46
Inner Wheel on the footsteps of Longobards in Europe CULTURAL INTERNATIONAL MULTI YEARS PROJECT Inner Wheel Club di Cremona PHF - Distretto Italia 206 con il patrocinio della Biblioteca Statale di Cremona ATTI DEL CONVEGNO SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA 10 maggio 2014 - Cremona A cura di Riccardo Groppali Moderatrice Lynn Passi Pitcher. Interventi di Gastone Breccia, Mario Dadda, Marina Volonté, Valerio Ferrari, Andrea Guereschi, Riccardo Groppali Inner Wheel Club di Cremona PHF 1994-2014 - 20° anniversario

SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

  • Upload
    others

  • View
    3

  • Download
    0

Embed Size (px)

Citation preview

Page 1: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

Inner Wheel on the footsteps of Longobards in Europe CULTURAL INTERNATIONAL MULTI YEARS PROJECT

Inner Wheel Club di Cremona PHF - Distretto Italia 206

con il patrocinio della Biblioteca Statale di Cremona

ATTI DEL CONVEGNO

SULLE ORME DEI LONGOBARDI A

CREMONA

10 maggio 2014 - Cremona

A cura di Riccardo Groppali

Moderatrice Lynn Passi Pitcher. Interventi di Gastone Breccia, Mario Dadda, Marina Volonté,

Valerio Ferrari, Andrea Guereschi, Riccardo Groppali

Inner Wheel Club di Cremona PHF

1994-2014 - 20° anniversario

Page 2: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

ATTI DEL CONVEGNO

10 maggio 2014 - Cremona

Indice

Lavinia Taraschi, presidente Inner Wheel Club di Cremona

Presentazione

Gastone Breccia

Cremona nel VI secolo: Goti, Bizantini e Longobardi nel cuore della

Valpadana

Mario Dadda

Cremona nell’ombra dei Longobardi

Marina Volontè

Ritrovamenti di età longobarda in provincia di Cremona

Valerio Ferrari

Tracce toponomastiche della presenza longobarda in provincia di Cremona

Andrea Guereschi

Il Grande Diluvio del 589

Riccardo Groppali

Natura, ambiente e paesaggio padano nel periodo longobardo

Page 3: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

PRESENTAZIONE

È con entusiasmo che il Club Inner Wheel di Cremona ha pensato di aderire, nell’anno in cui

festeggia il ventesimo anniversario della sua fondazione, al progetto internazionale pluriennale

presentato durante il Convegno “Women for Europe - The role of Inner Wheel” svoltosi a Tuusula

in Finlandia. L’idea è diventata operativa in Italia grazie alla costituzione, con il benestare del

Consiglio Nazionale, di un comitato promotore formato dalle socie Mirella Ceni, Anna Cotta,

Almerinda Parrella, Paola Perrella e Luisa Vinciguerra che ne ha ridefinito il tema: ”L’Inner Wheel

sulle orme dei Longobardi in Europa”.

Il sodalizio rappresenta una realtà molto attiva in Europa e nel mondo, in grado di creare una rete di

sinergie e di comunicazione molto efficace. Numerose sono state le iniziative culturali realizzate su

base volontaria in particolare sui territori che custodiscono vestigia longobarde, con l’intento di

unire i Club delle terre del Nord a quelli del Sud e di costruire progetti condivisi.

Anche la provincia di Cremona è stata toccata dalla storia longobarda. Si è così pensato di

organizzare presso il Centro Culturale San Vitale, con il patrocinio della Biblioteca Statale di

Cremona, un convegno di studi con l’intervento di relatori qualificati che presentassero questo

argomento ancora poco noto a livello locale.

Gli atti del convegno forniscono una testimonianza alla città, affrontando con un approccio

multidisciplinare un argomento complesso, lontano nel tempo, sinora poco approfondito e del quale

sono scarse le testimonianze storiche.

In questo modo Inner Wheel di Cremona ha inteso portare il suo contributo ad un’opera corale di

respiro internazionale che ha riscosso molto interesse anche tra autorità e istituzioni.

La Presidente

Lavinia Taraschi

Page 4: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

CREMONA NEL VI SECOLO: GOTI, BIZANTINI E LONGOBARDI NEL

CUORE DELLA VALPADANA

Gastone Breccia Dipartimento di Musicologia e Beni Culturali dell’Università di Pavia

Storia di un’assenza La storia della città di Cremona in età bizantina è la storia di un’assenza. Le fonti disponibili non ne

fanno mai il nome, se non per citarne la conquista da parte del re longobardo Agilulfo nell’agosto

del 603; nei decenni precedenti, le grandi vicende militari e politiche della seconda metà del VI

secolo, che cambiarono per sempre la geografia etnica e politica dell’Italia settentrionale, sembrano

quasi girarle attorno, ignorandola o evitandola, come la corrente di un fiume che si divide ai lati di

una roccia.

È difficile, per uno studioso, descrivere un vuoto. In genere si dichiara la propria impotenza, e si

preferisce passare oltre: il compito dello storico non è quello di ricreare il passato, ma di spiegarlo

sulla base dei documenti superstiti. Ci sono però delle zone d’ombra che non è possibile ignorare;

come ha scritto Carlo Ginzburg, la storia è una «divinazione rivolta al passato» (Miti emblemi spie,

Torino 1986, p. 183), un’indagine alla ricerca dei più labili indizi che permettano di intuire, prima

ancora che descrivere e comprendere, eventi sottratti per sempre alla nostra analisi diretta. In alcuni

casi è necessario affidarsi a tracce appena visibili, da interpretare con cautela ma senza dichiararsi

vinti in partenza: per ciò che riguarda Cremona, spingere lo sguardo nel buio della seconda metà del

VI secolo può servire comunque a chiarire - anche se limitatamente - il ruolo e il destino della città

in uno dei periodi più critici della sua esistenza.

La guerra greco-gotica

«Cremona bizantina» è un’espressione che, all’epoca, nessuno avrebbe compreso. Bisanzio aveva

cessato di esistere nel momento in cui l’imperatore Costantino aveva rifondato la ricca città sul

Bosforo come Nuova Roma, capitale dell’impero che ben presto sarebbe stato rigenerato dal

Cristianesimo (11 maggio 330). Il destino delle province occidentali, nei due secoli successivi, fu

caratterizzato dall’immigrazione massiccia di popolazioni germaniche, che trasformarono

progressivamente le strutture politiche, economiche e sociali della pars Occidentis; ma la Nuova

Roma aveva resistito a tutti gli assalti, e l’idea di uno Stato ecumenico era stata mantenuta viva fino

al regno di Giustiniano (527-565), che si era trovato nella condizione di mettere mano al grandioso

progetto di restitutio imperii inviando flotte ed eserciti in Africa, in Italia e in Spagna.

Cremona bizantina non è mai esistita, dunque. La città nel cuore della pianura padana, in posizione

strategica per controllare il traffico fluviale sul Po, era stata occupata dai Goti nel 489, ripresa da

Odoacre l’anno successivo e definitivamente riconquistata da Teodorico dopo la decisiva vittoria

sull’Adda (11 agosto 490). Nessun grande assedio; eserciti che passavano nelle vicinanze della città

e abitanti che aprivano loro le porte, in attesa di capire quale delle due parti in lotta avrebbe finito

per prevalere. È certamente sbagliato vedere nella lotta tra Odoacre e Teodorico uno «scontro di

civiltà»: quali che fossero i loro rapporti con il legittimo imperatore romano Zenone, lontano sul suo

trono di Costantinopoli, i due capi rivali erano entrambi espressione di una stessa cultura, sintesi

originale di elementi romani e germanici. Il prevalere dell’uno o dell’altro non avrebbe mutato in

maniera sostanziale il destino d’Italia, la cui prosperità e sicurezza sarebbe stata comunque legata

alla forza militare del vincitore e alla sua capacità di costituire un dominio stabile, proteggendo la

popolazione e permettendone lo sviluppo economico.

Cosa che riuscì a fare Teodorico. Il regno nato dal suo trionfo merita a pieno titolo l’appellativo di

romano-germanico, perché la civiltà che si stava sviluppando nella penisola manteneva in essere

tratti dominanti della tradizione imperiale, rinvigorita dall’energia dei «popoli biondi». Il grande

sovrano ostrogoto, educato a Costantinopoli e nominato da Zenone patricius e console, scelse di

modellare il proprio dominio sull’esempio glorioso di Roma antica. Nei suoi desideri, l’economia e

Page 5: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

la società delle province italiane avrebbero dovuto svilupparsi e prosperare dialogando con la pars

Orientis; ma due ostacoli si rivelarono insormontabili - la fede ariana degli immigrati germanici e la

rigida concezione del potere ecumenico, che non prevedeva altro che un solo imperatore e alcuni

sovrani minori, tollerati come dominatori locali solo finché non avessero la presunzione di trattare

su una base di parità con il legittimo augustus assiso sul trono di Costantinopoli.

Così, alla morte di Teodorico (526) e all’avvento al trono di Giustiniano (527), si verificò una

congiuntura del tutto particolare e fatale per il destino d’Italia: nella Nuova Roma le redini del

potere finirono nelle mani di un sovrano determinato a imporre la «vera fede» ortodossa estirpando

l’eresia ariana dai confini dell’ecumene cristiana; a Ravenna, al contrario, l’eredità del primo re

ostrogoto venne raccolta da un bambino, Atalarico, sotto la reggenza della madre Amalasunta,

osteggiati dalla maggior parte della nobiltà del regno. Giustiniano, oltre che la volontà, aveva il

denaro necessario a lanciare una serie di campagne militari destinate a riportare il bacino

occidentale del Mediterraneo sotto il dominio diretto dell’impero: dopo la rapida vittoria sui

Vandali in Africa settentrionale, le truppe agli ordini di Belisario sbarcarono in Sicilia nel 535;

l’isola venne conquistata senza difficoltà entro la fine dell’anno, e nella primavera successiva

Belisario invase la penisola, riuscendo ad occupare Roma il 9 dicembre.

Ma era solo l’inizio di una guerra durissima: le forze imperiali sarebbero riuscite a spezzare la

volontà di resistenza dei Goti solo dopo quasi vent’anni di lotta, al prezzo di sofferenze e

devastazioni tali da mettere in ginocchio l’economia e la demografia delle province italiane.

Cremona fu interessata solo marginalmente dalle operazioni belliche: nella prima fase del conflitto

l’esercito di Belisario, avanzando con cautela verso Ravenna, passò gli Appennini solo all’inizio del

539, senza riuscire però a consolidare le proprie posizioni nella pianura padana. Un piccolo

contingente imperiale - appena un migliaio di uomini - sbarcato a Genova nell’aprile del 538 era

riuscito ad avanzare fino a Milano, accolto festosamente in città dal vescovo Datius, e aveva

«liberato» molte altre piazzeforti della regione tra le Alpi e il Po, tra cui Bergamo, Novara e forse la

stessa Cremona; ma di fronte alla controffensiva nemica non aveva potuto far altro che scendere a

patti con gli assedianti e consegnare la vecchia capitale della pars Occidentis (marzo 539). I Goti

rispettarono gli accordi e risparmiarono gli uomini della guarnigione, ma «rasero al suolo Milano, e

uccisero tutti i maschi di qualsiasi età che ammontavano a non meno di trecentomila» (Proc. Caes.,

Bell. Goth., 2.21.10). Cremona - se davvero era stata occupata dagli imperiali nei mesi precedenti -

fu probabilmente tra le città che si arresero ai Goti da seguito del disastro; subito dopo, nel pieno di

quell’estate terribile, venne sfiorata da un’incursione a lungo raggio dei Franchi di re Teudeberto I,

che passarono il Po poco a valle delle sue mura puntando verso la via Emilia, prima di essere

costretti a ripiegare verso le Alpi, decimati dalla dissenteria.

Il sacco di Milano fu uno dei momenti più terribili dell’intera guerra, almeno per quanto riguarda la

pianura padana; negli anni successivi, infatti, non si hanno notizie di operazioni militari di rilievo

nell’intera regione tra le Alpi e il Po. Non deve stupire: gli eserciti erano relativamente piccoli, e le

loro campagne somigliavano a grandi incursioni in profondità, volte a guadagnare vantaggi

materiali attraverso il saccheggio e la distruzione delle risorse nemiche, o vantaggi morali

dimostrando la debolezza dell’avversario, ma erano del tutto incapaci di occupare il territorio nel

senso moderno del termine. Le città maggiori avevano spesso poco da temere: potevano soltanto

essere assediate in forze, ma questo avveniva di rado, perché l’operazione comportava un impegno

logistico tale da condizionare per mesi interi ogni altra iniziativa bellica. Napoli e Roma, o ancora i

porti dell’Adriatico, vitali per le comunicazioni con Costantinopoli, potevano meritare un simile

dispendio di tempo e risorse, ma non città tutto sommato secondarie come Cremona. Le grandi

battaglie campali vennero combattute altrove (Tagina, ovvero Gualdo Tadino, nel 552; Vesuvio,

553; Volturno, 554); con la sconfitta dell’ultimo re goto, Teia, la penisola tornò ad essere governata

da Costantinopoli, e Cremona tornò ad essere come in passato un importante punto d’appoggio nel

cuore della valle padana, essenziale per il controllo del traffico fluviale, ben difesa dalle sue mura e

difficilissima da assediare finché il corso del Po restava in mani amiche. Tutto sommato, nel

Page 6: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

turbolento orizzonte del VI secolo, un luogo ragionevolmente sicuro dove vivere e condurre i propri

affari.

Gli uomini biondi dalle lunghe barbe

Il 14 agosto 554, su richiesta di papa Vigilio, Giustiniano emanava la celebre Pragmatica sanctio

pro petitione Virgilii (ed. in Corpus Iuris Civilis, III, Novellae, a cura di R. Schöll, Berlino 1928, p.

799) per rimediare ai disastri causati dalla tyrannorum bellica confusio e dalla gothica ferocitas nei

vent’anni precedenti: il grande imperatore sperava così di inaugurare una nuova era di prosperità

restaurando le condizioni dell’epoca di Amalasunta e Atalarico e abrogando tutti gli atti dei re goti a

loro illegittimamente succeduti, che avevano gravemente turbato l’ordine sociale d’Italia. Vennero

riaffermati i diritti degli antichi proprietari terrieri contro ogni forma di usurpazione delle loro terre

- il re Totila (541-552), in particolare, aveva cercato di far leva sul malcontento dei contadini per

trovare sostegno nella lotta contro l’impero - e si cercò di alleggerire la pressione tributaria,

riordinando anche il sistema dei pesi e delle misure, l'amministrazione della giustizia, la riscossione

dell’annona, e disciplinando il corso della moneta. Difficilissimo valutare i risultati di simili

provvedimenti su un paese spopolato e impoverito: Giustiniano non visse abbastanza per verificarli,

e comunque meno di tre anni dopo la sua morte finì bruscamente la tregua concessa all’Italia.

La pace conquistata da Giustiniano a caro prezzo durò infatti una sola generazione. Alboino, re dei

Longobardi - tribù germanica fino ad allora stanziata in Pannonia e alleata dell’impero - sotto la

pressione degli Avari fu costretto a varcare le Alpi entrando in Italia da nord-est, questa volta come

invasore e non come foederatus. La penisola era scarsamente presidiata: i nuovi arrivati non

incontrarono grosse difficoltà nel raggiungere la pianura padana, occupando buona parte dell’Italia

settentrionale quasi senza combattere.

La strategia difensiva imperiale, nelle province più lontane da Costantinopoli, era realisticamente

improntata a lasciar lavorare il tempo, lo spazio e le malattie. Le poche guarnigioni restavano al

riparo delle mura delle città maggiori, meglio se con il mare o un fiume navigabile alle spalle, e

aspettavano che la storia facesse il suo corso: gli invasori, molto spesso, se ne tornavano oltre

frontiera senza arrecare danni irreparabili; ovvero, se restavano, finivano in buona parte per

confondersi nel volgere di qualche decennio con la popolazione, arricchendo l’impero di nuovi

contadini e soldati. Restava il problema dei loro capi: in molti casi potevano essere cooptati nella

gerarchia politica e militare; altrimenti, se non si riusciva a metterli nella condizione di non

nuocere, se ne tollerava l’autonoma gestione del potere locale, si pagava loro un tributo e si

aspettavano giorni migliori.

Ma i Longobardi, fin dall’inizio, si dimostrarono un ospite difficile per il vecchio impero. Non

avevano alcuna patria dove far ritorno; i loro usi e costumi, a quanto sembra, erano più rudi di quelli

di molti altri popoli germanici, per essere stati meno a contatto col mondo romano; il loro sistema di

valori ideali e sociali era saldamente e irriducibilmente centrato sulla guerra. Ed erano ancora ariani

in un’epoca in cui l’eresia subordinazionista (che considerava il Figlio generato e creato dal Padre,

quindi a lui inferiore per essenza), era stata sconfitta quasi ovunque, cessando di costituire un

pericolo per l’unità del mondo cristiano. Bisognava combatterli: i Bizantini li conoscevano piuttosto

bene, perché un contingente longobardo aveva preso parte all’ultima fase della guerra gotica agli

ordini di Narsete, contribuendo non poco al successo delle armi imperiali. Erano noti i loro pregi e i

loro difetti, le loro abitudini, le loro tattiche e le loro armi. «I popoli dai capelli biondi danno grande

importanza ai valori della libertà, e sono coraggiosi e intrepidi in battaglia; poiché sono spavaldi e

impetuosi, e considerano qualsiasi paura, e perfino una breve ritirata, come una vergogna,

disprezzano facilmente la morte. Combattono con furore nel corpo a corpo, sia a cavallo che a piedi

[…]. Sono armati con scudi, lance e spade corte appese alle spalle. Amano combattere a piedi ed

effettuare violente cariche.»

Sono parole scritte dall’imperatore bizantino Maurizio (582-602) nell’XI libro del trattato militare a

lui attribuito, lo Strategikon, in un breve capitolo intitolato «Come comportarsi con i popoli dai

capelli biondi, come i Franchi, i Longobardi e gli altri simili a loro». La scienza militare romana

Page 7: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

doveva fare i conti ormai con un mondo assai complesso, affollato di nemici diversissimi tra loro

per indole, tattiche e armamento: il buon generale doveva conoscerne punti di forza e debolezza, per

evitare i primi e sfruttare al meglio i secondi. Maurizio sapeva di cosa stava parlando, anche se non

aveva mai combattuto i Longobardi in Italia: era essenziale, per sconfiggerli, approfittare della loro

indole volubile, della scarsa disponibilità ad affrontare i rigori di una campagna militare prolungata,

dell’indisciplina e della fragilità morale; al contrario, in battaglia erano formidabili, e quindi da

fuggire e stancare con finte ritirate, logorandoli con la dilazione e la manovra.

La strategia bizantina era dunque ben delineata: sfruttare il riparo offerto dalle città fortificate,

ritirarsi verso la costa, dove la marina da guerra poteva rifornire le guarnigioni, e intanto fomentare

la discordia nel campo nemico, evitando il rischio di una battaglia campale. Non era possibile, negli

anni immediatamente successivi al 568, raccogliere forze sufficienti per un’offensiva in grande

stile; meglio temporeggiare, anche perché non mancavano certo nemici più temibili, o comunque

più vicini a Costantinopoli e al cuore dell’impero. L’Italia avrebbe dovuto cavarsela da sola fino a

nuovo ordine.

Una città sotto assedio?

I Longobardi - forse 150.000 individui, compresi vecchi donne e bambini - occuparono quindi vaste

estensioni di territorio italiano, in buona parte scarsamente popolate dopo i disastri della guerra

gotica e delle epidemie della metà del VI secolo. La prima città a cadere nelle loro mani fu Forum

Iulii (Cividale); poi Aquileia, Vicenza, Verona e Brescia (Paul. Diac., Hist. Lang., 2.14). Nel 569

anche la popolazione di Milano, in mancanza di aiuti militari da Ravenna, aprì loro le porte, mentre

Ticinum (Pavia), rifornita dal fiume, resistette per ben tre anni, cedendo solo nel 572. Re Alboino

ne fece la propria capitale; ma alla sua morte, dopo il breve regno di Clefi (572-574, assassinato per

istigazione del governo di Costantinopoli), i capi delle fare - i gruppi gentilizi-militari che

costituivano la principale articolazione della società longobarda - cominciarono a litigare tra loro,

offrendo un insperato periodo di tregua alle truppe imperiali che difendevano la penisola.

L’itinerario seguito nella prima fase della conquista non è privo di significato. I Longobardi si

tennero a debita distanza dal Po, preferendo conquistare le città pedemontane: la via d’acqua era il

principale ostacolo alla loro espansione, perché controllata dalle navi imperiali, contro le quali

almeno per il momento i nuovi conquistatori erano del tutto impotenti. La scelta di Alboino di

attaccare Pavia - e non Cremona, o Piacenza, entrambe in posizione più vantaggiosa in vista di una

prosecuzione della guerra lungo la direttrice della via Emilia - era stata quindi ben meditata: tra le

città maggiori, a parte Milano, la città sul Ticino era la meno facilmente raggiungibile per via

d’acqua dall’Adriatico, e quindi la più vulnerabile.

Dopo l’assassinio di Clefi, come si è accennato, il potere rimase nelle mani dei duces per circa un

decennio: ma i capi longobardi perseguirono ciascuno i propri interessi immediati, senza riuscire a

coordinarsi per continuare la conquista delle terre imperiali. Cremona, come molte altre città vicine

all’incerto confine tra le due dominazioni, visse praticamente indisturbata; né possiamo

considerarla, in questo periodo, come una piazzaforte sotto assedio, perché da quel poco che

riusciamo a capire delle operazioni militari di questi anni sembra che i contingenti nemici le

girassero al largo, consapevoli della sua sostanziale invulnerabilità.

Non città assediata, dunque, ma probabilmente città di frontiera; anzi, città-avamposto, perché

Cremona rimaneva una delle pochissime teste di ponte imperiali sulla sponda settentrionale del Po.

Per alcuni anni la situazione sembrò restare in equilibrio, anche se precario; ma non poteva durare

per sempre. L’avanzata longobarda, una volta risolte le lotte intestine, riprese con nuovo slancio;

avrebbe potuto essere arrestata solo da un intervento militare massiccio, ma in quegli anni il

governo di Costantinopoli non era assolutamente in grado di stornare uomini e risorse da altri fronti

più critici per la sopravvivenza stessa dell’impero.

