli
ordini di Narsete, contribuendo non poco al successo delle armi imperiali. Erano noti i loro pregi e i
loro difetti, le loro abitudini, le loro tattiche e le loro armi. «I popoli dai capelli biondi danno grande
importanza ai valori della libertà, e sono coraggiosi e intrepidi in battaglia; poiché sono spavaldi e
impetuosi, e considerano qualsiasi paura, e perfino una breve ritirata, come una vergogna,
disprezzano facilmente la morte. Combattono con furore nel corpo a corpo, sia a cavallo che a piedi
[…]. Sono armati con scudi, lance e spade corte appese alle spalle. Amano combattere a piedi ed
effettuare violente cariche.»
Sono parole scritte dall’imperatore bizantino Maurizio (582-602) nell’XI libro del trattato militare a
lui attribuito, lo Strategikon, in un breve capitolo intitolato «Come comportarsi con i popoli dai
capelli biondi, come i Franchi, i Longobardi e gli altri simili a loro». La scienza militare romana
doveva fare i conti ormai con un mondo assai complesso, affollato di nemici diversissimi tra loro
per indole, tattiche e armamento: il buon generale doveva conoscerne punti di forza e debolezza, per
evitare i primi e sfruttare al meglio i secondi. Maurizio sapeva di cosa stava parlando, anche se non
aveva mai combattuto i Longobardi in Italia: era essenziale, per sconfiggerli, approfittare della loro
indole volubile, della scarsa disponibilità ad affrontare i rigori di una campagna militare prolungata,
dell’indisciplina e della fragilità morale; al contrario, in battaglia erano formidabili, e quindi da
fuggire e stancare con finte ritirate, logorandoli con la dilazione e la manovra.
La strategia bizantina era dunque ben delineata: sfruttare il riparo offerto dalle città fortificate,
ritirarsi verso la costa, dove la marina da guerra poteva rifornire le guarnigioni, e intanto fomentare
la discordia nel campo nemico, evitando il rischio di una battaglia campale. Non era possibile, negli
anni immediatamente successivi al 568, raccogliere forze sufficienti per un’offensiva in grande
stile; meglio temporeggiare, anche perché non mancavano certo nemici più temibili, o comunque
più vicini a Costantinopoli e al cuore dell’impero. L’Italia avrebbe dovuto cavarsela da sola fino a
nuovo ordine.
Una città sotto assedio?
I Longobardi - forse 150.000 individui, compresi vecchi donne e bambini - occuparono quindi vaste
estensioni di territorio italiano, in buona parte scarsamente popolate dopo i disastri della guerra
gotica e delle epidemie della metà del VI secolo. La prima città a cadere nelle loro mani fu Forum
Iulii (Cividale); poi Aquileia, Vicenza, Verona e Brescia (Paul. Diac., Hist. Lang., 2.14). Nel 569
anche la popolazione di Milano, in mancanza di aiuti militari da Ravenna, aprì loro le porte, mentre
Ticinum (Pavia), rifornita dal fiume, resistette per ben tre anni, cedendo solo nel 572. Re Alboino
ne fece la propria capitale; ma alla sua morte, dopo il breve regno di Clefi (572-574, assassinato per
istigazione del governo di Costantinopoli), i capi delle fare - i gruppi gentilizi-militari che
costituivano la principale articolazione della società longobarda - cominciarono a litigare tra loro,
offrendo un insperato periodo di tregua alle truppe imperiali che difendevano la penisola.
L’itinerario seguito nella prima fase della conquista non è privo di significato. I Longobardi si
tennero a debita distanza dal Po, preferendo conquistare le città pedemontane: la via d’acqua era il
principale ostacolo alla loro espansione, perché controllata dalle navi imperiali, contro le quali
almeno per il momento i nuovi conquistatori erano del tutto impotenti. La scelta di Alboino di
attaccare Pavia - e non Cremona, o Piacenza, entrambe in posizione più vantaggiosa in vista di una
prosecuzione della guerra lungo la direttrice della via Emilia - era stata quindi ben meditata: tra le
città maggiori, a parte Milano, la città sul Ticino era la meno facilmente raggiungibile per via
d’acqua dall’Adriatico, e quindi la più vulnerabile.
Dopo l’assassinio di Clefi, come si è accennato, il potere rimase nelle mani dei duces per circa un
decennio: ma i capi longobardi perseguirono ciascuno i propri interessi immediati, senza riuscire a
coordinarsi per continuare la conquista delle terre imperiali. Cremona, come molte altre città vicine
all’incerto confine tra le due dominazioni, visse praticamente indisturbata; né possiamo
considerarla, in questo periodo, come una piazzaforte sotto assedio, perché da quel poco che
riusciamo a capire delle operazioni militari di questi anni sembra che i contingenti nemici le
girassero al largo, consapevoli della sua sostanziale invulnerabilità.
Non città assediata, dunque, ma probabilmente città di frontiera; anzi, città-avamposto, perché
Cremona rimaneva una delle pochissime teste di ponte imperiali sulla sponda settentrionale del Po.
Per alcuni anni la situazione sembrò restare in equilibrio, anche se precario; ma non poteva durare
per sempre. L’avanzata longobarda, una volta risolte le lotte intestine, riprese con nuovo slancio;
avrebbe potuto essere arrestata solo da un intervento militare massiccio, ma in quegli anni il
governo di Costantinopoli non era assolutamente in grado di stornare uomini e risorse da altri fronti
più critici per la sopravvivenza stessa dell’impero.
Non che mancasse la percezione del pericolo, o la volontà di affrontarlo. Nel 584, quando re Autari,
ripreso il controllo dell’exercitus longobardo, decise di attaccare la linea del Po assediando e poi
espugnando Brixellum (Brescello), l’imperatore Maurizio avviò una riforma amministrativa
destinata a rendere più efficiente la difesa del territorio romano, riorganizzandolo in una provincia
autonoma affidata a militare con il titolo di esarca («comandante in capo»). Sei anni dopo, raggiunta
una tregua soddisfacente sul fronte persiano, Maurizio si affrettò ad inviare rinforzi in Italia
affidandoli a Romano, il suo miglior generale, che aveva appena sconfitto l’usurpatore sassanide
Bahram. Il nuovo esarca sbarcò a Ravenna con un esercito non molto numeroso ma ben addestrato,
col quale riuscì a riconquistare la maggior parte dell’Emilia, riconquistando Brixellum, riaprendo i
collegamenti terrestri con Cremona e fermandosi solo di fronte alle mura di Pavia. Non aveva forze
sufficienti ad assediare la città, né potevano essergliene inviate altre da Costantinopoli: Maurizio
non poteva permettersi di sguarnire ulteriormente la frontiera orientale, e stava per impegnarsi in
una nuova durissima guerra nei Balcani.
Non restava che rafforzare le difese dell’esarcato in modo razionale, preparandosi a rintuzzare le
inevitabili offensive longobarde. Una fonte risalente ai primissimi anni del VII secolo - la
Descriptio Orbis Romani del geografo Giorgio di Cipro - testimonia la suddivisione del territorio
dell’Esarcato in cinque province, o eparchie, una delle quali, denominata Aemilia, sarebbe stata
disegnata come una fascia di territorio piuttosto stretta e oblunga, orientata da nord-ovest a sud-est,
ovvero da Laus Pompeia (Lodi Vecchio), ancora in mani imperiali, a Cremona, Piacenza, Parma,
Reggio e Modena. Benché non tutti considerino questa notizia esente da dubbi, da un punto di vista
militare la disposizione dell’eparchia Aemilia appare del tutto sensata: utilizzando come punto
d’appoggio estremo le piazzeforti sul Po, e in particolare proprio Cremona che poteva essere difesa
senza difficoltà grazie ai collegamenti fluviali, il comandante e le truppe stanziate nell’Aemilia si
trovavano nella migliore condizione per difendere - manovrando lungo l’asse dell’omonima strada
consolare - il fianco occidentale, scoperto, di quella parte della pianura padana ancora in mano
imperiale, creando un serio ostacolo all’avanzata nemica verso Ravenna.
Per il momento ci si doveva accontentare dei risultati raggiunti. L’esarca Romano, pur capace di
mantenere le posizioni nel cuore della pianura, non ricevette mai le truppe e i mezzi necessari ad
infliggere ai Longobardi una sconfitta decisiva. Maurizio aveva scelto - comprensibilmente, dal
punto di vista della sicurezza di Costantinopoli e della stabilità strategica dell’impero - di
combattere prima di tutto Avari e Slavi nei Balcani; l’Italia era un fronte secondario, dove
mantenersi sulla difensiva finché la situazione non fosse stata risolta in maniera soddisfacente alla
frontiera danubiana. Romano morì di malattia (596); il suo successore Callinico non dimostrò la
stessa aggressività ed efficienza nel condurre la guerra contro i Longobardi, limitandosi a respingere
alcune loro puntate offensive in direzione di Ravenna. Nell’estate del 599 Maurizio riuscì a
sconfiggere in modo decisivo gli Avari nei Balcani: erano finalmente disponibili truppe esperte in
numero sufficiente a lanciare un’offensiva in Italia, ma non c’era modo di pagare i soldati, che si
ritrovarono ben presto anche a corto di cibo. Le guerre incessanti, anche se vittoriose, avevano
messo in ginocchio le finanze dell’impero: Maurizio tentò la soluzione disperata di organizzare una
nuova spedizione nelle terre degli Slavi, per riuscire almeno a sfamare i propri uomini con il
saccheggio e a ricompensarli con il bottino, ma alla prospettiva di svernare in territorio ostile le
truppe si ribellarono alla sua autorità. Foca, un sottufficiale semianalfabeta, venne proclamato
imperatore, e Maurizio fu assassinato assieme alla sua famiglia (novembre 602).
In Italia, nel frattempo, il nuovo re Agilulfo (591-616) stava raccogliendo le forze per un’offensiva
in grande stile. La condizione preliminare fu la pace alle frontiere: il sovrano longobardo seppe
concludere trattati vantaggiosi con Franchi e Avari, garantendosi piena libertà d’azione contro gli
imperiali nella pianura padana. Ma i progressi furono lenti: per quanto le nostre fonti siano come
sempre lacunose, sembra di capire che fino al momento in cui Maurizio si mantenne sul trono i
confini dell’esarcato d’Italia restarono sostanzialmente immutati, e contro Cremona - benché la città
costituisse una dolorosa spina nel fianco per i piani aggressivi dell’ambizioso re longobardo - non
venne tentata alcuna azione militare.
La fine e l’inizio
Ma le vicende costantinopolitane non restarono senza conseguenze sulla situazione della provincia
d’Italia. La caduta di Maurizio aprì una lunga fase di insicurezza e torbidi: Foca, passato alla storia
come un rozzo usurpatore, ma certamente vittima oltre i suoi demeriti di una storiografia a lui ostile,
non fu comunque in grado di rafforzare le difese dell’esarcato ravennate, che venne di fatto
abbandonato al suo destino. In questa situazione non c’è da stupirsi che Cremona, già nel 603, fosse
una delle prima città a cadere in mani nemiche: come abbiamo visto la sua posizione era
estremamente esposta, e la sua capacità di resistenza dipendeva totalmente dagli aiuti e dai
rifornimenti che potevano giungere per via fluviale dall’Adriatico.
Secondo Paolo Diacono «Agilulfo uscì da Milano nel mese di luglio, e assediò Cremona con l’aiuto
di un contingente di Slavi, che gli erano stati inviati in aiuto da Cacano re degli Avari; la prese il 21
di agosto e la rase al suolo» («ad solum usque»: Paul. Diac., Hist. Lang., 4.28). Possiamo nutrire dei
dubbi sull’ultima espressione usata dallo storico longobardo: la distruzione completa di una città era
un fatto meno comune di quel che si creda; o meglio, al momento della conquista venivano talvolta
smantellate (e quindi «rase al suolo») le mura, soprattutto se la guerra era ancora in corso e si
temeva quindi un possibile ritorno in forze del nemico, ma le altre strutture subivano di solito danni
parziali, spesso limitati agli effetti degli incendi scoppiati durante il saccheggio. Per Cremona era
comunque un duro colpo, e la fine di un’epoca: la città che per decenni era stata il principale
avamposto dell’impero nella pianura padana, e che aveva controllato a vantaggio del governo di
Ravenna il traffico sul medio corso del Po, era adesso nelle mani degli «uomini dalle lunghe barbe»,
ridotta probabilmente allo stato di semplice villaggio (vicus) privo di difese permanenti. Il 21 agosto
del 603 iniziava così una storia nuova.
Bibliografia
Delogu P. - Guillou A. - Ortalli G., 1980. Storia d’Italia, a cura di G. Galasso. Volume primo:
Longobardi e Bizantini. UTET, Torino.
Haldon J., 2001. The Byzantine Wars. Battles and Campaigns of the Byzantine Era. Tempus,
Stroud.
Jacobsen T.C., 2009. The Gothic War. Rome’s Final Conflict in the West. Westholme Publishing,
Yardley (PA).
Jarnut J., 2004. Cremona nell’età longobarda. In: Andenna, G. (a cura), Storia di Cremona.
Dall’Alto Medioevo all’Età Comunale, Banca Cremonese di Credito Cooperativo, Cremona.
Jones A.H.M., 1964. The Later Roman Empire. A Social, Economic, and Administrative Survey.
The University of Oklahoma Press, Norman (Okla).
Lee A.D., 2007. War in Late Antiquity. A Social History. Blackwell Publishing, Ancient World at
War, Malden (MA) - Oxford.
Maurizio imperatore, 2007. Strategikon. Manuale di arte militare dell’impero romano d’oriente. A
cura di G. Cascarino. Il Cerchio, Rimini.
Paolo Diacono, 1992. Storia dei Longobardi. A cura di L. Capo, Fondazione Lorenzo Valla –
Mondadori, Classici greci e latini, Milano.
Procopio di Cesarea, 1977. Le guerre. Persiana vandalica gotica. A cura di M. Craveri. Einaudi, I
Millenni, Torino.
Ravegnani G., 1988. Soldati di Bisanzio in età giustinianea. Jouvence, Collana della Facoltà di
Lettere e Filosofia dell’Università di Venezia - Sezione di studi storici 4, Roma.
Treadgold W., 1997. A History of the Byzantine State and Society. Stanford University Press,
Stanford (CA).
Wolfram H., 1985. Storia dei Goti. Salerno, Biblioteca storica 2, Roma.
CREMONA NELL’OMBRA DEI LONGOBARDI
Mario Dadda consulente media e comunicazione
«… Agilulfo rase al suolo tutta la città e la svuotò degli abitanti. Per lungo tempo Cremona rimase
spopolata, ridotta a una specie di deserto».
Così scrive, nei primi decenni del ’300, il cronista Jacopo d’Acqui, un domenicano che - visti i
frequenti riferimenti a Cremona nella sua opera - si è ipotizzato possa esser vissuto qualche tempo
nel convento cittadino di S. Domenico.
Il racconto di Jacopo d’Acqui, che probabilmente raccoglie tradizioni sedimentate a livello locale,
continua con un andamento decisamente favolistico: narra di come un principe francese capitasse
poi in quel luogo sconosciuto e desolato dove trovò un leone ferito a una zampa.
Il principe lo curò e guarì e, da allora, il leone del tutto addomesticato prese a seguirlo. Dopo vari
viaggi e vicissitudini, una volta morto il leone, il principe tornò a Cremona, riedificò la città e
seppellì le ossa del leone «nelle fondamenta del muro dove è il torrazzo».
Si spiega così, conclude il cronista, come mai sulla cima del torrazzo svettasse allora un leone
rampante.
Al di là dei toni fantasiosi della storia, è interessante come - a distanza di secoli - la conquista di
Cremona da parte dei Longobardi fosse restata nella memoria collettiva come una specie di evento
traumatico: una città ridotta a deserto, a spazio vuoto e senza vita.
Tali accenti tornano in tutta la storiografia locale, si può dire fino all’800.
Questo sebbene nessuna evidenza archeologica ci restituisca la testimonianza di una simile
catastrofe. A differenza della distruzione, tremenda e brutale, da parte delle truppe di Vespasiano
nel 69 d.C., questa sì ben documentata dagli scavi. Ma, come vedremo in seguito, questa apparente
contraddizione può essere spiegata.
I Longobardi, insieme a contingenti di popolazioni loro alleate, entrarono in Italia nel 568 d.C.
Dovette trattarsi di una vera e propria migrazione di massa: uomini in armi, ma con al seguito
famiglie, masserizie, mandrie di bestiame.
Impossibile fare ipotesi sulla consistenza numerica di questo popolo in movimento, ma non
dobbiamo comunque immaginare cifre iperboliche.
Resta il fatto, questo sì sbalorditivo, che i Longobardi riuscirono a conquistare in appena due anni e
quasi senza resistenza tutta la fascia pedemontana tra le Alpi e il Po.
Tra le tante spiegazioni che si sono date di questo imprevedibile successo, la più plausibile è anche
la più semplice: i Longobardi, per così dire, erano arrivati nel posto giusto nel momento giusto.
In altre parole, sapevano di aggredire un organismo ormai senza difese: un paese al collasso dopo i
quasi vent’anni (535-553) della cosiddetta guerra greco-gotica.
Un paese stremato dalla guerra
Una guerra che forse fu la più devastante mai combattuta sul suolo della penisola, scatenata
dall’imperatore Giustiniano con l’intento di recuperare all’impero l’Italia dove gli Ostrogoti, con
Teodorico e i suoi successori, avevano instaurato un regno autonomo.
Fu quella che oggi si definirebbe una guerra di sterminio, combattuta a fasi alterne e senza
esclusione di colpi. I Goti ne uscirono annientati e l’Italia devastata. Lo storico bizantino Procopio,
in una pagina molto famosa, dà un quadro raccapricciante delle conseguenze di questa guerra, con
sequenze da film horror: città distrutte e spopolate, campagne dove nulla più cresce, popolazioni in
fuga sotto i morsi della fame, peste endemica, una carestia talmente feroce da spingere a episodi di
cannibalismo. Si muore di stenti cercando di cibarsi d’erba senza nemmeno avere la forza di
estrarla, cumuli di cadaveri insepolti talmente magri e rinsecchiti che perfino gli uccelli abituati a
cibarsi di carogne li rifiutano. «Il mondo - riporta un’altra fonte - sembrava tornato all’antico
silenzio… non c’era impronta di gente che passasse, non si vedeva nessuno a uccidere: eppure i
morti erano più di quanti l’occhio riuscisse a scorgere».
Se a un simile quadro aggiungiamo il fatto che, alla fine della guerra coi Goti, parte delle truppe
bizantine era stata trasferita ai confini orientali dell’impero minacciati dai Persiani, questo può
servire a spiegare almeno in parte le ragioni, ancora controverse, della conquista facile e
inarrestabile da parte dei Longobardi.
Cremona bizantina
Cremona, insieme a Mantova, fu tra pochissime città a nord del Po a non cadere sotto il loro
dominio.
Forse perché difesa dal fiume e circondata da ampie zone di terreno paludoso o forse perché meno
strategicamente importante delle città della fascia pedemontana come Verona, Brescia, Bergamo e
Milano.
Resta il fatto che, per più di 30 anni, Cremona divenne la testa di ponte più avanzata della presenza
bizantina nel cuore del regno longobardo.
Cosa sappiamo di Cremona in età bizantina? In realtà pochissimo o nulla. Nel silenzio delle fonti
storiche, possiamo procedere solo per supposizioni o per analogia con altre località meglio
conosciute o documentate.
Quello che è certo è che il perimetro della città dovette di molto restringersi rispetto all’età romana.
Il processo di abbandono dei centri urbani comincia nel IV secolo d.C. per accentuarsi in quelli
successivi.
Negli scrittori della tarda latinità c’è quasi un senso di sbigottimento davanti a questo fenomeno
della “fine delle città”, di quell’economia urbana che aveva rappresentato il cuore pulsante
dell’impero. È un intero mondo che cambia, una crisi di sistema. Di fronte al crollo economico e
demografico, all’abbandono dei terreni coltivati, al venir meno della sicurezza personale, cessa la
manutenzione degli edifici, delle strade, dei corsi d’acqua.
C’è un passo famoso di una lettera scritta dal vescovo di Milano, Ambrogio, intorno al 387 d.C.,
che parla delle città che costellano la via Emilia - Bologna, Modena, Reggio, Piacenza - come di
semirutarum urbium cadavera, cadaveri di città, mezze in rovina.
Difficile pensare che anche Cremona non abbia condiviso questa sorte. Infatti le testimonianze
archeologiche ci confermano, anche nel caso di Cremona, l’avvio di questo processo di abbandono
di aree periferiche della città a partire già dal IV/V secolo.
