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Stalking e femminicidio di Lucilla Risicato I dati sul fenomeno Nel mondo, ogni anno le statistiche registrano circa 3.500 morti provocati dalla violenza tra partner. La percentuale di vittime di sesso femminile è praticamente uguale a costante, attestandosi oltre il 77 %. La maggior parte di queste donne viene uccisa da mariti, compagni, ex di qualsiasi genere. Storie di violenza quotidiana senza interruzioni. In Italia, nel 2013 le vittime di femminicidio sono state 130. Nel 2012 sono state 127: erano state 119 nel 2011, 127 nel 2010, 119 nel 2009, anche se i dati non sono ufficiali (manca un osservatorio ufficiale del fenomeno). I dati dell’ultimo rapporto Eures-Ansa sul femminicidio, pubblicati nel dicembre 2012, mostrano che nel periodo compreso tra il 2000 e il 2011 sono stati compiuti 2061 femminicidi e che questi ultimi, nel 2011, hanno toccato il 30,9 per cento degli omicidi totali, raggiungendo la percentuale più alta in assoluto (nel 1991 rappresentavano soltanto l’11 per cento) con una media di 172 vittime l’anno. Una donna su cinque, inoltre, risulta di nazionalità non italiana. Si stima che nel nostro Paese ogni 96 ore circa una donna venga uccisa per mano del marito, del fidanzato, del convivente o di un ex. A una forte diminuzione degli omicidi da parte della criminalità organizzata si contrappone un preoccupante aumento degli omicidi compiuti nel contesto familiare. In particolar modo, quelli perpetrati all’interno della coppia sono aumentati di quasi il 50 per cento negli ultimi dieci anni, con un’incidenza sul totale degli omicidi mediamente attestata attorno al 50 per cento. Negli ultimi tre anni considerati dallo studio si registra addirittura una recrudescenza del fenomeno, con 173 vittime nel 2009, 158 nel 2010, 170 nel 2011, pari a 501 vittime su un totale di 1671 morti per omicidio (29,9%). La decisione di concludere una relazione e i primi tre mesi dalla rottura del rapporto costituiscono il momento più rischioso per le donne: è il periodo in cui avviene quasi la metà (il 47, 2 per cento) degli omicidi compiuti dall’ex (il 22,4 nel primo mese e il 24,8 per cento tra il primo e il terzo mese). Il

Stalking e femminicidio - Unime€¦ · dall’Emilia Romagna (4,9), dall’Umbria (4,8), dal Piemonte (4,5) e dalla Lombardia (4,3). Circa l’epoca in cui vengono commessi in Italia

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Stalking e femminicidio di Lucilla Risicato

I dati sul fenomeno

Nel mondo, ogni anno le statistiche registrano circa 3.500 morti provocati

dalla violenza tra partner. La percentuale di vittime di sesso femminile è

praticamente uguale a costante, attestandosi oltre il 77 %. La maggior parte di

queste donne viene uccisa da mariti, compagni, ex di qualsiasi genere. Storie di

violenza quotidiana senza interruzioni.

In Italia, nel 2013 le vittime di femminicidio sono state 130. Nel 2012 sono

state 127: erano state 119 nel 2011, 127 nel 2010, 119 nel 2009, anche se i dati non

sono ufficiali (manca un osservatorio ufficiale del fenomeno).

I dati dell’ultimo rapporto Eures-Ansa sul femminicidio, pubblicati nel

dicembre 2012, mostrano che nel periodo compreso tra il 2000 e il 2011 sono

stati compiuti 2061 femminicidi e che questi ultimi, nel 2011, hanno toccato il

30,9 per cento degli omicidi totali, raggiungendo la percentuale più alta in

assoluto (nel 1991 rappresentavano soltanto l’11 per cento) con una media di

172 vittime l’anno. Una donna su cinque, inoltre, risulta di nazionalità non

italiana. Si stima che nel nostro Paese ogni 96 ore circa una donna venga uccisa

per mano del marito, del fidanzato, del convivente o di un ex. A una forte

diminuzione degli omicidi da parte della criminalità organizzata si contrappone

un preoccupante aumento degli omicidi compiuti nel contesto familiare. In

particolar modo, quelli perpetrati all’interno della coppia sono aumentati di

quasi il 50 per cento negli ultimi dieci anni, con un’incidenza sul totale degli

omicidi mediamente attestata attorno al 50 per cento. Negli ultimi tre anni

considerati dallo studio si registra addirittura una recrudescenza del fenomeno,

con 173 vittime nel 2009, 158 nel 2010, 170 nel 2011, pari a 501 vittime su un

totale di 1671 morti per omicidio (29,9%).