Non che mancasse la percezione del pericolo, o la volontà di affrontarlo. Nel 584, quando re Autari,

ripreso il controllo dell’exercitus longobardo, decise di attaccare la linea del Po assediando e poi

espugnando Brixellum (Brescello), l’imperatore Maurizio avviò una riforma amministrativa

Page 8: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

destinata a rendere più efficiente la difesa del territorio romano, riorganizzandolo in una provincia

autonoma affidata a militare con il titolo di esarca («comandante in capo»). Sei anni dopo, raggiunta

una tregua soddisfacente sul fronte persiano, Maurizio si affrettò ad inviare rinforzi in Italia

affidandoli a Romano, il suo miglior generale, che aveva appena sconfitto l’usurpatore sassanide

Bahram. Il nuovo esarca sbarcò a Ravenna con un esercito non molto numeroso ma ben addestrato,

col quale riuscì a riconquistare la maggior parte dell’Emilia, riconquistando Brixellum, riaprendo i

collegamenti terrestri con Cremona e fermandosi solo di fronte alle mura di Pavia. Non aveva forze

sufficienti ad assediare la città, né potevano essergliene inviate altre da Costantinopoli: Maurizio

non poteva permettersi di sguarnire ulteriormente la frontiera orientale, e stava per impegnarsi in

una nuova durissima guerra nei Balcani.

Non restava che rafforzare le difese dell’esarcato in modo razionale, preparandosi a rintuzzare le

inevitabili offensive longobarde. Una fonte risalente ai primissimi anni del VII secolo - la

Descriptio Orbis Romani del geografo Giorgio di Cipro - testimonia la suddivisione del territorio

dell’Esarcato in cinque province, o eparchie, una delle quali, denominata Aemilia, sarebbe stata

disegnata come una fascia di territorio piuttosto stretta e oblunga, orientata da nord-ovest a sud-est,

ovvero da Laus Pompeia (Lodi Vecchio), ancora in mani imperiali, a Cremona, Piacenza, Parma,

Reggio e Modena. Benché non tutti considerino questa notizia esente da dubbi, da un punto di vista

militare la disposizione dell’eparchia Aemilia appare del tutto sensata: utilizzando come punto

d’appoggio estremo le piazzeforti sul Po, e in particolare proprio Cremona che poteva essere difesa

senza difficoltà grazie ai collegamenti fluviali, il comandante e le truppe stanziate nell’Aemilia si

trovavano nella migliore condizione per difendere - manovrando lungo l’asse dell’omonima strada

consolare - il fianco occidentale, scoperto, di quella parte della pianura padana ancora in mano

imperiale, creando un serio ostacolo all’avanzata nemica verso Ravenna.

Per il momento ci si doveva accontentare dei risultati raggiunti. L’esarca Romano, pur capace di

mantenere le posizioni nel cuore della pianura, non ricevette mai le truppe e i mezzi necessari ad

infliggere ai Longobardi una sconfitta decisiva. Maurizio aveva scelto - comprensibilmente, dal

punto di vista della sicurezza di Costantinopoli e della stabilità strategica dell’impero - di

combattere prima di tutto Avari e Slavi nei Balcani; l’Italia era un fronte secondario, dove

mantenersi sulla difensiva finché la situazione non fosse stata risolta in maniera soddisfacente alla

frontiera danubiana. Romano morì di malattia (596); il suo successore Callinico non dimostrò la

stessa aggressività ed efficienza nel condurre la guerra contro i Longobardi, limitandosi a respingere

alcune loro puntate offensive in direzione di Ravenna. Nell’estate del 599 Maurizio riuscì a

sconfiggere in modo decisivo gli Avari nei Balcani: erano finalmente disponibili truppe esperte in

numero sufficiente a lanciare un’offensiva in Italia, ma non c’era modo di pagare i soldati, che si

ritrovarono ben presto anche a corto di cibo. Le guerre incessanti, anche se vittoriose, avevano

messo in ginocchio le finanze dell’impero: Maurizio tentò la soluzione disperata di organizzare una

nuova spedizione nelle terre degli Slavi, per riuscire almeno a sfamare i propri uomini con il

saccheggio e a ricompensarli con il bottino, ma alla prospettiva di svernare in territorio ostile le

truppe si ribellarono alla sua autorità. Foca, un sottufficiale semianalfabeta, venne proclamato

imperatore, e Maurizio fu assassinato assieme alla sua famiglia (novembre 602).

In Italia, nel frattempo, il nuovo re Agilulfo (591-616) stava raccogliendo le forze per un’offensiva

in grande stile. La condizione preliminare fu la pace alle frontiere: il sovrano longobardo seppe

concludere trattati vantaggiosi con Franchi e Avari, garantendosi piena libertà d’azione contro gli

imperiali nella pianura padana. Ma i progressi furono lenti: per quanto le nostre fonti siano come

sempre lacunose, sembra di capire che fino al momento in cui Maurizio si mantenne sul trono i

confini dell’esarcato d’Italia restarono sostanzialmente immutati, e contro Cremona - benché la città

costituisse una dolorosa spina nel fianco per i piani aggressivi dell’ambizioso re longobardo - non

venne tentata alcuna azione militare.

Page 9: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

La fine e l’inizio

Ma le vicende costantinopolitane non restarono senza conseguenze sulla situazione della provincia

d’Italia. La caduta di Maurizio aprì una lunga fase di insicurezza e torbidi: Foca, passato alla storia

come un rozzo usurpatore, ma certamente vittima oltre i suoi demeriti di una storiografia a lui ostile,

non fu comunque in grado di rafforzare le difese dell’esarcato ravennate, che venne di fatto

abbandonato al suo destino. In questa situazione non c’è da stupirsi che Cremona, già nel 603, fosse

una delle prima città a cadere in mani nemiche: come abbiamo visto la sua posizione era

estremamente esposta, e la sua capacità di resistenza dipendeva totalmente dagli aiuti e dai

rifornimenti che potevano giungere per via fluviale dall’Adriatico.

Secondo Paolo Diacono «Agilulfo uscì da Milano nel mese di luglio, e assediò Cremona con l’aiuto

di un contingente di Slavi, che gli erano stati inviati in aiuto da Cacano re degli Avari; la prese il 21

di agosto e la rase al suolo» («ad solum usque»: Paul. Diac., Hist. Lang., 4.28). Possiamo nutrire dei

dubbi sull’ultima espressione usata dallo storico longobardo: la distruzione completa di una città era

un fatto meno comune di quel che si creda; o meglio, al momento della conquista venivano talvolta

smantellate (e quindi «rase al suolo») le mura, soprattutto se la guerra era ancora in corso e si

temeva quindi un possibile ritorno in forze del nemico, ma le altre strutture subivano di solito danni

parziali, spesso limitati agli effetti degli incendi scoppiati durante il saccheggio. Per Cremona era

comunque un duro colpo, e la fine di un’epoca: la città che per decenni era stata il principale

avamposto dell’impero nella pianura padana, e che aveva controllato a vantaggio del governo di

Ravenna il traffico sul medio corso del Po, era adesso nelle mani degli «uomini dalle lunghe barbe»,

ridotta probabilmente allo stato di semplice villaggio (vicus) privo di difese permanenti. Il 21 agosto

del 603 iniziava così una storia nuova.

Bibliografia

Delogu P. - Guillou A. - Ortalli G., 1980. Storia d’Italia, a cura di G. Galasso. Volume primo:

Longobardi e Bizantini. UTET, Torino.

Haldon J., 2001. The Byzantine Wars. Battles and Campaigns of the Byzantine Era. Tempus,

Stroud.

Jacobsen T.C., 2009. The Gothic War. Rome’s Final Conflict in the West. Westholme Publishing,

Yardley (PA).

Jarnut J., 2004. Cremona nell’età longobarda. In: Andenna, G. (a cura), Storia di Cremona.

Dall’Alto Medioevo all’Età Comunale, Banca Cremonese di Credito Cooperativo, Cremona.

Jones A.H.M., 1964. The Later Roman Empire. A Social, Economic, and Administrative Survey.

The University of Oklahoma Press, Norman (Okla).

Lee A.D., 2007. War in Late Antiquity. A Social History. Blackwell Publishing, Ancient World at

War, Malden (MA) - Oxford.

Maurizio imperatore, 2007. Strategikon. Manuale di arte militare dell’impero romano d’oriente. A

cura di G. Cascarino. Il Cerchio, Rimini.

Paolo Diacono, 1992. Storia dei Longobardi. A cura di L. Capo, Fondazione Lorenzo Valla –

Mondadori, Classici greci e latini, Milano.

Procopio di Cesarea, 1977. Le guerre. Persiana vandalica gotica. A cura di M. Craveri. Einaudi, I

Millenni, Torino.

Ravegnani G., 1988. Soldati di Bisanzio in età giustinianea. Jouvence, Collana della Facoltà di

Lettere e Filosofia dell’Università di Venezia - Sezione di studi storici 4, Roma.

Treadgold W., 1997. A History of the Byzantine State and Society. Stanford University Press,

Stanford (CA).

Wolfram H., 1985. Storia dei Goti. Salerno, Biblioteca storica 2, Roma.

Page 10: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

CREMONA NELL’OMBRA DEI LONGOBARDI

Mario Dadda consulente media e comunicazione

«… Agilulfo rase al suolo tutta la città e la svuotò degli abitanti. Per lungo tempo Cremona rimase

spopolata, ridotta a una specie di deserto».

Così scrive, nei primi decenni del ’300, il cronista Jacopo d’Acqui, un domenicano che - visti i

frequenti riferimenti a Cremona nella sua opera - si è ipotizzato possa esser vissuto qualche tempo

nel convento cittadino di S. Domenico.

Il racconto di Jacopo d’Acqui, che probabilmente raccoglie tradizioni sedimentate a livello locale,

continua con un andamento decisamente favolistico: narra di come un principe francese capitasse

poi in quel luogo sconosciuto e desolato dove trovò un leone ferito a una zampa.

Il principe lo curò e guarì e, da allora, il leone del tutto addomesticato prese a seguirlo. Dopo vari

viaggi e vicissitudini, una volta morto il leone, il principe tornò a Cremona, riedificò la città e

seppellì le ossa del leone «nelle fondamenta del muro dove è il torrazzo».

Si spiega così, conclude il cronista, come mai sulla cima del torrazzo svettasse allora un leone

rampante.

Al di là dei toni fantasiosi della storia, è interessante come - a distanza di secoli - la conquista di

Cremona da parte dei Longobardi fosse restata nella memoria collettiva come una specie di evento

traumatico: una città ridotta a deserto, a spazio vuoto e senza vita.

Tali accenti tornano in tutta la storiografia locale, si può dire fino all’800.

Questo sebbene nessuna evidenza archeologica ci restituisca la testimonianza di una simile

catastrofe. A differenza della distruzione, tremenda e brutale, da parte delle truppe di Vespasiano

nel 69 d.C., questa sì ben documentata dagli scavi. Ma, come vedremo in seguito, questa apparente

contraddizione può essere spiegata.

I Longobardi, insieme a contingenti di popolazioni loro alleate, entrarono in Italia nel 568 d.C.

Dovette trattarsi di una vera e propria migrazione di massa: uomini in armi, ma con al seguito

famiglie, masserizie, mandrie di bestiame.

Impossibile fare ipotesi sulla consistenza numerica di questo popolo in movimento, ma non

dobbiamo comunque immaginare cifre iperboliche.

Resta il fatto, questo sì sbalorditivo, che i Longobardi riuscirono a conquistare in appena due anni e

quasi senza resistenza tutta la fascia pedemontana tra le Alpi e il Po.

Tra le tante spiegazioni che si sono date di questo imprevedibile successo, la più plausibile è anche

la più semplice: i Longobardi, per così dire, erano arrivati nel posto giusto nel momento giusto.

In altre parole, sapevano di aggredire un organismo ormai senza difese: un paese al collasso dopo i

quasi vent’anni (535-553) della cosiddetta guerra greco-gotica.

Un paese stremato dalla guerra

Una guerra che forse fu la più devastante mai combattuta sul suolo della penisola, scatenata

dall’imperatore Giustiniano con l’intento di recuperare all’impero l’Italia dove gli Ostrogoti, con

Teodorico e i suoi successori, avevano instaurato un regno autonomo.

Fu quella che oggi si definirebbe una guerra di sterminio, combattuta a fasi alterne e senza

esclusione di colpi. I Goti ne uscirono annientati e l’Italia devastata. Lo storico bizantino Procopio,

in una pagina molto famosa, dà un quadro raccapricciante delle conseguenze di questa guerra, con

sequenze da film horror: città distrutte e spopolate, campagne dove nulla più cresce, popolazioni in

fuga sotto i morsi della fame, peste endemica, una carestia talmente feroce da spingere a episodi di

cannibalismo. Si muore di stenti cercando di cibarsi d’erba senza nemmeno avere la forza di

estrarla, cumuli di cadaveri insepolti talmente magri e rinsecchiti che perfino gli uccelli abituati a

cibarsi di carogne li rifiutano. «Il mondo - riporta un’altra fonte - sembrava tornato all’antico

Page 11: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

silenzio… non c’era impronta di gente che passasse, non si vedeva nessuno a uccidere: eppure i

morti erano più di quanti l’occhio riuscisse a scorgere».

Se a un simile quadro aggiungiamo il fatto che, alla fine della guerra coi Goti, parte delle truppe

bizantine era stata trasferita ai confini orientali dell’impero minacciati dai Persiani, questo può

servire a spiegare almeno in parte le ragioni, ancora controverse, della conquista facile e

inarrestabile da parte dei Longobardi.

Cremona bizantina

Cremona, insieme a Mantova, fu tra pochissime città a nord del Po a non cadere sotto il loro

dominio.

Forse perché difesa dal fiume e circondata da ampie zone di terreno paludoso o forse perché meno

strategicamente importante delle città della fascia pedemontana come Verona, Brescia, Bergamo e

Milano.

Resta il fatto che, per più di 30 anni, Cremona divenne la testa di ponte più avanzata della presenza

bizantina nel cuore del regno longobardo.

Cosa sappiamo di Cremona in età bizantina? In realtà pochissimo o nulla. Nel silenzio delle fonti

storiche, possiamo procedere solo per supposizioni o per analogia con altre località meglio

conosciute o documentate.

Quello che è certo è che il perimetro della città dovette di molto restringersi rispetto all’età romana.

Il processo di abbandono dei centri urbani comincia nel IV secolo d.C. per accentuarsi in quelli

successivi.

Negli scrittori della tarda latinità c’è quasi un senso di sbigottimento davanti a questo fenomeno

della “fine delle città”, di quell’economia urbana che aveva rappresentato il cuore pulsante

dell’impero. È un intero mondo che cambia, una crisi di sistema. Di fronte al crollo economico e

demografico, all’abbandono dei terreni coltivati, al venir meno della sicurezza personale, cessa la

manutenzione degli edifici, delle strade, dei corsi d’acqua.

C’è un passo famoso di una lettera scritta dal vescovo di Milano, Ambrogio, intorno al 387 d.C.,

che parla delle città che costellano la via Emilia - Bologna, Modena, Reggio, Piacenza - come di

semirutarum urbium cadavera, cadaveri di città, mezze in rovina.

Difficile pensare che anche Cremona non abbia condiviso questa sorte. Infatti le testimonianze

archeologiche ci confermano, anche nel caso di Cremona, l’avvio di questo processo di abbandono

di aree periferiche della città a partire già dal IV/V secolo.

Possiamo anche immaginare – ma questa è solo un’ipotesi non suffragata da prove – che i bizantini,

sia pur restringendone il perimetro, avessero rafforzato le difese della città.

Il regno di Agilulfo. Cremona in mano ai Longobardi

Cremona rimase per oltre trent’anni nell’orbita di Ravenna e Costantinopoli, fino al 603 d.C.,

quando la situazione subì un cambiamento radicale. Sul trono dei Longobardi era salito nel 590,

sposando Teodolinda, la vedova del suo predecessore, Agilulfo.

Un sovrano ambizioso e determinato a perseguire da un lato il rafforzamento del potere regio a

scapito di quello dei duchi che in passato avevano fatto piombare il regno nel caos e nell’anarchia

feudale, dall’altro una politica di espansionismo territoriale a danno dei tradizionali antagonisti

bizantini.

Il regno di Agilulfo (590-616 d.C.) fu caratterizzato, soprattutto nella prima fase, da una situazione

di conflitto semipermanente. Testimone diretto di questo contrasto insanabile che divide il mondo

romano-bizantino da quella che lui stesso definisce la “nefandissima nazione dei Longobardi” è

papa Gregorio Magno.

«In questi interminabili trentacinque anni dalla loro invasione, i Longobardi ci hanno forse

risparmiato una strage? Ci hanno mai dato una tregua negli assalti?», si chiedeva Gregorio.

I Longobardi, tra scorrerie e saccheggi avanzano nella penisola, con le truppe bizantine asserragliate

in alcune fortezze, impotenti a fermarli.

Page 12: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

Le parole pronunciate da Gregorio davanti ai fedeli durante un’omelia ci forniscono un quadro

drammatico, quasi disperato: «è rimasta gioia in questo mondo? Ovunque guerra e lamenti. Le città

sono devastate, le fortezze abbattute, i campi abbandonati… resi schiavi, feriti, uccisi: questa è la

sorte degli uomini. E allora, fratelli miei, ve lo torno a chiedere: c’è ancora forse gioia al mondo?

Pensate a Roma, guardate come è stata ridotta, vinta dai nemici, spopolata, sofferente…». Al di là

dei richiami biblici alla caducità delle cose terrene, le parole del papa rispecchiano una situazione

reale. Agilulfo era arrivato fin sotto le mura di Roma e Gregorio, senza aiuti da parte di Ravenna,

per evitare il peggio era dovuto venire a patti versando un pesante tributo in oro.

Nel 603, dopo qualche anno di tregua, le ostilità ripresero, stavolta al nord.

Per i fatti dobbiamo seguire il racconto dello storico longobardo Paolo Diacono, l’unica fonte

specifica sulle vicende di questo popolo.

Secondo Paolo Diacono la ripresa del conflitto fu causata dalla cattura e dall’imprigionamento della

figlia di Agilulfo e del marito di questa da parte dell’esarca di Ravenna.

Fosse o meno questo l’autentico casus belli, resta il fatto che quella messo in atto da Agilulfo ha

tutti i caratteri di una campagna militare accuratamente pianificata.

Innanzitutto il re longobardo si era garantito un’alleanza con il khan degli Avari, un popolo non

indoeuropeo proveniente dalle steppe dell’Asia centrale, che aveva costituito una sorta di regno

nella zona del medio Danubio e con cui i Longobardi avevano vissuto fianco a fianco prima della

discesa in massa in Italia. Forte di questa alleanza, l’esercito di Agilulfo, rafforzato da contingenti

di Avari e di Slavi, poté dar inizio alle operazioni militari che avevano un obiettivo piuttosto

preciso: eliminare la presenza bizantina a nord del Po e togliere il controllo della grande via di

comunicazione rappresentata dall’asta del grande fiume.

Prima venne presa Padova e, a proposito di Padova, Paolo Diacono narra un episodio di fair play

davvero insolito per quei tempi: prima di dare alle fiamme la città, i longobardi permisero alle

truppe bizantine di uscire indisturbate e riparare a Ravenna. Poi toccò a Monselice.

Nel luglio del 603 un esercito di Longobardi e Slavi mosse da Milano verso Cremona che, dopo

alcune settimane di assedio, cadde il 21 di agosto.

Il 13 settembre cadde Mantova (e anche in questo caso le milizie bizantine ne uscirono senza

danni), mentre Brescello fu data alle fiamme dai bizantini in fuga.

La guerra era conclusa, la figlia di Agilulfo fu restituita al padre per morire subito dopo di parto.

Quanto a Cremona, Paolo Diacono aggiunge che Agilulfo “ad solum usque destruxit”, cioè la rase

al suolo.

Si tratta, più che altro, di amplificazione retorica, come la ricerca archeologica anche più recente

sembra confermare.

Dal resto non dobbiamo immaginarci la Cremona conquistata dai Longobardi come un centro ricco

e popoloso. La città, come gran parte di quelle circostanti, doveva essere ridotta a una sparuta

immagine di quel che era stata. Un’immagine segnata dall’abbandono degli edifici, dal degrado

delle infrastrutture, da una crisi aggravata, tra il VI e il VII secolo, da una serie di calamità naturali -

alluvioni e carestie - e dal fatto di trovarsi su una linea di confine tra le più esposte nel conflitto

endemico tra Longobardi e Bizantini.

Quello che possiamo dare per certo, anche in mancanza di sicure evidenze, è che Cremona fu

sottoposta, come di prassi una volta conquistata, a un sistematico saccheggio. Non solo di quanto

poteva restare dei beni privati - oro, merci, vettovaglie - ma anche con la spoliazione degli edifici da

tutto quanto poteva venir riutilizzato, soprattutto metallo da fondere per ricavarne armi o monete. Al

di là di questa devastazione, la presa della città fu gravida di ben più pesanti conseguenze, destinate

a durare nel lungo termine.

La perdita del territorio

Seguendo una logica di conquista non inconsueta, le mura della città quasi certamente vennero

almeno in parte demolite, per impedire che i Bizantini potessero facilmente riprenderne possesso.

Non solo: Cremona fu annientata anche dal punto di vista amministrativo o, per così dire, di status.

Page 13: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

In coerenza con la politica di Agilulfo di rafforzamento del potere centrale, la città non divenne

sede di un ducato, ma entrò a far parte del demanio regio e il suo territorio venne smembrato.

Questa spartizione del territorio la possiamo ricostruire con buona approssimazione ma solo in

modo deduttivo da fonti più tarde, del IX e X secolo.

Senza entrare troppo nei dettagli, parte delle terre fu assegnata ai potenti ducati di Brescia e

Bergamo, che probabilmente già le occupavano, il resto divenne proprietà della corona che

organizzò i nuovi possedimenti attraverso un sistema di corti regie, cioè in pratica di enormi

latifondi.

Di queste corti regie, la più importante fu quella di Sospiro. Situata a sei miglia romane a est della

città (Sospiro da Sex pilae, sei pietre miliari), lungo la via per Brescello in corrispondenza di una

stazione di sosta o di una villa rustica. È da notare infatti che i Longobardi, in modo opportunistico,

tendevano a insediarsi in luoghi dove esistevano strutture o edifici sopravvissuti alle devastazioni e

all’abbandono e ancora fruibili.

Sempre a Sospiro fu insediato un gastaldo o un funzionario regio cui era affidata l’amministrazione

dei possedimenti fondiari e forse anche della città.

L’importanza della corte di Sospiro, insieme a qualche sua forma di controllo sulla città,

sopravvissero a lungo nei secoli successivi alla caduta del regno longobardo, come attestano in età

carolingia diversi soggiorni di re (alcuni documenti sembrerebbero perfino adombrare l’esistenza di

un palazzo regio) e, più ancora, le infinite controversie tra i funzionari regi di Sospiro e i Vescovi di

Cremona in materia di reciproca rivendicazione di diritti feudali e fiscali.

Il cono d’ombra

Anche se non abbiamo testimonianze precise in proposito, è del tutto plausibile che i Longobardi,

dopo la conquista di Cremona, lasciassero un presidio a controllo e difesa della città.