Possiamo anche immaginare – ma questa è solo un’ipotesi non suffragata da prove – che i bizantini,
sia pur restringendone il perimetro, avessero rafforzato le difese della città.
Il regno di Agilulfo. Cremona in mano ai Longobardi
Cremona rimase per oltre trent’anni nell’orbita di Ravenna e Costantinopoli, fino al 603 d.C.,
quando la situazione subì un cambiamento radicale. Sul trono dei Longobardi era salito nel 590,
sposando Teodolinda, la vedova del suo predecessore, Agilulfo.
Un sovrano ambizioso e determinato a perseguire da un lato il rafforzamento del potere regio a
scapito di quello dei duchi che in passato avevano fatto piombare il regno nel caos e nell’anarchia
feudale, dall’altro una politica di espansionismo territoriale a danno dei tradizionali antagonisti
bizantini.
Il regno di Agilulfo (590-616 d.C.) fu caratterizzato, soprattutto nella prima fase, da una situazione
di conflitto semipermanente. Testimone diretto di questo contrasto insanabile che divide il mondo
romano-bizantino da quella che lui stesso definisce la “nefandissima nazione dei Longobardi” è
papa Gregorio Magno.
«In questi interminabili trentacinque anni dalla loro invasione, i Longobardi ci hanno forse
risparmiato una strage? Ci hanno mai dato una tregua negli assalti?», si chiedeva Gregorio.
I Longobardi, tra scorrerie e saccheggi avanzano nella penisola, con le truppe bizantine asserragliate
in alcune fortezze, impotenti a fermarli.
Le parole pronunciate da Gregorio davanti ai fedeli durante un’omelia ci forniscono un quadro
drammatico, quasi disperato: «è rimasta gioia in questo mondo? Ovunque guerra e lamenti. Le città
sono devastate, le fortezze abbattute, i campi abbandonati… resi schiavi, feriti, uccisi: questa è la
sorte degli uomini. E allora, fratelli miei, ve lo torno a chiedere: c’è ancora forse gioia al mondo?
Pensate a Roma, guardate come è stata ridotta, vinta dai nemici, spopolata, sofferente…». Al di là
dei richiami biblici alla caducità delle cose terrene, le parole del papa rispecchiano una situazione
reale. Agilulfo era arrivato fin sotto le mura di Roma e Gregorio, senza aiuti da parte di Ravenna,
per evitare il peggio era dovuto venire a patti versando un pesante tributo in oro.
Nel 603, dopo qualche anno di tregua, le ostilità ripresero, stavolta al nord.
Per i fatti dobbiamo seguire il racconto dello storico longobardo Paolo Diacono, l’unica fonte
specifica sulle vicende di questo popolo.
Secondo Paolo Diacono la ripresa del conflitto fu causata dalla cattura e dall’imprigionamento della
figlia di Agilulfo e del marito di questa da parte dell’esarca di Ravenna.
Fosse o meno questo l’autentico casus belli, resta il fatto che quella messo in atto da Agilulfo ha
tutti i caratteri di una campagna militare accuratamente pianificata.
Innanzitutto il re longobardo si era garantito un’alleanza con il khan degli Avari, un popolo non
indoeuropeo proveniente dalle steppe dell’Asia centrale, che aveva costituito una sorta di regno
nella zona del medio Danubio e con cui i Longobardi avevano vissuto fianco a fianco prima della
discesa in massa in Italia. Forte di questa alleanza, l’esercito di Agilulfo, rafforzato da contingenti
di Avari e di Slavi, poté dar inizio alle operazioni militari che avevano un obiettivo piuttosto
preciso: eliminare la presenza bizantina a nord del Po e togliere il controllo della grande via di
comunicazione rappresentata dall’asta del grande fiume.
Prima venne presa Padova e, a proposito di Padova, Paolo Diacono narra un episodio di fair play
davvero insolito per quei tempi: prima di dare alle fiamme la città, i longobardi permisero alle
truppe bizantine di uscire indisturbate e riparare a Ravenna. Poi toccò a Monselice.
Nel luglio del 603 un esercito di Longobardi e Slavi mosse da Milano verso Cremona che, dopo
alcune settimane di assedio, cadde il 21 di agosto.
Il 13 settembre cadde Mantova (e anche in questo caso le milizie bizantine ne uscirono senza
danni), mentre Brescello fu data alle fiamme dai bizantini in fuga.
La guerra era conclusa, la figlia di Agilulfo fu restituita al padre per morire subito dopo di parto.
Quanto a Cremona, Paolo Diacono aggiunge che Agilulfo “ad solum usque destruxit”, cioè la rase
al suolo.
Si tratta, più che altro, di amplificazione retorica, come la ricerca archeologica anche più recente
sembra confermare.
Dal resto non dobbiamo immaginarci la Cremona conquistata dai Longobardi come un centro ricco
e popoloso. La città, come gran parte di quelle circostanti, doveva essere ridotta a una sparuta
immagine di quel che era stata. Un’immagine segnata dall’abbandono degli edifici, dal degrado
delle infrastrutture, da una crisi aggravata, tra il VI e il VII secolo, da una serie di calamità naturali -
alluvioni e carestie - e dal fatto di trovarsi su una linea di confine tra le più esposte nel conflitto
endemico tra Longobardi e Bizantini.
Quello che possiamo dare per certo, anche in mancanza di sicure evidenze, è che Cremona fu
sottoposta, come di prassi una volta conquistata, a un sistematico saccheggio. Non solo di quanto
poteva restare dei beni privati - oro, merci, vettovaglie - ma anche con la spoliazione degli edifici da
tutto quanto poteva venir riutilizzato, soprattutto metallo da fondere per ricavarne armi o monete. Al
di là di questa devastazione, la presa della città fu gravida di ben più pesanti conseguenze, destinate
a durare nel lungo termine.
La perdita del territorio
Seguendo una logica di conquista non inconsueta, le mura della città quasi certamente vennero
almeno in parte demolite, per impedire che i Bizantini potessero facilmente riprenderne possesso.
Non solo: Cremona fu annientata anche dal punto di vista amministrativo o, per così dire, di status.
In coerenza con la politica di Agilulfo di rafforzamento del potere centrale, la città non divenne
sede di un ducato, ma entrò a far parte del demanio regio e il suo territorio venne smembrato.
Questa spartizione del territorio la possiamo ricostruire con buona approssimazione ma solo in
modo deduttivo da fonti più tarde, del IX e X secolo.
Senza entrare troppo nei dettagli, parte delle terre fu assegnata ai potenti ducati di Brescia e
Bergamo, che probabilmente già le occupavano, il resto divenne proprietà della corona che
organizzò i nuovi possedimenti attraverso un sistema di corti regie, cioè in pratica di enormi
latifondi.
Di queste corti regie, la più importante fu quella di Sospiro. Situata a sei miglia romane a est della
città (Sospiro da Sex pilae, sei pietre miliari), lungo la via per Brescello in corrispondenza di una
stazione di sosta o di una villa rustica. È da notare infatti che i Longobardi, in modo opportunistico,
tendevano a insediarsi in luoghi dove esistevano strutture o edifici sopravvissuti alle devastazioni e
all’abbandono e ancora fruibili.
Sempre a Sospiro fu insediato un gastaldo o un funzionario regio cui era affidata l’amministrazione
dei possedimenti fondiari e forse anche della città.
L’importanza della corte di Sospiro, insieme a qualche sua forma di controllo sulla città,
sopravvissero a lungo nei secoli successivi alla caduta del regno longobardo, come attestano in età
carolingia diversi soggiorni di re (alcuni documenti sembrerebbero perfino adombrare l’esistenza di
un palazzo regio) e, più ancora, le infinite controversie tra i funzionari regi di Sospiro e i Vescovi di
Cremona in materia di reciproca rivendicazione di diritti feudali e fiscali.
Il cono d’ombra
Anche se non abbiamo testimonianze precise in proposito, è del tutto plausibile che i Longobardi,
dopo la conquista di Cremona, lasciassero un presidio a controllo e difesa della città.
Questo, con ogni probabilità, venne insediato fuori dal perimetro urbano, nella zona di San Michele.
Se ci facciamo caso quest’area ancora oggi, insieme a quella del Duomo, è tra quelle più elevate
della città e offriva il vantaggio di controllare la via Postumia, che correva lungo l’attuale via
Girolamo da Cremona, e la vicina via per Brescia, e di poter essere attrezzata a difesa del versante
settentrionale, da sempre il più debole e più facilmente attaccabile.
Non a caso anche le mura medievali videro sorgere qui una rocca di notevoli dimensioni che rimase
in piedi fino al 1521, quando le mura a cortina venero rimpiazzate da bastioni.
La presenza di un nucleo longobardo spiegherebbe anche quella di un edificio di culto dedicato a
San Michele, l’arcangelo guerriero protettore della nazione longobarda, che sorse sul luogo della
chiesa attuale o nelle immediate vicinanze e la cui fondazione la leggenda attribuì poi, come molte
altre chiese in Lombardia, alla pia regina Teodolinda.
Dopo la conquista longobarda Cremona entra in una specie di cono d’ombra. Una sorta di assenza
dalla storia, anche quella minore delle carte o dei documenti privati.
Un vuoto che solo in parte potrebbe essere attribuito alla scomparsa degli archivi, se pensiamo che
lo stesso vuoto investe anche la Chiesa, di solito custode molto attenta delle proprie memorie e
tradizioni.
Nel caso di Cremona la sequenza dei vescovi in questo periodo presenta buchi vistosi. Dobbiamo
aspettare il 680 d.C. per veder nominato il Vescovo Desiderio di Cremona tra i partecipanti a un
sinodo a Roma. Poi una nuova lunga interruzione fino ai tempi di Carlo Magno. Sottoposta a un
dominio essenzialmente politico e militare, privata del proprio territorio di riferimento e di qualsiasi
funzione amministrativa, Cremona sembra perdere il suo stesso ruolo secolare di città.
A differenza della vicina Brescia, fortemente permeata dalla presenza longobarda, Cremona -
circondata com’è di terre di proprietà della corona - non può fungere da centro di attrazione o di
residenza di un’élite di grandi o medi proprietari terrieri, con le conseguenti attività artigianali e
commerciali che la presenza di un ceto abbiente avrebbe comportato.
Quella cremonese dovette ridursi a un’economia di pura sussistenza, basata sulla coltivazione di
poche terre negli immediati dintorni della città e sul commercio minuto. Comincia così a prendere
corpo quell’immagine di desolazione, di silenzio, destinata a imprimersi nella memoria collettiva ed
evocata in modo suggestivo nel racconto di Jacopo d’Acqui.
La città altomedievale
L’estensione di Cremona si era molto ridotta rispetto all’età romana ed era più o meno quella di un
borgo. Anche in mancanza di conferme archeologiche possiamo farcene ugualmente un’idea
abbastanza attendibile.
Una serie piuttosto nutrita di documenti e di atti che arriva dal Medioevo fino alla prima metà del
1400 nomina la cosiddetta Cittadella, una zona molto circoscritta intorno al Duomo.
Grosso modo un quadrato che, partendo dall’attuale largo Boccaccino dove nell’alto medioevo
esisteva una porta, proseguiva per via Porta Marzia, poi girava per via Pertusio. Superata via
Solferino, costeggiava il lato nord di piazza Stradivari fino a raggiungere via Patecchio, dove
svoltava di nuovo tagliando via Sicardo per ricongiungersi al punto di partenza seguendo via
Platina.
In questa zona sopravvivevano, ancora nel ’400, tratti di mura e una grossa torre di difesa a ridosso
dell’abside del Duomo e due porte, una in via Sicardo e l’altra in fondo a via Solferino, che furono
abbattute solo tra il 1517 e il 1520.
Se ci facciamo caso, questa è ancora oggi la parte più elevata della città e corrisponde a quello che
doveva essere il perimetro molto circoscritto della città longobarda e altomedievale.
Tanto per fare due esempi, è ancora evidente il dislivello tra via Patecchio e via Beltrami e, più
ancora, tra via Porta Marzia e la sottostante via Mercatello in corrispondenza di quella che doveva
essere la scarpata delle mura.
Mura che, anche se non esistono certezze, furono ripristinate o ricostruite già in epoca longobarda,
forse di fronte all’accentuarsi della minaccia proveniente dai Franchi.
Ma qual era la fisionomia di questa città ridotta ai suoi minimi termini?
Innanzitutto va chiarito che, al di là di Cremona, quasi tutte le città di quello che era l’occidente
romano subiscono pressoché ovunque - sia pure con tempi e modalità differenti - tra il V e l’VIII
secolo un collasso o, se si preferisce, uno sconvolgimento dell’assetto urbano preesistente.
Sono pochissime le realtà in cui permane, per così dire, una sorta di continuità abitativa: per citare
qualche caso a noi vicino, Verona, Pavia e, solo in parte, Brescia.
Anche in casi come quello di Cremona, in cui il disegno originale del reticolato romano è almeno in
parte conservato, le strade subiscono un processo di abbandono. Talvolta spogliate dei masselli in
pietra riutilizzati altrove, magari ostruite dal crollo degli edifici o invase da quelle che oggi
chiameremmo costruzioni precarie o abusive, vengono sostituite da tracciati in terra battuta allineati
in modo imperfetto a quello originale e il cui livello viene costantemente rialzato.
Un esempio di questo fenomeno, qui a Cremona, è quello di via Solferino, dove il tratto in luce di
lastricato romano corre più o meno parallelo alla via parecchi metri sotto il livello attuale.
Anche l’edilizia privata subì un mutamento radicale.
Fin quando possibile, le antiche domus ancora in piedi venivano rabberciate e riutilizzate: frazionate
in ambienti più piccoli, divise da tramezzi per lo più di legno, diventando contemporaneamente
abitazione, poveri laboratori artigianali, stalle e, talvolta, anche luogo di sepoltura.
Col progressivo degrado delle strutture anche la tipologia costruttiva diventa sempre più essenziale.
È tutt’altro che infrequente il ritrovamento, direttamente su pavimenti a mosaico o su rialzi del
piano di calpestio delle domus romane, di buchi di palo, che altro non erano se non il sostegno di
casupole, poco più che capanne, costruite con materiali poveri: legno, che abbondava visto
l’inselvatichimento delle campagne, argilla, laterizi di recupero, paglia per i tetti.
Si trattava di abitazioni fatte spesso di un unico ambiente, con un focolare al centro e il fumo che
usciva da un buco nel soffitto. Il fatto che ancora intorno al X secolo si annotasse puntigliosamente,
in diversi documenti, che la residenza del Vescovo di Cremona - il personaggio più ricco e più
importante della città - fosse solerata, cioè con un primo piano a copertura in tegole, dotata di una
caminata dormitoria, cioè di una camera da letto riscaldata da un camino, e di una laubia, cioè una
loggia o un portico - quasi certamente in legno - sotto il quale, secondo la tradizione, si
amministrava la giustizia, tutti questi dettagli danno, per contrasto, l’idea di quale fosse il livello
medio della qualità edilizia.
L’antico perimetro urbano si riempie di vuoti sempre più vistosi che, col tempo, si trasformano in
orti e terreni coltivati.
Per alcuni secoli, in Italia e a Roma in primis, non c’è quasi bisogno di produrre nuovi materiali per
l’edilizia. A dominare è il riciclo: i laterizi vengono riutilizzati, il marmo e la pietra - tanto più nelle
città padane, come Cremona, dove scarseggiano - cotti per farne calce.
Ad esempio, proprio a Cremona e ancora fin dopo il 1000, nei contratti di compravendita dei terreni
quelli cum predis, cioè in cui sono presenti materiali da recupero, sono valutati a un prezzo
superiore.
A Cremona, come altrove, nel costruire si ricicla: dai mattoni romani che troviamo nelle cortine
murarie del duomo alle lastre in pietra usate come rivestimento, alle colonne come quelle della
cripta di San Michele, ai marmi trasformati in sculture, come le statue romaniche dei cosiddetti
Berta e Baldesio, oggi conservate in Battistero, che sono in marmo proconnesio.
Sempre in epoca longobarda prende definitivamente piede l’uso di seppellire i morti all’interno
delle città. In età romana, per motivi igienici, le tombe erano rigorosamente collocate al di fuori
delle mura, per lo più lungo le vie d’accesso. La credenza cristiana nella resurrezione al momento
del giudizio universale trasformò il modo di rapportarsi ai propri defunti fino a determinare una
nuova concezione delle necropoli e una loro diversa localizzazione in rapporto allo spazio urbano.
Le chiese divennero i nuovi poli attrattivi delle sepolture, i luoghi in cui i morti venivano
commemorati e avrebbero atteso, vicini a Dio, il giorno della resurrezione.
Ma in questo periodo fanno il loro ingresso nelle città, ormai fortemente ruralizzate, anche gli
animali da allevamento e da pascolo.
Le case spesso erano vicine a stalle e fienili (e si può facilmente immaginare quanto fosse alto il
rischio di incendi) ed erano frequenti, all’interno dell’abitato, spazi erbosi destinati al pascolo degli
animali.
Nel vecchio dialetto milanese certe piazzette si chiamavano pasquee, appunto da pasculum. Sempre
a Milano, vicino a San Babila e corso Europa, la chiesetta di San Vito al Pasquirolo, oggi circondata
e quasi nascosta da brutti edifici degli anni ’60, ricorda il piccolo pascolo da cui aveva preso nome
la zona.
Mentre quella romana era stata una società estremamente mobile, basata com’era sulla facilità di
circolazione di uomini e merci attraverso un sistema di comunicazioni sicuro ed efficiente, quella
del periodo longobardo e dell’alto medioevo in genere è una società molto più chiusa, afflitta come
da un senso di insicurezza e di precarietà, circondata da un ambiente minaccioso e da una natura
incontrollata e ostile. Il commercio si contrae e si riduce a una dimensione soprattutto locale, circola
pochissima moneta, i traffici ove possibile previlegiano le via d’acqua rispetto a quelle di terra
molto più insicure.
Eppure è proprio in un documento di tipo commerciale che, a oltre un secolo di distanza dalla
conquista della città, vediamo ricomparire il nome di Cremona.
La vita scorre sul fiume
Il documento, redatto probabilmente nel 715 d.C., è una sorta di trattato commerciale tra il re
longobardo Liutprando e i milites di Comacchio, allora sotto il controllo bizantino, in cui vengono
minuziosamente regolati i tributi e gli altri dazi che i comacchiesi dovevano versare per esercitare,
navigando il Po nelle terre soggette ai longobardi, il commercio del sale del litorale adriatico che
toccava, insieme con altri, il porto di Cremona.
In particolare doveva essere versata una decima, cioè una percentuale sul carico trasportato. Anche
la palifictura, cioè l’ormeggio dei barconi a dei pali, era sottoposta a una tassa, infine - particolare
curioso - un pastum doveva essere offerto ai due riparii, che erano gli addetti alla riscossione dei
dazi.
Ha suscitato qualche discussione erudita il fatto che il documento parli di milites anziché di
commercianti, ma una risposta può essere trovata semplicemente usando la logica. Per l’economia
di quei tempi, caratterizzati da carestie e penuria alimentare endemica, il sale era un elemento
fondamentale per la conservazione dei cibi. Il sale era l’oro bianco: un carico di sale valeva una
fortuna: logico che richiedesse una scorta armata, quello che oggi si definirebbe un portavalori.
Il Po, a quei tempi, era molto più ampio e meno profondo che non ai giorni nostri, affiancato da
boschi e paludi e facilmente navigabile anche controcorrente.
Era la più importante arteria di traffico dell’Italia settentrionale.
Una funzione che si sarebbe accentuata nei secoli successivi, quando Venezia, potenza in
espansione, prese il posto di Comacchio. Oltre al sale, i mercanti di Comacchio trasportavano olio,
garum (una salsa di pesce) e pepe. È poco plausibile che le loro imbarcazioni tornassero a carico
vuoto e possiamo immaginare che imbarcassero altri prodotti, ad esempio vino, cereali e lana.
Il documento di Liutprando non ci lascia capire se siamo di fronte a un fenomeno di espansione su
vasta scala dei traffici commerciali o se la dimensione è ancora ristretta e locale.
In questa fase comunque i cremonesi sembrano esclusi da qualsiasi ruolo attivo nella gestione delle
rotte commerciali e della navigazione, i cui proventi sono di esclusivo appannaggio della corona.
È anche vero però che qualsiasi forma di ripresa della vitalità del ciclo economico non poteva che
avere un impatto positivo sulle città, come Cremona, collocate lungo l’asta del fiume che
diventavano luogo di transito e di scambio delle merci.