La decisione di concludere una relazione e i primi tre mesi dalla rottura

del rapporto costituiscono il momento più rischioso per le donne: è il periodo in

cui avviene quasi la metà (il 47, 2 per cento) degli omicidi compiuti dall’ex (il

22,4 nel primo mese e il 24,8 per cento tra il primo e il terzo mese). Il

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femminicidio è infatti la conseguenza di un “possesso negato” e

frequentemente è dipeso dalla decisione della vittima di uscire da una relazione

sentimentale: ben 258 femminicidi tra le coppie separate, e 109 tra quelle ancora

conviventi in cui emerge l’intenzione di concludere la storia, sono da ricondurre

a tale dinamica. I femminicidi scendono all’11,8 per cento tra i 90 e i 180 giorni

dalla separazione, per risalire al 16, 1 per cento nel periodo compreso tra sei e

dodici mesi, al 14, 9 per cento in quello tra tre e cinque anni, dove un ruolo

importante viene assunto dalle decisioni legali e dai tentativi di rifarsi una vita.

Limitati al 3, 7 per cento risultano infine i femminicidi nelle coppie separate a

distanza di cinque anni dalla separazione.

Da un punto di vista territoriale il femminicidio si manifesta soprattutto

nelle regioni dell’Italia del nord, dove si registra la metà dei reati: il 49, 9 per

cento del totale tra il 2000 e il 2011, pari a 728 donne uccise. Risultano

nettamente inferiori i dati relativi all’Italia del sud (30, 7 per cento) e del centro

(19, 4 per cento). Il rapporto analizza il fenomeno anche a livello regionale,

indicando che la Lombardia ha il primato dei femminicidi (251 in valore

assoluto, che corrisponde al 17, 2 per cento del totale), seguita dall’Emilia

Romagna (128 vittime e 8, 8 per cento), dal Piemonte e dal Lazio (tutte e due

con 122 vittime nei 12 anni considerati, pari all’8, 4 per cento del totale).

Concentrandosi però sull’incidenza derivante dalla popolazione femminile, è

però il Molise la regione in cui il rischio risulta più elevato, con 8,1 femminicidi

medi annui per milione di residenti (16 casi), seguito dalla Liguria (6,1),

dall’Emilia Romagna (4,9), dall’Umbria (4,8), dal Piemonte (4,5) e dalla

Lombardia (4,3).

Circa l’epoca in cui vengono commessi in Italia omicidi di donne, i dati

del periodo 2000-2011 dimostrano che luglio è il mese più a rischio, mentre il

mercoledì risulta il giorno più cruento (15, 6 per cento del totale), seguito a

ruota dal fine settimana (15 per cento). Le fasce orarie più rischiose vanno

invece dalle 6.00 alle 12.00 e dalle 18.00 alle 24.00.

Tra tutti i femminicidi considerati in Italia nel decennio 2000-2011, ben il

70, 8 per cento è maturato all’interno dell’ambiente familiare o delle relazioni

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sentimentali e l’autore è da individuarsi nel partner, in un ex partner o

nell’amante, confermando che il femminicidio rappresenta una patologia della

famiglia, con l’82 per cento degli omicidi consumati all’interno delle mura

domestiche: solo il 5, 2 per cento dei delitti è commesso in centri abitati e solo il

3 per cento in località isolate. Ciò si spiega col ruolo centrale che la donna

assume negli equilibri e nelle dinamiche del rapporto di coppia e nei

conseguenti riverberi in ambito familiare, che la vedono spesso come la

responsabile della rottura di quel delicato e complesso patto emotivo e

sentimentale il quale, una volta compromesso, provoca nell’uomo frustrazioni,

violenze e aggressività, veicolate soltanto da un bieco senso di possesso che non

ha più nulla a che vedere con l’amore.

Nella metà degli omicidi l’autore risulta coniugato o convivente con la

vittima, mentre nell’11, 8 per cento dei casi la coppia conviveva ma non era

ancora coniugata, confermando che il rapporto di convivenza costituisce un

elevato fattore di rischio. Nell’84, 9 per cento dei casi l’assassino è italiano e

cade nella fascia di età compresa tra i 25 e i 54 anni (64,8 per cento), mentre gli

autori dai 54 in su costituiscono il 30 per cento degli assassini. L’autore risulta

inoltre pensionato nel 23, 1 per cento dei casi, lavoratore autonomo o

dipendente nel 15, 7 per cento, disoccupato nel 14, 2 per cento e operaio nel 13,

6 per cento.