Questo, con ogni probabilità, venne insediato fuori dal perimetro urbano, nella zona di San Michele.

Se ci facciamo caso quest’area ancora oggi, insieme a quella del Duomo, è tra quelle più elevate

della città e offriva il vantaggio di controllare la via Postumia, che correva lungo l’attuale via

Girolamo da Cremona, e la vicina via per Brescia, e di poter essere attrezzata a difesa del versante

settentrionale, da sempre il più debole e più facilmente attaccabile.

Non a caso anche le mura medievali videro sorgere qui una rocca di notevoli dimensioni che rimase

in piedi fino al 1521, quando le mura a cortina venero rimpiazzate da bastioni.

La presenza di un nucleo longobardo spiegherebbe anche quella di un edificio di culto dedicato a

San Michele, l’arcangelo guerriero protettore della nazione longobarda, che sorse sul luogo della

chiesa attuale o nelle immediate vicinanze e la cui fondazione la leggenda attribuì poi, come molte

altre chiese in Lombardia, alla pia regina Teodolinda.

Dopo la conquista longobarda Cremona entra in una specie di cono d’ombra. Una sorta di assenza

dalla storia, anche quella minore delle carte o dei documenti privati.

Un vuoto che solo in parte potrebbe essere attribuito alla scomparsa degli archivi, se pensiamo che

lo stesso vuoto investe anche la Chiesa, di solito custode molto attenta delle proprie memorie e

tradizioni.

Nel caso di Cremona la sequenza dei vescovi in questo periodo presenta buchi vistosi. Dobbiamo

aspettare il 680 d.C. per veder nominato il Vescovo Desiderio di Cremona tra i partecipanti a un

sinodo a Roma. Poi una nuova lunga interruzione fino ai tempi di Carlo Magno. Sottoposta a un

dominio essenzialmente politico e militare, privata del proprio territorio di riferimento e di qualsiasi

funzione amministrativa, Cremona sembra perdere il suo stesso ruolo secolare di città.

A differenza della vicina Brescia, fortemente permeata dalla presenza longobarda, Cremona -

circondata com’è di terre di proprietà della corona - non può fungere da centro di attrazione o di

residenza di un’élite di grandi o medi proprietari terrieri, con le conseguenti attività artigianali e

commerciali che la presenza di un ceto abbiente avrebbe comportato.

Quella cremonese dovette ridursi a un’economia di pura sussistenza, basata sulla coltivazione di

poche terre negli immediati dintorni della città e sul commercio minuto. Comincia così a prendere

Page 14: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

corpo quell’immagine di desolazione, di silenzio, destinata a imprimersi nella memoria collettiva ed

evocata in modo suggestivo nel racconto di Jacopo d’Acqui.

La città altomedievale

L’estensione di Cremona si era molto ridotta rispetto all’età romana ed era più o meno quella di un

borgo. Anche in mancanza di conferme archeologiche possiamo farcene ugualmente un’idea

abbastanza attendibile.

Una serie piuttosto nutrita di documenti e di atti che arriva dal Medioevo fino alla prima metà del

1400 nomina la cosiddetta Cittadella, una zona molto circoscritta intorno al Duomo.

Grosso modo un quadrato che, partendo dall’attuale largo Boccaccino dove nell’alto medioevo

esisteva una porta, proseguiva per via Porta Marzia, poi girava per via Pertusio. Superata via

Solferino, costeggiava il lato nord di piazza Stradivari fino a raggiungere via Patecchio, dove

svoltava di nuovo tagliando via Sicardo per ricongiungersi al punto di partenza seguendo via

Platina.

In questa zona sopravvivevano, ancora nel ’400, tratti di mura e una grossa torre di difesa a ridosso

dell’abside del Duomo e due porte, una in via Sicardo e l’altra in fondo a via Solferino, che furono

abbattute solo tra il 1517 e il 1520.

Se ci facciamo caso, questa è ancora oggi la parte più elevata della città e corrisponde a quello che

doveva essere il perimetro molto circoscritto della città longobarda e altomedievale.

Tanto per fare due esempi, è ancora evidente il dislivello tra via Patecchio e via Beltrami e, più

ancora, tra via Porta Marzia e la sottostante via Mercatello in corrispondenza di quella che doveva

essere la scarpata delle mura.

Mura che, anche se non esistono certezze, furono ripristinate o ricostruite già in epoca longobarda,

forse di fronte all’accentuarsi della minaccia proveniente dai Franchi.

Ma qual era la fisionomia di questa città ridotta ai suoi minimi termini?

Innanzitutto va chiarito che, al di là di Cremona, quasi tutte le città di quello che era l’occidente

romano subiscono pressoché ovunque - sia pure con tempi e modalità differenti - tra il V e l’VIII

secolo un collasso o, se si preferisce, uno sconvolgimento dell’assetto urbano preesistente.

Sono pochissime le realtà in cui permane, per così dire, una sorta di continuità abitativa: per citare

qualche caso a noi vicino, Verona, Pavia e, solo in parte, Brescia.

Anche in casi come quello di Cremona, in cui il disegno originale del reticolato romano è almeno in

parte conservato, le strade subiscono un processo di abbandono. Talvolta spogliate dei masselli in

pietra riutilizzati altrove, magari ostruite dal crollo degli edifici o invase da quelle che oggi

chiameremmo costruzioni precarie o abusive, vengono sostituite da tracciati in terra battuta allineati

in modo imperfetto a quello originale e il cui livello viene costantemente rialzato.

Un esempio di questo fenomeno, qui a Cremona, è quello di via Solferino, dove il tratto in luce di

lastricato romano corre più o meno parallelo alla via parecchi metri sotto il livello attuale.

Anche l’edilizia privata subì un mutamento radicale.

Fin quando possibile, le antiche domus ancora in piedi venivano rabberciate e riutilizzate: frazionate

in ambienti più piccoli, divise da tramezzi per lo più di legno, diventando contemporaneamente

abitazione, poveri laboratori artigianali, stalle e, talvolta, anche luogo di sepoltura.

Col progressivo degrado delle strutture anche la tipologia costruttiva diventa sempre più essenziale.

È tutt’altro che infrequente il ritrovamento, direttamente su pavimenti a mosaico o su rialzi del

piano di calpestio delle domus romane, di buchi di palo, che altro non erano se non il sostegno di

casupole, poco più che capanne, costruite con materiali poveri: legno, che abbondava visto

l’inselvatichimento delle campagne, argilla, laterizi di recupero, paglia per i tetti.

Si trattava di abitazioni fatte spesso di un unico ambiente, con un focolare al centro e il fumo che

usciva da un buco nel soffitto. Il fatto che ancora intorno al X secolo si annotasse puntigliosamente,

in diversi documenti, che la residenza del Vescovo di Cremona - il personaggio più ricco e più

importante della città - fosse solerata, cioè con un primo piano a copertura in tegole, dotata di una

caminata dormitoria, cioè di una camera da letto riscaldata da un camino, e di una laubia, cioè una

Page 15: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

loggia o un portico - quasi certamente in legno - sotto il quale, secondo la tradizione, si

amministrava la giustizia, tutti questi dettagli danno, per contrasto, l’idea di quale fosse il livello

medio della qualità edilizia.

L’antico perimetro urbano si riempie di vuoti sempre più vistosi che, col tempo, si trasformano in

orti e terreni coltivati.

Per alcuni secoli, in Italia e a Roma in primis, non c’è quasi bisogno di produrre nuovi materiali per

l’edilizia. A dominare è il riciclo: i laterizi vengono riutilizzati, il marmo e la pietra - tanto più nelle

città padane, come Cremona, dove scarseggiano - cotti per farne calce.

Ad esempio, proprio a Cremona e ancora fin dopo il 1000, nei contratti di compravendita dei terreni

quelli cum predis, cioè in cui sono presenti materiali da recupero, sono valutati a un prezzo

superiore.

A Cremona, come altrove, nel costruire si ricicla: dai mattoni romani che troviamo nelle cortine

murarie del duomo alle lastre in pietra usate come rivestimento, alle colonne come quelle della

cripta di San Michele, ai marmi trasformati in sculture, come le statue romaniche dei cosiddetti

Berta e Baldesio, oggi conservate in Battistero, che sono in marmo proconnesio.

Sempre in epoca longobarda prende definitivamente piede l’uso di seppellire i morti all’interno

delle città. In età romana, per motivi igienici, le tombe erano rigorosamente collocate al di fuori

delle mura, per lo più lungo le vie d’accesso. La credenza cristiana nella resurrezione al momento

del giudizio universale trasformò il modo di rapportarsi ai propri defunti fino a determinare una

nuova concezione delle necropoli e una loro diversa localizzazione in rapporto allo spazio urbano.

Le chiese divennero i nuovi poli attrattivi delle sepolture, i luoghi in cui i morti venivano

commemorati e avrebbero atteso, vicini a Dio, il giorno della resurrezione.

Ma in questo periodo fanno il loro ingresso nelle città, ormai fortemente ruralizzate, anche gli

animali da allevamento e da pascolo.

Le case spesso erano vicine a stalle e fienili (e si può facilmente immaginare quanto fosse alto il

rischio di incendi) ed erano frequenti, all’interno dell’abitato, spazi erbosi destinati al pascolo degli

animali.

Nel vecchio dialetto milanese certe piazzette si chiamavano pasquee, appunto da pasculum. Sempre

a Milano, vicino a San Babila e corso Europa, la chiesetta di San Vito al Pasquirolo, oggi circondata

e quasi nascosta da brutti edifici degli anni ’60, ricorda il piccolo pascolo da cui aveva preso nome

la zona.

Mentre quella romana era stata una società estremamente mobile, basata com’era sulla facilità di

circolazione di uomini e merci attraverso un sistema di comunicazioni sicuro ed efficiente, quella

del periodo longobardo e dell’alto medioevo in genere è una società molto più chiusa, afflitta come

da un senso di insicurezza e di precarietà, circondata da un ambiente minaccioso e da una natura

incontrollata e ostile. Il commercio si contrae e si riduce a una dimensione soprattutto locale, circola

pochissima moneta, i traffici ove possibile previlegiano le via d’acqua rispetto a quelle di terra

molto più insicure.

Eppure è proprio in un documento di tipo commerciale che, a oltre un secolo di distanza dalla

conquista della città, vediamo ricomparire il nome di Cremona.

La vita scorre sul fiume

Il documento, redatto probabilmente nel 715 d.C., è una sorta di trattato commerciale tra il re

longobardo Liutprando e i milites di Comacchio, allora sotto il controllo bizantino, in cui vengono

minuziosamente regolati i tributi e gli altri dazi che i comacchiesi dovevano versare per esercitare,

navigando il Po nelle terre soggette ai longobardi, il commercio del sale del litorale adriatico che

toccava, insieme con altri, il porto di Cremona.

In particolare doveva essere versata una decima, cioè una percentuale sul carico trasportato. Anche

la palifictura, cioè l’ormeggio dei barconi a dei pali, era sottoposta a una tassa, infine - particolare

curioso - un pastum doveva essere offerto ai due riparii, che erano gli addetti alla riscossione dei

dazi.

Page 16: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

Ha suscitato qualche discussione erudita il fatto che il documento parli di milites anziché di

commercianti, ma una risposta può essere trovata semplicemente usando la logica. Per l’economia

di quei tempi, caratterizzati da carestie e penuria alimentare endemica, il sale era un elemento

fondamentale per la conservazione dei cibi. Il sale era l’oro bianco: un carico di sale valeva una

fortuna: logico che richiedesse una scorta armata, quello che oggi si definirebbe un portavalori.

Il Po, a quei tempi, era molto più ampio e meno profondo che non ai giorni nostri, affiancato da

boschi e paludi e facilmente navigabile anche controcorrente.

Era la più importante arteria di traffico dell’Italia settentrionale.

Una funzione che si sarebbe accentuata nei secoli successivi, quando Venezia, potenza in

espansione, prese il posto di Comacchio. Oltre al sale, i mercanti di Comacchio trasportavano olio,

garum (una salsa di pesce) e pepe. È poco plausibile che le loro imbarcazioni tornassero a carico

vuoto e possiamo immaginare che imbarcassero altri prodotti, ad esempio vino, cereali e lana.

Il documento di Liutprando non ci lascia capire se siamo di fronte a un fenomeno di espansione su

vasta scala dei traffici commerciali o se la dimensione è ancora ristretta e locale.

In questa fase comunque i cremonesi sembrano esclusi da qualsiasi ruolo attivo nella gestione delle

rotte commerciali e della navigazione, i cui proventi sono di esclusivo appannaggio della corona.

È anche vero però che qualsiasi forma di ripresa della vitalità del ciclo economico non poteva che

avere un impatto positivo sulle città, come Cremona, collocate lungo l’asta del fiume che

diventavano luogo di transito e di scambio delle merci.

In effetti due documenti che risalgono all’ultimo periodo del regno longobardo e che accennano

solo indirettamente a Cremona, sembrerebbero lasciar intravedere che la città era in qualche modo

uscita dalla marginalità in cui era piombata, anche se si tratta di prove molto esili.

Il primo, del 767, è una donazione da parte del re Desiderio al monastero bresciano di San

Salvatore, il cui atto viene steso in civitate Cremonese.

Nel secondo documento, del 772, senza entrare nei dettagli, l’Adelchi di manzoniana memoria,

figlio di Desiderio e da lui associato al trono, parlando di una chiesa situata vicino a Piadena la

definisce situata in territorio civitates nostrae cremonesis.

Si potrebbe dedurre – anche se si tratta comunque di una interpretazione – che a quel tempo

Cremona aveva per così dire recuperato un ambito territoriale e lo status di città, sia pur sempre

sottoposta al controllo regio.

Ma davvero ormai vicini all’epilogo e due anni dopo tutto è finito. Nel 773 Carlo Magno, chiamato

dal Papa ma anche e soprattutto seguendo una sua politica di potenza, entra in Italia con l’esercito

dei Franchi, nel 774 viene conquistata la capitale, Pavia.

Dopo la caduta del regno. Vescovi, milites e commercianti

A poco più di duecento anni dal loro ingresso in Italia, crolla il regno dei Longobardi.

Una caduta repentina, rovinosa e violenta così come lo era stata la loro conquista. Una caduta

vissuta come vergognosa e umiliante dagli stessi Longobardi, tanto è vero che la loro Storia, scritta

da Paolo Diacono proprio durante il regno di Carlo Magno, suona come una sorta di risarcimento

postumo alla passata gloria di questo popolo.

Desiderio, l’ultimo re, fu relegato in un monastero in Francia. Adelchi invece, per uno degli strani

scherzi della storia, finì i suoi giorni a Costantinopoli, nelle braccia di quelli che erano stati i nemici

secolari e ora alleati contro la nuova potenza emergente dei Franchi.

Con Carlo Magno e con i re franchi cambia, gradualmente, la prassi amministrativa del regno e

Cremona si trova, paradossalmente, favorita dal fatto di non essere stata sede di un ducato.

Sia pur semplificando al massimo una realtà molto più sfaccettata e complessa, Carlo Magno e i

suoi successori, anziché quello di famiglie feudali di duchi o conti, tendono a favorire il potere dei

vescovi. Vescovi che spesso sono i figli cadetti di famiglie nobili o provengono dai ranghi dell’alta

burocrazia ecclesiastica al servizio della corte e la cui nomina o è sottoposta al benestare regio o ne

è la diretta emanazione.

Page 17: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

Così non sorprende, anche se ne abbiamo attestazione solo da fonti indirette, che Carlo Magno

riconfermasse al Vescovo di Cremona non solo, come d’uso, il possesso sui beni della chiesa, ma vi

aggiungesse alcune proprietà fondiarie situate oltre il Po e soprattutto importanti diritti commerciali

sul fiume.

Comincia qui, da parte dei vescovi di Cremona, una tenace e ambiziosa politica di sviluppo e

rafforzamento del proprio potere temporale.

Avvantaggiati dalla mancanza di un’autorità pubblica civile in grado di contrastarli, i vescovi di

Cremona in poco più di un secolo e mezzo furono in grado sia di diventare titolari delle ricche

rendite provenienti dai dazi sulla navigazione fluviale sia di ottenere la giurisdizione sulla città e i

suoi immediati dintorni e poi, attraverso un sistema di acquisizioni, permute e donazioni, su un

territorio sempre più esteso, fino a collocarsi tra i più importanti signori feudali dell’Italia padana, a

cavallo tra Lombardia ed Emilia.

A fianco del Vescovo si forma nel tempo una rete di vassalli, milites e funzionari, a lui legati

attraverso un sistema di privilegi feudali e concessioni fondiarie. Con l’ingresso nella gestione

diretta della navigazione sul Po e dei grandi traffici fluviali si crea precocemente a Cremona anche

un potente ceto mercantile.

Saranno proprio queste diverse classi sociali, sempre più consapevoli della loro forza economica e

politica, a rivendicare ben presto forme di autonomia anche a costo di duri contrasti con l’autorità

del Vescovo e a portare a Cremona, prima che altrove, all’affermazione del Comune cittadino. Ma

questa è giù un’altra storia.

Per tornare a noi, cosa resta a Cremona dei quasi duecento anni passati sotto il segno dei

Longobardi?

Certo non proprio il desolato deserto evocato dal cronista, ma comunque poche tracce e molto

labili. Anche dal punto di vista artistico nulla sopravvive. I capitelli della cripta di San Michele, che

erano convenzionalmente attribuiti alla prima chiesa longobarda, ora dagli studiosi sono per lo più

assegnati a un’epoca più tarda.

Una volta passata sotto il loro controllo militare e politico, i Longobardi non fecero mai di Cremona

- a differenza di Pavia, Brescia o Verona - un fulcro del loro potere o di una presenza che andasse al

di là del possesso delle terre e delle rendite fondiarie.

Quello di Cremona in età longobarda fu dunque un destino del tutto marginale, ancor più di quello

di città come Milano o Piacenza, pure declassate a un ruolo minore.

Cremona seppe però trovare la forza per uscirne e per invertire la rotta fino al riprendere un ruolo di

primo piano tra le città dell’area padana.

Sembra quasi di poter dire che, come fu la felice posizione sul Po a determinarne la nascita, così fu

ancora il grande fiume a produrne la rinascita.

Quel grande fiume di cui, purtroppo, oggi Cremona sembra essersi un po’ dimenticata.

Bibliografia essenziale

AA.VV., 2003. Storia di Cremona. L’età antica. Bolis edizioni, Bergamo.

AA.VV., 2004. Storia di Cremona. Dall’alto medioevo all’età comunale. Bolis edizioni, Bergamo.

AA.VV., 2000. Il futuro dei Longobardi. Skira, Milano

Astegiano Lorenzo, edizione anastatica. Codex diplomaticus Cremonae. Arnaldo Forni, Bologna.

Cavalcabò Agostino, 1933. Le vicende dei nomi delle contrade di Cremona. Unione Tipografica

Cremonese, Cremona.

Paolo Diacono, 1990. Storia dei Longobardi. Edizione Studio Tesi, Pordenone.

Fumagalli Vito, 1992. Storie di Val Padana. Camunia, Milano.

Fumagalli Vito, 1994. Paesaggi della paura. Il Mulino, Bologna.

Morandi Mariella, 1991. Cremona e le sue mura. Turris, Cremona.

Procopio di Cesarea, 2007. La guerra gotica. Garzanti, Milano

Jarnut Jőrg, 2002. I Longobardi. Einaudi, Torino.

Page 18: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

RITROVAMENTI DI ETÀ LONGOBARDA NEL TERRITORIO DELLA

PROVINCIA DI CREMONA

Marina Volonté Sistema Museale di Cremona - Museo Archeologico

“Purtroppo, a differenza di quanto accade in altri casi lombardi, non è possibile integrare, anche

solo parzialmente, le poche informazioni tratte dalle fonti scritte, relative alla città durante il

periodo longobardo, con il quadro storico ricavabile da scoperte archeologiche…”.

La considerazione del grande storico medievista Jörg Jarnut, nell’introduzione al suo saggio

pubblicato nel volume sull’Alto Medioevo della “Storia di Cremona”, a dieci anni di distanza resta

ancora pienamente valida, almeno per quanto riguarda la città.

Ai pochi documenti scritti superstiti e alla notizia di Paolo Diacono relativa alla conquista di

Cremona da parte del longobardo Agilulfo, avvenuta nel 603 e segnata, secondo la fonte, dalla quasi

totale distruzione della città (ad solum usque), gli importanti scavi archeologici condotti nell’ultimo

decennio sotto la direzione di Lynn Arslan Pitcher hanno potuto aggiungere infatti soltanto poche

nuove informazioni.

La fase altomedievale dello scavo di piazza Marconi, scavo che ha d’altro canto restituito

un’eccezionale quantità di materiali e di informazioni per le epoche precedenti, è particolarmente

scarsa di testimonianze, a causa della distruzione degli strati relativi causata dall’edificazione del

monastero di Sant’Angelo - dapprima intitolato ai santi Cosma e Damiano - la cui più antica

documentazione risale al periodo tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo.

In alcune aree dello scavo è stato riconosciuto un particolare strato di terreno, definito “dark earth”

in ambito archeologico, formatosi sia per l’accumulo di resti organici, sia per l’utilizzo della zona

per le attività agricole, che è stato possibile collocare proprio nel VII secolo.

Successivamente, l’area del quartiere residenziale romano fu occupata da edifici di culto cristiano

con i relativi nuclei cimiteriali; tra questi, la chiesa di San Giorgio, ubicata nella parte

nordoccidentale dell’attuale piazza, si ritiene possa risalire già al periodo tra VII e VIII secolo. Una

parte delle tombe scavate nell’area ad essa circostante - ad inumazione, generalmente orientate con

il capo del defunto a est - si colloca nella fase altomedievale; alcune sepolture poggiavano

direttamente su un pavimento a mosaico pertinente a una domus di età romana imperiale. La

generale assenza di oggetti di corredo, rappresentati soltanto da quattro monete romane, un

orecchino di forma circolare, una fusaiola in pietra ollare e un pendaglio brozeo a forma di testa

umana, non concorre a precisare il dato cronologico, né, tanto meno, l’appartenenza etnica dei

defunti.

Questa povertà di documentazione, che possiamo con buone ragioni riferire in modo particolare

all’asportazione dell’orizzonte stratigrafico medievale, meno profondo di quello romano, accentua

una situazione già evidente per i due secoli precedenti la conquista longobarda.

Allargando lo sguardo al territorio dell’attuale provincia di Cremona, le testimonianze

archeologiche per i secoli che ci interessano assumono connotati in parte differenti.

Se, da un lato, i rinvenimenti pertinenti a contesti abitativi restano scarsissimi, e rappresentati nel

territorio solamente dai resti di un villaggio in località Castello al Vhò di Piadena e da tracce di

capanne in materiale deperibile nell’area della villa tardo antica di Palazzo Pignano, esiste una

buona documentazione di ambito funerario, attribuibile specificamente all’ambito longobardo,

incrementata anche da recenti importanti scoperte.