In effetti due documenti che risalgono all’ultimo periodo del regno longobardo e che accennano
solo indirettamente a Cremona, sembrerebbero lasciar intravedere che la città era in qualche modo
uscita dalla marginalità in cui era piombata, anche se si tratta di prove molto esili.
Il primo, del 767, è una donazione da parte del re Desiderio al monastero bresciano di San
Salvatore, il cui atto viene steso in civitate Cremonese.
Nel secondo documento, del 772, senza entrare nei dettagli, l’Adelchi di manzoniana memoria,
figlio di Desiderio e da lui associato al trono, parlando di una chiesa situata vicino a Piadena la
definisce situata in territorio civitates nostrae cremonesis.
Si potrebbe dedurre – anche se si tratta comunque di una interpretazione – che a quel tempo
Cremona aveva per così dire recuperato un ambito territoriale e lo status di città, sia pur sempre
sottoposta al controllo regio.
Ma davvero ormai vicini all’epilogo e due anni dopo tutto è finito. Nel 773 Carlo Magno, chiamato
dal Papa ma anche e soprattutto seguendo una sua politica di potenza, entra in Italia con l’esercito
dei Franchi, nel 774 viene conquistata la capitale, Pavia.
Dopo la caduta del regno. Vescovi, milites e commercianti
A poco più di duecento anni dal loro ingresso in Italia, crolla il regno dei Longobardi.
Una caduta repentina, rovinosa e violenta così come lo era stata la loro conquista. Una caduta
vissuta come vergognosa e umiliante dagli stessi Longobardi, tanto è vero che la loro Storia, scritta
da Paolo Diacono proprio durante il regno di Carlo Magno, suona come una sorta di risarcimento
postumo alla passata gloria di questo popolo.
Desiderio, l’ultimo re, fu relegato in un monastero in Francia. Adelchi invece, per uno degli strani
scherzi della storia, finì i suoi giorni a Costantinopoli, nelle braccia di quelli che erano stati i nemici
secolari e ora alleati contro la nuova potenza emergente dei Franchi.
Con Carlo Magno e con i re franchi cambia, gradualmente, la prassi amministrativa del regno e
Cremona si trova, paradossalmente, favorita dal fatto di non essere stata sede di un ducato.
Sia pur semplificando al massimo una realtà molto più sfaccettata e complessa, Carlo Magno e i
suoi successori, anziché quello di famiglie feudali di duchi o conti, tendono a favorire il potere dei
vescovi. Vescovi che spesso sono i figli cadetti di famiglie nobili o provengono dai ranghi dell’alta
burocrazia ecclesiastica al servizio della corte e la cui nomina o è sottoposta al benestare regio o ne
è la diretta emanazione.
Così non sorprende, anche se ne abbiamo attestazione solo da fonti indirette, che Carlo Magno
riconfermasse al Vescovo di Cremona non solo, come d’uso, il possesso sui beni della chiesa, ma vi
aggiungesse alcune proprietà fondiarie situate oltre il Po e soprattutto importanti diritti commerciali
sul fiume.
Comincia qui, da parte dei vescovi di Cremona, una tenace e ambiziosa politica di sviluppo e
rafforzamento del proprio potere temporale.
Avvantaggiati dalla mancanza di un’autorità pubblica civile in grado di contrastarli, i vescovi di
Cremona in poco più di un secolo e mezzo furono in grado sia di diventare titolari delle ricche
rendite provenienti dai dazi sulla navigazione fluviale sia di ottenere la giurisdizione sulla città e i
suoi immediati dintorni e poi, attraverso un sistema di acquisizioni, permute e donazioni, su un
territorio sempre più esteso, fino a collocarsi tra i più importanti signori feudali dell’Italia padana, a
cavallo tra Lombardia ed Emilia.
A fianco del Vescovo si forma nel tempo una rete di vassalli, milites e funzionari, a lui legati
attraverso un sistema di privilegi feudali e concessioni fondiarie. Con l’ingresso nella gestione
diretta della navigazione sul Po e dei grandi traffici fluviali si crea precocemente a Cremona anche
un potente ceto mercantile.
Saranno proprio queste diverse classi sociali, sempre più consapevoli della loro forza economica e
politica, a rivendicare ben presto forme di autonomia anche a costo di duri contrasti con l’autorità
del Vescovo e a portare a Cremona, prima che altrove, all’affermazione del Comune cittadino. Ma
questa è giù un’altra storia.
Per tornare a noi, cosa resta a Cremona dei quasi duecento anni passati sotto il segno dei
Longobardi?
Certo non proprio il desolato deserto evocato dal cronista, ma comunque poche tracce e molto
labili. Anche dal punto di vista artistico nulla sopravvive. I capitelli della cripta di San Michele, che
erano convenzionalmente attribuiti alla prima chiesa longobarda, ora dagli studiosi sono per lo più
assegnati a un’epoca più tarda.
Una volta passata sotto il loro controllo militare e politico, i Longobardi non fecero mai di Cremona
- a differenza di Pavia, Brescia o Verona - un fulcro del loro potere o di una presenza che andasse al
di là del possesso delle terre e delle rendite fondiarie.
Quello di Cremona in età longobarda fu dunque un destino del tutto marginale, ancor più di quello
di città come Milano o Piacenza, pure declassate a un ruolo minore.
Cremona seppe però trovare la forza per uscirne e per invertire la rotta fino al riprendere un ruolo di
primo piano tra le città dell’area padana.
Sembra quasi di poter dire che, come fu la felice posizione sul Po a determinarne la nascita, così fu
ancora il grande fiume a produrne la rinascita.
Quel grande fiume di cui, purtroppo, oggi Cremona sembra essersi un po’ dimenticata.
Bibliografia essenziale
AA.VV., 2003. Storia di Cremona. L’età antica. Bolis edizioni, Bergamo.
AA.VV., 2004. Storia di Cremona. Dall’alto medioevo all’età comunale. Bolis edizioni, Bergamo.
AA.VV., 2000. Il futuro dei Longobardi. Skira, Milano
Astegiano Lorenzo, edizione anastatica. Codex diplomaticus Cremonae. Arnaldo Forni, Bologna.
Cavalcabò Agostino, 1933. Le vicende dei nomi delle contrade di Cremona. Unione Tipografica
Cremonese, Cremona.
Paolo Diacono, 1990. Storia dei Longobardi. Edizione Studio Tesi, Pordenone.
Fumagalli Vito, 1992. Storie di Val Padana. Camunia, Milano.
Fumagalli Vito, 1994. Paesaggi della paura. Il Mulino, Bologna.
Morandi Mariella, 1991. Cremona e le sue mura. Turris, Cremona.
Procopio di Cesarea, 2007. La guerra gotica. Garzanti, Milano
Jarnut Jőrg, 2002. I Longobardi. Einaudi, Torino.
RITROVAMENTI DI ETÀ LONGOBARDA NEL TERRITORIO DELLA
PROVINCIA DI CREMONA
Marina Volonté Sistema Museale di Cremona - Museo Archeologico
“Purtroppo, a differenza di quanto accade in altri casi lombardi, non è possibile integrare, anche
solo parzialmente, le poche informazioni tratte dalle fonti scritte, relative alla città durante il
periodo longobardo, con il quadro storico ricavabile da scoperte archeologiche…”.
La considerazione del grande storico medievista Jörg Jarnut, nell’introduzione al suo saggio
pubblicato nel volume sull’Alto Medioevo della “Storia di Cremona”, a dieci anni di distanza resta
ancora pienamente valida, almeno per quanto riguarda la città.
Ai pochi documenti scritti superstiti e alla notizia di Paolo Diacono relativa alla conquista di
Cremona da parte del longobardo Agilulfo, avvenuta nel 603 e segnata, secondo la fonte, dalla quasi
totale distruzione della città (ad solum usque), gli importanti scavi archeologici condotti nell’ultimo
decennio sotto la direzione di Lynn Arslan Pitcher hanno potuto aggiungere infatti soltanto poche
nuove informazioni.
La fase altomedievale dello scavo di piazza Marconi, scavo che ha d’altro canto restituito
un’eccezionale quantità di materiali e di informazioni per le epoche precedenti, è particolarmente
scarsa di testimonianze, a causa della distruzione degli strati relativi causata dall’edificazione del
monastero di Sant’Angelo - dapprima intitolato ai santi Cosma e Damiano - la cui più antica
documentazione risale al periodo tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo.
In alcune aree dello scavo è stato riconosciuto un particolare strato di terreno, definito “dark earth”
in ambito archeologico, formatosi sia per l’accumulo di resti organici, sia per l’utilizzo della zona
per le attività agricole, che è stato possibile collocare proprio nel VII secolo.
Successivamente, l’area del quartiere residenziale romano fu occupata da edifici di culto cristiano
con i relativi nuclei cimiteriali; tra questi, la chiesa di San Giorgio, ubicata nella parte
nordoccidentale dell’attuale piazza, si ritiene possa risalire già al periodo tra VII e VIII secolo. Una
parte delle tombe scavate nell’area ad essa circostante - ad inumazione, generalmente orientate con
il capo del defunto a est - si colloca nella fase altomedievale; alcune sepolture poggiavano
direttamente su un pavimento a mosaico pertinente a una domus di età romana imperiale. La
generale assenza di oggetti di corredo, rappresentati soltanto da quattro monete romane, un
orecchino di forma circolare, una fusaiola in pietra ollare e un pendaglio brozeo a forma di testa
umana, non concorre a precisare il dato cronologico, né, tanto meno, l’appartenenza etnica dei
defunti.
Questa povertà di documentazione, che possiamo con buone ragioni riferire in modo particolare
all’asportazione dell’orizzonte stratigrafico medievale, meno profondo di quello romano, accentua
una situazione già evidente per i due secoli precedenti la conquista longobarda.
Allargando lo sguardo al territorio dell’attuale provincia di Cremona, le testimonianze
archeologiche per i secoli che ci interessano assumono connotati in parte differenti.
Se, da un lato, i rinvenimenti pertinenti a contesti abitativi restano scarsissimi, e rappresentati nel
territorio solamente dai resti di un villaggio in località Castello al Vhò di Piadena e da tracce di
capanne in materiale deperibile nell’area della villa tardo antica di Palazzo Pignano, esiste una
buona documentazione di ambito funerario, attribuibile specificamente all’ambito longobardo,
incrementata anche da recenti importanti scoperte.
Tale documentazione si concentra nell’area cremasca, pertinente in antico al territorio di Bergamo,
in particolare lungo il corso del Serio.
Si tratta quasi sempre di sepolture maschili, ben riconoscibili grazie alla presenza di oggetti
appartenenti al corredo tipico del guerriero longobardo, la spada, lo scramasax (una sorta di
sciabola), la cuspide di lancia, il coltello e le parti non deperibili, umbone e borchie, dello scudo.
Tombe femminili erano segnalate nella necropoli di Sergnano, grazie alla presenza di una collana
con elementi in smalto e vetro di diversi colori e di un orecchino d’argento; purtroppo questi
materiali, frutto di ritrovamenti dell’inizio del secolo scorso, sono andati dispersi.
Da Santa Maria del Marzale di Ripalta Vecchia proviene un altro oggetto di ornamento femminile,
un bracciale in bronzo claviforme con estremità ingrossate, considerato però di tradizione non
longobarda ma “indigena”.
Scavi recenti hanno invece portato alla luce almeno tre corredi femminili nella necropoli di via
Dante a Offanengo. Le tombe scavate, in tutto cinque, probabilmente parte di una più ampia area di
necropoli, hanno restituito braccialetti in bronzo, coltellini, elementi di cintura, aghi crinali in
bronzo e pettini in osso, ma, soprattutto, nella tomba 5, una collana composta da vaghi di vetro e
pasta vitrea con dodici monete romane forate datate tra il III sec. e la fine del IV sec. d.C.
Proprio nell’area di Offanengo si concentrano i ritrovamenti più consistenti di necropoli
longobarde: oltre a quella sopra citata, le sepolture sono documentate in località San Lorenzo,
Dossello San Giovanni, Pieve Santa Maria, Boccaleri e Le Pécule.
Le tre tombe di San Lorenzo, scoperte nel 1963, erano allineate (facendo supporre
un’organizzazione simile a quella di necropoli integralmente scavate, come quella, per fare un
esempio, rinvenuta lungo la strada Mussolina a Sacca di Goito, nel Mantovano). Di esse la meglio
conservata (tomba 3) aveva il fondo costituito da mattoni romani bipedali e sesquipedali. I corredi
contenevano gli elementi standard (spatha, scramasax, cuspide di lancia, scudo), ma anche elementi
di cinture multiple reggispada o di cinture per trattenere le vesti, speroni, cesoie e un pettine in osso,
crocette d’oro (tombe 1 e 3). La preziosità dei corredi, e di conseguenza l’alto rango dei defunti, si
mostra soprattutto nella decorazione ad agemina di alcuni oggetti, come le cinture multiple, gli
speroni e i foderi delle spade, e nella presenza di tessuti in broccato con fili d’oro (tomba 2) e delle
croci in oro. Queste ultime, decorate a sbalzo, dovevano essere cucite al velo funebre.
Molto interessante è anche la presenza di una zanna di cinghiale e di frammenti di vetro, fusi, di età
romana, tra cui un balsamario (entrambi nella tomba 2), sicuramente da riconoscere come elementi
magico-simbolici. Un balsamario romano in vetro fuso, è stato trovato anche nella tomba 3 della
necropoli di via Dante, a dimostrazione della diffusione di tale usanza.
Ai primi anni ’80 del Novecento risale l’indagine dell’area del Dossello San Giovanni. Si tratta di
un complesso costituito da una piccola aula monoabsidata e da un’area di necropoli con almeno 35
sepolture, tra cui un con corredo longobardo.
Quest’ultima si distingue dalle altre per la struttura, realizzata con fondo in mattoni romani e pareti
in blocchi di granito, mentre le altre erano in nuda terra, oppure in cassa di laterizi, a volte con
copertura “alla cappuccina” (a doppio spiovente di tegole).
Nella tomba longobarda sono stati rinvenuti una linguetta di cintura multipla in argento, resti dello
scudo (otto borchie in bronzo dorato e l’imbracciatura dello scudo) e crocette.
Sempre a Offanengo, intorno alla pieve di Santa Maria, datata tra VII e VIII secolo, sono state
rinvenute 19 tombe disposte in file parallele, di cui due soltanto con corredo; gli oggetti sono
decisamente poveri: un anello in bronzo e un balsamario in vetro databile tra il VII e l’VIII sec. d.C.
Singole tombe, con oggetti di armamento, sono state trovate nelle altre località citate del territorio
di Offanengo; inoltre, da Dovera provengono una spada ed elementi di scudo, mentre elementi di
cintura decorati ad agemina sono attestati a Camisano e da ritrovamenti sporadici in comune di
Soncino; da Ricengo proviene un pettine in osso. In una tomba di Sergnano è documentata la
presenza di un oggetto particolare, forse interpretabile come un porta stendardo, rinvenuto tra le
gambe del defunto.
Tra i materiali di Castel Gabbiano, si segnala anche la presenza di recipienti ceramici decorati a
stampiglie disposte su file parallele nella parte superiore del vaso; tale tecnica decorativa, insieme al
trattamento “a stralucido” della superficie, caratterizza la ceramica di produzione longobarda,
realizzata in piccole officine con smercio in ambito locale.
Sempre da Castel Gabbiano proviene una moneta in bronzo di Marco Aurelio, forata, usata come
pendente, allo stesso modo di quella, di Vespasiano, trovata a Sergnano.
Assolutamente eccezionale è, infine, l’anello sigillo d’oro da Palazzo Pignano, ora disperso e noto
grazie alla fotografia del calco, con un “ritratto” con l’iscrizione ARICHIS.
Gli studiosi non sono concordi nell’interpretazione del significato dell’oggetto, se cioè Arichis sia il
nome del sovrano, che lo donò a un funzionario con poteri delegati, oppure dello stesso possessore,
un vir illustris la cui autorappresentazione fa riferimento al modello regale.
Comunque sia, l’anello documenta la presenza di un personaggio di alta levatura in questa parte del
territorio.
Si è già fatto cenno alla tipologia delle deposizioni, generalmente orientate in senso est-ovest, in
cassa o in nuda terra; il defunto è generalmente deposto in posizione supina, tranne, tra quelli noti,
nel caso della tomba di Ricengo, in cui lo scheletro è stato rinvenuto adagiato su un fianco.
Manca quella diversificazione riconosciuta invece per l’area bresciana, nella quale, in particolare
nella necropoli di Leno, sono note tombe con coperture in assi di legno o addirittura vere e proprie
costruzioni lignee costruite fuori terra sopra le fosse tombali (le cosiddette “case della morte”
tipiche dell’area pannonica).
Diverse altre sepolture databili all’epoca altomedievale, in mancanza di elementi di corredo e
collocabili cronologicamente soltanto sulla base di considerazioni di ordine stratigrafico, sono
verosimilmente da attribuire a individui non longobardi.
Tra queste, almeno una parte di quelle scavate, in momenti diversi, nell’area della villa tardo antica
di Palazzo Pignano, e quella rinvenuta nel piccolo edificio di culto dell’VIII secolo all’interno della
chiesa di Santa Maria alla Senigola di Pescarolo.
Quest’ultima, alla cappuccina con muretti perimetrali in frammenti laterizi, di forma antropoide con
nicchia poggiatesta, conteneva uno scheletro deposto in posizione supina, con il cranio staccato e
collocato all’altezza del bacino: si tratta di un elemento rituale già noto anche in Italia
settentrionale, legato sicuramente al ruolo preminente rivestito in vita dal defunto, nel nostro caso
confermato dalla sua sepoltura all’interno della chiesa.
Quanto abbiamo cercato di comporre in un quadro complessivo non è certo sufficiente a colmare la
grave lacuna delle fonti scritte lamentata da Jarnut, cui si è fatto cenno all’inizio di questo
contributo.
Lo stesso studioso, nella medesima sede, considera probabile “che nel 603 il municipium che si
estendeva tra il Po, l’Oglio, l’Adda e il Serio vecchio in parte [sia stato] spartito tra i ducati di
Bergamo e Brescia, in parte [sia stato] sottoposto direttamente al re”. L’appartenenza della parte
orientale dell’attuale provincia di Cremona è testimoniata da un documento del 772, che menziona
la chiesa di Santa Maria fondata a Vho (di Piadena), che il re Adelchi sottopose al monastero di San
Salvatore di Brescia.
L’aspetto che rimane maggiormente oscuro, nonostante qualche labile indizio, è la trasformazione
della società, il destino dei possidenti romani dopo la conquista (resi schiavi? o, più probabilmente,
divenuti tributari del re longobardo?) e quello degli abitanti delle stesse campagne e della città,
privata -come appare probabile- dell’autonomia amministrativa.
Bibliografia
AA.VV., 2012. Archeologia nella Lombardia orientale. I musei della rete MA_net e il loro
territorio. All’insegna del Giglio, Firenze.
Casirani M., 2003. Insediamenti e beni fiscali nell’altomedioevo nell’Insula Fulcheria. In Lusuardi
Siena S. (a cura), Fonti archeologiche e iconografiche per la storia degli insediamenti
nell’Altomedioevo. Vita e pensiero, Milano: 273-297.
Casirani M. (a cura), 2013. I Longobardi a Offanengo. Vecchi rinvenimenti e nuove scoperte.
Milano.
Jarnut J., 2004. Cremona nell’età longobarda. In G. Andenna (a cura), Storia di Cremona, L’Alto
Medioevo. Bolis ed., Azzano San Paolo (Bg): 2-25.
Passi Pitcher L. (a cura), 1990. Riti e sepolture tra Adda e Oglio dalla tarda età del Ferro all’Alto
Medioevo. Soncino 1990.
Passi Pitcher L., 2004. Le evidenze archeologiche altomedioevali. In G. Andenna (a cura), Storia di
Cremona, L’Alto Medioevo. Bolis ed., Azzano San Paolo (Bg): 26-35.
Passi Pitcher L., 2004. Tracce di un villaggio altomedioevale: Piadena, località Castello. Ibidem:
36-37.
Passi Pitcher L., 2004. La documentazione archeologica. Ibidem: 447-455.
Passi Pitcher L., Volonté M. (a cura), 2008. Piazza Marconi: un libro aperto. La storia, l’arte, il
futuro. Cremona.
INDIZI TOPONOMASTICI DI PRESENZE LONGOBARDE NEL
TERRITORIO DELL’ATTUALE PROVINCIA DI CREMONA
Valerio Ferrari Ecomuseo della Provincia di Cremona
Introduzione
Fu Narsete, generale dell’Impero d’Oriente, secondo Paolo Diacono1, che, sdegnato per la sua
sostituzione, da parte dell’imperatore Giustino II, nel governo dell’Italia con il prefetto Longino ed
ulteriormente offeso dalle parole dell’imperatrice Sofia, rifugiatosi a Napoli inviò ambasciatori
presso i Longobardi invitandoli ad abbandonare la Pannonia per muovere alla conquista dell’Italia.
Di tale diffusa tradizione ci rimane una vivace ripresa di ambito locale per mano di Antonio Campi
che, nel suo racconto storico relativo a Cremona, così descriveva le trame messe in atto dal generale
bizantino dalla città campana:
Qui fatto un cesto di frutti delicatissimi, de’ quali quella nobilissima Città è abbondantissima, ispedì con
diligenza un suo fidato con lettere in Ungheria, ove abitavano allora i Longobardi popoli ferocissimi,
invitandogli a venirsene in Italia, a godersi della fertilità, et abbondanza di paese così grasso, lasciando il
loro sterile, et infruttuoso; promettendo loro anche ogni suo aiuto, et industria, perché se ne facessero
patroni. Persuasi dunque costoro dalle parole di così famoso Capitano, l’anno DLXVIII. sotto la scorta
d’Alboino primo Rè loro in Italia, si partirono di quei paesi più di ducento mila huomini, con le mogli, e
figliuoli; et havendo nel primo arrivo presa, et distrutta Aquileia, in brevissimo spazio di tempo
soggiogarono quasi tutta l’Italia, travagliando con guerre continue quelle poche Città che sotto l’Imperio si
mantennero; obedendo agli Essarchi, fra le quali fu Cremona, che à viva forza per XIX anni divota
all’Imperio si mantenne2.
In effetti è noto che, muovendo dalla Pannonia, penultima tappa del loro lungo peregrinare per
l’Europa centro-settentrionale, i Longobardi approdarono in Italia nell’anno 568 (o, secondo alcuni,
nel 569) dell’era volgare, alimentando ulteriormente quell’afflusso di genti “barbariche” che dal IV-
V secolo avevano preso ad invadere le regioni imperiali d’occidente. La progressiva occupazione
del territorio di conquista non avvenne, in principio, in modo sistematico, espandendosi dapprima
nell’Italia settentrionale, spesso per indipendente iniziativa dei singoli duchi e delle loro farae, e
solo più tardi in modo più strutturato e coordinato da un’autorità regia.
Ne conseguì una distribuzione dei nuovi stanziamenti piuttosto disomogenea, presumibilmente
dettata da ragioni di elevato valore strategico volte al controllo delle più importanti vie di terra di
tradizione romana, specie nei loro punti nevralgici, delle vie d’acqua, delle aree più ricche e
produttive o dei luoghi abitati di maggior rilievo, tra cui le civitates già importanti sin dall’epoca
anteriore e i relativi territori da queste controllati.
Dopo la presa di Pavia, nel 572, eletta a capitale del regno, le maggiori città dell’Italia centro-
settentrionale caddero via via in mano longobarda, sebbene diverse altre, anche in area veneta e
padana, si mantenessero sotto il controllo dell’impero, tra cui Cremona, Mantova e Brescello, per
citare quelle a noi più prossime, rimaste bizantine fino al 603.
L’impatto causato sulle popolazione romane da questa nuova invasione fu senza dubbio traumatico:
i Longobardi, tra le gentes germaniche penetrate nelle antiche province dell’impero,
rappresentavano una delle stirpi meno romanizzate poiché, a differenza di altre popolazioni barbare,
non avevano avuto, sino ad allora, che scarse e parziali occasioni di contatto con il mondo romano.
La loro cultura, dalle forti radici tribali, esprimeva valori del tutto estranei al mondo della tarda
romanità in cui venivano ad irrompere questi nuovi invasori e, certamente, prima che anch’essi
1 Pauli Historia Langobardorum, II, 5.
2 A. CAMPO, Cremona fedelissima città, et nobilissima colonia de’ Romani, rappresentata in disegno col suo contado…,
in Cremona, in casa dell’istesso Auttore, 1585, p.8.
potessero subire quel processo di assimilazione, inevitabile, che la ben più complessa società e
cultura romano-cristiana di tradizione urbana avrebbe finito per esercitare, passò qualche
generazione.
Questa tradizione tardo-antica che a Cremona - e, possiamo presumere, nella parte di territorio da
essa dipendente – aveva resistito più a lungo rispetto alle altre città già conquistate da un trentennio
almeno, nel 603 (o, secondo altri, nel 602) venne meno anche in quest’ultima roccaforte bizantina,
per mano delle truppe di Agilulfo, rinforzate da contingenti slavi, che distrussero la città ad solum
usque – sempre secondo Paolo Diacono3 - dopo alcune settimane di assedio, duodecimo Kalendas
Septembris, ossia il 21 d’agosto. E di questi fatti ancora Antonio Campi così ci racconta:
Non potevano sopportare i Longobardi, che essendosi già impadroniti della maggior parte d’Italia, Cremona
e Mantova solo in queste parti di qua dal Po, stessero salde alla divotione dell’Imperio; Laonde l’anno DCII.
Agilulfo Rè loro, ragunato un grossissimo esercito in Milano, se ne venne à Cremona, et postovi l’assedio,
fierissimamente la combattè per molti giorni, sostenendo intrepidamente i Cremonesi l’impeto di così grande
esercito. Ma essendo finalmente ruinate le mura, et entrando da ogni parte la moltitudine de’ nemici, restò
per forza presa alli XXI. d’Agosto et fu per comandamento del superbo vincitore del tutto distrutta …4.
Se è presumibile che la distruzione di Cremona, nella realtà, sia stata solo parziale e non tale da
comprometterne una successiva più o meno rapida ripresa - seppure, probabilmente, non più nella
sua condizione giuridica di civitas, ma in quella di semplice vicus5 -, bisogna invece registrare lo
smembramento del territorio di sua antica competenza che venne ripartito tra i ducati di Bergamo e
di Brescia, mentre un ampio settore circostante all’ex centro urbano rimase nella diretta
disponibilità del re che vi organizzò le sue curtes regiae, tra cui quelle, importanti, di Sesto e di
Sospiro.
Bisogna, quindi, supporre che il processo di longobardizzazione della maggior parte del territorio
oggi ascrivibile alla provincia di Cremona sia avvenuto a partire dai primi anni del VII secolo, in un
clima di incipiente conversione al cattolicesimo di sempre maggiori fasce di popolazione
longobarda, nonché di avanzato grado di integrazione tra romani e longobardi e di robusto
consolidamento del regno che avrebbe visto il prevalere, per quasi un secolo e in forma pressoché
continua, della dinastia bavarese.
L’assenza di fonti scritte dirette relative alla situazione locale durante questo periodo rende
problematico ogni tentativo di ricostruire qualunque scenario di ordine tanto amministrativo, quanto
sociale, economico, religioso e, per quanto qui più ci interessa, insediativo, inerente l’evoluzione
del territorio sotto questo punto di vista.
Le testimonianze archeologiche di epoca longobarda finora note, tutte relative a sepolture, sono
anche tutte concentrate nella porzione settentrionale dell’attuale territorio provinciale,
corrispondente al Cremasco, che si può presumere sia rimasto a far parte dell’ager bergomensis sin
dall’epoca della prima conquista longobarda, se si ammette un iniziale rispetto dei confini
territoriali vigenti in epoca romana6, secondo un modello riscontrabile anche altrove.
Pertanto, ciò che finora è possibile affermare attraverso la documentazione di tipo materiale
riguarda presumibili stanziamenti longobardi circoscritti all’area cremasca.
Nell’ambito del panorama così tratteggiato per sommi capi si può finalmente tentare una prima
ricognizione toponomastica relativa al territorio dell’attuale provincia di Cremona, selezionando i
nomi di luogo di più evidente apparenza germanica – sia tuttora viventi, sia dedotti dallo spoglio
delle fonti d’archivio –, che si presume possano aiutare a delineare una geografia degli insediamenti
3 Pauli Historia Langobardorum, IV, 28.
4 A. CAMPO, Cremona fedelissima città, cit., p. 8.
5 Cfr. J. JARNUT, Cremona nell’età longobarda, in Storia di Cremona. Dall’Alto medioevo all’Età comunale, a cura di
G. Andenna, Cremona 2004, pp. 8-9. 6 Cfr. L. PASSI PITCHER, Le evidenze archeologiche altomedievali, in Storia di Cremona. Dall’Alto medioevo all’Età
comunale, cit., pp. 26-29.
altomedievali attribuibili alla presenza, in questo ambito geografico, di genti germaniche o
germanizzate.
L’argomento, senza dubbio affascinante, rappresenta tuttavia un campo di indagine irto di insidie,
dovute alle molte incertezze che il solo supporto del dato linguistico ingenera, mentre quest’ultimo
necessiterebbe di una costante correlazione con altra documentazione, soprattutto archeologica che,
come s’è detto, al momento appare invece particolarmente scarna e limitata all’area più
propriamente cremasca.
Non si può comunque sottacere come la cospicua messe di evidenze toponomastiche di questo
genere sparse nel territorio provinciale - soprattutto nella sua porzione centro-settentrionale, poiché
l’area corrispondente all’attuale Basso-Cremonese e al Casalasco parrebbe curiosamente molto
povera di simili testimonianze - abbia un significato importante, da questo punto di vista, e, se
correttamente interpretata, possa contribuire alla definizione di una distribuzione e di una densità
insediativa che non dovette essere molto dissimile da quella riconoscibile nelle contermini aree
bergamasca o bresciana, seppur in gran parte di origine più tarda rispetto a quella, come si può
presumere dalle vicende sopra accennate.
I toponimi in -eng/-ing e il problema della loro interpretazione
In tale contesto le emergenze toponomastiche di un certo interesse e più numerose paiono essere
quelle riconducibili ai nomi di luogo accomunati dalla desinenza in -eng/-ing che, secondo una
tradizione radicata, sarebbero da attribuire a fondazione longobarda.
La gran parte degli studiosi di toponomastica, tuttavia, oggi raccomanda prudenza nel maneggiare
questo genere di testimonianze che, pur mostrando una generica genesi di matrice germanica,
potrebbero essere attribuibili a diverse popolazioni di ceppo germanico, a partire dai Goti per
giungere sino ai Franchi, sebbene i più ritengano l’influsso longobardo il principale responsabile
della loro genesi7. E se da una parte è vero che i Longobardi rappresentarono la stirpe che più a
lungo e in modo più radicato ebbe influenza nel tessuto sociale e culturale delle popolazioni padane
tra il VI e l’VIII secolo, con ampi strascichi fin ben oltre il secolo XI, specie in campo giuridico, è
altrettanto vero che tutte le testimonianze toponimiche pervenuteci attraverso la documentazione
storica di ambito locale, sono posteriori al 774 - ossia alla data corrispondente alla caduta del regno
longobardo ad opera dei Franchi di Carlo Magno - e, in particolare, esse risalgono in piccola parte
al secolo IX e poi, con progressione via via maggiore, ai secoli successivi.
Del resto è bene tener presente che toponimi di natura analoga a quella dei nomi locali di cui si
discute, oltre che in Germania - dove non era difficile prevederne l’esistenza - si riscontrano in
notevole quantità anche in gran parte della Francia, peraltro mai raggiunta da popolazioni di stirpe
longobarda. Qui gli esiti del suffisso -ing/-eng sono riconoscibili in toponimi formati per lo più da
una base antroponimica e desinenti tuttora in -ing/-ingue(s), oppure in -ange(s)/-anche(s), ovvero in
-ans/-ens nonché in -eins8; sicché il fenomeno diviene un’aperta testimonianza di come, oltre
all’apporto di altre genti di origine germanica (quali gli Alamanni per l’Alsazia, i Burgundi per la
Francia centro-orientale o i Visigoti per il Mezzogiorno francese) una responsabilità di rilievo nella
formazione di simili toponimi dev’essere riconosciuta ai Franchi, specie riguardo alla Gallia
settentrionale, fino alla regione della Loira, media e inferiore9. Ciò deve far presupporre che un
certo numero di nomi di luogo composti da un antroponimo completato dal suffisso -eng/-ing anche
7 Cfr. F. SABATINI, Riflessi linguistici della dominazione longobarda nell’Italia meridiana e meridionale, Firenze,
Olschki, 1963, p. 81; G. B. PELLEGRINI, Toponomastica italiana, Milano, Hoepli, 1990, pp. 277-278; C. A. MASTRELLI,
La toponomastica lombarda di origine longobarda, in I Longobardi e la Lombardia, Saggi, Milano, Palazzo reale dal
12 ottobre 1978, S. Donato Milanese, Industrie Grafiche Fratelli Azzimonti, p. 45; J. JARNUT, Bergamo 568-1098.
Storia istituzionale, sociale ed economica di una città lombarda nell’alto medioevo, Bergamo, Archivio Bergamasco,
1980, pp. 154-159. 8 Cfr. E. Nègre, Toponymie générale de la France. Etymologie de 35.000 noms de lieux, vol. II, Genève, Librairie Droz
S.A., 1991, pp. 779-801. 9 Ibidem, p. 779.
nell’Italia centro-settentrionale possa essere di origine franca, senza escludere, anche qui, l’ulteriore
possibile apporto di altre genti germaniche.
Ma, per quanto ci riguarda più da vicino, vediamo quali possono essere gli elementi su cui
appuntare la nostra attenzione.
Oltre all’evidenza dei diversi toponimi tuttora esistenti distinti dall’elemento suffissale -engo, vale a
dire - procedendo da nord a sud - Il Binengo di Sergnano (1015, Albeningo), Pianengo (923,
Piviningo e poi Pianingo), Ricengo (923, Ruchocingo e poi Rivizengo), Offanengo (966,
Anfoningo/Aufoningo), Romanengo (1170, Romelengo e poi Riminengum), Ticengo (1000,
Tucingo/Tozingo), Isengo (997, Isingo), Farfengo (1022, Fartifingo), Zanengo (990, Ioaningo),
Polengo (1010, Paulingo e poi Polengo), Valcarengo (1149, Gualcarengo), Marzalengo (1132,
Marzilingo), Ossalengo (1038, Gauselingo/Gosalingo), Picenengo (1004, Piceningo), San Predengo
(1157, Sancto Prethengo), Fengo (1182, Fofengo) e Farisengo (965 Faresingo/Farisengo), le fonti
d’archivio ci restituiscono almeno un’altra cinquantina di antichi nomi di luogo di presumibile
origine germanica desinenti in -eng/-ing, ossia - procedendo questa volta in ordine cronologico -:
Gualdinengo/Vualdeningo (841, presso Cremona?), Buciningo/Bisinengo (851, presso Fengo),
Mastalingo (851-852, tra Romanengo e Casaletto di Sopra), Gualaringo/Vallaringo (948, presso
Crotta d’Adda), Teodengana (960, presso Gabbiano); Bevenengum (966, presso Soncino),
Iseningo (966, ?), Masingo (970, presso Izano), Cucengo (979, ?), Curtalingo (988, presso
Montecollere: attuale Corte Madama di Castelleone), Calzolingo, Ioaningo, Arifingo, Siminingo
(990, presso Oscasale), Butingo (993, presso Acquanegra Cremonese), Maraldingo (993, ?),
Odeningo (993, ?), Apponingo/Yponengo (993, presso Acquanegra e Fengo), Sperningo (995,
presso Casalmorano), Paulingo (1010, presso San Bassano e Zanengo), Muntenaringo (1015,
presso Oscasale), Feraringo, Polingello, Rumaningo (1019, presso Azzanello), Durningo,
Feruningo, Maconingo, Primolingo (1022, presso Oscasale), Ciciningo (1038, presso Cremona),
Genaringo/Generingo (1039, presso Cremona), Widaringo, Mazaningo, Bualingo, Medesingo,
Cisiningo (1080, presso Acqualunga Badona), Gastaldingo (1104, presso Acqualunga Badona?),
Butalengum (1132, nell’Oltrepò Cremonese), Morenghellum (1137, presso Casalbuttano),
Guidaringo (1151, nelle Chiosure di Cremona?), Tohelingus (1161, presso San Bassano),
Tothenengo (1173, presso Gabbiano), Bordalengum (1174, presso Ripalta Nuova), Vidalengum
(1178, nelle Chiosure di Cremona), Roverxengo (1181, presso San Bassano?); Calvinengum (1182,
presso Cremona), Godanengo, Lonengo, Magistrengo (1182, presso Fengo), Tetarengum (1186,
Chiosure di Cremona), Lavarengo (1195, presso Casalbuttano).
La maggior parte di questi – come indicato tra parentesi, dopo la data della loro prima attestazione
documentale – risulta anche collocabile sul territorio, seppur in modo approssimativo, tanto da
individuare alcuni ambiti insediativi piuttosto caratteristici e circoscritti, che vanno ad aggiungersi a
quelli individuati dai toponimi ancora viventi.
Se ne trae, pertanto, un’immagine topografica di un certo interesse, che vede le maggiori
concentrazioni di toponimi di questo genere assestarsi in punti da ritenere presumibilmente
nevralgici nella distribuzione degli stanziamenti di genti germaniche e che avranno bisogno di
ulteriori approfondimenti - che questa sede non consente - per la loro corretta interpretazione.
Già fin d’ora, tuttavia, sembra piuttosto evidente ritenere che l’allineamento di toponimi come
Offanengo, Romanengo, Ticengo, cui si deve aggiungere Bevenengum, lungo la strada, già di
impostazione romana, Laus Pompeia-Brixia, rivesta un preciso significato rispetto al controllo di
questa importante via di comunicazione, rimasta costantemente efficiente nel tempo10
.
10
PietroTerni, nella sua Historia di Crema, riferisce che re Autari e la regina Teodolinda, dopo le nozze, nel trasferirsi
da Verona a Pavia «a Crema venerono, dove longa dimora fecero»; P. Terni, Historia di Crema 570-1557, a cura di M.
e C. Verga, Crema 1964, p. 56. La lunga efficienza della Brixia-Laus Pompeja, quale importante via di comunicazione
tra importanti città di tradizione romana, rende il racconto dello storiografo cremasco meno leggendario di quanto non
si sia sinora supposto e convalidato dagli importanti ritrovamenti del VI-VII secolo di Offanengo, posto esattamente
lungo questa strada. Cfr. M. Verga Bandirali, Una via romea sul percorso cremasco della Brixia-Laus Pompeja. Tracce
nella “Convenzione” viscontea del 1361, in Crema nel Trecento: conoscenza e controllo del territorio, Crema 2005, p.
46.
Allo stesso modo sembra possibile interpretare la particolare concentrazione di toponimi desinenti
in -eng/-ing che si rileva intorno agli attuali abitati di Oscasale e di San Bassano, rammentando che
in questo ambito transitava l’ugualmente importante – quantomeno fino al tardo medioevo – strada
romana Mediolanum-Cremona, nel punto in cui quest’ultima doveva attraversare l’originario corso
del Serio (ora Serio Morto), dove esistevano, con ogni probabilità, strutture portuali di interscambio
tra viabilità di terra e quella d’acqua, come appare da documentazione successiva11
.
A tale proposito vale la pena di considerare anche la posizione degli abitati di Pianengo e di
Ricengo – cui va aggiunto l’insediamento di Albeningum, ora ricordato dalla località de Il Binengo
di Sergnano – dislocati lungo il corso del Serio e certamente già alla loro origine sorti sulle strade
ad andamento nord-sud che, fiancheggiando le due opposte rive del fiume, hanno storicamente
collegato l’area bergamasca con quella cremasca sin dall’epoca romana.
Altro importante nucleo è costituito dai toponimi ubicabili nei dintorni di Casalbuttano,
Casalmorano e Azzanello, probabilmente sorti nelle adiacenze di una delle direttrici viarie di
collegamento tra Cremona e Bergamo, mentre gli analoghi nomi di luogo collocabili nei pressi
dell’attuale Castelgabbiano parrebbero segnalare l’importanza del luogo posto nei pressi di un passo
sul fiume Serio, lungo una strada di probabile analoga rilevanza strategica, di carattere tanto
commerciale quanto militare.
Allo stesso modo è da credere che l’evidente concentrazione di toponimi ubicabili nei pressi di
Fengo e di Acquanegra Cremonese avesse qualche rapporto con l’antica direttrice romana
Cremona-Ticinum, nominata ancora nel medioevo come strada que dicitur papiensis (1039),
ricordando che Pavia era stata eletta capitale del regnum Langobardorum.
Infine si fanno notare i diversi toponimi in -engo rintracciabili nei contorni di Cremona, di cui andrà
meglio chiarito il rapporto con quest’ultima che, non bisogna dimenticarlo, con la conquista
longobarda del 603 si presume abbia perso le sue prerogative di città.