Tale documentazione si concentra nell’area cremasca, pertinente in antico al territorio di Bergamo,

in particolare lungo il corso del Serio.

Page 19: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

Si tratta quasi sempre di sepolture maschili, ben riconoscibili grazie alla presenza di oggetti

appartenenti al corredo tipico del guerriero longobardo, la spada, lo scramasax (una sorta di

sciabola), la cuspide di lancia, il coltello e le parti non deperibili, umbone e borchie, dello scudo.

Tombe femminili erano segnalate nella necropoli di Sergnano, grazie alla presenza di una collana

con elementi in smalto e vetro di diversi colori e di un orecchino d’argento; purtroppo questi

materiali, frutto di ritrovamenti dell’inizio del secolo scorso, sono andati dispersi.

Da Santa Maria del Marzale di Ripalta Vecchia proviene un altro oggetto di ornamento femminile,

un bracciale in bronzo claviforme con estremità ingrossate, considerato però di tradizione non

longobarda ma “indigena”.

Scavi recenti hanno invece portato alla luce almeno tre corredi femminili nella necropoli di via

Dante a Offanengo. Le tombe scavate, in tutto cinque, probabilmente parte di una più ampia area di

necropoli, hanno restituito braccialetti in bronzo, coltellini, elementi di cintura, aghi crinali in

bronzo e pettini in osso, ma, soprattutto, nella tomba 5, una collana composta da vaghi di vetro e

pasta vitrea con dodici monete romane forate datate tra il III sec. e la fine del IV sec. d.C.

Proprio nell’area di Offanengo si concentrano i ritrovamenti più consistenti di necropoli

longobarde: oltre a quella sopra citata, le sepolture sono documentate in località San Lorenzo,

Dossello San Giovanni, Pieve Santa Maria, Boccaleri e Le Pécule.

Le tre tombe di San Lorenzo, scoperte nel 1963, erano allineate (facendo supporre

un’organizzazione simile a quella di necropoli integralmente scavate, come quella, per fare un

esempio, rinvenuta lungo la strada Mussolina a Sacca di Goito, nel Mantovano). Di esse la meglio

conservata (tomba 3) aveva il fondo costituito da mattoni romani bipedali e sesquipedali. I corredi

contenevano gli elementi standard (spatha, scramasax, cuspide di lancia, scudo), ma anche elementi

di cinture multiple reggispada o di cinture per trattenere le vesti, speroni, cesoie e un pettine in osso,

crocette d’oro (tombe 1 e 3). La preziosità dei corredi, e di conseguenza l’alto rango dei defunti, si

mostra soprattutto nella decorazione ad agemina di alcuni oggetti, come le cinture multiple, gli

speroni e i foderi delle spade, e nella presenza di tessuti in broccato con fili d’oro (tomba 2) e delle

croci in oro. Queste ultime, decorate a sbalzo, dovevano essere cucite al velo funebre.

Molto interessante è anche la presenza di una zanna di cinghiale e di frammenti di vetro, fusi, di età

romana, tra cui un balsamario (entrambi nella tomba 2), sicuramente da riconoscere come elementi

magico-simbolici. Un balsamario romano in vetro fuso, è stato trovato anche nella tomba 3 della

necropoli di via Dante, a dimostrazione della diffusione di tale usanza.

Ai primi anni ’80 del Novecento risale l’indagine dell’area del Dossello San Giovanni. Si tratta di

un complesso costituito da una piccola aula monoabsidata e da un’area di necropoli con almeno 35

sepolture, tra cui un con corredo longobardo.

Quest’ultima si distingue dalle altre per la struttura, realizzata con fondo in mattoni romani e pareti

in blocchi di granito, mentre le altre erano in nuda terra, oppure in cassa di laterizi, a volte con

copertura “alla cappuccina” (a doppio spiovente di tegole).

Nella tomba longobarda sono stati rinvenuti una linguetta di cintura multipla in argento, resti dello

scudo (otto borchie in bronzo dorato e l’imbracciatura dello scudo) e crocette.

Sempre a Offanengo, intorno alla pieve di Santa Maria, datata tra VII e VIII secolo, sono state

rinvenute 19 tombe disposte in file parallele, di cui due soltanto con corredo; gli oggetti sono

decisamente poveri: un anello in bronzo e un balsamario in vetro databile tra il VII e l’VIII sec. d.C.

Singole tombe, con oggetti di armamento, sono state trovate nelle altre località citate del territorio

di Offanengo; inoltre, da Dovera provengono una spada ed elementi di scudo, mentre elementi di

cintura decorati ad agemina sono attestati a Camisano e da ritrovamenti sporadici in comune di

Soncino; da Ricengo proviene un pettine in osso. In una tomba di Sergnano è documentata la

presenza di un oggetto particolare, forse interpretabile come un porta stendardo, rinvenuto tra le

gambe del defunto.

Tra i materiali di Castel Gabbiano, si segnala anche la presenza di recipienti ceramici decorati a

stampiglie disposte su file parallele nella parte superiore del vaso; tale tecnica decorativa, insieme al

Page 20: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

trattamento “a stralucido” della superficie, caratterizza la ceramica di produzione longobarda,

realizzata in piccole officine con smercio in ambito locale.

Sempre da Castel Gabbiano proviene una moneta in bronzo di Marco Aurelio, forata, usata come

pendente, allo stesso modo di quella, di Vespasiano, trovata a Sergnano.

Assolutamente eccezionale è, infine, l’anello sigillo d’oro da Palazzo Pignano, ora disperso e noto

grazie alla fotografia del calco, con un “ritratto” con l’iscrizione ARICHIS.

Gli studiosi non sono concordi nell’interpretazione del significato dell’oggetto, se cioè Arichis sia il

nome del sovrano, che lo donò a un funzionario con poteri delegati, oppure dello stesso possessore,

un vir illustris la cui autorappresentazione fa riferimento al modello regale.

Comunque sia, l’anello documenta la presenza di un personaggio di alta levatura in questa parte del

territorio.

Si è già fatto cenno alla tipologia delle deposizioni, generalmente orientate in senso est-ovest, in

cassa o in nuda terra; il defunto è generalmente deposto in posizione supina, tranne, tra quelli noti,

nel caso della tomba di Ricengo, in cui lo scheletro è stato rinvenuto adagiato su un fianco.

Manca quella diversificazione riconosciuta invece per l’area bresciana, nella quale, in particolare

nella necropoli di Leno, sono note tombe con coperture in assi di legno o addirittura vere e proprie

costruzioni lignee costruite fuori terra sopra le fosse tombali (le cosiddette “case della morte”

tipiche dell’area pannonica).

Diverse altre sepolture databili all’epoca altomedievale, in mancanza di elementi di corredo e

collocabili cronologicamente soltanto sulla base di considerazioni di ordine stratigrafico, sono

verosimilmente da attribuire a individui non longobardi.

Tra queste, almeno una parte di quelle scavate, in momenti diversi, nell’area della villa tardo antica

di Palazzo Pignano, e quella rinvenuta nel piccolo edificio di culto dell’VIII secolo all’interno della

chiesa di Santa Maria alla Senigola di Pescarolo.

Quest’ultima, alla cappuccina con muretti perimetrali in frammenti laterizi, di forma antropoide con

nicchia poggiatesta, conteneva uno scheletro deposto in posizione supina, con il cranio staccato e

collocato all’altezza del bacino: si tratta di un elemento rituale già noto anche in Italia

settentrionale, legato sicuramente al ruolo preminente rivestito in vita dal defunto, nel nostro caso

confermato dalla sua sepoltura all’interno della chiesa.

Quanto abbiamo cercato di comporre in un quadro complessivo non è certo sufficiente a colmare la

grave lacuna delle fonti scritte lamentata da Jarnut, cui si è fatto cenno all’inizio di questo

contributo.

Lo stesso studioso, nella medesima sede, considera probabile “che nel 603 il municipium che si

estendeva tra il Po, l’Oglio, l’Adda e il Serio vecchio in parte [sia stato] spartito tra i ducati di

Bergamo e Brescia, in parte [sia stato] sottoposto direttamente al re”. L’appartenenza della parte

orientale dell’attuale provincia di Cremona è testimoniata da un documento del 772, che menziona

la chiesa di Santa Maria fondata a Vho (di Piadena), che il re Adelchi sottopose al monastero di San

Salvatore di Brescia.

L’aspetto che rimane maggiormente oscuro, nonostante qualche labile indizio, è la trasformazione

della società, il destino dei possidenti romani dopo la conquista (resi schiavi? o, più probabilmente,

divenuti tributari del re longobardo?) e quello degli abitanti delle stesse campagne e della città,

privata -come appare probabile- dell’autonomia amministrativa.

Page 21: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

Bibliografia

AA.VV., 2012. Archeologia nella Lombardia orientale. I musei della rete MA_net e il loro

territorio. All’insegna del Giglio, Firenze.

Casirani M., 2003. Insediamenti e beni fiscali nell’altomedioevo nell’Insula Fulcheria. In Lusuardi

Siena S. (a cura), Fonti archeologiche e iconografiche per la storia degli insediamenti

nell’Altomedioevo. Vita e pensiero, Milano: 273-297.

Casirani M. (a cura), 2013. I Longobardi a Offanengo. Vecchi rinvenimenti e nuove scoperte.

Milano.

Jarnut J., 2004. Cremona nell’età longobarda. In G. Andenna (a cura), Storia di Cremona, L’Alto

Medioevo. Bolis ed., Azzano San Paolo (Bg): 2-25.

Passi Pitcher L. (a cura), 1990. Riti e sepolture tra Adda e Oglio dalla tarda età del Ferro all’Alto

Medioevo. Soncino 1990.

Passi Pitcher L., 2004. Le evidenze archeologiche altomedioevali. In G. Andenna (a cura), Storia di

Cremona, L’Alto Medioevo. Bolis ed., Azzano San Paolo (Bg): 26-35.

Passi Pitcher L., 2004. Tracce di un villaggio altomedioevale: Piadena, località Castello. Ibidem:

36-37.

Passi Pitcher L., 2004. La documentazione archeologica. Ibidem: 447-455.

Passi Pitcher L., Volonté M. (a cura), 2008. Piazza Marconi: un libro aperto. La storia, l’arte, il

futuro. Cremona.

Page 22: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

INDIZI TOPONOMASTICI DI PRESENZE LONGOBARDE NEL

TERRITORIO DELL’ATTUALE PROVINCIA DI CREMONA

Valerio Ferrari Ecomuseo della Provincia di Cremona

Introduzione

Fu Narsete, generale dell’Impero d’Oriente, secondo Paolo Diacono1, che, sdegnato per la sua

sostituzione, da parte dell’imperatore Giustino II, nel governo dell’Italia con il prefetto Longino ed

ulteriormente offeso dalle parole dell’imperatrice Sofia, rifugiatosi a Napoli inviò ambasciatori

presso i Longobardi invitandoli ad abbandonare la Pannonia per muovere alla conquista dell’Italia.

Di tale diffusa tradizione ci rimane una vivace ripresa di ambito locale per mano di Antonio Campi

che, nel suo racconto storico relativo a Cremona, così descriveva le trame messe in atto dal generale

bizantino dalla città campana:

Qui fatto un cesto di frutti delicatissimi, de’ quali quella nobilissima Città è abbondantissima, ispedì con

diligenza un suo fidato con lettere in Ungheria, ove abitavano allora i Longobardi popoli ferocissimi,

invitandogli a venirsene in Italia, a godersi della fertilità, et abbondanza di paese così grasso, lasciando il

loro sterile, et infruttuoso; promettendo loro anche ogni suo aiuto, et industria, perché se ne facessero

patroni. Persuasi dunque costoro dalle parole di così famoso Capitano, l’anno DLXVIII. sotto la scorta

d’Alboino primo Rè loro in Italia, si partirono di quei paesi più di ducento mila huomini, con le mogli, e

figliuoli; et havendo nel primo arrivo presa, et distrutta Aquileia, in brevissimo spazio di tempo

soggiogarono quasi tutta l’Italia, travagliando con guerre continue quelle poche Città che sotto l’Imperio si

mantennero; obedendo agli Essarchi, fra le quali fu Cremona, che à viva forza per XIX anni divota

all’Imperio si mantenne2.

In effetti è noto che, muovendo dalla Pannonia, penultima tappa del loro lungo peregrinare per

l’Europa centro-settentrionale, i Longobardi approdarono in Italia nell’anno 568 (o, secondo alcuni,

nel 569) dell’era volgare, alimentando ulteriormente quell’afflusso di genti “barbariche” che dal IV-

V secolo avevano preso ad invadere le regioni imperiali d’occidente. La progressiva occupazione

del territorio di conquista non avvenne, in principio, in modo sistematico, espandendosi dapprima

nell’Italia settentrionale, spesso per indipendente iniziativa dei singoli duchi e delle loro farae, e

solo più tardi in modo più strutturato e coordinato da un’autorità regia.

Ne conseguì una distribuzione dei nuovi stanziamenti piuttosto disomogenea, presumibilmente

dettata da ragioni di elevato valore strategico volte al controllo delle più importanti vie di terra di

tradizione romana, specie nei loro punti nevralgici, delle vie d’acqua, delle aree più ricche e

produttive o dei luoghi abitati di maggior rilievo, tra cui le civitates già importanti sin dall’epoca

anteriore e i relativi territori da queste controllati.

Dopo la presa di Pavia, nel 572, eletta a capitale del regno, le maggiori città dell’Italia centro-

settentrionale caddero via via in mano longobarda, sebbene diverse altre, anche in area veneta e

padana, si mantenessero sotto il controllo dell’impero, tra cui Cremona, Mantova e Brescello, per

citare quelle a noi più prossime, rimaste bizantine fino al 603.

L’impatto causato sulle popolazione romane da questa nuova invasione fu senza dubbio traumatico:

i Longobardi, tra le gentes germaniche penetrate nelle antiche province dell’impero,

rappresentavano una delle stirpi meno romanizzate poiché, a differenza di altre popolazioni barbare,

non avevano avuto, sino ad allora, che scarse e parziali occasioni di contatto con il mondo romano.

La loro cultura, dalle forti radici tribali, esprimeva valori del tutto estranei al mondo della tarda

romanità in cui venivano ad irrompere questi nuovi invasori e, certamente, prima che anch’essi

1 Pauli Historia Langobardorum, II, 5.

2 A. CAMPO, Cremona fedelissima città, et nobilissima colonia de’ Romani, rappresentata in disegno col suo contado…,

in Cremona, in casa dell’istesso Auttore, 1585, p.8.

Page 23: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

potessero subire quel processo di assimilazione, inevitabile, che la ben più complessa società e

cultura romano-cristiana di tradizione urbana avrebbe finito per esercitare, passò qualche

generazione.

Questa tradizione tardo-antica che a Cremona - e, possiamo presumere, nella parte di territorio da

essa dipendente – aveva resistito più a lungo rispetto alle altre città già conquistate da un trentennio

almeno, nel 603 (o, secondo altri, nel 602) venne meno anche in quest’ultima roccaforte bizantina,

per mano delle truppe di Agilulfo, rinforzate da contingenti slavi, che distrussero la città ad solum

usque – sempre secondo Paolo Diacono3 - dopo alcune settimane di assedio, duodecimo Kalendas

Septembris, ossia il 21 d’agosto. E di questi fatti ancora Antonio Campi così ci racconta:

Non potevano sopportare i Longobardi, che essendosi già impadroniti della maggior parte d’Italia, Cremona

e Mantova solo in queste parti di qua dal Po, stessero salde alla divotione dell’Imperio; Laonde l’anno DCII.

Agilulfo Rè loro, ragunato un grossissimo esercito in Milano, se ne venne à Cremona, et postovi l’assedio,

fierissimamente la combattè per molti giorni, sostenendo intrepidamente i Cremonesi l’impeto di così grande

esercito. Ma essendo finalmente ruinate le mura, et entrando da ogni parte la moltitudine de’ nemici, restò

per forza presa alli XXI. d’Agosto et fu per comandamento del superbo vincitore del tutto distrutta …4.

Se è presumibile che la distruzione di Cremona, nella realtà, sia stata solo parziale e non tale da

comprometterne una successiva più o meno rapida ripresa - seppure, probabilmente, non più nella

sua condizione giuridica di civitas, ma in quella di semplice vicus5 -, bisogna invece registrare lo

smembramento del territorio di sua antica competenza che venne ripartito tra i ducati di Bergamo e

di Brescia, mentre un ampio settore circostante all’ex centro urbano rimase nella diretta

disponibilità del re che vi organizzò le sue curtes regiae, tra cui quelle, importanti, di Sesto e di

Sospiro.

Bisogna, quindi, supporre che il processo di longobardizzazione della maggior parte del territorio

oggi ascrivibile alla provincia di Cremona sia avvenuto a partire dai primi anni del VII secolo, in un

clima di incipiente conversione al cattolicesimo di sempre maggiori fasce di popolazione

longobarda, nonché di avanzato grado di integrazione tra romani e longobardi e di robusto

consolidamento del regno che avrebbe visto il prevalere, per quasi un secolo e in forma pressoché

continua, della dinastia bavarese.

L’assenza di fonti scritte dirette relative alla situazione locale durante questo periodo rende

problematico ogni tentativo di ricostruire qualunque scenario di ordine tanto amministrativo, quanto

sociale, economico, religioso e, per quanto qui più ci interessa, insediativo, inerente l’evoluzione

del territorio sotto questo punto di vista.

Le testimonianze archeologiche di epoca longobarda finora note, tutte relative a sepolture, sono

anche tutte concentrate nella porzione settentrionale dell’attuale territorio provinciale,

corrispondente al Cremasco, che si può presumere sia rimasto a far parte dell’ager bergomensis sin

dall’epoca della prima conquista longobarda, se si ammette un iniziale rispetto dei confini

territoriali vigenti in epoca romana6, secondo un modello riscontrabile anche altrove.

Pertanto, ciò che finora è possibile affermare attraverso la documentazione di tipo materiale

riguarda presumibili stanziamenti longobardi circoscritti all’area cremasca.

Nell’ambito del panorama così tratteggiato per sommi capi si può finalmente tentare una prima

ricognizione toponomastica relativa al territorio dell’attuale provincia di Cremona, selezionando i

nomi di luogo di più evidente apparenza germanica – sia tuttora viventi, sia dedotti dallo spoglio

delle fonti d’archivio –, che si presume possano aiutare a delineare una geografia degli insediamenti

3 Pauli Historia Langobardorum, IV, 28.

4 A. CAMPO, Cremona fedelissima città, cit., p. 8.

5 Cfr. J. JARNUT, Cremona nell’età longobarda, in Storia di Cremona. Dall’Alto medioevo all’Età comunale, a cura di

G. Andenna, Cremona 2004, pp. 8-9. 6 Cfr. L. PASSI PITCHER, Le evidenze archeologiche altomedievali, in Storia di Cremona. Dall’Alto medioevo all’Età

comunale, cit., pp. 26-29.

Page 24: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

altomedievali attribuibili alla presenza, in questo ambito geografico, di genti germaniche o

germanizzate.

L’argomento, senza dubbio affascinante, rappresenta tuttavia un campo di indagine irto di insidie,

dovute alle molte incertezze che il solo supporto del dato linguistico ingenera, mentre quest’ultimo

necessiterebbe di una costante correlazione con altra documentazione, soprattutto archeologica che,

come s’è detto, al momento appare invece particolarmente scarna e limitata all’area più

propriamente cremasca.

Non si può comunque sottacere come la cospicua messe di evidenze toponomastiche di questo

genere sparse nel territorio provinciale - soprattutto nella sua porzione centro-settentrionale, poiché

l’area corrispondente all’attuale Basso-Cremonese e al Casalasco parrebbe curiosamente molto

povera di simili testimonianze - abbia un significato importante, da questo punto di vista, e, se

correttamente interpretata, possa contribuire alla definizione di una distribuzione e di una densità

insediativa che non dovette essere molto dissimile da quella riconoscibile nelle contermini aree

bergamasca o bresciana, seppur in gran parte di origine più tarda rispetto a quella, come si può

presumere dalle vicende sopra accennate.

I toponimi in -eng/-ing e il problema della loro interpretazione

In tale contesto le emergenze toponomastiche di un certo interesse e più numerose paiono essere

quelle riconducibili ai nomi di luogo accomunati dalla desinenza in -eng/-ing che, secondo una

tradizione radicata, sarebbero da attribuire a fondazione longobarda.

La gran parte degli studiosi di toponomastica, tuttavia, oggi raccomanda prudenza nel maneggiare

questo genere di testimonianze che, pur mostrando una generica genesi di matrice germanica,

potrebbero essere attribuibili a diverse popolazioni di ceppo germanico, a partire dai Goti per

giungere sino ai Franchi, sebbene i più ritengano l’influsso longobardo il principale responsabile

della loro genesi7. E se da una parte è vero che i Longobardi rappresentarono la stirpe che più a

lungo e in modo più radicato ebbe influenza nel tessuto sociale e culturale delle popolazioni padane

tra il VI e l’VIII secolo, con ampi strascichi fin ben oltre il secolo XI, specie in campo giuridico, è

altrettanto vero che tutte le testimonianze toponimiche pervenuteci attraverso la documentazione

storica di ambito locale, sono posteriori al 774 - ossia alla data corrispondente alla caduta del regno

longobardo ad opera dei Franchi di Carlo Magno - e, in particolare, esse risalgono in piccola parte

al secolo IX e poi, con progressione via via maggiore, ai secoli successivi.

Del resto è bene tener presente che toponimi di natura analoga a quella dei nomi locali di cui si

discute, oltre che in Germania - dove non era difficile prevederne l’esistenza - si riscontrano in

notevole quantità anche in gran parte della Francia, peraltro mai raggiunta da popolazioni di stirpe

longobarda. Qui gli esiti del suffisso -ing/-eng sono riconoscibili in toponimi formati per lo più da

una base antroponimica e desinenti tuttora in -ing/-ingue(s), oppure in -ange(s)/-anche(s), ovvero in

-ans/-ens nonché in -eins8; sicché il fenomeno diviene un’aperta testimonianza di come, oltre

all’apporto di altre genti di origine germanica (quali gli Alamanni per l’Alsazia, i Burgundi per la

Francia centro-orientale o i Visigoti per il Mezzogiorno francese) una responsabilità di rilievo nella

formazione di simili toponimi dev’essere riconosciuta ai Franchi, specie riguardo alla Gallia

settentrionale, fino alla regione della Loira, media e inferiore9. Ciò deve far presupporre che un

certo numero di nomi di luogo composti da un antroponimo completato dal suffisso -eng/-ing anche

7 Cfr. F. SABATINI, Riflessi linguistici della dominazione longobarda nell’Italia meridiana e meridionale, Firenze,

Olschki, 1963, p. 81; G. B. PELLEGRINI, Toponomastica italiana, Milano, Hoepli, 1990, pp. 277-278; C. A. MASTRELLI,

La toponomastica lombarda di origine longobarda, in I Longobardi e la Lombardia, Saggi, Milano, Palazzo reale dal

12 ottobre 1978, S. Donato Milanese, Industrie Grafiche Fratelli Azzimonti, p. 45; J. JARNUT, Bergamo 568-1098.