In questo consistente elenco di toponimi è forse possibile riconoscerne alcuni di più probabile
origine longobarda attraverso l’analisi dell’antroponimo che ne sta alla base.
Come la gran parte dei nomi di luogo di natura prediale, infatti, anche quelli appena nominati sono
composti da un nome di persona seguito dal suffisso -ing/-eng che esprime un legame di
appartenenza o di relazione, sebbene non sia ben chiaro se tale indicazione proceda dal nome
personale del primo possessore del fondo o del luogo così denominato ovvero se abbia origine dal
fatto di essere divenuto sede di un gruppo familiare già contraddistinto dal nome del capostipite.
Ecco, dunque, che il riconoscimento di antroponimi quali Appo, Arifus, Audo, Faro, Gauso, Godan,
Theuthari, Theuzo, Toto/Totoni, Vualcari/Walcari, Wallari (donde i toponimi Apponingo, Arifingo,
Odeningo, Feruningo, Gausalingo, Godanengo, Tetarengum, Tozingo, Tothenengo, Gualcarengo,
Gualaringo/Vallaringo), che rappresentano sovente ipocoristici in uso presso i Longobardi per lo
più nei secoli VII e VIII - cui ne andranno certamente aggiunti altri che pretenderebbero,
quantomeno, maggiori approfondimenti, ovvero l’intervento di specialisti di antroponimia
germanica -, parrebbe essere un buon metodo per restringere la gamma di probabilità
nell’individuazione di toponimi di più probabile ascendenza longobarda.
Altri riscontri, come, per quanto ci riguarda, Fartifingo, l’odierno Farfengo (che si presume
originato dalla base faderfio “dote paterna”) o Gastaldingo (da gastaldius “amministratore dei beni
reali”), pur mostrando un’evidente, o comunque riconoscibile, base longobarda, potrebbero
rappresentare permanenze linguistiche rimaste nel lessico amministrativo per alcuni secoli anche
dopo la caduta del regnum Langobardorum e rientrare nel novero della terminologia longobarda e
germanica passata in eredità al neolatino e poi all’italiano.
D’altra parte - e ne abbiamo già fatto cenno - non bisogna dimenticare come queste nuove gentes,
nel loro progressivo espandersi nelle terre conquistate, si siano stabilite spessissimo in punti
strategici del territorio già presidiati da insediamenti a loro antecedenti, ciascuno distinto da un suo
11
Si veda, a tal proposito, il tentativo di interpretazione attuato in V. Ferrari, Toponomastica di San Bassano (Atlante
toponomastico della provincia di Cremona, 11), Cremona 2005, pp. 26-32.
specifico toponimo che, essendo perdurato fino ad oggi, bisogna ammettere sia rimasto invariato,
vitale ed effettivo, senza che vi si sia sovrapposto un nuovo nome germanico. Oppure, nel caso in
cui attorno all’abitato preesistente - con relativo preesistente toponimo - siano sorti insediamenti di
matrice germanica nuovamente denominati secondo i modi loro propri, si deve presumere che nel
corso del tempo abbia acquistato importanza e se ne sia affermato uno principale, con la progressiva
scomparsa degli altri e che sia dunque prevalso uno solo toponimo, talora di ascendenza romana (o
precedente), talaltra di conio germanico.
Si direbbe che questa sia stata la sorte occorsa a (Palazzo) Pignano, già sede di un importante
complesso residenziale tardo-romano affiancato da un contemporaneo edificio di culto, nei cui
pressi è emerso il ben noto anello-sigillo longobardo - recante il nome Arichis -, che doveva porre il
suo possessore nella sfera di quei personaggi di alto rango il cui legame con i beni regi, di natura
rurale o urbana, o con luoghi di particolare importanza strategica appariva preponderante, in quanto
gestori di un potere ufficiale e universalmente riconosciuto12
.
Nello stesso novero potremmo accogliere anche (Castel)gabbiano, presso il fiume Serio, dove si
collocano alcuni antichi toponimi desinenti in -eng/-ing, od anche Camisano, Bottaiano, Sergnano,
Gallignano: tutti toponimi di origine prediale romana nei cui pressi sono emersi materiali riferibili a
sepolture di epoca longobarda che presuppongono l’esistenza di altrettanti stanziamenti e, tuttavia,
toponimi conservatisi fino ad oggi nella loro primitiva forma. Allo stesso modo va considerato
l’antico abitato di Alfiano (oggi piccola frazione di Corte de’ Frati), dove una vivace serie di
transazioni di beni terrieri, per lo più a favore del monastero benedettino femminile di San Salvatore
di Brescia, vide come attori, tra vecchi e nuovi possessori, diversi personaggi di stirpe longobarda
tra gli anni 759 e 76913
.
Sull’altro fronte si possono citare Sesto (Cremonese) e Sospiro, entrambi sede di curtes regiae
longobarde e, del resto, entrambi toponimi di origine “stradale” romana rimasti invariati nel tempo.
Se, rispetto al primo, la documentazione antica lascia intendere l’esistenza di abitati germanici nei
suoi dintorni, di Sospiro si deve ricordare che fu probabile sede di un gastaldo, ossia
dell’amministratore dei beni della stessa corte regia, di cui si ha notizia sicura solo un po’ più tardi,
nel IX secolo, in epoca ormai franca.
Infine, sappiamo che nell’anno 772 Adelchi, re dei Longobardi, aderendo ad una richiesta della
regina Ansa, sua madre, confermava alla basilica intitolata a Santa Maria, sita in territorio civitate
nostre Cremonensi, locus qui dicitur Vado Au[…….], prope ripa fluvii Ollio, e al prete Deusdedit,
due donazioni già in precedenza agli stessi concesse. La seconda di queste, in particolare,
riguardava la donazione di una casa ubi ipsa basilica super edificata fuerat, cum monasterio et
omnia adiacencia vel edificia seu territoria. Infine lo stesso re stabiliva che la medesima basilica di
Santa Maria, con tutto quanto ad essa pertinente, venisse posta sotto la tutela del monastero di San
Salvatore di Brescia, al tempo retto dalla badessa Anselperga, sua sorella germana14
.
Dunque anche quest’ultima appare essere un’ulteriore circostanza in cui un insediamento umano
che vedeva verosimilmente la presenza di genti longobarde in loco, mantenne una denominazione di
origine latina, ossia Vadum, l’attuale Vho di Piadena, indicativa di un guado sul fiume, alla quale
possiamo solo presumere che fosse stata aggiunta una specificazione, ossia quell’Au[…….],
probabilmente di natura antroponimica e di supponibile caratterizzazione longobarda, che rimarrà
12
Sull’argomento, e sul dibattito da questo scaturito e tuttora in corso, si rimanda ai diversi preziosi contributi
recentemente apparsi nei due successivi volumi curati da SILVIA LUSUARDI SIENA: I Signori degli Anelli. Un
aggiornamento sugli anelli-sigillo longobardi, Milano, Vita e Pensiero, 2004; e Anulus sui effigii. Identità e
rappresentazione negli anelli-sigillo longobardi, Milano, Vita e Pensiero, 2006. 13
Le carte cremonesi dei secoli VIII-XII, vol. I, Documenti dei fondi cremonesi (759-1069), a cura di E. Falconi,
Cremona, Biblioteca Statale di Cremona, Fonti e sussidi I/1, pp. 3-16; J. JARNUT, Cremona nell’età longobarda, in
Storia di Cremona, cit., pp. 13-15. 14
CDLM, Brescia, S. Giulia I, n. 20; v. anche F. ODORICI, Storie Bresciane, dai primi tempi sino all’età nostra, vol. III,
Brescia 1854, n. XXXVIII, pp. 61-62;
celata per sempre dalla rosicatura subita dalla pergamena, che ci ha sottratto ogni possibilità di
identificazione.
Le altre tracce toponomastiche
Rimangono da menzionare i non molto frequenti toponimi apparentemente isolati nell’ambito della
campagna, senza evidenze particolari che ne illustrino una funzione diversa da quella di semplici
insediamenti di carattere rurale.
Tra questi, oltre ad alcuni nomi di luogo desinenti in -eng/-ing già menzionati e per ora non
correlabili con altre analoghe emergenze circonvicine, si ricordano singoli toponimi che, per loro
apparenza linguistica potrebbero essere fatti risalire all’epoca longobarda, come si pensa succedere
per la cascina Scotticarda, nei pressi di Soncino, il cui nome potrebbe forse essere ricondotto ad una
base *stodigard con valore di “recinto dei cavalli”, (dall’unione dei termini *stoda- “mandria di
cavalli” e *gard “recinto, steccato”) possibile indicazione di luogo ove si esercitava l’allevamento
di questi nobili animali, particolarmente stimati dalle genti germaniche.
Anche alla base del nome Stàffolo, oggi frazione di Casalmaggiore, si può vedere il termine
longobardo *staffal “palo” e, in seguito, anche “segnale di confine, cippo”: significato che si può
intravedere ancora persino nell’ulteriore evoluzione semantica della voce che nei contigui territori
mantovano, bresciano e veronese è giunta a significare anche “tabernacolo, edicola” cui spesso
venne attribuito il valore di segnacolo confinario15
.
Pur trovando le proprie radici in termini di origine longobarda, molti altri toponimi esistenti nel
territorio provinciale rimangono di difficile collocazione cronologica, poiché tali termini, rimasti
vitali per alcuni o per molti secoli, hanno subito poi, chi più chi meno, diverse trasformazioni
semantiche che li hanno portati ad assumere significati di uso più generalizzato, sebbene talvolta
potessero individuare condizioni abbastanza specifiche.
È il caso della voce brèda o bréda (a seconda del dominio dialettale, cremonese-casalasco o
cremasco, in cui viene pronunciata), discesa con ogni evidenza dal longobardo *braida “campo
pianeggiante suburbano”, ma che nel tempo ha assunto significati più complessi e, in particolar
modo, da noi è passata ad individuare, sin dal basso medioevo, un complesso di appezzamenti
suburbani di piccole dimensioni e aggregati tra loro, circondati da siepi e coltivati prevalentemente
a vite, facenti capo ad un medesimo proprietario sebbene affittati a soggetti diversi secondo norme e
condizioni sostanzialmente uguali16
.
Così il termine longobardo *gahagi “terreno (bosco, pascolo o altro) riservato; bandita”, nominato
dall’editto di Rotari nella forma latinizzata di gahagium, ha dato origine a numerosi toponimi, che
nelle carte cremonesi medievali si ritrova nelle varianti grafiche di Gagius, Gaius od anche
Gadius17
, continuati dai diversi nomi di luogo tuttora esistenti, riconducibili alle forme base Gazzo
e Gavazzo, con tutti i loro possibili alterati, che in territorio provinciale si ritrovano sovente anche
nella microtoponomastica fondiaria18
.
Un isolato accenno - restituito da un documento cremonese - al termine di tradizione longobarda
*wald-, indicativo di un insieme di beni diversi (pascoli, boschi, zone incolte) rispecchiante una
condizione simile a quella definita dal saltus latino e sovente coincidente con terre fiscali19
, serve ad
attestare l’uso del vocabolo specifico anche nelle nostre aree di pianura.
15
Cfr. C. A. MASTRELLI, La toponomastica lombarda di origine longobarda, cit., p. 44. 16
Cfr. G. CHITTOLINI, I beni terrieri del Capitolo della Cattedrale di Cremona fra il XIII e il XIV secolo, Biblioteca
della “Nuova Rivista Storica”, Milano-Roma-Napoli-Città di Castello, Soc. Ed. Dante Alighieri, 1965. pp. 9-10. 17
Cfr. Le carte Cremonesi dei secoli VIII-XII, vol. I, cit., pp. 105, 106, 108, ecc. 18
V. FERRARI, Contributi toponomastici all’interpretazione del paesaggio della provincia di Cremona. 3. Vegetazione,
flora e fauna, in «Pianura. Scienze e storia dell’ambiente padano», 25 (2010), pp. 139-140. 19
F. SABATINI, Riflessi linguistici della dominazione longobarda, cit., pp. 53-53; C. A. MASTRELLI, La toponomastica
lombarda di origine longobarda, cit., p. 41.
Così andrà, dunque, interpretato l’antico nome di Vualdo Meletum (coincidente con l’attuale Meleti,
presso il Po, ora in provincia di Lodi) nominato in due pergamene cremonesi dell’anno 87920
.
Quanto a *sala, ritenuto uno dei più caratteristici termini di ascendenza longobarda, che da un
originario valore di “edificio ad unico vano” è poi passato al significato di “edificio destinato alla
residenza padronale”, andando a definire la pars dominica dell’unità fondiaria, abbiamo alcune
testimonianze ancora una volta restituite solo da documentazione medievale, mentre nell’attuale
territorio della provincia di Cremona non figurano continuatori di tale voce nella toponomastica
maggiore.
Ecco, dunque, che in un elenco di oltre cinquanta località minori facenti capo alla curtis di
Rivoltella - l’attuale Ripalta Arpina - donate dalla monaca Raimburga alla Chiesa cremonese
nell’anno 1051, si trovano registrate, tra le altre, le località denominate Sala, Silva de Sala e Prato
de Sala21
che costituiscono un piccolo nucleo di toponimi storici piuttosto eloquente, sotto il profilo
che qui più ci interessa.
Ancor oggi la microtoponomastica di Ripalta Arpina conserva le denominazioni de la Costasàla
bàsa e de le Costasàle identificative di una vasta area appena a nord dell’abitato, oltre ad un
bocchello Costazzale22
, che hanno tutta l’aria di rappresentare i continuatori di quegli antichi
toponimi medievali. Non sarà probabilmente un caso che a poca distanza da qui, procedendo verso
nord lungo la strada che, correndo sul diaframma di terreno che divide la valle del Serio Morto da
quella del Serio Vivo occupata oggidì, si incontri la chiesetta di Santa Maria del Marzale, sotto il
pavimento della cui cappella laterale destra sono emerse, nel 1985, tre sepolture di forma antropoide
assegnate all’epoca longobarda grazie al ritrovamento di un’armilla in bronzo, a capi troncoconici
ingrossati, in uso presso le donne longobarde, databile al VII secolo d.C.
Dal tema germanico *a(h)wjo “terra presso l’acqua, terreno acquidoso, isola, zona rivierasca”23
passato forse attraverso una forma longobarda *auja-24
, latinizzata in augia, sono scaturiti toponimi
quali Olza e Olzola, non rari soprattutto nella documentazione medievale cremonese nelle varianti
di Aucia, Augia, Auzea, Olzia, Olcia, Olzola, Ulciola e analoghe25
.
Non si può, infine, passare sotto silenzio il toponimo storico in Armannore, nominato con diversi
altri – tra cui i già sopra riportati Piceningo, Widaringo, Ciciningo, Gauselingo – in una pergamena
dell’anno 1038 e da ritenere non lontano dalla città di Cremona. La forma grafica con cui il nome di
luogo è stato registrato pare definibile come una specificazione, con la desinenza di un genitivo
plurale -orum, da associare ad un sostantivo rimasto sottinteso e restituibile attraverso una *(terra,
silva od altro) arimannorum, ben sapendo che il termine longobardo arimannus - così trascritto in
forma latinizzata nell’Editto di Rotari - era sinonimo di esercitalis e designava l’homo liber
longobardo in quanto membro del populus-exercitus26
.
Altri toponimi esistenti anche in territorio provinciale cremonese possono richiamare termini di
origine longobarda o germanica, ma la lunga tenuta attraverso i secoli di tali precise voci rende
meno sicura l’epoca di formazione degli eventuali toponimi ad esse ispirati, che possono essere
sorti anche molto più tardi.
20
Le carte Cremonesi dei secoli VIII-XII, vol. I, cit., pp. 63, 65. 21
Le carte Cremonesi dei secoli VIII-XII, vol. I, cit., p. 475. 22
Cfr. V. FERRARI, Toponomastica di Ripalta Arpina (Atlante toponomastico della provincia di Cremona, 3), Cremona
1995, p. 48. 23
N. FRANCOVICH ONESTI, Vestigia longobarde in Italia (568-774). Lessico e antroponimia, Roma, Artemide Edizioni,
1999, pp. 128, 153. 24
F. SABATINI, Riflessi linguistici della dominazione longobarda, cit., p.49; G. B. PELLEGRINI, Toponomastica italiana,
cit., p. 273. 25
Cfr. L. ASTEGIANO, Codice diplomatico cremonese 715-1334, vol. II, Torino 1898, pp. 406, 431. Per un particolare
esempio, tra i tanti, relativo al territorio più prossimo a Cremona, si può vedere V. FERRARI, F. GONZAGA,
Toponomastica di Cremona, Quartiere Boschetto (Atlante toponomastico della provincia di Cremona, 15), Cremona
2012, pp. 101-102. 26
N. FRANCOVICH ONESTI, Vestigia longobarde in Italia (568-774), cit., p. 62.
L’incertezza suscitata da questo genere di problematiche è dovuta per lo più alla difficoltà di
distinguere cronologicamente - in assenza di adeguata documentazione storica - i riflessi che
l’eredità linguistica germanica e longobarda passata alla lingua italiana, possono aver avuto anche
in campo toponimico, tanto da aver coniato nomi di luogo di apparente matrice longobarda anche in
epoca recente.
Un Castrum Langobardorum all’origine del toponimo Longardore?
Tra i diversi altri toponimi di più evidente apparenza longobarda - trascurando in questa sede quelli
composti con un nome germanico quale secondo elemento, come Casalsigone, Cortetano, ecc., la
cui analisi richiederebbe uno spazio eccedente quello qui concesso - non si può trascurare
Longardore, che designa un piccolo paese posto a margine della via Giuseppina, poco a sud-est di
Cremona, ed ora frazione del comune di Sospiro.
Chi si è occupato di toponomastica locale, non ha esitato ad attribuirne il nome ad una presenza
longobarda, ipotizzando persino uno stanziamento risalente all’età romana e riportando la citazione
di autori precedenti che ne indicavano l’origine suscitata da un castrum Langobardorum risalente
all’anno 97027
.
In realtà, per quanto mi consta, l’unica traccia di tale toponimo storico si trova in Ferrante Aporti
che, nel secondo volume delle sue Memorie di Storia ecclesiastica cremonese, trovandosi a parlare
di ospizi ed altre istituzioni di beneficienza, trascriveva un documento dell’anno 870 dove tra le
molte altre cose si cita una località qui dicitur castra Langobardorum vico Gerrato che l’autore
stesso, in nota, riconosceva come corrispondente ad un luogo posto nei pressi di Longardore28
.
Purtroppo non è dato sapere dove l’Aporti abbia reperito tale documento e nulla si sa circa la sua
autenticità, sicché sulla sola base di quest’unica testimonianza altomedievale non pare facile
giungere a qualche conclusione definitiva.
Resta il fatto, comunque, che la nostra località Longardore porta nel nome l’evidente traccia di una
derivazione da un genitivo plurale Longobardorum, confermata dalle attestazione medievali che la
registrano nelle forme di locus Longovardore (a. 1155 e 1182) o Longoverdore (sec. XIII e 1305)29
.
Certo la vicinanza con Sospiro, curtis regia di ascendenza longobarda, potrebbe deporre a favore di
un’origine etnica del toponimo, in analogia con qualche altro simile nome locale, primo fra tutti il
piemontese Lombardore, in provincia di Torino, anch’esso documentato sin dal 1019 come castrum
Langobardorum30
, e, dunque, la possibilità che si tratti, invece, del riflesso di un insediamento o
dell’esistenza, qui, di proprietà possedute dai membri di una casata discesa da un capostipite a nome
(o soprannome) Longobardus – che, in effetti, potrebbe produrre un esito analogo – passerebbe in
secondo piano.
A favore della prima ipotesi si può indicare la presenza, nel raggio massimo di tre-quattro
chilometri da Sospiro, di altri toponimi di matrice longobarda o riconducibili a tale origine, quali -
oltre a Longardore -, Gazzo e Gazzolo, Olzo, Bredazze e c.na Breda, c.na Aghizzone, Tidolo, S.
Salvatore, S. Michele Sette Pozzi, ma è probabile che ricerche relative alla microtoponomastica
fondiaria di questo definito ambito territoriale possano restituire ulteriori elementi di riflessione
inerenti all’argomento.
Senza addentrarci nel merito, che ci porterebbe molto lontani, il cenno ad alcune dedicazioni
santorali appena fatto deve rammentare che in epoca longobarda la diffusione del culto di santi
27
D. OLIVIERI, Dizionario di toponomastica lombarda, Milano, Ceschina, 1961, p. 308; P. BOSELLI, Dizionario di
toponomastica bergamasca e cremonese, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 1990, 173; G. B. PELLEGRINI,
Toponomastica italiana, cit. p. 277. 28
F. APORTI, Memorie di storia ecclesiastica cremonese. Parte seconda, dal 1335 al 1590 dell’Era volgare, Cremona,
presso i tipografi fratelli Manini, 1837, p. 70. Cfr. anche A. GRANDI, Descrizione dello stato fisico-politico-statistico-
storico-biografico della provincia e diocesi di Cremona, vol. II, Cremona, Luigi Copelotti Libraio-Editore, 1858, p. 62. 29
Cfr. L. ASTEGIANO, Codice diplomatico cremonese, cit., vol. I, pp. 120, 399; vol. II, p. 154; Le carte cremonesi dei
secoli VIII-XII, vol. III, Cremona 1987, p. 369. 30
D. OLIVIERI, Dizionario di toponomastica piemontese, Brescia, Paideia, 1965, p. 200.
prescelti dai fondatori di monasteria, ecclesiae, basilicae, oracula, oratoria, tituli, rispondeva
all’intenzione di eleggere un determinato santo a protettore della propria casata, della propria fara,
ovvero di proclamarlo intercessore personale. Gli stendardi di re Cuniperto, per esempio, secondo il
racconto di Paolo Diacono, esibivano l’immagine di San Michele Arcangelo31
.
È noto che tra i santi più venerati dal popolo longobardo, dopo la conversione al cattolicesimo, ne
prevalsero alcuni, come san Giovanni Battista, san Michele Arcangelo, il Salvatore, san Giorgio,
sant’Eusebio, san Martino, la Vergine Maria, od altri ancora piuttosto caratteristici.
Dunque anche attraverso le tracce toponomastiche appena nominate, pur sparse e non sempre
omogenee, pare possibile riconoscere i riflessi di una presenza longobarda anche nel territorio più
prossimo a Cremona, sebbene finora non siano emerse testimonianze archeologiche che possano
ancor meglio convalidare la circostanza.
Tuttavia si può ritenere che gli indizi di presenza longobarda rappresentati dai nomi di luogo,
quando si trovino in buon numero e raggruppati in un ambito territoriale abbastanza definito, come
nel caso sopra illustrato, sembrano segnalare con una certa insistenza il fenomeno e possono
assumere un più deciso valore in qualità di testimonianza storica, poiché tradiscono
un’organizzazione del territorio di impronta longobarda così ben radicata da essere sopravvissuta
sino ad oggi.
In conclusione, e volendo considerare il presente contributo come un primo approccio ai temi della
toponomastica di origine o di impronta longobarda rintracciabile anche nell’attuale territorio della
provincia di Cremona, che finora non sembrano aver avuto particolare considerazione, rimane
l’impegno a riprendere in futuro l’argomento con l’intento di definirne meglio i contorni e di
approfondire alcuni aspetti qui, per ora, rimasti solo sullo sfondo.
31
Pauli Historia Langobardorum, V, 41.
IL GRANDE DILUVIO DEL 589
Andrea Guereschi ingegnere
Introduzione
In un periodo di mutamenti climatici, che stanno provocando piogge intense sempre più violente
con conseguenti tracimazioni ed esondazioni di corsi d’acqua, è interessante ricordare un evento
naturale estremo come il ”Grande Diluvio”, occorso circa 1.500 anni fa, che probabilmente fu
l’evento naturale più catastrofico avvenuto nella nostra area, e più probabilmente in Italia, in epoca
storica.
Nell’ottobre 589 avvenne questo evento estremo: piogge prolungate in un’area vasta provocarono
grandi inondazioni ed allagamenti di estesi territori nel nord e centro Italia causando una grave
catastrofe naturale della quale conosciamo molto parzialmente tutti gli effetti.
Tale evento modificò notevolmente l’idrografia del nord Italia anche se in verità occorrerebbe
parlare di una serie di eventi dei quali quello del 589 fu il maggiore, causati anche da una mancanza
di manutenzione di fiumi ed arginature e da una modifica delle condizioni climatiche avvenuta tra il
VI e VIII secolo.
Di quanto accaduto nel 589 abbiamo brevi descrizioni da Paolo Diacono, Papa Gregorio e Gregorio
di Tours.
Questa grave catastrofe naturale avvenne in una situazione italiana e in un’epoca storica
caratterizzata da ripetute guerre e da decadenza economica, per cui andò ad aggravare una
situazione economico-sociale già critica anche della nostra area padana.
Un “diluvio” con conseguente generalizzata esondazione di fiumi e corsi d’acqua e allagamento di
vasti territori conduceva oltre alla morte degli uomini anche alla morte degli animali,
all’impossibilità di coltivare i terreni fino al loro prosciugamento, sempre che l’esondazione dei
corsi d’acqua non avesse fatto perdere anche le sementi. Tutto ciò produceva a sua volta una
carestia che avrebbe colpito i superstiti per la riduzione sia dei coltivi sia degli animali allevati o da
cacciare. Alla carestia si sarebbe poi aggiunta, a causa dell’indebolimento fisico dei sopravvissuti,
una qualche forma di epidemia o pestilenza.
È stato detto che è peggio un’alluvione di un terremoto: non si può seminare su terreni allagati se
non dopo mesi per attendere che le acque si ritirino ed i terreni si prosciughino. Seminativi per altro
in quelle epoche con produttività ridotte, in un periodo storico nel quale le tecniche di coltivazione
erano regredite. Altri nel medioevo avevano coniato il proverbio “la miseria viene in barca”.
Le conseguenze di una catastrofe naturale di tali dimensioni si sarebbero protratte per molti anni
dopo l’evento.
Altrettanto importanti furono gli sconvolgimenti del territorio ed in particolare i mutamenti
nell’idrografia sia dei fiumi principali sia dei corsi d’acqua secondari, collegati ai primi, con il
mutamento delle superfici dei terreni a causa di erosioni o deposito di sedimenti lasciati dalle acque
nei territori colpiti dalla alluvione.
Descrizioni che ci sono giunte
I principali accenni all’evento sono quelli di Paolo Diacono, di Papa Gregorio e di Gregorio di
Tours.
Le descrizioni ci parlano di un diluvio d’acqua che si disse non ci fosse stato dal tempo di Noè, di
un’alluvione che colpì gran parte dell’Italia: furono ridotti in rovina campagne e borghi, ci furono
grosse perdite di vite umane e animali, furono distrutti strade e sentieri. Fu scritto che il livello
dell’Adige salì fino a raggiungere le finestre superiori della basilica di San Zeno a Verona ed anche
una parte delle mura della stessa città di Verona fu distrutta dall’inondazione. È da ricordare la
leggenda secondo la quale le acque si sarebbero fermate sulla soglia della basilica di San Zeno per
risparmiare i fedeli che si erano lì rifugiati.
Anche a Roma le acque del Tevere superarono le mura, vi furono distruzioni o in ogni modo danni
a molti edifici, abbattuti granai, perdita di molte migliaia di moggia di frumento.
Si ricorda come il bestiame, e un notevole numero di serpenti oltre ad un drago di grandi
dimensioni, fossero trascinati dal fiume e passando per la città giungessero al mare.
A tale disastro seguì una grande pestilenza caratterizzata da bubboni inguinali che uccise buona
parte degli abitanti, tra i primi il Papa Pelagio. Una processione per placare l’epidemia ebbe effetto
opposto causando la morte di 800 persone a causa del contagio provocato dalla pestilenza in atto.
Mesi dopo tutti questi tragici avvenimenti, è da registrare il racconto di un diacono, che ritorna in
Francia dall’Italia e descrive sommariamente quanto avvenuto appunto mesi prima, il diluvio e
l’alluvione e ne delinea le pesantissime conseguenze. È il racconto riportato da Gregorio di Tours,
una visione da luoghi lontani rispetto a quelli dove era avvenuta la rovina dei territori, dei granai,
delle strade.
Si rileva come dalle pur stringate descrizioni l’evento disastroso abbia interessato una vastissima
area in Italia, sia settentrionale che centrale, ma non sembra avere invece interessato il meridione o
oltr’alpe altri paesi quali la Francia.
In quell’autunno-inverno sotto l’incalzare delle piogge, e di particolari fattori meteorologici,
l’innalzamento delle acque del Po e di tutti i suoi affluenti fece probabilmente cedere quello che
restava dei vecchi argini romani causando lo straripamento dei fiumi, le cui acque coprirono buona
parte della pianura padana.
Dalle brevi descrizioni dell’evento si evidenzia anche che, come prevedibile, l’alluvione oltre ad
aver causato la morte di tante persone, l’allagamento di vasti territori e la modifica della rete
idrografica, causò la perdita di prodotti alimentari, sia di cereali sia di animali, provocò difficoltà
nel seminare per la perdita di sementi ma soprattutto per i tempi necessari al ritiro delle acque dai
terreni allagati e al loro definitivo prosciugamento: tutto ciò condusse alla mancanza di un’adeguata
alimentazione delle popolazioni sopravvissute già disperse, immiserite, e pertanto fisicamente
indebolite da questa carestia sopraggiunta e quindi esposte all’insorgere di epidemie che
puntualmente scoppiarono, come evidenziato nei racconti di quanto avvenuto a Roma a che
sicuramente non furono confinate alla sola città di Roma.
È un andamento prevedibile e lineare: catastrofe naturale, carestia, epidemia/pestilenza.
Un quadro quindi estremamente desolante in una economia già povera ancora prima dell’evento
catastrofico del 589.
Conseguenze del Diluvio
Dopo la grande inondazione le acque si ritirarono gradualmente ma lasciarono sconvolta
l’idrografia con il cambiamento permanente del corso di vari fiumi e lasciarono un grande mare di
fango dal Monferrato al mare e dalle Prealpi agli Appennini, dal quale emergevano le località più
elevate come le colline di S. Colombano, o per esempio le parti più alte di Cremona.
La modifica dell’idrografia fu notevolissima, anche se non tutta riferibile come si è detto ad un
singolo evento.
Si allontanò il corso del Brenta da Padova, lo spostamento del corso dell’Adige abbandonò Este, la
foce del Piave fino ad allora in comune con quella del Sile se ne separò. Il Mincio abbandonò il
collegamento con il Tartaro.
Si fa risalire al 17 Ottobre 589 la Rotta della Cucca causata dallo straripamento dell’Adige presso
Veronella, che sconvolse tutta l’idrografia del basso Veneto.
Più vicino a noi si ampliarono le zone di acque stagnanti, come il Lago Gerundo tra Adda, Oglio e
Po: già in epoca precedente era zona di acquitrini, ma dopo queste esondazioni essi si ampliarono
congiungendosi l’uno all’altro, anche se probabilmente non si trattò mai di uno specchio d’acqua
profondo e totalmente permanente, che sopravvisse per secoli, fino alla lenta bonifica avvenuta
durante il medioevo.
Gli eventi citati hanno sicuramente modificato anche l’idrografia nell’area attorno alla città di
Cremona per cui ci è difficile oggi ricostruire quale fosse l’andamento dei corsi d’acqua nei secoli
precedenti, e probabilmente tali eventi hanno modificato pure aree cittadine più vicine ai corsi
d’acqua e prima di tutto più vicine al Po sia per franamenti di sponde sia per la sedimentazione di
sabbie, argille, terreni trasportati dalle acque.
Tali eventi avranno sicuramente avuto significative ripercussioni anche sulle caratteristiche urbane
di Cremona come è accaduto per altre città come Modena, quasi del tutto distrutta e dove scavi
dello scorso secolo hanno evidenziato cumuli di depositi alluvionali, fatti risalire all’evento del 589,
sia nella zona orientale che in quella occidentale fino a raggiungere anche l’area più centrale della
città e un successivo spostamento del baricentro dell’abitato cittadino verso Ovest, o di Bologna
cancellata per metà dallo stesso evento.
Le ripercussioni sulla vita degli abitanti sopravvissuti furono sicuramente pesantissime, ma molto
forte dovette essere anche lo sconvolgimento del tessuto urbano. Interessante è la tesi di William
Montorsi in “Cremona dalla città quadrata a Cittanova” nel quale ipotizza un abbandono di aree
cittadine a Ovest ed uno spostamento del baricentro della città più a Est a causa di eventi naturali
quali quello del 589.
Sconvolte le fragili abitazioni in legno. Molto probabilmente nuclei abitati costituiti da stamberghe
smontabili costruite con legname e fango coperte con assi, paglia e canne palustri. Se come a
Modena anche a Cremona parte della città fu coperta da depositi alluvionali anche la ricostruzione
di abitazioni, per quanto semplici e in legno, su un terreno fangoso da parte di una popolazione
ridotta di numero, stremata e magari attaccata da epidemie poteva essere comunque difficile e
quindi si può comprendere uno spostamento dell’abitato in aree di minore estensione e che non
erano state allagate, abbandonando forzatamene quelle coperte di fango.
Sconvolte le già precarie comunicazioni, soprattutto le vie terrestri ma anche le navigabili per le già
citate modifiche dell’idrografia, mutate isole e canali del Po, stravolte le rive ed i fondali, ma
nonostante ciò le comunicazioni via fiume furono più facilmente ripristinabili rispetto a quelle
terrestri.
Il paesaggio della bassa pianura si modificò, ma era comunque molto diverso dal presente: il fiume
Po, non canalizzato come oggi, presentava diversi rami distanti fino a 4-6 km tra loro, il deflusso
della era corrente lento. Erano presenti paludi ed isole con una forte presenza di boschi.
In particolare nel tratto cremonese del fiume Po, che è forse il tratto nel quale si sono storicamente
avute le maggiori divagazioni del fiume, quindi predisposto naturalmente ai mutamenti, un evento
sconvolgente quale quello accaduto nel 589 probabilmente ebbe grandi effetti nel modificare
l’andamento del fiume e quindi anche tutta l’idrografia secondaria collegata.
Questi stravolgimenti ebbero sicuramente ripercussioni negative sia per quel che rimaneva di un
commercio fluviale, sia per i collegamenti con il più importante centro bizantino di Ravenna e
quindi per la difesa della città, ma le più pesanti conseguenze le subirono probabilmente i
Longobardi che occupavano la pianura allagata e che forse proprio per questo subirono alcuni mesi
dopo nel 590 l’offensiva bizantina sulle città emiliane.
La modifica dell’idrografia secondaria avrà avuto a sua volta conseguenze nell’utilizzo delle aree
coltivate soprattutto per quanto riguarda lo scolo delle acque ed eventualmente l’irrigazione.
Tecniche precarie con produttività molto bassa, attrezzi di legno di qualità scadente, per esempio
aratri di legno, simmetrici: una seppur modesta riduzione, per un qualsiasi motivo, della produttività
già molto bassa poteva avere conseguenze molto negative nel sostentamento delle popolazioni.
Anche l’allagamento dei boschi con l’annegamento degli animali che lì vivevano ebbe sicuramente
ripercussioni molto sfavorevoli nella produzione alimentare: è da ricordare a tal proposito
l’esistenza dell’allevamento brado nei boschi, soprattutto di maiali (si misuravano le foreste dal
numero dei maiali che si potevano allevare), ma anche di ovini (ad esempio presso Castelvetro).
Un’attività banale come il reperimento dell’acqua per i sopravvissuti diventò difficile e pericolosa:
le acque esondate trascinano sedimenti ma anche corpi di uomini e carcasse di animali, sono infette,
e allagano i pozzi fino ad allora utilizzati per l’approvvigionamento idrico. Oltre alla difficoltà
pratica di estrarre l’acqua venne ancor più facilitato l’insorgere di epidemie.
Il “Diluvio” del 589 è pertanto un evento che ha segnato la storia della città di Cremona come di
altre nella pianura padana, innanzitutto per la perdita di vite umane e per la riduzione dell’area
occupata dalla città, e quasi sicuramente per un cambiamento della topografia e idrografia cittadina
che non sappiamo però del tutto apprezzare, risultando quindi un momento di separazione nello
svolgersi del processo di formazione urbanistica della città, anche se, per i numerosi secoli trascorsi
e per le scarse notizie non ne sappiamo valutare appieno l’entità.
È un evento quello del 589 molto meno noto rispetto ad altri nella storia di Cremona, per esempio
all’incendio del 69, ma per la città ha probabilmente avuto risvolti altrettanto negativi anche se non
riusciamo ad individuarne con esattezza le dimensioni.
Bibliografia
Umberto Primo Censi. Nelle Terre dei Pallavicino.
Guglielmo Evangelista. Duemila anni di navigazione padana.
Sauro Gelichi. Territori di confine in età longobarda. L’ager mutinensis.
Claudia Maccabrini. Storia di Cremona - L’età antica, Cremona l’immagine della città romana nel
medioevo.
Magistrato Per Il Po, Centro Studi. Carta Topografica del fiume Po.
William Montorsi. Cremona dalla città quadrata a Cittanova.
NATURA, AMBIENTE E PAESAGGIO
PADANO NEL PERIODO LONGOBARDO
Riccardo Groppali Dipartimento di Scienze della Terra e dell’Ambiente dell’Università di Pavia
Prima della colonizzazione romana la Pianura Padana era occupata quasi per intero da immense
foreste e sterminate paludi, alimentate dai fiumi che scorrevano in ampi alvei e modificavano
liberamente e frequentemente il loro percorso. Le poche terre emerse non alberate erano i piccoli
coltivi intorno agli scarsi e sparsi insediamenti umani e le zone dove gli alberi non potevano
crescere per le particolari caratteristiche del suolo.
Da foreste, paludi e fiumi dipendeva la vita dei cacciatori-raccoglitori che per primi avevano
colonizzato la pianura. Le aree boscate, utilizzate in seguito dai pastori e poi in parte trasformate in
coltivi dagli agricoltori stanziali, avrebbero però continuato a lungo a fornire - insieme ai corpi
idrici - una parte fondamentale del sostentamento della popolazione padana, ottenuta dai vasti
territori non antropizzati che circondavano ogni insediamento.
La Pianura Padana tra fine dell’Impero Romano e invasioni barbariche
La prima forte trasformazione dell’ambiente risale all’epoca romana, con la realizzazione di grandi
centri urbani e la centuriazione della campagna più facile da raggiungere e mettere a coltura,
suddividendola in campi quadrati di 710 metri di lato. Ai loro margini, su alberi opportunamente
potati, veniva fatta crescere la vite (detta perciò maritata) secondo un modello agronomico d’origine
probabilmente etrusca.
I nuovi campi che potevano rendersi necessari per sostentare una popolazione in crescita o per
nuovi insediamenti venivano ricavati coll’aiuto del fuoco dalle onnipresenti foreste. Esse
circondavano tutte le aree antropizzate ma non venivano considerate elementi ostili, anzi era
nozione comune e molto realistica che terra et silva contribuissero alla sopravvivenza delle
popolazioni della pianura, in quanto entrambe fornivano alimenti indispensabili e complementari.
Coll’arrivo dei barbari quasi tutti i piccoli centri isolati vennero abbandonati perché non difendibili
dalle frequenti incursioni, e le periodiche pestilenze e carestie contribuirono a ridurre ulteriormente
la presenza dell’uomo anche nella campagna, dove il continuo passaggio di armati aveva ridotto la
popolazione residua alla fame. Le città vennero periodicamente assalite e saccheggiate, e perciò
spesso abbandonate: in questo periodo scomparve almeno un terzo degli insediamenti urbani
romani. Ciò favorì il ritorno di foreste e paludi in molti territori in precedenza coltivati e l’economia
silvo-pastorale prese il sopravvento: nelle aree più lontane dagli abitati acquisirono un’importanza
fondamentale l’attività venatoria e l’allevamento, che però non veniva effettuato nei boschi più fitti.
Questi erano infatti abbondantemente disseminati di lacci e trappole che costituivano un forte
pericolo per le specie domestiche, e vi si svolgeva la caccia ai grandi animali: Paolo Diacono
ricorda la presenza di cervi, oggetto di prelievo venatorio, nella “vastissima foresta Urbe” che si
estendeva nei dintorni di Pavia. Le aree boscate poste ai margini delle foreste, rese sempre meno
fitte dal pascolo e dagli incendi appiccati periodicamente, erano soggette a un degrado progressivo e
al mancato rinnovamento della copertura arborea: questi popolamenti vegetali finivano così per
diradarsi ulteriormente e per trasformarsi lentamente in incolti aperti.
L’aggressione iniziale alle foreste della pianura veniva operata dai maiali che si cibavano delle
ghiande e riducevano la possibilità di rigenerazione delle querce, sconvolgendo costantemente il
terreno per alimentarsi. Quando l’ambiente era diventato più aperto seguivano le capre, che
brucavano germogli e giovani pianticelle e impedivano la ricrescita degli alberi, e infine le pecore
che inibivano il ritorno della foresta e mantenevano basso lo strato erbaceo sul terreno,
contribuendo a evitare la ricrescita arborea. In ogni caso il fuoco veniva ampiamente e
costantemente impiegato per rendere la foresta sempre più adatta alle necessità dell’uomo, che
inoltre vi prelevava il legname utilizzato per costruire e riscaldare le case, cuocere il cibo, realizzare
utensili e recinzioni dei campi e produrre numerosi oggetti indispensabili.