Storia istituzionale, sociale ed economica di una città lombarda nell’alto medioevo, Bergamo, Archivio Bergamasco,

1980, pp. 154-159. 8 Cfr. E. Nègre, Toponymie générale de la France. Etymologie de 35.000 noms de lieux, vol. II, Genève, Librairie Droz

S.A., 1991, pp. 779-801. 9 Ibidem, p. 779.

Page 25: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

nell’Italia centro-settentrionale possa essere di origine franca, senza escludere, anche qui, l’ulteriore

possibile apporto di altre genti germaniche.

Ma, per quanto ci riguarda più da vicino, vediamo quali possono essere gli elementi su cui

appuntare la nostra attenzione.

Oltre all’evidenza dei diversi toponimi tuttora esistenti distinti dall’elemento suffissale -engo, vale a

dire - procedendo da nord a sud - Il Binengo di Sergnano (1015, Albeningo), Pianengo (923,

Piviningo e poi Pianingo), Ricengo (923, Ruchocingo e poi Rivizengo), Offanengo (966,

Anfoningo/Aufoningo), Romanengo (1170, Romelengo e poi Riminengum), Ticengo (1000,

Tucingo/Tozingo), Isengo (997, Isingo), Farfengo (1022, Fartifingo), Zanengo (990, Ioaningo),

Polengo (1010, Paulingo e poi Polengo), Valcarengo (1149, Gualcarengo), Marzalengo (1132,

Marzilingo), Ossalengo (1038, Gauselingo/Gosalingo), Picenengo (1004, Piceningo), San Predengo

(1157, Sancto Prethengo), Fengo (1182, Fofengo) e Farisengo (965 Faresingo/Farisengo), le fonti

d’archivio ci restituiscono almeno un’altra cinquantina di antichi nomi di luogo di presumibile

origine germanica desinenti in -eng/-ing, ossia - procedendo questa volta in ordine cronologico -:

Gualdinengo/Vualdeningo (841, presso Cremona?), Buciningo/Bisinengo (851, presso Fengo),

Mastalingo (851-852, tra Romanengo e Casaletto di Sopra), Gualaringo/Vallaringo (948, presso

Crotta d’Adda), Teodengana (960, presso Gabbiano); Bevenengum (966, presso Soncino),

Iseningo (966, ?), Masingo (970, presso Izano), Cucengo (979, ?), Curtalingo (988, presso

Montecollere: attuale Corte Madama di Castelleone), Calzolingo, Ioaningo, Arifingo, Siminingo

(990, presso Oscasale), Butingo (993, presso Acquanegra Cremonese), Maraldingo (993, ?),

Odeningo (993, ?), Apponingo/Yponengo (993, presso Acquanegra e Fengo), Sperningo (995,

presso Casalmorano), Paulingo (1010, presso San Bassano e Zanengo), Muntenaringo (1015,

presso Oscasale), Feraringo, Polingello, Rumaningo (1019, presso Azzanello), Durningo,

Feruningo, Maconingo, Primolingo (1022, presso Oscasale), Ciciningo (1038, presso Cremona),

Genaringo/Generingo (1039, presso Cremona), Widaringo, Mazaningo, Bualingo, Medesingo,

Cisiningo (1080, presso Acqualunga Badona), Gastaldingo (1104, presso Acqualunga Badona?),

Butalengum (1132, nell’Oltrepò Cremonese), Morenghellum (1137, presso Casalbuttano),

Guidaringo (1151, nelle Chiosure di Cremona?), Tohelingus (1161, presso San Bassano),

Tothenengo (1173, presso Gabbiano), Bordalengum (1174, presso Ripalta Nuova), Vidalengum

(1178, nelle Chiosure di Cremona), Roverxengo (1181, presso San Bassano?); Calvinengum (1182,

presso Cremona), Godanengo, Lonengo, Magistrengo (1182, presso Fengo), Tetarengum (1186,

Chiosure di Cremona), Lavarengo (1195, presso Casalbuttano).

La maggior parte di questi – come indicato tra parentesi, dopo la data della loro prima attestazione

documentale – risulta anche collocabile sul territorio, seppur in modo approssimativo, tanto da

individuare alcuni ambiti insediativi piuttosto caratteristici e circoscritti, che vanno ad aggiungersi a

quelli individuati dai toponimi ancora viventi.

Se ne trae, pertanto, un’immagine topografica di un certo interesse, che vede le maggiori

concentrazioni di toponimi di questo genere assestarsi in punti da ritenere presumibilmente

nevralgici nella distribuzione degli stanziamenti di genti germaniche e che avranno bisogno di

ulteriori approfondimenti - che questa sede non consente - per la loro corretta interpretazione.

Già fin d’ora, tuttavia, sembra piuttosto evidente ritenere che l’allineamento di toponimi come

Offanengo, Romanengo, Ticengo, cui si deve aggiungere Bevenengum, lungo la strada, già di

impostazione romana, Laus Pompeia-Brixia, rivesta un preciso significato rispetto al controllo di

questa importante via di comunicazione, rimasta costantemente efficiente nel tempo10

.

10

PietroTerni, nella sua Historia di Crema, riferisce che re Autari e la regina Teodolinda, dopo le nozze, nel trasferirsi

da Verona a Pavia «a Crema venerono, dove longa dimora fecero»; P. Terni, Historia di Crema 570-1557, a cura di M.

e C. Verga, Crema 1964, p. 56. La lunga efficienza della Brixia-Laus Pompeja, quale importante via di comunicazione

tra importanti città di tradizione romana, rende il racconto dello storiografo cremasco meno leggendario di quanto non

si sia sinora supposto e convalidato dagli importanti ritrovamenti del VI-VII secolo di Offanengo, posto esattamente

lungo questa strada. Cfr. M. Verga Bandirali, Una via romea sul percorso cremasco della Brixia-Laus Pompeja. Tracce

nella “Convenzione” viscontea del 1361, in Crema nel Trecento: conoscenza e controllo del territorio, Crema 2005, p.

46.

Page 26: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

Allo stesso modo sembra possibile interpretare la particolare concentrazione di toponimi desinenti

in -eng/-ing che si rileva intorno agli attuali abitati di Oscasale e di San Bassano, rammentando che

in questo ambito transitava l’ugualmente importante – quantomeno fino al tardo medioevo – strada

romana Mediolanum-Cremona, nel punto in cui quest’ultima doveva attraversare l’originario corso

del Serio (ora Serio Morto), dove esistevano, con ogni probabilità, strutture portuali di interscambio

tra viabilità di terra e quella d’acqua, come appare da documentazione successiva11

.

A tale proposito vale la pena di considerare anche la posizione degli abitati di Pianengo e di

Ricengo – cui va aggiunto l’insediamento di Albeningum, ora ricordato dalla località de Il Binengo

di Sergnano – dislocati lungo il corso del Serio e certamente già alla loro origine sorti sulle strade

ad andamento nord-sud che, fiancheggiando le due opposte rive del fiume, hanno storicamente

collegato l’area bergamasca con quella cremasca sin dall’epoca romana.

Altro importante nucleo è costituito dai toponimi ubicabili nei dintorni di Casalbuttano,

Casalmorano e Azzanello, probabilmente sorti nelle adiacenze di una delle direttrici viarie di

collegamento tra Cremona e Bergamo, mentre gli analoghi nomi di luogo collocabili nei pressi

dell’attuale Castelgabbiano parrebbero segnalare l’importanza del luogo posto nei pressi di un passo

sul fiume Serio, lungo una strada di probabile analoga rilevanza strategica, di carattere tanto

commerciale quanto militare.

Allo stesso modo è da credere che l’evidente concentrazione di toponimi ubicabili nei pressi di

Fengo e di Acquanegra Cremonese avesse qualche rapporto con l’antica direttrice romana

Cremona-Ticinum, nominata ancora nel medioevo come strada que dicitur papiensis (1039),

ricordando che Pavia era stata eletta capitale del regnum Langobardorum.

Infine si fanno notare i diversi toponimi in -engo rintracciabili nei contorni di Cremona, di cui andrà

meglio chiarito il rapporto con quest’ultima che, non bisogna dimenticarlo, con la conquista

longobarda del 603 si presume abbia perso le sue prerogative di città.

In questo consistente elenco di toponimi è forse possibile riconoscerne alcuni di più probabile

origine longobarda attraverso l’analisi dell’antroponimo che ne sta alla base.

Come la gran parte dei nomi di luogo di natura prediale, infatti, anche quelli appena nominati sono

composti da un nome di persona seguito dal suffisso -ing/-eng che esprime un legame di

appartenenza o di relazione, sebbene non sia ben chiaro se tale indicazione proceda dal nome

personale del primo possessore del fondo o del luogo così denominato ovvero se abbia origine dal

fatto di essere divenuto sede di un gruppo familiare già contraddistinto dal nome del capostipite.

Ecco, dunque, che il riconoscimento di antroponimi quali Appo, Arifus, Audo, Faro, Gauso, Godan,

Theuthari, Theuzo, Toto/Totoni, Vualcari/Walcari, Wallari (donde i toponimi Apponingo, Arifingo,

Odeningo, Feruningo, Gausalingo, Godanengo, Tetarengum, Tozingo, Tothenengo, Gualcarengo,

Gualaringo/Vallaringo), che rappresentano sovente ipocoristici in uso presso i Longobardi per lo

più nei secoli VII e VIII - cui ne andranno certamente aggiunti altri che pretenderebbero,

quantomeno, maggiori approfondimenti, ovvero l’intervento di specialisti di antroponimia

germanica -, parrebbe essere un buon metodo per restringere la gamma di probabilità

nell’individuazione di toponimi di più probabile ascendenza longobarda.

Altri riscontri, come, per quanto ci riguarda, Fartifingo, l’odierno Farfengo (che si presume

originato dalla base faderfio “dote paterna”) o Gastaldingo (da gastaldius “amministratore dei beni

reali”), pur mostrando un’evidente, o comunque riconoscibile, base longobarda, potrebbero

rappresentare permanenze linguistiche rimaste nel lessico amministrativo per alcuni secoli anche

dopo la caduta del regnum Langobardorum e rientrare nel novero della terminologia longobarda e

germanica passata in eredità al neolatino e poi all’italiano.

D’altra parte - e ne abbiamo già fatto cenno - non bisogna dimenticare come queste nuove gentes,

nel loro progressivo espandersi nelle terre conquistate, si siano stabilite spessissimo in punti

strategici del territorio già presidiati da insediamenti a loro antecedenti, ciascuno distinto da un suo

11

Si veda, a tal proposito, il tentativo di interpretazione attuato in V. Ferrari, Toponomastica di San Bassano (Atlante

toponomastico della provincia di Cremona, 11), Cremona 2005, pp. 26-32.

Page 27: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

specifico toponimo che, essendo perdurato fino ad oggi, bisogna ammettere sia rimasto invariato,

vitale ed effettivo, senza che vi si sia sovrapposto un nuovo nome germanico. Oppure, nel caso in

cui attorno all’abitato preesistente - con relativo preesistente toponimo - siano sorti insediamenti di

matrice germanica nuovamente denominati secondo i modi loro propri, si deve presumere che nel

corso del tempo abbia acquistato importanza e se ne sia affermato uno principale, con la progressiva

scomparsa degli altri e che sia dunque prevalso uno solo toponimo, talora di ascendenza romana (o

precedente), talaltra di conio germanico.

Si direbbe che questa sia stata la sorte occorsa a (Palazzo) Pignano, già sede di un importante

complesso residenziale tardo-romano affiancato da un contemporaneo edificio di culto, nei cui

pressi è emerso il ben noto anello-sigillo longobardo - recante il nome Arichis -, che doveva porre il

suo possessore nella sfera di quei personaggi di alto rango il cui legame con i beni regi, di natura

rurale o urbana, o con luoghi di particolare importanza strategica appariva preponderante, in quanto

gestori di un potere ufficiale e universalmente riconosciuto12

.

Nello stesso novero potremmo accogliere anche (Castel)gabbiano, presso il fiume Serio, dove si

collocano alcuni antichi toponimi desinenti in -eng/-ing, od anche Camisano, Bottaiano, Sergnano,

Gallignano: tutti toponimi di origine prediale romana nei cui pressi sono emersi materiali riferibili a

sepolture di epoca longobarda che presuppongono l’esistenza di altrettanti stanziamenti e, tuttavia,

toponimi conservatisi fino ad oggi nella loro primitiva forma. Allo stesso modo va considerato

l’antico abitato di Alfiano (oggi piccola frazione di Corte de’ Frati), dove una vivace serie di

transazioni di beni terrieri, per lo più a favore del monastero benedettino femminile di San Salvatore

di Brescia, vide come attori, tra vecchi e nuovi possessori, diversi personaggi di stirpe longobarda

tra gli anni 759 e 76913

.

Sull’altro fronte si possono citare Sesto (Cremonese) e Sospiro, entrambi sede di curtes regiae

longobarde e, del resto, entrambi toponimi di origine “stradale” romana rimasti invariati nel tempo.

Se, rispetto al primo, la documentazione antica lascia intendere l’esistenza di abitati germanici nei

suoi dintorni, di Sospiro si deve ricordare che fu probabile sede di un gastaldo, ossia

dell’amministratore dei beni della stessa corte regia, di cui si ha notizia sicura solo un po’ più tardi,

nel IX secolo, in epoca ormai franca.

Infine, sappiamo che nell’anno 772 Adelchi, re dei Longobardi, aderendo ad una richiesta della

regina Ansa, sua madre, confermava alla basilica intitolata a Santa Maria, sita in territorio civitate

nostre Cremonensi, locus qui dicitur Vado Au[…….], prope ripa fluvii Ollio, e al prete Deusdedit,

due donazioni già in precedenza agli stessi concesse. La seconda di queste, in particolare,

riguardava la donazione di una casa ubi ipsa basilica super edificata fuerat, cum monasterio et

omnia adiacencia vel edificia seu territoria. Infine lo stesso re stabiliva che la medesima basilica di

Santa Maria, con tutto quanto ad essa pertinente, venisse posta sotto la tutela del monastero di San

Salvatore di Brescia, al tempo retto dalla badessa Anselperga, sua sorella germana14

.

Dunque anche quest’ultima appare essere un’ulteriore circostanza in cui un insediamento umano

che vedeva verosimilmente la presenza di genti longobarde in loco, mantenne una denominazione di

origine latina, ossia Vadum, l’attuale Vho di Piadena, indicativa di un guado sul fiume, alla quale

possiamo solo presumere che fosse stata aggiunta una specificazione, ossia quell’Au[…….],

probabilmente di natura antroponimica e di supponibile caratterizzazione longobarda, che rimarrà

12

Sull’argomento, e sul dibattito da questo scaturito e tuttora in corso, si rimanda ai diversi preziosi contributi

recentemente apparsi nei due successivi volumi curati da SILVIA LUSUARDI SIENA: I Signori degli Anelli. Un

aggiornamento sugli anelli-sigillo longobardi, Milano, Vita e Pensiero, 2004; e Anulus sui effigii. Identità e

rappresentazione negli anelli-sigillo longobardi, Milano, Vita e Pensiero, 2006. 13

Le carte cremonesi dei secoli VIII-XII, vol. I, Documenti dei fondi cremonesi (759-1069), a cura di E. Falconi,

Cremona, Biblioteca Statale di Cremona, Fonti e sussidi I/1, pp. 3-16; J. JARNUT, Cremona nell’età longobarda, in

Storia di Cremona, cit., pp. 13-15. 14

CDLM, Brescia, S. Giulia I, n. 20; v. anche F. ODORICI, Storie Bresciane, dai primi tempi sino all’età nostra, vol. III,

Brescia 1854, n. XXXVIII, pp. 61-62;

Page 28: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

celata per sempre dalla rosicatura subita dalla pergamena, che ci ha sottratto ogni possibilità di

identificazione.

Le altre tracce toponomastiche

Rimangono da menzionare i non molto frequenti toponimi apparentemente isolati nell’ambito della

campagna, senza evidenze particolari che ne illustrino una funzione diversa da quella di semplici

insediamenti di carattere rurale.

Tra questi, oltre ad alcuni nomi di luogo desinenti in -eng/-ing già menzionati e per ora non

correlabili con altre analoghe emergenze circonvicine, si ricordano singoli toponimi che, per loro

apparenza linguistica potrebbero essere fatti risalire all’epoca longobarda, come si pensa succedere

per la cascina Scotticarda, nei pressi di Soncino, il cui nome potrebbe forse essere ricondotto ad una

base *stodigard con valore di “recinto dei cavalli”, (dall’unione dei termini *stoda- “mandria di

cavalli” e *gard “recinto, steccato”) possibile indicazione di luogo ove si esercitava l’allevamento

di questi nobili animali, particolarmente stimati dalle genti germaniche.

Anche alla base del nome Stàffolo, oggi frazione di Casalmaggiore, si può vedere il termine

longobardo *staffal “palo” e, in seguito, anche “segnale di confine, cippo”: significato che si può

intravedere ancora persino nell’ulteriore evoluzione semantica della voce che nei contigui territori

mantovano, bresciano e veronese è giunta a significare anche “tabernacolo, edicola” cui spesso

venne attribuito il valore di segnacolo confinario15

.

Pur trovando le proprie radici in termini di origine longobarda, molti altri toponimi esistenti nel

territorio provinciale rimangono di difficile collocazione cronologica, poiché tali termini, rimasti

vitali per alcuni o per molti secoli, hanno subito poi, chi più chi meno, diverse trasformazioni

semantiche che li hanno portati ad assumere significati di uso più generalizzato, sebbene talvolta

potessero individuare condizioni abbastanza specifiche.

È il caso della voce brèda o bréda (a seconda del dominio dialettale, cremonese-casalasco o

cremasco, in cui viene pronunciata), discesa con ogni evidenza dal longobardo *braida “campo

pianeggiante suburbano”, ma che nel tempo ha assunto significati più complessi e, in particolar

modo, da noi è passata ad individuare, sin dal basso medioevo, un complesso di appezzamenti

suburbani di piccole dimensioni e aggregati tra loro, circondati da siepi e coltivati prevalentemente

a vite, facenti capo ad un medesimo proprietario sebbene affittati a soggetti diversi secondo norme e

condizioni sostanzialmente uguali16

.

Così il termine longobardo *gahagi “terreno (bosco, pascolo o altro) riservato; bandita”, nominato

dall’editto di Rotari nella forma latinizzata di gahagium, ha dato origine a numerosi toponimi, che

nelle carte cremonesi medievali si ritrova nelle varianti grafiche di Gagius, Gaius od anche

Gadius17

, continuati dai diversi nomi di luogo tuttora esistenti, riconducibili alle forme base Gazzo

e Gavazzo, con tutti i loro possibili alterati, che in territorio provinciale si ritrovano sovente anche

nella microtoponomastica fondiaria18

.

Un isolato accenno - restituito da un documento cremonese - al termine di tradizione longobarda

*wald-, indicativo di un insieme di beni diversi (pascoli, boschi, zone incolte) rispecchiante una

condizione simile a quella definita dal saltus latino e sovente coincidente con terre fiscali19

, serve ad

attestare l’uso del vocabolo specifico anche nelle nostre aree di pianura.

15

Cfr. C. A. MASTRELLI, La toponomastica lombarda di origine longobarda, cit., p. 44. 16

Cfr. G. CHITTOLINI, I beni terrieri del Capitolo della Cattedrale di Cremona fra il XIII e il XIV secolo, Biblioteca

della “Nuova Rivista Storica”, Milano-Roma-Napoli-Città di Castello, Soc. Ed. Dante Alighieri, 1965. pp. 9-10. 17

Cfr. Le carte Cremonesi dei secoli VIII-XII, vol. I, cit., pp. 105, 106, 108, ecc. 18

V. FERRARI, Contributi toponomastici all’interpretazione del paesaggio della provincia di Cremona. 3. Vegetazione,

flora e fauna, in «Pianura. Scienze e storia dell’ambiente padano», 25 (2010), pp. 139-140. 19

F. SABATINI, Riflessi linguistici della dominazione longobarda, cit., pp. 53-53; C. A. MASTRELLI, La toponomastica

lombarda di origine longobarda, cit., p. 41.

Page 29: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

Così andrà, dunque, interpretato l’antico nome di Vualdo Meletum (coincidente con l’attuale Meleti,

presso il Po, ora in provincia di Lodi) nominato in due pergamene cremonesi dell’anno 87920

.

Quanto a *sala, ritenuto uno dei più caratteristici termini di ascendenza longobarda, che da un

originario valore di “edificio ad unico vano” è poi passato al significato di “edificio destinato alla

residenza padronale”, andando a definire la pars dominica dell’unità fondiaria, abbiamo alcune

testimonianze ancora una volta restituite solo da documentazione medievale, mentre nell’attuale

territorio della provincia di Cremona non figurano continuatori di tale voce nella toponomastica

maggiore.

Ecco, dunque, che in un elenco di oltre cinquanta località minori facenti capo alla curtis di

Rivoltella - l’attuale Ripalta Arpina - donate dalla monaca Raimburga alla Chiesa cremonese

nell’anno 1051, si trovano registrate, tra le altre, le località denominate Sala, Silva de Sala e Prato

de Sala21

che costituiscono un piccolo nucleo di toponimi storici piuttosto eloquente, sotto il profilo

che qui più ci interessa.

Ancor oggi la microtoponomastica di Ripalta Arpina conserva le denominazioni de la Costasàla

bàsa e de le Costasàle identificative di una vasta area appena a nord dell’abitato, oltre ad un

bocchello Costazzale22

, che hanno tutta l’aria di rappresentare i continuatori di quegli antichi

toponimi medievali. Non sarà probabilmente un caso che a poca distanza da qui, procedendo verso

nord lungo la strada che, correndo sul diaframma di terreno che divide la valle del Serio Morto da

quella del Serio Vivo occupata oggidì, si incontri la chiesetta di Santa Maria del Marzale, sotto il

pavimento della cui cappella laterale destra sono emerse, nel 1985, tre sepolture di forma antropoide

assegnate all’epoca longobarda grazie al ritrovamento di un’armilla in bronzo, a capi troncoconici

ingrossati, in uso presso le donne longobarde, databile al VII secolo d.C.

Dal tema germanico *a(h)wjo “terra presso l’acqua, terreno acquidoso, isola, zona rivierasca”23

passato forse attraverso una forma longobarda *auja-24

, latinizzata in augia, sono scaturiti toponimi

quali Olza e Olzola, non rari soprattutto nella documentazione medievale cremonese nelle varianti

di Aucia, Augia, Auzea, Olzia, Olcia, Olzola, Ulciola e analoghe25

.