L’umanità era però scarsa, in conseguenza delle guerre e delle epidemie che la falcidiavano
periodicamente, come la terribile Morte Nera proveniente dall’Egitto che provocò una prima
decimazione poco prima dell’arrivo dei Longobardi e continuò poi a imperversare periodicamente
per più d’un secolo. Per questi motivi la popolazione dell’Italia si ridusse di oltre la metà in questo
periodo, passando da 8,5 milioni d’abitanti nel 200 a soli quattro milioni nel 700.
L’epoca longobarda
Dopo l’assedio e la distruzione di gran parte delle città, i nuovi signori longobardi s’insediarono in
alcune villae nelle campagne ancora coltivate: da qui organizzarono la nuova vita economica e
amministrativa dei territori dei quali s’erano impossessati con brutalità. Ovunque aumentarono le
terre abbandonate che tornarono a essere boschi, paludi, acquitrini: per questo le fonti ecclesiastiche
del primo periodo longobardo parlano delle fiere tornate a vivere in luoghi che prima avevano
ospitato uomini “fitti come le spighe di grano”. Comunque anche nelle aree ancora coltivate i campi
erano sempre circondati da boschi e paludi, la messa a coltura di nuove terre era contenuta e
venivano conservate vaste porzioni incolte, che garantivano una quota fondamentale d’alimenti e
materie prime.
Nella pianura le acque costituivano un ostacolo insormontabile per la messa a coltura d’una parte
non indifferente del territorio, però nelle paludi più vaste la caccia, la pesca e la raccolta di piante
spontanee erano fondamentali per la sopravvivenza della popolazione: quindi la loro bonifica, molto
difficile se non impossibile, sarebbe stata addirittura svantaggiosa.
Più facilmente trasformabili in coltivi le foreste, che infatti coll’arrivo dei Longobardi subirono un
forte attacco, ma la loro abbondanza e diffusione erano tali che non venne stabilita alcuna norma
per una loro gestione conservativa. Quindi sempre più frequentemente nelle grandi proprietà che
s’andavano consolidando vennero diboscate vaste superfici per ottenere nuove aree da mettere a
coltura. La foresta che aveva riconquistato spazio a scapito delle coltivazioni abbandonate venne
dunque nuovamente aggredita, a partire dalle località ancora abitate e da numerosi piccoli nuclei
formati da poche abitazioni, che iniziarono a diffondersi in tutta la pianura.
La vita rimaneva però molto difficile e precaria, oltre a essere molto breve, e malattie come
tubercolosi e lebbra erano piuttosto diffuse. La mortalità infantile, cui le famiglie cercavano di
sopperire con un numero elevato di figli, era fortissima, come pure la morte delle donne durante o
in conseguenza del parto. Vaiolo, dissenteria e peste precedevano e seguivano le carestie e le
guerre, la malaria derivante dalla puntura delle zanzare che infestavano le paludi provocava
numerose vittime, e verso la fine del VII secolo un’eclissi di luna precedette la peste che flagellò
l’Italia per tre mesi: città come Pavia vennero quasi completamente abbandonate dai pochissimi
sopravvissuti, che contribuirono con la loro fuga a diffondere altrove il morbo che li aveva colpiti.
Le condizioni igieniche delle case e il contato continuo con gli animali allevati facilitavano
ampiamente la diffusione di svariate malattie, e i ratti trasmettevano all’uomo la Morte Nera col
morso delle loro pulci. Nelle abitazioni erano sicuramente abbondanti gli scarafaggi, in grado di
veicolare microbi pericolosi dai rifiuti al cibo, nel corpo degli abitanti erano presenti numerosi
parassiti interni (tenie, ascaridi, ossiuri) e la scabbia portata da minuscoli acari era diffusa,
manifestandosi anche con vere e proprie epidemie. Invece non erano probabilmente abbondanti i
parassiti esterni, quanto meno sul corpo dei Longobardi che avevano una cura profonda e costante
della loro igiene personale. Nei secoli successivi la completa affermazione del cristianesimo e del
concetto del rischio peccaminoso derivante dalla nudità determineranno invece l’abbandono della
pulizia corporea, con la conseguente proliferazione di pulci, pidocchi e piattole e delle malattie
trasmesse da questi insetti.
Il paesaggio padano longobardo
Sul finire del VII secolo la Pianura Padana era coperta da estese foreste, che dominavano nelle aree
più lontane dai fiumi, e dalle ampie paludi che occupavano tutte le depressioni e le zone vicine ai
corsi d’acqua, mentre alcuni territori sterili erano coperti da rada vegetazione erbacea o arbustiva.
L’impronta dell’uomo era evidente nei piccoli coltivi che si concentravano nella fascia dell’antica
colonizzazione romana e intorno ai centri abitati, ma poteva essere rilevata anche in alcune foreste.
Qui il maggior pregio economico delle silvae glandiferae o glandariae portava a modificare la
composizione arborea originaria favorendo le querce, ma l’alterazione era completa se venivano
piantumati i castagni che, veri alberi del pane, fornivano cibo prezioso per la popolazione.
Però le foreste, anche se avevano riconquistato ampi territori dopo la fine dell’Impero Romano, non
coprivano alcune porzioni della pianura che si presentavano come prati magri e cespuglieti radi.
Queste aree erano lembi sassosi, aridi per la loro grande permeabilità, che avrebbero preso il nome
di strepade nella bergamasca e di campagne nella bresciana e nel Friuli (dove erano presenti anche i
simili magredi), che oltre 1.300 anni dopo il Sestini descrisse ancora come “sterili e adatti solo al
pascolo”, mentre gli ambienti delle campagne si presentavano “avaramente vestiti da una
vegetazione verde-cinerea o bruna” che li rendeva simili a steppe. Ancora in Friuli, presso il limite
inferiore dell’alta pianura, erano presenti tratti di ghiaie (grave) bianche, estremamente aride e quasi
prive di copertura vegetale, mentre nelle pianure torinese, vercellese e lomellina si trovavano i
sabbioni, piccoli dossi sabbiosi sterili e coperti da chiazze d’erbe rade. Nell’alta pianura erano poi
localmente diffusi vasti lembi di brughiera su suoli aridi ciottoloso-sabbiosi, molto permeabili e
degradati, che le piogge avevano privato di gran parte dei sali minerali necessari alla crescita della
vegetazione arborea.
Altre vaste radure erano situate dove l’acqua raggiungeva quasi la superficie del suolo e in alcuni
punti ne sgorgava spontaneamente oppure si raccoglieva in paludi e acquitrini. Si trattava
dell’ampia fascia delle risorgive, che era più continua nei territori compresi tra gli affluenti di
sinistra del Po e maggiormente frammentata tra quelli di destra. In tale area, al confine tra l’alta
pianura permeabile alle piogge e la bassa pianura con suolo di tessitura più fine e perciò
impermeabile, l’acqua della falda - impossibilitata a proseguire verso valle - veniva spinta verso la
superficie e si manteneva in pressione a breve distanza da essa. Nella descrizione del Grandi, ancora
alla metà del XIX secolo nella pianura bergamasca presso Mozzanica e Fornovo dal terreno le
acque di falda “appena lo si calchi co’ piedi o se ne smuova il fondo …escono impetuose a foggia
di sifone. Il suolo è quivi tutto intersecato da rivoli e fossati sorgivi e da vasti paduli”.
Non mancavano infine, anch’essi lontani dai fiumi maggiori, depositi torbosi inadatti alla crescita
degli alberi, come le lame bresciane dal suolo quasi nero e con numerose depressioni perennemente
allagate, dove venivano praticati il pascolo e la raccolta di erbe palustri, e altri grandi avvallamenti
impaludati, come i mosi cremaschi e bergamaschi.
Gli ambienti non antropizzati non venivano però considerati improduttivi, perché nelle poche aree
coltivate le rese erano molto scarse, con frequenti perdite dovute ad andamenti stagionali anomali
ed esondazioni periodiche, e rendevano indispensabile l’integrazione dei prodotti dei campi con
quelli di foreste, paludi e incolti, meno soggetti alle avversità naturali.
Comunque a ogni incremento della popolazione corrispondeva un ampliamento dei campi a scapito
dei boschi limitrofi, che non si verificava invece per le paludi più vaste: la loro bonifica era spesso
impossibile con i mezzi dell’epoca e con la forza-lavoro di poche persone. Tra i pochi interventi
realizzati in tutto il Medioevo anche da piccole comunità vanno ricordate le bonifiche per colmata
delle zone umide prossime ai fiumi. In quelle non troppo vicine al corso d’acqua che le allagava
periodicamente veniva piantata una palizzata di rami vivi di salice, perpendicolare all’avvallamento
dal quale entrava la piena. Questi astoni vegetavano rapidamente, non impedivano l’accesso
dell’acqua che trasportava abbondanti detriti ma ne rallentavano l’uscita, facendo depositare tutto
quello che vi era stato trascinato: ciò accelerava il normale processo d’interrimento di queste zone
umide, che si trasformavano rapidamente in folti saliceti. L’intrico dei loro rami presso il terreno
determinava poi un effetto-trappola che bloccava tutti i detriti fluitati, innalzando ulteriormente il
livello del suolo e rendendolo più fertile. Se poi il corso d’acqua s’allontanava diventava possibile
diradare il bosco per utilizzarlo come pascolo, col morso del bestiame che avrebbe impedito la
rigenerazione degli alberi, e forse successivamente in coltivo.
Le grandi alluvioni erano comunque eccezionali, in quanto non era ancora stato attuato il
diboscamento delle pendici montane, coperte ancora da grandi foreste che trattenevano le piogge e
ne rallentavano il deflusso a valle, e solo di rado si verificavano esondazioni disastrose. La più nota
e catastrofica ebbe luogo una ventina d’anni dopo l’arrivo dei Longobardi, nell’autunno del 589,
quando l’Adige dilagò per la pianura veronese e vi ristagnò a lungo sommergendo città e villaggi.
Monasteri, deforestazione e bonifiche
Una forte spinta all’antropizzazione del paesaggio derivò dal progressivo insediamento di monasteri
in ambienti che erano stati abbandonati dall’uomo: quando l’irlandese san Colombano, tra 612 e
615, fondò il monastero di Bobbio la collina piacentina era interamente forestata, mentre l’abbazia
di Nonantola venne fondata intorno al 752 in un territorio modenese allora definito deserto.
Nell’Occidente medievale tale termine faceva riferimento ai luoghi della solitudine, costituiti
sempre dalle foreste, che venivano prescelti per la costruzione degli eremi che poi spesso
diventavano i nuclei fondanti di strutture più ampie e popolate.
Re e duchi longobardi, che possedevano vasti territori inutilizzati a livello agricolo, vi favorirono
l’insediamento di monasteri, che disponevano della manodopera organizzata e delle conoscenze
tecniche necessarie a rendere produttive anche le aree più difficili. Per questo, con una forte
motivazione anche religiosa nella loro lotta contro la natura selvaggia, tutti gli ordini monastici
combatterono una vera e propria guerra contro la foresta e gli alberi, e alcuni diboscamenti vennero
finalizzati anche a cancellare le aree destinate ai riti della religio silvestris, molto diffusi soprattutto
tra i Longobardi prima della loro completa cristianizzazione.
Una delle vicende più note di questo conflitto riguarda il famoso noce di Benevento, già centenario
nel VII secolo e sito di celebrazione della festa della pubertà dei Longobardi non ancora
cristianizzati: per questo, assimilando nel suo fervore religioso queste cerimonie a manifestazioni
demoniache, durante le quali le streghe di tutta Europa si sarebbero riunite presso l’albero volando
sulle loro scope, il vescovo Barbato lo fece abbattere per far erigere al suo posto la chiesa di santa
Maria in Voto.
Intorno ai monasteri, che venivano collocati in aree che la natura aveva riconquistato o che non
aveva mai abbandonato, furono ampliate progressivamente le terre coltivate e vennero arginati i
corsi d’acqua, scavati drenaggi per bonificare le zone acquitrinose e costruiti edifici rustici. Le
comunità monastiche diedero quindi vigore all’agricoltura, che rendeva più sicura la disponibilità di
cibo quando le avversità climatiche e le calamità naturali compromettevano il rendimento degli
spazi naturali. Anche i monaci però allevavano maiali in foresta, cacciavano e facevano cacciare, e
dedicavano una particolare attenzione alla pesca, perché in linea di massima la loro dieta non
consentiva l’alimentazione carnea.
Con ogni probabilità a questo periodo va attribuito l’ingresso della carpa nelle acque italiane. Infatti
questo pesce d’origine centroeuropea poteva essere allevato facilmente in prossimità dei conventi
nei piccoli stagni che venivano scavati, o che venivano più semplicemente riadattati, per fornire
cibo nei giorni di magro. Tale necessità veniva affrontata anche consumando tutto ciò che era
considerato utilizzabile durante queste periodiche penitenze alimentari: dai laurices (feti di lepre o
di coniglio estratti dal liquido amniotico) per i più ricchi e raffinati, alle testuggini palustri e
terrestri, alla folaga per il forte sapore di pesce delle sue carni, alla lontra e al castoro in quanto
animali acquatici. Con la progressiva cristianizzazione della popolazione questi cibi acquisteranno
progressivamente importanza anche fuori dai conventi, per il divieto di consumare alimenti
d’origine animale in alcuni giorni della settimana e in alcuni periodi dell’anno.
Agricoltura e alimentazione
I coltivi, scarsi e collocati presso centri abitati e monasteri, erano circondati da una natura la cui
antropizzazione diminuiva all’aumentare della distanza dagli insediamenti umani. La loro fertilità
non poteva essere incrementata con la letamazione, in quanto l’allevamento semi-brado del
bestiame non consentiva d’accumulare gli escrementi animali, e il riposo pascolativo era prolungato
per evitare l’esaurimento del suolo. Il pascolo nei campi dopo il raccolto, che per i cereali
comportava un taglio più in alto durante la mietitura, permetteva di nutrire temporaneamente il
bestiame fuori da incolti e foresta e apportava un minimo di deiezioni, e l’eventuale incendio delle
stoppie rimaste - se mancavano alberi produttivi al margine dei coltivi che ne avrebbero subito
danno - oppure la loro incorporazione nel suolo coll’aratura avevano la funzione di mantenere il più
possibile la produttività agricola.
L’unica possibilità d’implementare la fertilità consisteva nell’incremento del numero delle arature,
che potevano essere fino a cinque all’anno, e l’aumento della produzione agricola derivava
semplicemente dall’espansione delle superfici coltivate.
I cereali più pregiati erano frumento, farro e orzo, ma fin dall’epoca romana le aree coltivate della
Gallia Cisalpina producevano soprattutto miglio e panico, favoriti dalle caratteristiche del suolo e
dal clima locale, insieme a sorgo, spelta e in misura minore avena e segale. Insieme a questi cereali
venivano coltivati legumi, che col loro apparato radicale fertilizzavano il suolo e non richiedevano
concimazione: si trattava di fagioli (soltanto quelli dell’occhio e i fagiolini, perché gli altri verranno
dalle Americhe secoli dopo), piselli, ceci, cicerchie e soprattutto fave, molto diffuse
nell’alimentazione. Dov’erano stati introdotti i castagni i loro frutti venivano ampiamente
consumati, di solito trasformati in farina oppure seccati per facilitarne la conservazione. Queste
erano le basi dell’alimentazione delle classi povere, che si nutrivano di pappe-zuppe, come il
pulmentum arricchito da ortaggi, condite coi grassi derivanti dall’allevamento suino.
In ogni curtis veniva praticata la viticoltura, e il vino iniziò a essere consumato anche dai ceti
popolari: più facilmente questi però dovevano accontentarsi del vinello, ottenuto annacquando le
vinacce dopo la pigiatura, o della birra. Invece nei monasteri il vino non mancava mai sulla tavola:
al tempo di Carlo Magno ogni monaco ne consumava circa un litro e mezzo al giorno.
Coltivazioni così differenti tra loro permettevano di contenere eventuali impatti provocati dalle
avversità climatiche, anche se di norma la resa cerealicola rimase, ancora fino all’età carolingia, di
due-tre semi raccolti per ciascuno che era stato seminato. Ciò non costituiva comunque un vincolo
troppo stringente per la sopravvivenza della popolazione, in quanto caccia, pesca e allevamento
semi-brado fornivano apporti alimentari indispensabili.
Infatti avevano un’importanza fondamentale i prodotti del pascolo, del bosco e della palude,
disponibili per tutti perché non era ancora stata decretata l’esclusione dei ceti inferiori dal loro
godimento. Ciò determinava un regime alimentare piuttosto vario, sicuramente migliore di quello
delle classi povere di epoche successive, e riduceva il rischio delle carestie che invece colpiranno
periodicamente e frequentemente i secoli seguenti.
Maiale e latte nell’economia longobarda
Nell’Europa settentrionale e centrale, dalla quale provenivano i Longobardi, l’agricoltura era
rimasta a lungo limitata alla coltivazione di piccoli campi temporanei, ricavati dalla foresta per
essere abbandonati quando la loro fertilità si riduceva oppure se le popolazioni si spostavano: la
maggior parte delle risorse alimentari derivava da caccia e pesca, dalla raccolta di prodotti
spontanei della foresta (funghi, frutti, piante commestibili) e dall’allevamento semi-brado di maiali,
capre e pecore.
L’alimentazione tradizionale si basava quindi su carne e latte, e i grassi utilizzati come condimenti
erano strutto e lardo, e il burro nelle cucine più ricche e raffinate. Inoltre le api fornivano l’unico
dolcificante disponibile all’epoca e la cera per le candele. A dimostrazione della diffusione
dell’allevamento di questi insetti, l’editto di Rotari del 643 impose una sanzione elevata, pari a 12
soldi (contro il valore di 20 per la vita d’un contadino), a chi avesse rubato un favo.
L’uso del latte e dei suoi derivati, ampiamente diffuso tra i popoli che esercitavano la pastorizia
come i Longobardi, era considerato invece con ripugnanza dai Greci e ancor più dai Romani:
Erodoto disprezzava gli Sciti chiamandoli mungi-cavalle e il consumo del latte costituiva nell’antica
Roma un’ulteriore dimostrazione della natura immatura dei barbari, che continuavano a cibarsene
anche dopo l’infanzia.
Un forte limite all’impiego di tale alimento e d’alcuni suoi derivati consiste nell’intolleranza in età
adulta al lattosio presente nel latte vaccino: essa deriva dalla carenza dell’enzima lattasi che lo
scinde in zuccheri semplici, assorbibili nel tratto gastro-intestinale. Nell’Europa settentrionale soffre
di questa intolleranza solo il 5% della popolazione, contro il 30% nella centrale e ben il 70% nella
meridionale. Queste forti differenze ebbero origine in seguito alla domesticazione del bestiame:
dopo tale fase della storia dell’umanità la selezione naturale iniziò a favorire la persistenza della
lattasi negli adulti delle popolazioni che disponevano d’animali da mungere, in quanto la loro
sopravvivenza veniva facilitata dall’impiego del latte come alimento.
Molto importante anche l’allevamento semi-brado dei maiali, già praticato dai Celti e poi dai coloni
romani prima dell’arrivo dei Longobardi e da questi notevolmente potenziato, che aveva un ruolo
economico centrale: nell’Italia padana le foreste venivano misurate in base al numero di capi che vi
si potevano far pascolare. La carne del maiale era infatti quella utilizzata più comunemente, in
quanto bovini e cavalli servivano principalmente per il lavoro nei campi, per il traino di carri e
come mezzi di spostamento, in pace e soprattutto in guerra. Il suo consumo fresco era limitato a ciò
che era deperibile dopo la macellazione e andava perciò mangiato immediatamente, mentre la
maggior parte veniva conservata salata, affumicata o insaccata per essere utilizzata nel corso
dell’anno. Inoltre era molto diffusa la vendita delle cosce conservate dei maiali, che già in epoca
romana fornivano prosciutti ampiamente commercializzati. L’allevamento di capre, pecore e bufali
(introdotti in Italia per la prima volta dai Longobardi) forniva soprattutto latte e in misura minore
lana e pelli, da alcune delle quali venivano ricavate le preziose pergamene utilizzate nei monasteri.
Della cura dei maiali si occupavano lavoratori specializzati, i porcari: la presenza attuale di questo
cognome di chiara origine professionale ricorda l’antica diffusione di questi specialisti nelle aree
più ricche dei boschi adatti al pascolo suino. Così i Porcari abbondano nell’area padana tra Pavia,
Cremona, Piacenza e Parma, nell’Umbria centro-meridionale, nel Lazio a sud di Roma e nella
Puglia al confine col Materano, e i Porcaro in Campania tra Napoli e Avellino, e con minor
diffusione sui monti della Calabria meridionale e in Sicilia nell’entroterra palermitano. In tutte
queste aree si trovavano boschi nei quali veniva praticato il pascolo dei maiali, che aveva assunto
un’importanza tale da richiedere la specializzazione d’alcuni lavoratori. Non a caso quindi l’editto
di Rotari, che determinò il valore della compensazione per aver causato la morte d’un uomo in base
alla sua categoria d’appartenenza, stabilì ben 50 soldi per un porcaro contro i 20 per un pecoraio o
capraio.
La caccia e la pesca
La caccia in foresta e in palude forniva apporti fondamentali all’alimentazione e coll’editto di
Rotari i terreni vennero divisi tra quelli dove l’attività venatoria era riservata a re e nobili, con
punizioni molto severe per i trasgressori, e quelli dove essa rimaneva libera, che erano comunque la
maggioranza.
La caccia effettuata dalle classi dominanti aveva una straordinaria importanza anche come
addestramento alla guerra, essendo praticata in modo molto simile: cavalli con cavalieri armati di
archi e lance e fanteria composta da appartenenti alle classi dominate, qui in qualità di battitori, che
dovevano coordinare efficacemente i loro movimenti. Inoltre offriva numerose possibilità di
dimostrare il proprio valore, soprattutto misurandosi con prede particolarmente pericolose:
l’uccisione d’un cinghiale stanato dai cani, a piedi e impiegando soltanto la lancia, veniva
paragonata a una difficile impresa guerresca in quanto richiedeva grande coraggio.
Però, nonostante la pressione venatoria cui erano sottoposti, il cervo, il cinghiale e il capriolo
rimasero estremamente diffusi, anche perché gli ambienti nei quali potevano vivere erano molto
estesi ed erano raramente interrotti da insediamenti umani. La falconeria - diffusa in tutto
l’Occidente a partire dal IV secolo - non aveva ancora assunto una connotazione esclusivamente
nobiliare e veniva praticata comunemente, ma forse principalmente secondo il modello dei Celti: un
falco addestrato veniva fatto volteggiare sulla selvaggina per immobilizzarla e renderne più facile la
cattura.
Nella caccia di sussistenza venivano invece impiegati tutti i metodi successivamente classificati
come bracconaggio, che derivavano dalla profonda conoscenza delle abitudini delle prede e del loro
comportamento, già adottati in epoche precedenti e utilizzati ancora a lungo in seguito.
Lungo i tragitti percorsi dalla grossa selvaggina venivano scavate fosse coperte da frasche e spesso
dotate di pali appuntiti infissi nel fondo, oppure erano collocate gabbie con chiusura determinata da
alcuni movimenti di chi vi era entrato, spesso attirato da un’esca, se servivano animali vivi. Ciò
permetteva anche di disporre d’esemplari da introdurre nei siti di caccia dei signori per aumentare il
loro divertimento, e per lo stesso scopo potevano essere fatte battute che spingevano gli animali in
recinti o in reti. Però a questi strumenti complessi e faticosi da realizzare venivano preferiti i lacci
con nodi scorsoi all’altezza del collo, o archi con frecce incoccate oppure pesanti tronchi, collocati
di lato o sopra il percorso, il cui meccanismo di rilascio era attivato da chi inciampava nella corda
che lo sbloccava, o anche tagliole. Queste però richiedevano l’impiego di ferro, scarsamente
disponibile e soggetto al rischio di furti per il suo valore: a tale proposito può essere ricordato che
uno dei miracoli di san Benedetto fu quello di recuperare una roncola di ferro fatta cadere da un
monaco nell’acqua profonda, che altrimenti sarebbe andata perduta.
La piccola fauna veniva catturata con metodi simili a quelli adottati per gli animali più grandi, cui
per gli uccelli si univano il vischio sui posatoi e le trappole con archetti (che imprigionavano le
zampe di chi si posava su un bastoncino e lo dislocava), o sassi piatti che cadevano schiacciando
l’individuo che, attirato dal cibo, aveva spostato il loro sostegno. I piccoli uccelli potevano anche
essere attirati da una civetta o un altro rapace notturno, collocato su un posatoio ben in vista
circondato da rametti cosparsi di vischio: qui avrebbero finito per aderire gli individui richiamati dal
loro nemico, mentre cercavano d’allontanarlo. In alcuni casi era poi indispensabile la presenza
dell’uomo, come ad esempio nella cattura di anatre con reti a caduta tese sopra l’acqua: a breve
distanza veniva posizionata una sagoma galleggiante che fungeva da richiamo, spostata
progressivamente sotto la rete per attirarvi la selvaggina che veniva poi imprigionata dal cacciatore
che sbloccava al momento opportuno l’apparato di cattura.
La pesca veniva fatta principalmente con reti fisse oppure trascinate nelle acque basse, con nasse di
vario tipo realizzate con rami flessibili intrecciati, e nei piccoli corsi d’acqua anche asciugando
alcuni tratti dopo averli sbarrati provvisoriamente, oppure camminando nell’acqua non profonda e
sondando delicatamente con le mani i siti nei quali i pesci si rifugiavano, per afferrarli rapidamente
nei punti adatti a una presa salda. Ove possibile venivano impiegate anche le fiocine e in alcuni casi
i lacci con nodo scorsoio, per imprigionare grandi lucci se sostavano immobili a mezz’acqua. L’uso
d’ami con esche, legati a cordicelle, era invece minoritario in quanto meno produttivo degli altri
metodi; inoltre la grande visibilità degli strumenti adottati limitava probabilmente questo tipo di
pesca a pesci che s’alimentano durante la notte, come l’anguilla.
Orsi, lupi e uomini dai Longobardi a Carlo Magno
La storia delle relazioni tra ambiente e uomo in epoca longobarda può essere letta anche nel
mutamento dei rapporti con i due più grandi predatori (orso e lupo) che vivevano nei territori
frequentati dai cacciatori. Però il ruolo dell’orso, fin dagli inizi del cristianesimo, rimase sempre
negativo. Infatti sant’Agostino d’Ippona, commentando un passo biblico, l’associò al diavolo,
mentre alcuni martiri, condannati ad bestias (cioè a essere sbranati in pubblico da carnivori
affamati), erano riusciti - ovviamente per intercessione divina - a far passare completamente
l’appetito agli orsi giustizieri. Tra questi possono essere ricordati i santi Faustino e Giovita (oggi
patroni di Brescia), santa Colomba di Sens, i santi Abdon e Sennen e san Gennaro di Napoli.
Perciò nel periodo dell’affermazione della nuova religione questi animali, ammansiti
miracolosamente, figurano spesso nelle vite dei santi, come san Colombano e san Gallo che
allontanano orsi durante la ricerca di luoghi adatti a localizzarvi i loro eremi. Tali racconti volevano
dimostrare che la fede cristiana poteva dominare la natura ostile, e soprattutto che sconfiggeva i
residui di paganesimo legati a questi animali, così importanti in molte tradizioni barbariche. Altre
leggende cristiane avevano la medesima finalità, con orsi selvaggi trasformati in animali così
mansueti da farsi cavalcare (da san Romedio) o da trasportare bagagli sul dorso (per sant’Amando,
san Colombano e san Martino), da trascinare l’aratro (per san Montano) o carri (per san Rustico e
per il vescovo Aredio), da sorvegliare le greggi (per san Fiorenzo) o da fungere da servitori (per san
Marino e sant’Eligio ) o da fornire la legna per il fuoco (a San Gallo), o da guidare i pellegrini che
s’erano perduti in una tormenta di neve mentre cercavano di raggiungere san Severino.
Questo grande mammifero, che scompare per andare in letargo prima dell’inverno e ricompare poi
all’inizio della primavera, se femmina insieme ai suoi piccoli, costituiva per molte culture
precristiane un chiaro simbolo del risveglio annuale della natura, e perciò veniva festeggiato anche
dopo l’affermazione del cristianesimo in cerimonie che avevano mantenuto una forte impronta
pagana. L’attacco fu quindi particolarmente forte contro l’orso, il cui culto rimase a lungo il più
diffuso nell’emisfero settentrionale dal quale provenivano i Longobardi. In varie leggende si
parlava addirittura di donne rapite e violentate da questo animale, che avrebbero poi partorito figli
dotati di straordinario vigore, destinati a diventare capi guerrieri. La popolarità dei nomi di persona
derivanti da questo animale, da Björn a Ursula, dimostra il desiderio di far acquisire il coraggio e la
forza dell’orso all’infante cui venivano attribuiti.
Nell’Europa centrale erano inoltre diffusi giochi di tipo carnevalesco, nei quali persone travestite da
orsi si lasciavano andare a licenze - intollerabili per gli uomini di chiesa - addirittura simulando
accoppiamenti che in questo animale, considerato particolarmente libidinoso, venivano ritenuti
more hominum, a partire da Plinio che non aveva compreso correttamente un passo di Aristotele e
poi da tutti quelli che accettavano per buono quanto altri avevano scritto in precedenza.
Per questi motivi la chiesa osteggiò anche apertamente tale animale, condannando nel Concilio di
Costantinopoli del 692 l’uso di suoi peli come amuleti contro il malocchio, e sostituendolo col
leone come simbolo di forza e coraggio, in quanto il controllo di questo grande felino nelle
tradizioni orali era molto più facile: in Europa la specie era stata eliminata da vari secoli e non era
quindi legata ad alcuna tradizione considerata pagana. Inoltre l’orso venne progressivamente
sminuito e ridicolizzato, per dimostrare anche in questo modo il tramonto dei culti più antichi.
Quindi non casualmente la chiesa, pur profondamente ostile agli spettacoli con gli animali, non
s’oppose mai alla circolazione d’orsi incatenati e ammaestrati, che accompagnavano i loro domatori
a intrattenere il popolo nelle fiere e nei mercati. Da predatore temuto e venerato, l’orso con la sua
museruola diventò quindi progressivamente soltanto un animale che danza e diverte il pubblico, e
finì anche per figurare con le sue carni nei banchetti più ricchi. Ciò non capitò mai al lupo, che
rimase invece molto più a lungo un simbolo di coraggio: il suo nome venne spesso attribuito a
numerosi figli maschi dei Longobardi, che come questo animale si dedicavano a cacciare
liberamente le medesime prede nella foresta.
Questo rapporto aveva un’affinità così stretta e paritaria da fare proprio d’un lupo il leggendario e
mansueto accompagnatore di Lopichis, bisnonno di Paolo Diacono, attraverso le foreste delle Alpi
orientali per fuggire dagli Avari che l’avevano fatto prigioniero, permettendogli di raggiungere il
Friuli dov’era nato. Peraltro nell’editto di Rotari non c’è alcuna menzione della necessità di
contenere i lupi, forse perché tale idea non trovava addirittura spazio nella cultura dell’epoca: nelle
vaste foreste le prede naturali del lupo erano così abbondanti da non far entrare questo predatore in
concorrenza coi cacciatori, né di trasformarlo in una minaccia per l’uomo e i suoi armenti. Il lupo
costituiva allora semplicemente il selettore naturale d’alcune specie di selvaggina e per questo non
aveva alcun bisogno d’avvicinarsi troppo all’uomo.
Successivamente l’aggressione sempre più forte all’ambiente naturale e alla sua fauna più pregiata,
che continuò per tutta l’epoca longobarda, modificò progressivamente questo quadro, in modo
infine molto profondo: alla diminuzione e alla frammentazione di foreste e incolti fece seguito la
riduzione dei lupi e delle loro prede abituali, sottoposte anche a una persecuzione sempre più
diffusa da parte dell’uomo. Dalla combinazione di questi fattori derivò per il carnivoro la necessità
di rivolgere le sue attenzioni agli animali allevati, sempre più abbondanti negli ambienti aperti, e in
alcuni casi all’uomo stesso.
Per questi motivi Carlo Magno istituì i luparii specializzati nella caccia ai lupi, e questa lotta
proseguì poi nei secoli fino alla scomparsa del grande predatore da quasi tutta l’Europa. Prima che
le sue popolazioni fossero ridotte ai minimi termini, alcuni secoli dopo l’epoca longobarda vennero
descritti lupi che si cibavano degli uomini, terrorizzando le popolazioni delle aree nelle quali
vivevano. La liberazione dalla loro presenza si verificava a volte addirittura per miracolosi
interventi divini: l’esempio più noto è il lupo di Gubbio, ammansito nel XIII secolo da san
Francesco. Meno famoso quello reso innocuo due secoli prima da san Domenico, accorso per i
lamenti d’una mamma cui il predatore aveva sottratto il figlioletto, che in seguito al suo intervento
venne restituito alle cure materne dall’animale diventato mansueto e gentile.
Dopo l’epoca longobarda gli ambienti naturali - insieme ad alcune delle specie che li abitavano -
erano quindi tornati a essere ostili, destinati semplicemente alla messa a coltura o al saccheggio
incontrollato da parte di popolazioni umane in aumento e con un’alimentazione basata sempre più
sui prodotti dell’agricoltura.
S’era spezzato completamente e definitivamente lo stretto legame che univa il popolo alla foresta,
alla palude e all’incolto come fonti indispensabili di cibo, coi risultati che oggi chiunque può
osservare facilmente.
Bibliografia
Azzara C., 2012. Le invasioni barbariche. Il Mulino - Storica Paperbacks 89, Bologna.
Azzara C., Bonnini A., 2011. Il latte e il formaggio dei barbari. In: Archetti A. & Baronio A. (a
cura), La civiltà del latte. Fondazione Civiltà Bresciana - Storia, cultura e società 3, Brescia:
467-474.
Bevilacqua P., 2001. Demetra e Clio, uomini e ambiente nella storia. Donzelli, Saggi - Natura e
artefatto, Roma.
Bergamo N., 2012. I Longobardi. Goriziana - I Leggeri 40, Gorizia.
Bocchi S., Galli A., Nigris E., Tomai A., 1985. La Pianura Padana. CLESAV, Milano.
Boscagli G., 1985. Il lupo. Lorenzini, Udine: 25-29.
Brosse J., 1991. Mitologia degli alberi. Rizzoli, Milano.
Camporesi P., 1993. Le vie del latte - dalla Padania alla steppa. Garzanti - I Coriandoli, Milano.
Castelletti L., Rottoli M., 1998. Breve storia dei boschi padani prima e dopo la conquista romana.
In: (Autori vari), Tesori della Postumia, Electa, Firenze: 46-57.
Cavanna A., 1978. La civiltà giuridica longobarda. In: (Autori vari), I Longobardi e la Lombardia -
Palazzo Reale, ottobre 1978. Comune di Milano: 1-34.
Corvino C., 2013. Orso. Odoya, Bologna.
Diacono P. (ried. 2008). Storia dei Longobardi. San Paolo, Cinisello Balsamo.
Ferrari V., 1988. Vegetazione e flora nell’ecosistema medievale (secoli VIII-XV). In: Bertoglio R.,
Ferrari V., Groppali R., Natura e ambiente nella provincia di Cremona dall’VIII al XIX
secolo. Assessorato Provinciale all’Ecologia, Cremona: 9-55.
Ferrari V., 2013. Il Cremonese e il Cremasco. In: Rognoni A. (a cura), Geostoria della civiltà
lombarda. Mursia - Itinerari e città, Milano: 318-354.
Ferrari V., 2013. Il Mantovano. In: Rognoni A. (a cura), Geostoria della civiltà lombarda. Mursia -
Itinerari e città, Milano: 355-388.
Ferrari V., 2013. Agricoltura e paesaggi rurali cremaschi antichi e moderni. In: Castagna G. (a
cura), Do spane da taré. Centro Ricerca Alfredo Galmozzi, Crema: 25-62.
Fornasaro F., 2008. La medicina dei Longobardi. Goriziana - Biblioteca di Storia Alto Adriatica,
Gorizia.
Franchini R., 2013. Il secolo dell’orso. Bompiani - Saggi, Milano.
Fumagalli V., 1992. L’uomo e l’ambiente nel Medioevo. Laterza - Universale 729.
Fumagalli V., 1994. Paesaggi della paura. Il Mulino - Biblioteca Storica, Bologna.
Giacomini V., 1958. La flora - Conosci l’Italia II. Touring Club Italiano, Milano.
Grandi A., 1858. Descrizione dello stato fisico-politico-statistico-storico-biografico della provincia
e diocesi di Cremona. Copelotti, Cremona.
Grassi R., 1995. La caccia nella provincia di Milano. Assessorato Provinciale Caccia e Pesca,
Milano: 17-51.
Groppali R., 2008. I fontanili. In: Groppali R. (a cura), Conservazione della natura e campagna nel
Parco Adda Sud. Conoscere il Parco 8, Lodi: 147-151.
Groppali R., 2009. Il maiale: l’animale per eccellenza della campagna cremonese. In: (Autori vari),
Alla corte di re maiale. Cremonalibri, Cremona: 13-22.
Groppali R., 2010. Castagne in montagna e in pianura. In: (Autori vari), I dolci di Cremona.
Cremonalibri, Cremona: 27-33.
Groppali R., 2012. La guerra agli alberi. La Scuola Classica - Annuario, Cremona: 293-306.
Groppali R., 2013. I paesaggi del latte. La Scuola Classica - Annuario, Cremona: 199-211.
Harris M., 1992. Buono da mangiare. Einaudi - Tascabili 87, Torino.
Harrison R.P., 1992. Foreste, l’ombra della civilità. Garzanti, Milano.
Heather P., 2012. La caduta dell’Impero Romano. Garzanti - Elefanti Storia, Milano.
Jarnut J., 1995. Storia dei Longobardi. Einaudi - Piccola Biblioteca 147, Milano.
Jarnut J., 2004. Cremona nell’età longobarda. In : Andenna G. (a cura), Storia di Cremona -
Dall’Alto Medioevo all’Età Comunale. Comune di Cremona : 2-25.
Le Goff J., 2010. Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale. Laterza - Economica
166, Bari : 25-44.
Le Goff J. (a cura), 2013. L’uomo medievale. Laterza - Economica 6.
Leo R., 2007. Lupi e loere (Brescia, Italia) - indagine preliminare. Natura Bresciana, 35: 141-148.
Majocchi P., 2000. La fondazione di Bobbio e la politica religiosa longobarda. Atti Convegno
internazionale Bobbio, 1-2 ottobre 1999 - Archivium Bobiense, Studia III : 35-55.
Mezzalira F., 2013. Le immagini degli animali tra scienza, arte e simbolismo. Colla, Vicenza.
Montanari M., 1984. Campagne medievali. Einaudi - Piccola Biblioteca 453, Torino.
Montanari M., 2003. Foreste e boschi. In L’Enciclopedia 8, La Biblioteca di Repubblica, Roma:
407-412.
Mosconi A., 2009. Il maiale nel Medioevo. In: (Autori vari), Alla corte di re maiale. Cremonalibri,
Cremona: 40-42.
Ortalli G., 1973. Natura, storia e mitografia del lupo nel Medioevo. Ateneo - La Cultura 11, Roma:
257-311.
Pastoureau M., 2012. Bestiari del Medioevo. Einaudi - Saggi 930, Torino: 57-111.
Pratesi F., 2001. Storia della natura in Italia. Editori Riuniti, Roma: 33-69.
Ruffo S. (a cura), 2001. Le foreste della Pianura Padana. Ministero dell’Ambiente e Museo Friulano
di Storia Naturale - Quaderni Habitat, Udine.
Saporiti M., 2013. Il Lodigiano. In: Rognoni A. (a cura), Geostoria della civiltà lombarda. Mursia -
Itinerari e città, Milano: 281-317.
Sereni E., 1979. Storia del paesaggio agrario italiano. Laterza - Universale 225, Bari: 69-116.
Sereni E., 1981. Terra nuova e buoi rossi. Einaudi - Paperbacks 122, Torino: 1-100.
Sestini A., 1963. Il paesaggio - Conosci l’Italia VII. Touring Club Italiano, Milano: 51-68.
Sorcinelli P., 1998. Storia sociale dell’acqua. Bruno Mondadori - Testi e Pretesti, Milano.
Todaro G., 2006. Bracconaggio e trappolaggio. Perdisa, Bologna.
Volonté M., 2009. Il maiale in età romana. In: (Autori vari), Alla corte di re maiale. Cremonalibri,
Cremona: 29-35.
Inner Wheel Club di Cremona PHF
Distretto Italia 206
1994-2014
20° anniversario