Non si può, infine, passare sotto silenzio il toponimo storico in Armannore, nominato con diversi

altri – tra cui i già sopra riportati Piceningo, Widaringo, Ciciningo, Gauselingo – in una pergamena

dell’anno 1038 e da ritenere non lontano dalla città di Cremona. La forma grafica con cui il nome di

luogo è stato registrato pare definibile come una specificazione, con la desinenza di un genitivo

plurale -orum, da associare ad un sostantivo rimasto sottinteso e restituibile attraverso una *(terra,

silva od altro) arimannorum, ben sapendo che il termine longobardo arimannus - così trascritto in

forma latinizzata nell’Editto di Rotari - era sinonimo di esercitalis e designava l’homo liber

longobardo in quanto membro del populus-exercitus26

.

Altri toponimi esistenti anche in territorio provinciale cremonese possono richiamare termini di

origine longobarda o germanica, ma la lunga tenuta attraverso i secoli di tali precise voci rende

meno sicura l’epoca di formazione degli eventuali toponimi ad esse ispirati, che possono essere

sorti anche molto più tardi.

20

Le carte Cremonesi dei secoli VIII-XII, vol. I, cit., pp. 63, 65. 21

Le carte Cremonesi dei secoli VIII-XII, vol. I, cit., p. 475. 22

Cfr. V. FERRARI, Toponomastica di Ripalta Arpina (Atlante toponomastico della provincia di Cremona, 3), Cremona

1995, p. 48. 23

N. FRANCOVICH ONESTI, Vestigia longobarde in Italia (568-774). Lessico e antroponimia, Roma, Artemide Edizioni,

1999, pp. 128, 153. 24

F. SABATINI, Riflessi linguistici della dominazione longobarda, cit., p.49; G. B. PELLEGRINI, Toponomastica italiana,

cit., p. 273. 25

Cfr. L. ASTEGIANO, Codice diplomatico cremonese 715-1334, vol. II, Torino 1898, pp. 406, 431. Per un particolare

esempio, tra i tanti, relativo al territorio più prossimo a Cremona, si può vedere V. FERRARI, F. GONZAGA,

Toponomastica di Cremona, Quartiere Boschetto (Atlante toponomastico della provincia di Cremona, 15), Cremona

2012, pp. 101-102. 26

N. FRANCOVICH ONESTI, Vestigia longobarde in Italia (568-774), cit., p. 62.

Page 30: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

L’incertezza suscitata da questo genere di problematiche è dovuta per lo più alla difficoltà di

distinguere cronologicamente - in assenza di adeguata documentazione storica - i riflessi che

l’eredità linguistica germanica e longobarda passata alla lingua italiana, possono aver avuto anche

in campo toponimico, tanto da aver coniato nomi di luogo di apparente matrice longobarda anche in

epoca recente.

Un Castrum Langobardorum all’origine del toponimo Longardore?

Tra i diversi altri toponimi di più evidente apparenza longobarda - trascurando in questa sede quelli

composti con un nome germanico quale secondo elemento, come Casalsigone, Cortetano, ecc., la

cui analisi richiederebbe uno spazio eccedente quello qui concesso - non si può trascurare

Longardore, che designa un piccolo paese posto a margine della via Giuseppina, poco a sud-est di

Cremona, ed ora frazione del comune di Sospiro.

Chi si è occupato di toponomastica locale, non ha esitato ad attribuirne il nome ad una presenza

longobarda, ipotizzando persino uno stanziamento risalente all’età romana e riportando la citazione

di autori precedenti che ne indicavano l’origine suscitata da un castrum Langobardorum risalente

all’anno 97027

.

In realtà, per quanto mi consta, l’unica traccia di tale toponimo storico si trova in Ferrante Aporti

che, nel secondo volume delle sue Memorie di Storia ecclesiastica cremonese, trovandosi a parlare

di ospizi ed altre istituzioni di beneficienza, trascriveva un documento dell’anno 870 dove tra le

molte altre cose si cita una località qui dicitur castra Langobardorum vico Gerrato che l’autore

stesso, in nota, riconosceva come corrispondente ad un luogo posto nei pressi di Longardore28

.

Purtroppo non è dato sapere dove l’Aporti abbia reperito tale documento e nulla si sa circa la sua

autenticità, sicché sulla sola base di quest’unica testimonianza altomedievale non pare facile

giungere a qualche conclusione definitiva.

Resta il fatto, comunque, che la nostra località Longardore porta nel nome l’evidente traccia di una

derivazione da un genitivo plurale Longobardorum, confermata dalle attestazione medievali che la

registrano nelle forme di locus Longovardore (a. 1155 e 1182) o Longoverdore (sec. XIII e 1305)29

.

Certo la vicinanza con Sospiro, curtis regia di ascendenza longobarda, potrebbe deporre a favore di

un’origine etnica del toponimo, in analogia con qualche altro simile nome locale, primo fra tutti il

piemontese Lombardore, in provincia di Torino, anch’esso documentato sin dal 1019 come castrum

Langobardorum30

, e, dunque, la possibilità che si tratti, invece, del riflesso di un insediamento o

dell’esistenza, qui, di proprietà possedute dai membri di una casata discesa da un capostipite a nome

(o soprannome) Longobardus – che, in effetti, potrebbe produrre un esito analogo – passerebbe in

secondo piano.

A favore della prima ipotesi si può indicare la presenza, nel raggio massimo di tre-quattro

chilometri da Sospiro, di altri toponimi di matrice longobarda o riconducibili a tale origine, quali -

oltre a Longardore -, Gazzo e Gazzolo, Olzo, Bredazze e c.na Breda, c.na Aghizzone, Tidolo, S.

Salvatore, S. Michele Sette Pozzi, ma è probabile che ricerche relative alla microtoponomastica

fondiaria di questo definito ambito territoriale possano restituire ulteriori elementi di riflessione

inerenti all’argomento.

Senza addentrarci nel merito, che ci porterebbe molto lontani, il cenno ad alcune dedicazioni

santorali appena fatto deve rammentare che in epoca longobarda la diffusione del culto di santi

27

D. OLIVIERI, Dizionario di toponomastica lombarda, Milano, Ceschina, 1961, p. 308; P. BOSELLI, Dizionario di

toponomastica bergamasca e cremonese, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 1990, 173; G. B. PELLEGRINI,

Toponomastica italiana, cit. p. 277. 28

F. APORTI, Memorie di storia ecclesiastica cremonese. Parte seconda, dal 1335 al 1590 dell’Era volgare, Cremona,

presso i tipografi fratelli Manini, 1837, p. 70. Cfr. anche A. GRANDI, Descrizione dello stato fisico-politico-statistico-

storico-biografico della provincia e diocesi di Cremona, vol. II, Cremona, Luigi Copelotti Libraio-Editore, 1858, p. 62. 29

Cfr. L. ASTEGIANO, Codice diplomatico cremonese, cit., vol. I, pp. 120, 399; vol. II, p. 154; Le carte cremonesi dei

secoli VIII-XII, vol. III, Cremona 1987, p. 369. 30

D. OLIVIERI, Dizionario di toponomastica piemontese, Brescia, Paideia, 1965, p. 200.

Page 31: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

prescelti dai fondatori di monasteria, ecclesiae, basilicae, oracula, oratoria, tituli, rispondeva

all’intenzione di eleggere un determinato santo a protettore della propria casata, della propria fara,

ovvero di proclamarlo intercessore personale. Gli stendardi di re Cuniperto, per esempio, secondo il

racconto di Paolo Diacono, esibivano l’immagine di San Michele Arcangelo31

.

È noto che tra i santi più venerati dal popolo longobardo, dopo la conversione al cattolicesimo, ne

prevalsero alcuni, come san Giovanni Battista, san Michele Arcangelo, il Salvatore, san Giorgio,

sant’Eusebio, san Martino, la Vergine Maria, od altri ancora piuttosto caratteristici.

Dunque anche attraverso le tracce toponomastiche appena nominate, pur sparse e non sempre

omogenee, pare possibile riconoscere i riflessi di una presenza longobarda anche nel territorio più

prossimo a Cremona, sebbene finora non siano emerse testimonianze archeologiche che possano

ancor meglio convalidare la circostanza.

Tuttavia si può ritenere che gli indizi di presenza longobarda rappresentati dai nomi di luogo,

quando si trovino in buon numero e raggruppati in un ambito territoriale abbastanza definito, come

nel caso sopra illustrato, sembrano segnalare con una certa insistenza il fenomeno e possono

assumere un più deciso valore in qualità di testimonianza storica, poiché tradiscono

un’organizzazione del territorio di impronta longobarda così ben radicata da essere sopravvissuta

sino ad oggi.

In conclusione, e volendo considerare il presente contributo come un primo approccio ai temi della

toponomastica di origine o di impronta longobarda rintracciabile anche nell’attuale territorio della

provincia di Cremona, che finora non sembrano aver avuto particolare considerazione, rimane

l’impegno a riprendere in futuro l’argomento con l’intento di definirne meglio i contorni e di

approfondire alcuni aspetti qui, per ora, rimasti solo sullo sfondo.

31

Pauli Historia Langobardorum, V, 41.

Page 32: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

IL GRANDE DILUVIO DEL 589

Andrea Guereschi ingegnere

Introduzione

In un periodo di mutamenti climatici, che stanno provocando piogge intense sempre più violente

con conseguenti tracimazioni ed esondazioni di corsi d’acqua, è interessante ricordare un evento

naturale estremo come il ”Grande Diluvio”, occorso circa 1.500 anni fa, che probabilmente fu

l’evento naturale più catastrofico avvenuto nella nostra area, e più probabilmente in Italia, in epoca

storica.

Nell’ottobre 589 avvenne questo evento estremo: piogge prolungate in un’area vasta provocarono

grandi inondazioni ed allagamenti di estesi territori nel nord e centro Italia causando una grave

catastrofe naturale della quale conosciamo molto parzialmente tutti gli effetti.

Tale evento modificò notevolmente l’idrografia del nord Italia anche se in verità occorrerebbe

parlare di una serie di eventi dei quali quello del 589 fu il maggiore, causati anche da una mancanza

di manutenzione di fiumi ed arginature e da una modifica delle condizioni climatiche avvenuta tra il

VI e VIII secolo.

Di quanto accaduto nel 589 abbiamo brevi descrizioni da Paolo Diacono, Papa Gregorio e Gregorio

di Tours.

Questa grave catastrofe naturale avvenne in una situazione italiana e in un’epoca storica

caratterizzata da ripetute guerre e da decadenza economica, per cui andò ad aggravare una

situazione economico-sociale già critica anche della nostra area padana.

Un “diluvio” con conseguente generalizzata esondazione di fiumi e corsi d’acqua e allagamento di

vasti territori conduceva oltre alla morte degli uomini anche alla morte degli animali,

all’impossibilità di coltivare i terreni fino al loro prosciugamento, sempre che l’esondazione dei

corsi d’acqua non avesse fatto perdere anche le sementi. Tutto ciò produceva a sua volta una

carestia che avrebbe colpito i superstiti per la riduzione sia dei coltivi sia degli animali allevati o da

cacciare. Alla carestia si sarebbe poi aggiunta, a causa dell’indebolimento fisico dei sopravvissuti,

una qualche forma di epidemia o pestilenza.

È stato detto che è peggio un’alluvione di un terremoto: non si può seminare su terreni allagati se

non dopo mesi per attendere che le acque si ritirino ed i terreni si prosciughino. Seminativi per altro

in quelle epoche con produttività ridotte, in un periodo storico nel quale le tecniche di coltivazione

erano regredite. Altri nel medioevo avevano coniato il proverbio “la miseria viene in barca”.

Le conseguenze di una catastrofe naturale di tali dimensioni si sarebbero protratte per molti anni

dopo l’evento.

Altrettanto importanti furono gli sconvolgimenti del territorio ed in particolare i mutamenti

nell’idrografia sia dei fiumi principali sia dei corsi d’acqua secondari, collegati ai primi, con il

mutamento delle superfici dei terreni a causa di erosioni o deposito di sedimenti lasciati dalle acque

nei territori colpiti dalla alluvione.

Descrizioni che ci sono giunte

I principali accenni all’evento sono quelli di Paolo Diacono, di Papa Gregorio e di Gregorio di

Tours.

Le descrizioni ci parlano di un diluvio d’acqua che si disse non ci fosse stato dal tempo di Noè, di

un’alluvione che colpì gran parte dell’Italia: furono ridotti in rovina campagne e borghi, ci furono

grosse perdite di vite umane e animali, furono distrutti strade e sentieri. Fu scritto che il livello

dell’Adige salì fino a raggiungere le finestre superiori della basilica di San Zeno a Verona ed anche

una parte delle mura della stessa città di Verona fu distrutta dall’inondazione. È da ricordare la

leggenda secondo la quale le acque si sarebbero fermate sulla soglia della basilica di San Zeno per

risparmiare i fedeli che si erano lì rifugiati.

Page 33: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

Anche a Roma le acque del Tevere superarono le mura, vi furono distruzioni o in ogni modo danni

a molti edifici, abbattuti granai, perdita di molte migliaia di moggia di frumento.

Si ricorda come il bestiame, e un notevole numero di serpenti oltre ad un drago di grandi

dimensioni, fossero trascinati dal fiume e passando per la città giungessero al mare.

A tale disastro seguì una grande pestilenza caratterizzata da bubboni inguinali che uccise buona

parte degli abitanti, tra i primi il Papa Pelagio. Una processione per placare l’epidemia ebbe effetto

opposto causando la morte di 800 persone a causa del contagio provocato dalla pestilenza in atto.

Mesi dopo tutti questi tragici avvenimenti, è da registrare il racconto di un diacono, che ritorna in

Francia dall’Italia e descrive sommariamente quanto avvenuto appunto mesi prima, il diluvio e

l’alluvione e ne delinea le pesantissime conseguenze. È il racconto riportato da Gregorio di Tours,

una visione da luoghi lontani rispetto a quelli dove era avvenuta la rovina dei territori, dei granai,

delle strade.

Si rileva come dalle pur stringate descrizioni l’evento disastroso abbia interessato una vastissima

area in Italia, sia settentrionale che centrale, ma non sembra avere invece interessato il meridione o

oltr’alpe altri paesi quali la Francia.

In quell’autunno-inverno sotto l’incalzare delle piogge, e di particolari fattori meteorologici,

l’innalzamento delle acque del Po e di tutti i suoi affluenti fece probabilmente cedere quello che

restava dei vecchi argini romani causando lo straripamento dei fiumi, le cui acque coprirono buona

parte della pianura padana.

Dalle brevi descrizioni dell’evento si evidenzia anche che, come prevedibile, l’alluvione oltre ad

aver causato la morte di tante persone, l’allagamento di vasti territori e la modifica della rete

idrografica, causò la perdita di prodotti alimentari, sia di cereali sia di animali, provocò difficoltà

nel seminare per la perdita di sementi ma soprattutto per i tempi necessari al ritiro delle acque dai

terreni allagati e al loro definitivo prosciugamento: tutto ciò condusse alla mancanza di un’adeguata

alimentazione delle popolazioni sopravvissute già disperse, immiserite, e pertanto fisicamente

indebolite da questa carestia sopraggiunta e quindi esposte all’insorgere di epidemie che

puntualmente scoppiarono, come evidenziato nei racconti di quanto avvenuto a Roma a che

sicuramente non furono confinate alla sola città di Roma.

È un andamento prevedibile e lineare: catastrofe naturale, carestia, epidemia/pestilenza.

Un quadro quindi estremamente desolante in una economia già povera ancora prima dell’evento

catastrofico del 589.

Conseguenze del Diluvio

Dopo la grande inondazione le acque si ritirarono gradualmente ma lasciarono sconvolta

l’idrografia con il cambiamento permanente del corso di vari fiumi e lasciarono un grande mare di

fango dal Monferrato al mare e dalle Prealpi agli Appennini, dal quale emergevano le località più

elevate come le colline di S. Colombano, o per esempio le parti più alte di Cremona.

La modifica dell’idrografia fu notevolissima, anche se non tutta riferibile come si è detto ad un

singolo evento.

Si allontanò il corso del Brenta da Padova, lo spostamento del corso dell’Adige abbandonò Este, la

foce del Piave fino ad allora in comune con quella del Sile se ne separò. Il Mincio abbandonò il

collegamento con il Tartaro.

Si fa risalire al 17 Ottobre 589 la Rotta della Cucca causata dallo straripamento dell’Adige presso

Veronella, che sconvolse tutta l’idrografia del basso Veneto.

Più vicino a noi si ampliarono le zone di acque stagnanti, come il Lago Gerundo tra Adda, Oglio e

Po: già in epoca precedente era zona di acquitrini, ma dopo queste esondazioni essi si ampliarono

congiungendosi l’uno all’altro, anche se probabilmente non si trattò mai di uno specchio d’acqua

profondo e totalmente permanente, che sopravvisse per secoli, fino alla lenta bonifica avvenuta

durante il medioevo.

Gli eventi citati hanno sicuramente modificato anche l’idrografia nell’area attorno alla città di

Cremona per cui ci è difficile oggi ricostruire quale fosse l’andamento dei corsi d’acqua nei secoli

Page 34: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

precedenti, e probabilmente tali eventi hanno modificato pure aree cittadine più vicine ai corsi

d’acqua e prima di tutto più vicine al Po sia per franamenti di sponde sia per la sedimentazione di

sabbie, argille, terreni trasportati dalle acque.

Tali eventi avranno sicuramente avuto significative ripercussioni anche sulle caratteristiche urbane

di Cremona come è accaduto per altre città come Modena, quasi del tutto distrutta e dove scavi

dello scorso secolo hanno evidenziato cumuli di depositi alluvionali, fatti risalire all’evento del 589,

sia nella zona orientale che in quella occidentale fino a raggiungere anche l’area più centrale della

città e un successivo spostamento del baricentro dell’abitato cittadino verso Ovest, o di Bologna

cancellata per metà dallo stesso evento.

Le ripercussioni sulla vita degli abitanti sopravvissuti furono sicuramente pesantissime, ma molto

forte dovette essere anche lo sconvolgimento del tessuto urbano. Interessante è la tesi di William

Montorsi in “Cremona dalla città quadrata a Cittanova” nel quale ipotizza un abbandono di aree

cittadine a Ovest ed uno spostamento del baricentro della città più a Est a causa di eventi naturali

quali quello del 589.

Sconvolte le fragili abitazioni in legno. Molto probabilmente nuclei abitati costituiti da stamberghe

smontabili costruite con legname e fango coperte con assi, paglia e canne palustri. Se come a

Modena anche a Cremona parte della città fu coperta da depositi alluvionali anche la ricostruzione

di abitazioni, per quanto semplici e in legno, su un terreno fangoso da parte di una popolazione

ridotta di numero, stremata e magari attaccata da epidemie poteva essere comunque difficile e

quindi si può comprendere uno spostamento dell’abitato in aree di minore estensione e che non

erano state allagate, abbandonando forzatamene quelle coperte di fango.

Sconvolte le già precarie comunicazioni, soprattutto le vie terrestri ma anche le navigabili per le già

citate modifiche dell’idrografia, mutate isole e canali del Po, stravolte le rive ed i fondali, ma

nonostante ciò le comunicazioni via fiume furono più facilmente ripristinabili rispetto a quelle

terrestri.

Il paesaggio della bassa pianura si modificò, ma era comunque molto diverso dal presente: il fiume

Po, non canalizzato come oggi, presentava diversi rami distanti fino a 4-6 km tra loro, il deflusso

della era corrente lento. Erano presenti paludi ed isole con una forte presenza di boschi.

In particolare nel tratto cremonese del fiume Po, che è forse il tratto nel quale si sono storicamente

avute le maggiori divagazioni del fiume, quindi predisposto naturalmente ai mutamenti, un evento

sconvolgente quale quello accaduto nel 589 probabilmente ebbe grandi effetti nel modificare

l’andamento del fiume e quindi anche tutta l’idrografia secondaria collegata.

Questi stravolgimenti ebbero sicuramente ripercussioni negative sia per quel che rimaneva di un

commercio fluviale, sia per i collegamenti con il più importante centro bizantino di Ravenna e

quindi per la difesa della città, ma le più pesanti conseguenze le subirono probabilmente i

Longobardi che occupavano la pianura allagata e che forse proprio per questo subirono alcuni mesi

dopo nel 590 l’offensiva bizantina sulle città emiliane.

La modifica dell’idrografia secondaria avrà avuto a sua volta conseguenze nell’utilizzo delle aree

coltivate soprattutto per quanto riguarda lo scolo delle acque ed eventualmente l’irrigazione.

Tecniche precarie con produttività molto bassa, attrezzi di legno di qualità scadente, per esempio

aratri di legno, simmetrici: una seppur modesta riduzione, per un qualsiasi motivo, della produttività

già molto bassa poteva avere conseguenze molto negative nel sostentamento delle popolazioni.

Anche l’allagamento dei boschi con l’annegamento degli animali che lì vivevano ebbe sicuramente

ripercussioni molto sfavorevoli nella produzione alimentare: è da ricordare a tal proposito

l’esistenza dell’allevamento brado nei boschi, soprattutto di maiali (si misuravano le foreste dal

numero dei maiali che si potevano allevare), ma anche di ovini (ad esempio presso Castelvetro).

Un’attività banale come il reperimento dell’acqua per i sopravvissuti diventò difficile e pericolosa:

le acque esondate trascinano sedimenti ma anche corpi di uomini e carcasse di animali, sono infette,

e allagano i pozzi fino ad allora utilizzati per l’approvvigionamento idrico. Oltre alla difficoltà

pratica di estrarre l’acqua venne ancor più facilitato l’insorgere di epidemie.

Page 35: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

Il “Diluvio” del 589 è pertanto un evento che ha segnato la storia della città di Cremona come di

altre nella pianura padana, innanzitutto per la perdita di vite umane e per la riduzione dell’area

occupata dalla città, e quasi sicuramente per un cambiamento della topografia e idrografia cittadina

che non sappiamo però del tutto apprezzare, risultando quindi un momento di separazione nello

svolgersi del processo di formazione urbanistica della città, anche se, per i numerosi secoli trascorsi

e per le scarse notizie non ne sappiamo valutare appieno l’entità.

È un evento quello del 589 molto meno noto rispetto ad altri nella storia di Cremona, per esempio

all’incendio del 69, ma per la città ha probabilmente avuto risvolti altrettanto negativi anche se non

riusciamo ad individuarne con esattezza le dimensioni.

Bibliografia

Umberto Primo Censi. Nelle Terre dei Pallavicino.

Guglielmo Evangelista. Duemila anni di navigazione padana.

Sauro Gelichi. Territori di confine in età longobarda. L’ager mutinensis.

Claudia Maccabrini. Storia di Cremona - L’età antica, Cremona l’immagine della città romana nel

medioevo.

Magistrato Per Il Po, Centro Studi. Carta Topografica del fiume Po.

William Montorsi. Cremona dalla città quadrata a Cittanova.

Page 36: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

NATURA, AMBIENTE E PAESAGGIO

PADANO NEL PERIODO LONGOBARDO

Riccardo Groppali Dipartimento di Scienze della Terra e dell’Ambiente dell’Università di Pavia

Prima della colonizzazione romana la Pianura Padana era occupata quasi per intero da immense

foreste e sterminate paludi, alimentate dai fiumi che scorrevano in ampi alvei e modificavano

liberamente e frequentemente il loro percorso. Le poche terre emerse non alberate erano i piccoli

coltivi intorno agli scarsi e sparsi insediamenti umani e le zone dove gli alberi non potevano

crescere per le particolari caratteristiche del suolo.

Da foreste, paludi e fiumi dipendeva la vita dei cacciatori-raccoglitori che per primi avevano

colonizzato la pianura. Le aree boscate, utilizzate in seguito dai pastori e poi in parte trasformate in

coltivi dagli agricoltori stanziali, avrebbero però continuato a lungo a fornire - insieme ai corpi

idrici - una parte fondamentale del sostentamento della popolazione padana, ottenuta dai vasti

territori non antropizzati che circondavano ogni insediamento.

La Pianura Padana tra fine dell’Impero Romano e invasioni barbariche

La prima forte trasformazione dell’ambiente risale all’epoca romana, con la realizzazione di grandi

centri urbani e la centuriazione della campagna più facile da raggiungere e mettere a coltura,

suddividendola in campi quadrati di 710 metri di lato. Ai loro margini, su alberi opportunamente

potati, veniva fatta crescere la vite (detta perciò maritata) secondo un modello agronomico d’origine

probabilmente etrusca.

I nuovi campi che potevano rendersi necessari per sostentare una popolazione in crescita o per

nuovi insediamenti venivano ricavati coll’aiuto del fuoco dalle onnipresenti foreste. Esse

circondavano tutte le aree antropizzate ma non venivano considerate elementi ostili, anzi era

nozione comune e molto realistica che terra et silva contribuissero alla sopravvivenza delle

popolazioni della pianura, in quanto entrambe fornivano alimenti indispensabili e complementari.

Coll’arrivo dei barbari quasi tutti i piccoli centri isolati vennero abbandonati perché non difendibili

dalle frequenti incursioni, e le periodiche pestilenze e carestie contribuirono a ridurre ulteriormente

la presenza dell’uomo anche nella campagna, dove il continuo passaggio di armati aveva ridotto la

popolazione residua alla fame. Le città vennero periodicamente assalite e saccheggiate, e perciò

spesso abbandonate: in questo periodo scomparve almeno un terzo degli insediamenti urbani

romani. Ciò favorì il ritorno di foreste e paludi in molti territori in precedenza coltivati e l’economia

silvo-pastorale prese il sopravvento: nelle aree più lontane dagli abitati acquisirono un’importanza

fondamentale l’attività venatoria e l’allevamento, che però non veniva effettuato nei boschi più fitti.

Questi erano infatti abbondantemente disseminati di lacci e trappole che costituivano un forte

pericolo per le specie domestiche, e vi si svolgeva la caccia ai grandi animali: Paolo Diacono

ricorda la presenza di cervi, oggetto di prelievo venatorio, nella “vastissima foresta Urbe” che si

estendeva nei dintorni di Pavia. Le aree boscate poste ai margini delle foreste, rese sempre meno

fitte dal pascolo e dagli incendi appiccati periodicamente, erano soggette a un degrado progressivo e

al mancato rinnovamento della copertura arborea: questi popolamenti vegetali finivano così per

diradarsi ulteriormente e per trasformarsi lentamente in incolti aperti.

L’aggressione iniziale alle foreste della pianura veniva operata dai maiali che si cibavano delle

ghiande e riducevano la possibilità di rigenerazione delle querce, sconvolgendo costantemente il

terreno per alimentarsi. Quando l’ambiente era diventato più aperto seguivano le capre, che

brucavano germogli e giovani pianticelle e impedivano la ricrescita degli alberi, e infine le pecore

che inibivano il ritorno della foresta e mantenevano basso lo strato erbaceo sul terreno,

contribuendo a evitare la ricrescita arborea. In ogni caso il fuoco veniva ampiamente e

costantemente impiegato per rendere la foresta sempre più adatta alle necessità dell’uomo, che

Page 37: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

inoltre vi prelevava il legname utilizzato per costruire e riscaldare le case, cuocere il cibo, realizzare

utensili e recinzioni dei campi e produrre numerosi oggetti indispensabili.

L’umanità era però scarsa, in conseguenza delle guerre e delle epidemie che la falcidiavano

periodicamente, come la terribile Morte Nera proveniente dall’Egitto che provocò una prima

decimazione poco prima dell’arrivo dei Longobardi e continuò poi a imperversare periodicamente

per più d’un secolo. Per questi motivi la popolazione dell’Italia si ridusse di oltre la metà in questo

periodo, passando da 8,5 milioni d’abitanti nel 200 a soli quattro milioni nel 700.

L’epoca longobarda

Dopo l’assedio e la distruzione di gran parte delle città, i nuovi signori longobardi s’insediarono in

alcune villae nelle campagne ancora coltivate: da qui organizzarono la nuova vita economica e

amministrativa dei territori dei quali s’erano impossessati con brutalità. Ovunque aumentarono le

terre abbandonate che tornarono a essere boschi, paludi, acquitrini: per questo le fonti ecclesiastiche

del primo periodo longobardo parlano delle fiere tornate a vivere in luoghi che prima avevano

ospitato uomini “fitti come le spighe di grano”. Comunque anche nelle aree ancora coltivate i campi

erano sempre circondati da boschi e paludi, la messa a coltura di nuove terre era contenuta e

venivano conservate vaste porzioni incolte, che garantivano una quota fondamentale d’alimenti e

materie prime.

Nella pianura le acque costituivano un ostacolo insormontabile per la messa a coltura d’una parte

non indifferente del territorio, però nelle paludi più vaste la caccia, la pesca e la raccolta di piante

spontanee erano fondamentali per la sopravvivenza della popolazione: quindi la loro bonifica, molto

difficile se non impossibile, sarebbe stata addirittura svantaggiosa.

Più facilmente trasformabili in coltivi le foreste, che infatti coll’arrivo dei Longobardi subirono un

forte attacco, ma la loro abbondanza e diffusione erano tali che non venne stabilita alcuna norma

per una loro gestione conservativa. Quindi sempre più frequentemente nelle grandi proprietà che

s’andavano consolidando vennero diboscate vaste superfici per ottenere nuove aree da mettere a

coltura. La foresta che aveva riconquistato spazio a scapito delle coltivazioni abbandonate venne

dunque nuovamente aggredita, a partire dalle località ancora abitate e da numerosi piccoli nuclei

formati da poche abitazioni, che iniziarono a diffondersi in tutta la pianura.

La vita rimaneva però molto difficile e precaria, oltre a essere molto breve, e malattie come

tubercolosi e lebbra erano piuttosto diffuse. La mortalità infantile, cui le famiglie cercavano di

sopperire con un numero elevato di figli, era fortissima, come pure la morte delle donne durante o

in conseguenza del parto. Vaiolo, dissenteria e peste precedevano e seguivano le carestie e le

guerre, la malaria derivante dalla puntura delle zanzare che infestavano le paludi provocava

numerose vittime, e verso la fine del VII secolo un’eclissi di luna precedette la peste che flagellò

l’Italia per tre mesi: città come Pavia vennero quasi completamente abbandonate dai pochissimi

sopravvissuti, che contribuirono con la loro fuga a diffondere altrove il morbo che li aveva colpiti.

Le condizioni igieniche delle case e il contato continuo con gli animali allevati facilitavano

ampiamente la diffusione di svariate malattie, e i ratti trasmettevano all’uomo la Morte Nera col

morso delle loro pulci. Nelle abitazioni erano sicuramente abbondanti gli scarafaggi, in grado di

veicolare microbi pericolosi dai rifiuti al cibo, nel corpo degli abitanti erano presenti numerosi

parassiti interni (tenie, ascaridi, ossiuri) e la scabbia portata da minuscoli acari era diffusa,

manifestandosi anche con vere e proprie epidemie. Invece non erano probabilmente abbondanti i

parassiti esterni, quanto meno sul corpo dei Longobardi che avevano una cura profonda e costante

della loro igiene personale. Nei secoli successivi la completa affermazione del cristianesimo e del

concetto del rischio peccaminoso derivante dalla nudità determineranno invece l’abbandono della

pulizia corporea, con la conseguente proliferazione di pulci, pidocchi e piattole e delle malattie

trasmesse da questi insetti.

Page 38: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

Il paesaggio padano longobardo

Sul finire del VII secolo la Pianura Padana era coperta da estese foreste, che dominavano nelle aree

più lontane dai fiumi, e dalle ampie paludi che occupavano tutte le depressioni e le zone vicine ai

corsi d’acqua, mentre alcuni territori sterili erano coperti da rada vegetazione erbacea o arbustiva.

L’impronta dell’uomo era evidente nei piccoli coltivi che si concentravano nella fascia dell’antica

colonizzazione romana e intorno ai centri abitati, ma poteva essere rilevata anche in alcune foreste.

Qui il maggior pregio economico delle silvae glandiferae o glandariae portava a modificare la

composizione arborea originaria favorendo le querce, ma l’alterazione era completa se venivano

piantumati i castagni che, veri alberi del pane, fornivano cibo prezioso per la popolazione.

Però le foreste, anche se avevano riconquistato ampi territori dopo la fine dell’Impero Romano, non

coprivano alcune porzioni della pianura che si presentavano come prati magri e cespuglieti radi.

Queste aree erano lembi sassosi, aridi per la loro grande permeabilità, che avrebbero preso il nome

di strepade nella bergamasca e di campagne nella bresciana e nel Friuli (dove erano presenti anche i

simili magredi), che oltre 1.300 anni dopo il Sestini descrisse ancora come “sterili e adatti solo al

pascolo”, mentre gli ambienti delle campagne si presentavano “avaramente vestiti da una

vegetazione verde-cinerea o bruna” che li rendeva simili a steppe. Ancora in Friuli, presso il limite

inferiore dell’alta pianura, erano presenti tratti di ghiaie (grave) bianche, estremamente aride e quasi

prive di copertura vegetale, mentre nelle pianure torinese, vercellese e lomellina si trovavano i

sabbioni, piccoli dossi sabbiosi sterili e coperti da chiazze d’erbe rade. Nell’alta pianura erano poi

localmente diffusi vasti lembi di brughiera su suoli aridi ciottoloso-sabbiosi, molto permeabili e

degradati, che le piogge avevano privato di gran parte dei sali minerali necessari alla crescita della

vegetazione arborea.

Altre vaste radure erano situate dove l’acqua raggiungeva quasi la superficie del suolo e in alcuni

punti ne sgorgava spontaneamente oppure si raccoglieva in paludi e acquitrini. Si trattava

dell’ampia fascia delle risorgive, che era più continua nei territori compresi tra gli affluenti di

sinistra del Po e maggiormente frammentata tra quelli di destra. In tale area, al confine tra l’alta

pianura permeabile alle piogge e la bassa pianura con suolo di tessitura più fine e perciò

impermeabile, l’acqua della falda - impossibilitata a proseguire verso valle - veniva spinta verso la

superficie e si manteneva in pressione a breve distanza da essa. Nella descrizione del Grandi, ancora

alla metà del XIX secolo nella pianura bergamasca presso Mozzanica e Fornovo dal terreno le

acque di falda “appena lo si calchi co’ piedi o se ne smuova il fondo …escono impetuose a foggia

di sifone. Il suolo è quivi tutto intersecato da rivoli e fossati sorgivi e da vasti paduli”.

Non mancavano infine, anch’essi lontani dai fiumi maggiori, depositi torbosi inadatti alla crescita

degli alberi, come le lame bresciane dal suolo quasi nero e con numerose depressioni perennemente

allagate, dove venivano praticati il pascolo e la raccolta di erbe palustri, e altri grandi avvallamenti

impaludati, come i mosi cremaschi e bergamaschi.

Gli ambienti non antropizzati non venivano però considerati improduttivi, perché nelle poche aree

coltivate le rese erano molto scarse, con frequenti perdite dovute ad andamenti stagionali anomali

ed esondazioni periodiche, e rendevano indispensabile l’integrazione dei prodotti dei campi con

quelli di foreste, paludi e incolti, meno soggetti alle avversità naturali.

Comunque a ogni incremento della popolazione corrispondeva un ampliamento dei campi a scapito

dei boschi limitrofi, che non si verificava invece per le paludi più vaste: la loro bonifica era spesso

impossibile con i mezzi dell’epoca e con la forza-lavoro di poche persone. Tra i pochi interventi

realizzati in tutto il Medioevo anche da piccole comunità vanno ricordate le bonifiche per colmata

delle zone umide prossime ai fiumi. In quelle non troppo vicine al corso d’acqua che le allagava

periodicamente veniva piantata una palizzata di rami vivi di salice, perpendicolare all’avvallamento

dal quale entrava la piena. Questi astoni vegetavano rapidamente, non impedivano l’accesso

dell’acqua che trasportava abbondanti detriti ma ne rallentavano l’uscita, facendo depositare tutto

quello che vi era stato trascinato: ciò accelerava il normale processo d’interrimento di queste zone

umide, che si trasformavano rapidamente in folti saliceti. L’intrico dei loro rami presso il terreno

Page 39: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

determinava poi un effetto-trappola che bloccava tutti i detriti fluitati, innalzando ulteriormente il

livello del suolo e rendendolo più fertile. Se poi il corso d’acqua s’allontanava diventava possibile

diradare il bosco per utilizzarlo come pascolo, col morso del bestiame che avrebbe impedito la

rigenerazione degli alberi, e forse successivamente in coltivo.

Le grandi alluvioni erano comunque eccezionali, in quanto non era ancora stato attuato il

diboscamento delle pendici montane, coperte ancora da grandi foreste che trattenevano le piogge e

ne rallentavano il deflusso a valle, e solo di rado si verificavano esondazioni disastrose. La più nota

e catastrofica ebbe luogo una ventina d’anni dopo l’arrivo dei Longobardi, nell’autunno del 589,

quando l’Adige dilagò per la pianura veronese e vi ristagnò a lungo sommergendo città e villaggi.

Monasteri, deforestazione e bonifiche

Una forte spinta all’antropizzazione del paesaggio derivò dal progressivo insediamento di monasteri

in ambienti che erano stati abbandonati dall’uomo: quando l’irlandese san Colombano, tra 612 e

615, fondò il monastero di Bobbio la collina piacentina era interamente forestata, mentre l’abbazia

di Nonantola venne fondata intorno al 752 in un territorio modenese allora definito deserto.

Nell’Occidente medievale tale termine faceva riferimento ai luoghi della solitudine, costituiti

sempre dalle foreste, che venivano prescelti per la costruzione degli eremi che poi spesso

diventavano i nuclei fondanti di strutture più ampie e popolate.

Re e duchi longobardi, che possedevano vasti territori inutilizzati a livello agricolo, vi favorirono

l’insediamento di monasteri, che disponevano della manodopera organizzata e delle conoscenze

tecniche necessarie a rendere produttive anche le aree più difficili. Per questo, con una forte

motivazione anche religiosa nella loro lotta contro la natura selvaggia, tutti gli ordini monastici

combatterono una vera e propria guerra contro la foresta e gli alberi, e alcuni diboscamenti vennero

finalizzati anche a cancellare le aree destinate ai riti della religio silvestris, molto diffusi soprattutto

tra i Longobardi prima della loro completa cristianizzazione.

Una delle vicende più note di questo conflitto riguarda il famoso noce di Benevento, già centenario

nel VII secolo e sito di celebrazione della festa della pubertà dei Longobardi non ancora

cristianizzati: per questo, assimilando nel suo fervore religioso queste cerimonie a manifestazioni

demoniache, durante le quali le streghe di tutta Europa si sarebbero riunite presso l’albero volando

sulle loro scope, il vescovo Barbato lo fece abbattere per far erigere al suo posto la chiesa di santa

Maria in Voto.

Intorno ai monasteri, che venivano collocati in aree che la natura aveva riconquistato o che non

aveva mai abbandonato, furono ampliate progressivamente le terre coltivate e vennero arginati i

corsi d’acqua, scavati drenaggi per bonificare le zone acquitrinose e costruiti edifici rustici. Le

comunità monastiche diedero quindi vigore all’agricoltura, che rendeva più sicura la disponibilità di

cibo quando le avversità climatiche e le calamità naturali compromettevano il rendimento degli

spazi naturali. Anche i monaci però allevavano maiali in foresta, cacciavano e facevano cacciare, e

dedicavano una particolare attenzione alla pesca, perché in linea di massima la loro dieta non

consentiva l’alimentazione carnea.

Con ogni probabilità a questo periodo va attribuito l’ingresso della carpa nelle acque italiane. Infatti

questo pesce d’origine centroeuropea poteva essere allevato facilmente in prossimità dei conventi

nei piccoli stagni che venivano scavati, o che venivano più semplicemente riadattati, per fornire

cibo nei giorni di magro. Tale necessità veniva affrontata anche consumando tutto ciò che era

considerato utilizzabile durante queste periodiche penitenze alimentari: dai laurices (feti di lepre o

di coniglio estratti dal liquido amniotico) per i più ricchi e raffinati, alle testuggini palustri e

terrestri, alla folaga per il forte sapore di pesce delle sue carni, alla lontra e al castoro in quanto

animali acquatici. Con la progressiva cristianizzazione della popolazione questi cibi acquisteranno

progressivamente importanza anche fuori dai conventi, per il divieto di consumare alimenti

d’origine animale in alcuni giorni della settimana e in alcuni periodi dell’anno.

Page 40: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

Agricoltura e alimentazione

I coltivi, scarsi e collocati presso centri abitati e monasteri, erano circondati da una natura la cui

antropizzazione diminuiva all’aumentare della distanza dagli insediamenti umani. La loro fertilità

non poteva essere incrementata con la letamazione, in quanto l’allevamento semi-brado del

bestiame non consentiva d’accumulare gli escrementi animali, e il riposo pascolativo era prolungato

per evitare l’esaurimento del suolo. Il pascolo nei campi dopo il raccolto, che per i cereali

comportava un taglio più in alto durante la mietitura, permetteva di nutrire temporaneamente il

bestiame fuori da incolti e foresta e apportava un minimo di deiezioni, e l’eventuale incendio delle

stoppie rimaste - se mancavano alberi produttivi al margine dei coltivi che ne avrebbero subito

danno - oppure la loro incorporazione nel suolo coll’aratura avevano la funzione di mantenere il più

possibile la produttività agricola.

L’unica possibilità d’implementare la fertilità consisteva nell’incremento del numero delle arature,

che potevano essere fino a cinque all’anno, e l’aumento della produzione agricola derivava

semplicemente dall’espansione delle superfici coltivate.

I cereali più pregiati erano frumento, farro e orzo, ma fin dall’epoca romana le aree coltivate della

Gallia Cisalpina producevano soprattutto miglio e panico, favoriti dalle caratteristiche del suolo e

dal clima locale, insieme a sorgo, spelta e in misura minore avena e segale. Insieme a questi cereali

venivano coltivati legumi, che col loro apparato radicale fertilizzavano il suolo e non richiedevano

concimazione: si trattava di fagioli (soltanto quelli dell’occhio e i fagiolini, perché gli altri verranno

dalle Americhe secoli dopo), piselli, ceci, cicerchie e soprattutto fave, molto diffuse

nell’alimentazione. Dov’erano stati introdotti i castagni i loro frutti venivano ampiamente

consumati, di solito trasformati in farina oppure seccati per facilitarne la conservazione. Queste

erano le basi dell’alimentazione delle classi povere, che si nutrivano di pappe-zuppe, come il

pulmentum arricchito da ortaggi, condite coi grassi derivanti dall’allevamento suino.

In ogni curtis veniva praticata la viticoltura, e il vino iniziò a essere consumato anche dai ceti

popolari: più facilmente questi però dovevano accontentarsi del vinello, ottenuto annacquando le

vinacce dopo la pigiatura, o della birra. Invece nei monasteri il vino non mancava mai sulla tavola:

al tempo di Carlo Magno ogni monaco ne consumava circa un litro e mezzo al giorno.

Coltivazioni così differenti tra loro permettevano di contenere eventuali impatti provocati dalle

avversità climatiche, anche se di norma la resa cerealicola rimase, ancora fino all’età carolingia, di

due-tre semi raccolti per ciascuno che era stato seminato. Ciò non costituiva comunque un vincolo

troppo stringente per la sopravvivenza della popolazione, in quanto caccia, pesca e allevamento

semi-brado fornivano apporti alimentari indispensabili.

Infatti avevano un’importanza fondamentale i prodotti del pascolo, del bosco e della palude,

disponibili per tutti perché non era ancora stata decretata l’esclusione dei ceti inferiori dal loro

godimento. Ciò determinava un regime alimentare piuttosto vario, sicuramente migliore di quello

delle classi povere di epoche successive, e riduceva il rischio delle carestie che invece colpiranno

periodicamente e frequentemente i secoli seguenti.

Maiale e latte nell’economia longobarda

Nell’Europa settentrionale e centrale, dalla quale provenivano i Longobardi, l’agricoltura era

rimasta a lungo limitata alla coltivazione di piccoli campi temporanei, ricavati dalla foresta per

essere abbandonati quando la loro fertilità si riduceva oppure se le popolazioni si spostavano: la

maggior parte delle risorse alimentari derivava da caccia e pesca, dalla raccolta di prodotti

spontanei della foresta (funghi, frutti, piante commestibili) e dall’allevamento semi-brado di maiali,

capre e pecore.

L’alimentazione tradizionale si basava quindi su carne e latte, e i grassi utilizzati come condimenti

erano strutto e lardo, e il burro nelle cucine più ricche e raffinate. Inoltre le api fornivano l’unico

dolcificante disponibile all’epoca e la cera per le candele. A dimostrazione della diffusione

dell’allevamento di questi insetti, l’editto di Rotari del 643 impose una sanzione elevata, pari a 12

soldi (contro il valore di 20 per la vita d’un contadino), a chi avesse rubato un favo.

Page 41: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

L’uso del latte e dei suoi derivati, ampiamente diffuso tra i popoli che esercitavano la pastorizia

come i Longobardi, era considerato invece con ripugnanza dai Greci e ancor più dai Romani:

Erodoto disprezzava gli Sciti chiamandoli mungi-cavalle e il consumo del latte costituiva nell’antica

Roma un’ulteriore dimostrazione della natura immatura dei barbari, che continuavano a cibarsene

anche dopo l’infanzia.

Un forte limite all’impiego di tale alimento e d’alcuni suoi derivati consiste nell’intolleranza in età

adulta al lattosio presente nel latte vaccino: essa deriva dalla carenza dell’enzima lattasi che lo

scinde in zuccheri semplici, assorbibili nel tratto gastro-intestinale. Nell’Europa settentrionale soffre

di questa intolleranza solo il 5% della popolazione, contro il 30% nella centrale e ben il 70% nella

meridionale. Queste forti differenze ebbero origine in seguito alla domesticazione del bestiame:

dopo tale fase della storia dell’umanità la selezione naturale iniziò a favorire la persistenza della

lattasi negli adulti delle popolazioni che disponevano d’animali da mungere, in quanto la loro

sopravvivenza veniva facilitata dall’impiego del latte come alimento.

Molto importante anche l’allevamento semi-brado dei maiali, già praticato dai Celti e poi dai coloni

romani prima dell’arrivo dei Longobardi e da questi notevolmente potenziato, che aveva un ruolo

economico centrale: nell’Italia padana le foreste venivano misurate in base al numero di capi che vi

si potevano far pascolare. La carne del maiale era infatti quella utilizzata più comunemente, in

quanto bovini e cavalli servivano principalmente per il lavoro nei campi, per il traino di carri e

come mezzi di spostamento, in pace e soprattutto in guerra. Il suo consumo fresco era limitato a ciò

che era deperibile dopo la macellazione e andava perciò mangiato immediatamente, mentre la

maggior parte veniva conservata salata, affumicata o insaccata per essere utilizzata nel corso

dell’anno. Inoltre era molto diffusa la vendita delle cosce conservate dei maiali, che già in epoca

romana fornivano prosciutti ampiamente commercializzati. L’allevamento di capre, pecore e bufali

(introdotti in Italia per la prima volta dai Longobardi) forniva soprattutto latte e in misura minore

lana e pelli, da alcune delle quali venivano ricavate le preziose pergamene utilizzate nei monasteri.

Della cura dei maiali si occupavano lavoratori specializzati, i porcari: la presenza attuale di questo

cognome di chiara origine professionale ricorda l’antica diffusione di questi specialisti nelle aree

più ricche dei boschi adatti al pascolo suino. Così i Porcari abbondano nell’area padana tra Pavia,

Cremona, Piacenza e Parma, nell’Umbria centro-meridionale, nel Lazio a sud di Roma e nella

Puglia al confine col Materano, e i Porcaro in Campania tra Napoli e Avellino, e con minor

diffusione sui monti della Calabria meridionale e in Sicilia nell’entroterra palermitano. In tutte

queste aree si trovavano boschi nei quali veniva praticato il pascolo dei maiali, che aveva assunto

un’importanza tale da richiedere la specializzazione d’alcuni lavoratori. Non a caso quindi l’editto

di Rotari, che determinò il valore della compensazione per aver causato la morte d’un uomo in base

alla sua categoria d’appartenenza, stabilì ben 50 soldi per un porcaro contro i 20 per un pecoraio o

capraio.

La caccia e la pesca

La caccia in foresta e in palude forniva apporti fondamentali all’alimentazione e coll’editto di

Rotari i terreni vennero divisi tra quelli dove l’attività venatoria era riservata a re e nobili, con

punizioni molto severe per i trasgressori, e quelli dove essa rimaneva libera, che erano comunque la

maggioranza.

La caccia effettuata dalle classi dominanti aveva una straordinaria importanza anche come

addestramento alla guerra, essendo praticata in modo molto simile: cavalli con cavalieri armati di

archi e lance e fanteria composta da appartenenti alle classi dominate, qui in qualità di battitori, che

dovevano coordinare efficacemente i loro movimenti. Inoltre offriva numerose possibilità di

dimostrare il proprio valore, soprattutto misurandosi con prede particolarmente pericolose:

l’uccisione d’un cinghiale stanato dai cani, a piedi e impiegando soltanto la lancia, veniva

paragonata a una difficile impresa guerresca in quanto richiedeva grande coraggio.

Però, nonostante la pressione venatoria cui erano sottoposti, il cervo, il cinghiale e il capriolo

rimasero estremamente diffusi, anche perché gli ambienti nei quali potevano vivere erano molto

Page 42: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

estesi ed erano raramente interrotti da insediamenti umani. La falconeria - diffusa in tutto

l’Occidente a partire dal IV secolo - non aveva ancora assunto una connotazione esclusivamente

nobiliare e veniva praticata comunemente, ma forse principalmente secondo il modello dei Celti: un

falco addestrato veniva fatto volteggiare sulla selvaggina per immobilizzarla e renderne più facile la

cattura.

Nella caccia di sussistenza venivano invece impiegati tutti i metodi successivamente classificati

come bracconaggio, che derivavano dalla profonda conoscenza delle abitudini delle prede e del loro

comportamento, già adottati in epoche precedenti e utilizzati ancora a lungo in seguito.

Lungo i tragitti percorsi dalla grossa selvaggina venivano scavate fosse coperte da frasche e spesso

dotate di pali appuntiti infissi nel fondo, oppure erano collocate gabbie con chiusura determinata da

alcuni movimenti di chi vi era entrato, spesso attirato da un’esca, se servivano animali vivi. Ciò

permetteva anche di disporre d’esemplari da introdurre nei siti di caccia dei signori per aumentare il

loro divertimento, e per lo stesso scopo potevano essere fatte battute che spingevano gli animali in

recinti o in reti. Però a questi strumenti complessi e faticosi da realizzare venivano preferiti i lacci

con nodi scorsoi all’altezza del collo, o archi con frecce incoccate oppure pesanti tronchi, collocati

di lato o sopra il percorso, il cui meccanismo di rilascio era attivato da chi inciampava nella corda

che lo sbloccava, o anche tagliole. Queste però richiedevano l’impiego di ferro, scarsamente

disponibile e soggetto al rischio di furti per il suo valore: a tale proposito può essere ricordato che

uno dei miracoli di san Benedetto fu quello di recuperare una roncola di ferro fatta cadere da un

monaco nell’acqua profonda, che altrimenti sarebbe andata perduta.

La piccola fauna veniva catturata con metodi simili a quelli adottati per gli animali più grandi, cui

per gli uccelli si univano il vischio sui posatoi e le trappole con archetti (che imprigionavano le

zampe di chi si posava su un bastoncino e lo dislocava), o sassi piatti che cadevano schiacciando

l’individuo che, attirato dal cibo, aveva spostato il loro sostegno. I piccoli uccelli potevano anche

essere attirati da una civetta o un altro rapace notturno, collocato su un posatoio ben in vista

circondato da rametti cosparsi di vischio: qui avrebbero finito per aderire gli individui richiamati dal

loro nemico, mentre cercavano d’allontanarlo. In alcuni casi era poi indispensabile la presenza

dell’uomo, come ad esempio nella cattura di anatre con reti a caduta tese sopra l’acqua: a breve

distanza veniva posizionata una sagoma galleggiante che fungeva da richiamo, spostata

progressivamente sotto la rete per attirarvi la selvaggina che veniva poi imprigionata dal cacciatore

che sbloccava al momento opportuno l’apparato di cattura.

La pesca veniva fatta principalmente con reti fisse oppure trascinate nelle acque basse, con nasse di

vario tipo realizzate con rami flessibili intrecciati, e nei piccoli corsi d’acqua anche asciugando

alcuni tratti dopo averli sbarrati provvisoriamente, oppure camminando nell’acqua non profonda e

sondando delicatamente con le mani i siti nei quali i pesci si rifugiavano, per afferrarli rapidamente

nei punti adatti a una presa salda. Ove possibile venivano impiegate anche le fiocine e in alcuni casi

i lacci con nodo scorsoio, per imprigionare grandi lucci se sostavano immobili a mezz’acqua. L’uso

d’ami con esche, legati a cordicelle, era invece minoritario in quanto meno produttivo degli altri

metodi; inoltre la grande visibilità degli strumenti adottati limitava probabilmente questo tipo di

pesca a pesci che s’alimentano durante la notte, come l’anguilla.

Orsi, lupi e uomini dai Longobardi a Carlo Magno

La storia delle relazioni tra ambiente e uomo in epoca longobarda può essere letta anche nel

mutamento dei rapporti con i due più grandi predatori (orso e lupo) che vivevano nei territori

frequentati dai cacciatori. Però il ruolo dell’orso, fin dagli inizi del cristianesimo, rimase sempre

negativo. Infatti sant’Agostino d’Ippona, commentando un passo biblico, l’associò al diavolo,

mentre alcuni martiri, condannati ad bestias (cioè a essere sbranati in pubblico da carnivori

affamati), erano riusciti - ovviamente per intercessione divina - a far passare completamente

l’appetito agli orsi giustizieri. Tra questi possono essere ricordati i santi Faustino e Giovita (oggi

patroni di Brescia), santa Colomba di Sens, i santi Abdon e Sennen e san Gennaro di Napoli.

Page 43: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

Perciò nel periodo dell’affermazione della nuova religione questi animali, ammansiti

miracolosamente, figurano spesso nelle vite dei santi, come san Colombano e san Gallo che

allontanano orsi durante la ricerca di luoghi adatti a localizzarvi i loro eremi. Tali racconti volevano

dimostrare che la fede cristiana poteva dominare la natura ostile, e soprattutto che sconfiggeva i

residui di paganesimo legati a questi animali, così importanti in molte tradizioni barbariche. Altre

leggende cristiane avevano la medesima finalità, con orsi selvaggi trasformati in animali così

mansueti da farsi cavalcare (da san Romedio) o da trasportare bagagli sul dorso (per sant’Amando,

san Colombano e san Martino), da trascinare l’aratro (per san Montano) o carri (per san Rustico e

per il vescovo Aredio), da sorvegliare le greggi (per san Fiorenzo) o da fungere da servitori (per san

Marino e sant’Eligio ) o da fornire la legna per il fuoco (a San Gallo), o da guidare i pellegrini che

s’erano perduti in una tormenta di neve mentre cercavano di raggiungere san Severino.

Questo grande mammifero, che scompare per andare in letargo prima dell’inverno e ricompare poi

all’inizio della primavera, se femmina insieme ai suoi piccoli, costituiva per molte culture

precristiane un chiaro simbolo del risveglio annuale della natura, e perciò veniva festeggiato anche

dopo l’affermazione del cristianesimo in cerimonie che avevano mantenuto una forte impronta

pagana. L’attacco fu quindi particolarmente forte contro l’orso, il cui culto rimase a lungo il più

diffuso nell’emisfero settentrionale dal quale provenivano i Longobardi. In varie leggende si

parlava addirittura di donne rapite e violentate da questo animale, che avrebbero poi partorito figli

dotati di straordinario vigore, destinati a diventare capi guerrieri. La popolarità dei nomi di persona

derivanti da questo animale, da Björn a Ursula, dimostra il desiderio di far acquisire il coraggio e la

forza dell’orso all’infante cui venivano attribuiti.

Nell’Europa centrale erano inoltre diffusi giochi di tipo carnevalesco, nei quali persone travestite da

orsi si lasciavano andare a licenze - intollerabili per gli uomini di chiesa - addirittura simulando

accoppiamenti che in questo animale, considerato particolarmente libidinoso, venivano ritenuti

more hominum, a partire da Plinio che non aveva compreso correttamente un passo di Aristotele e

poi da tutti quelli che accettavano per buono quanto altri avevano scritto in precedenza.

Per questi motivi la chiesa osteggiò anche apertamente tale animale, condannando nel Concilio di

Costantinopoli del 692 l’uso di suoi peli come amuleti contro il malocchio, e sostituendolo col

leone come simbolo di forza e coraggio, in quanto il controllo di questo grande felino nelle

tradizioni orali era molto più facile: in Europa la specie era stata eliminata da vari secoli e non era

quindi legata ad alcuna tradizione considerata pagana. Inoltre l’orso venne progressivamente

sminuito e ridicolizzato, per dimostrare anche in questo modo il tramonto dei culti più antichi.

Quindi non casualmente la chiesa, pur profondamente ostile agli spettacoli con gli animali, non

s’oppose mai alla circolazione d’orsi incatenati e ammaestrati, che accompagnavano i loro domatori

a intrattenere il popolo nelle fiere e nei mercati. Da predatore temuto e venerato, l’orso con la sua

museruola diventò quindi progressivamente soltanto un animale che danza e diverte il pubblico, e

finì anche per figurare con le sue carni nei banchetti più ricchi. Ciò non capitò mai al lupo, che

rimase invece molto più a lungo un simbolo di coraggio: il suo nome venne spesso attribuito a

numerosi figli maschi dei Longobardi, che come questo animale si dedicavano a cacciare

liberamente le medesime prede nella foresta.

Questo rapporto aveva un’affinità così stretta e paritaria da fare proprio d’un lupo il leggendario e

mansueto accompagnatore di Lopichis, bisnonno di Paolo Diacono, attraverso le foreste delle Alpi

orientali per fuggire dagli Avari che l’avevano fatto prigioniero, permettendogli di raggiungere il

Friuli dov’era nato. Peraltro nell’editto di Rotari non c’è alcuna menzione della necessità di

contenere i lupi, forse perché tale idea non trovava addirittura spazio nella cultura dell’epoca: nelle

vaste foreste le prede naturali del lupo erano così abbondanti da non far entrare questo predatore in

concorrenza coi cacciatori, né di trasformarlo in una minaccia per l’uomo e i suoi armenti. Il lupo

costituiva allora semplicemente il selettore naturale d’alcune specie di selvaggina e per questo non

aveva alcun bisogno d’avvicinarsi troppo all’uomo.

Successivamente l’aggressione sempre più forte all’ambiente naturale e alla sua fauna più pregiata,

che continuò per tutta l’epoca longobarda, modificò progressivamente questo quadro, in modo

Page 44: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

infine molto profondo: alla diminuzione e alla frammentazione di foreste e incolti fece seguito la

riduzione dei lupi e delle loro prede abituali, sottoposte anche a una persecuzione sempre più

diffusa da parte dell’uomo. Dalla combinazione di questi fattori derivò per il carnivoro la necessità

di rivolgere le sue attenzioni agli animali allevati, sempre più abbondanti negli ambienti aperti, e in

alcuni casi all’uomo stesso.

Per questi motivi Carlo Magno istituì i luparii specializzati nella caccia ai lupi, e questa lotta

proseguì poi nei secoli fino alla scomparsa del grande predatore da quasi tutta l’Europa. Prima che

le sue popolazioni fossero ridotte ai minimi termini, alcuni secoli dopo l’epoca longobarda vennero

descritti lupi che si cibavano degli uomini, terrorizzando le popolazioni delle aree nelle quali

vivevano. La liberazione dalla loro presenza si verificava a volte addirittura per miracolosi

interventi divini: l’esempio più noto è il lupo di Gubbio, ammansito nel XIII secolo da san

Francesco. Meno famoso quello reso innocuo due secoli prima da san Domenico, accorso per i

lamenti d’una mamma cui il predatore aveva sottratto il figlioletto, che in seguito al suo intervento

venne restituito alle cure materne dall’animale diventato mansueto e gentile.

Dopo l’epoca longobarda gli ambienti naturali - insieme ad alcune delle specie che li abitavano -

erano quindi tornati a essere ostili, destinati semplicemente alla messa a coltura o al saccheggio

incontrollato da parte di popolazioni umane in aumento e con un’alimentazione basata sempre più

sui prodotti dell’agricoltura.

S’era spezzato completamente e definitivamente lo stretto legame che univa il popolo alla foresta,

alla palude e all’incolto come fonti indispensabili di cibo, coi risultati che oggi chiunque può

osservare facilmente.

Bibliografia

Azzara C., 2012. Le invasioni barbariche. Il Mulino - Storica Paperbacks 89, Bologna.

Azzara C., Bonnini A., 2011. Il latte e il formaggio dei barbari. In: Archetti A. & Baronio A. (a

cura), La civiltà del latte. Fondazione Civiltà Bresciana - Storia, cultura e società 3, Brescia:

467-474.

Bevilacqua P., 2001. Demetra e Clio, uomini e ambiente nella storia. Donzelli, Saggi - Natura e

artefatto, Roma.

Bergamo N., 2012. I Longobardi. Goriziana - I Leggeri 40, Gorizia.

Bocchi S., Galli A., Nigris E., Tomai A., 1985. La Pianura Padana. CLESAV, Milano.

Boscagli G., 1985. Il lupo. Lorenzini, Udine: 25-29.

Brosse J., 1991. Mitologia degli alberi. Rizzoli, Milano.

Camporesi P., 1993. Le vie del latte - dalla Padania alla steppa. Garzanti - I Coriandoli, Milano.

Castelletti L., Rottoli M., 1998. Breve storia dei boschi padani prima e dopo la conquista romana.

In: (Autori vari), Tesori della Postumia, Electa, Firenze: 46-57.

Cavanna A., 1978. La civiltà giuridica longobarda. In: (Autori vari), I Longobardi e la Lombardia -

Palazzo Reale, ottobre 1978. Comune di Milano: 1-34.

Corvino C., 2013. Orso. Odoya, Bologna.

Diacono P. (ried. 2008). Storia dei Longobardi. San Paolo, Cinisello Balsamo.

Ferrari V., 1988. Vegetazione e flora nell’ecosistema medievale (secoli VIII-XV). In: Bertoglio R.,

Ferrari V., Groppali R., Natura e ambiente nella provincia di Cremona dall’VIII al XIX

secolo. Assessorato Provinciale all’Ecologia, Cremona: 9-55.

Ferrari V., 2013. Il Cremonese e il Cremasco. In: Rognoni A. (a cura), Geostoria della civiltà

lombarda. Mursia - Itinerari e città, Milano: 318-354.

Ferrari V., 2013. Il Mantovano. In: Rognoni A. (a cura), Geostoria della civiltà lombarda. Mursia -

Itinerari e città, Milano: 355-388.

Ferrari V., 2013. Agricoltura e paesaggi rurali cremaschi antichi e moderni. In: Castagna G. (a

cura), Do spane da taré. Centro Ricerca Alfredo Galmozzi, Crema: 25-62.

Page 45: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

Fornasaro F., 2008. La medicina dei Longobardi. Goriziana - Biblioteca di Storia Alto Adriatica,

Gorizia.

Franchini R., 2013. Il secolo dell’orso. Bompiani - Saggi, Milano.

Fumagalli V., 1992. L’uomo e l’ambiente nel Medioevo. Laterza - Universale 729.

Fumagalli V., 1994. Paesaggi della paura. Il Mulino - Biblioteca Storica, Bologna.

Giacomini V., 1958. La flora - Conosci l’Italia II. Touring Club Italiano, Milano.

Grandi A., 1858. Descrizione dello stato fisico-politico-statistico-storico-biografico della provincia

e diocesi di Cremona. Copelotti, Cremona.

Grassi R., 1995. La caccia nella provincia di Milano. Assessorato Provinciale Caccia e Pesca,

Milano: 17-51.

Groppali R., 2008. I fontanili. In: Groppali R. (a cura), Conservazione della natura e campagna nel

Parco Adda Sud. Conoscere il Parco 8, Lodi: 147-151.

Groppali R., 2009. Il maiale: l’animale per eccellenza della campagna cremonese. In: (Autori vari),

Alla corte di re maiale. Cremonalibri, Cremona: 13-22.

Groppali R., 2010. Castagne in montagna e in pianura. In: (Autori vari), I dolci di Cremona.

Cremonalibri, Cremona: 27-33.

Groppali R., 2012. La guerra agli alberi. La Scuola Classica - Annuario, Cremona: 293-306.

Groppali R., 2013. I paesaggi del latte. La Scuola Classica - Annuario, Cremona: 199-211.

Harris M., 1992. Buono da mangiare. Einaudi - Tascabili 87, Torino.

Harrison R.P., 1992. Foreste, l’ombra della civilità. Garzanti, Milano.

Heather P., 2012. La caduta dell’Impero Romano. Garzanti - Elefanti Storia, Milano.

Jarnut J., 1995. Storia dei Longobardi. Einaudi - Piccola Biblioteca 147, Milano.

Jarnut J., 2004. Cremona nell’età longobarda. In : Andenna G. (a cura), Storia di Cremona -

Dall’Alto Medioevo all’Età Comunale. Comune di Cremona : 2-25.

Le Goff J., 2010. Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale. Laterza - Economica

166, Bari : 25-44.

Le Goff J. (a cura), 2013. L’uomo medievale. Laterza - Economica 6.

Leo R., 2007. Lupi e loere (Brescia, Italia) - indagine preliminare. Natura Bresciana, 35: 141-148.

Majocchi P., 2000. La fondazione di Bobbio e la politica religiosa longobarda. Atti Convegno

internazionale Bobbio, 1-2 ottobre 1999 - Archivium Bobiense, Studia III : 35-55.

Mezzalira F., 2013. Le immagini degli animali tra scienza, arte e simbolismo. Colla, Vicenza.

Montanari M., 1984. Campagne medievali. Einaudi - Piccola Biblioteca 453, Torino.

Montanari M., 2003. Foreste e boschi. In L’Enciclopedia 8, La Biblioteca di Repubblica, Roma:

407-412.

Mosconi A., 2009. Il maiale nel Medioevo. In: (Autori vari), Alla corte di re maiale. Cremonalibri,

Cremona: 40-42.

Ortalli G., 1973. Natura, storia e mitografia del lupo nel Medioevo. Ateneo - La Cultura 11, Roma:

257-311.

Pastoureau M., 2012. Bestiari del Medioevo. Einaudi - Saggi 930, Torino: 57-111.

Pratesi F., 2001. Storia della natura in Italia. Editori Riuniti, Roma: 33-69.

Ruffo S. (a cura), 2001. Le foreste della Pianura Padana. Ministero dell’Ambiente e Museo Friulano

di Storia Naturale - Quaderni Habitat, Udine.

Saporiti M., 2013. Il Lodigiano. In: Rognoni A. (a cura), Geostoria della civiltà lombarda. Mursia -

Itinerari e città, Milano: 281-317.

Sereni E., 1979. Storia del paesaggio agrario italiano. Laterza - Universale 225, Bari: 69-116.

Sereni E., 1981. Terra nuova e buoi rossi. Einaudi - Paperbacks 122, Torino: 1-100.

Sestini A., 1963. Il paesaggio - Conosci l’Italia VII. Touring Club Italiano, Milano: 51-68.

Sorcinelli P., 1998. Storia sociale dell’acqua. Bruno Mondadori - Testi e Pretesti, Milano.

Todaro G., 2006. Bracconaggio e trappolaggio. Perdisa, Bologna.

Volonté M., 2009. Il maiale in età romana. In: (Autori vari), Alla corte di re maiale. Cremonalibri,

Cremona: 29-35.

Page 46: SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA - Inner Wheel · SULLE ORME DEI LONGOBARDI A CREMONA ... come la corrente di un fiume che si divide ai lati di una roccia. È difficile, per uno

Inner Wheel Club di Cremona PHF

Distretto Italia 206

1994-2014

20° anniversario