Risulta elevato anche il numero dei femminicidi domestici in cui sono i

figli a uccidere le madri (176 vittime, pari al 12, 1 per cento), mentre più ridotto

è il numero delle figlie che vengono assassinate dai genitori (124 vittime, pari

all’8, 5 per cento). Nettamente inferiori risultano i dati relativi alle relazioni

restanti, con incidenze del 2,5 per cento per le sorelle, dell’1,9 per cento per le

suocere e dell’1,1 per cento per le nonne. Significativi anche i casi di

femminicidio maturati negli ambiti “di prossimità”, che registrano 91 casi in cui

l’assassino è un amico o un conoscente (il 4,4 per cento del totale), 49 episodi nei

rapporti di vicinato (2,4 per cento) e 29 nei rapporti di tipo economico (1,4 per

cento). Maggiore risulta, infine, l’incidenza dei femminicidi ad opera della

criminalità comune (236, pari all’11, 5 per cento del totale), cui è da imputare

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larga parte della mattanza nei confronti delle prostitute dell’ultimo decennio,

con 148 vittime, mentre più ridotto appare il peso dovuto alla criminalità

organizzata (40 femminicidi, pari all’1,9 per cento del totale) e quello delle

rimanenti tipologie di omicidio tra estranei (sette sataniche, serial killer), con 39

vittime.

Nel 32 per cento dei casi, l’omicidio è la reazione sproporzionata alla

volontà della donna di chiudere il rapporto di coppia. Nel 23 per cento dei casi,

invece, il movente è da ricercarsi in situazioni di conflittualità, anche per motivi

futili (gestione della casa, questioni economiche). Rimane poi la vasta fascia del

disagio comprendente gli omicidi dovuti a un disturbo psichico dell’autore (15,

5 per cento), episodi di raptus apparentemente imprevisti e imponderabili (9, 8

per cento), le malattie e gli handicap della vittima (8,4 per cento).

Molto interessante e allarmante è il dato relativo alle violenze subite

dalla vittima prima di essere uccisa: il 21 per cento delle vittime era oggetto di

violenze di altro genere, peraltro note a terze persone nel 74 per cento dei casi e

persino denunciate nel 47, 2 per cento degli omicidi. Il 65 per cento dei casi noti

aveva subito violenze fisiche, il 40, 2 per cento violenze psicologiche e il 26 per

cento aveva subito stalking. Il 17, 6 per cento delle vittime era già stato

minacciato di morte in precedenza. Il mezzo più frequentemente usato per

uccidere è un’arma da fuoco (31,2 per cento). Seguono le armi da punta e taglio

(31, 1), l’uso di corpi contundenti (13,7), lo strangolamento (9), il soffocamento

(5), le percosse (3,8), la precipitazione (1), il fuoco (1,8) e l’annegamento (1,2).

Nel 40, 5 per cento dei casi l’assassino si suicida o tenta il suicidio dopo il

fatto, nel 14, 6 per cento rimane sul luogo del delitto e nel 16,6 per cento dei casi

decide di costituirsi o di informare la polizia. Nel 16,9 per cento dei casi, però,

l’autore si nasconde o si allontana e, nel 9,8 per cento degli omicidi, tenta di

sottrarsi alla giustizia e riprende addirittura la vita quotidiana.

Oltre la metà delle vittime di femminicidio è composta da donne di età

compresa tra i 25 e i 54 anni (49, 8 per cento del totale. L’incidenza raggiunge il

51 per cento se si considerano i femminicidi familiari). La fascia di età più a

rischio è compresa tra i 35 e i 44 anni, ma sorprendentemente sono le

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ultrasettantenni le vittime più colpite (472 nell’intero periodo, pari al 22, 9 per

cento del totale). La categoria più a rischio risulta essere quella delle pensionate

(24, 1 per cento del totale), cui segue quella delle casalinghe (16, 2), quindi le

impiegate (12,1), le donne impegnate in attività non legali come le prostitute

(9,6), poi le lavoratrici autonome (7,6), le studentesse (7,6), le domestiche (5,4) e

infine le bambine in età prescolare (3, 7 per cento).

Stalking: definizioni e tipologie. Il termine stalking è stato mutuato dal

linguaggio venatorio e, letteralmente, significa inseguire furtivamente la preda:

poi, però, i significati si sono arricchiti nella letteratura scientifica

internazionale.

In italiano, la definizione più corretta di stalking è stata introdotta da

Curci, Galeazzi e Secchi nel 2003: «sindrome delle molestie assillanti». Le

caratteristiche di tale sindrome sono:

- un insieme di comportamenti di sorveglianza e controllo, ripetuti

e intrusivi, alla ricerca di un contatto con la vittima;

- specifiche interazioni nella coppia molestatore-vittima: distorsione

e/o vera e propria patologia della comunicazione e della

relazione;

- ripetute, indesiderate comunicazioni e/o intrusioni che vengono

inflitte da un individuo a un altro e che producono paura,

cambiamenti nello stile di vita, sofferenza psichica (elemento

fondamentale dello stalking).

La caratteristica principale che differenzia lo stalking dagli altri tipi di

reato è la seguente: si tratta di un crimine prettamente soggettivo, definito dalla

percezione della vittima di essere molestata. Se le ripetute aggressioni di uno

stalker non suscitano paura o angoscia, il reato non sussiste.

Pur essendo un fenomeno trattato nella letteratura e nel cinema da molto

tempo, l’interesse professionale verso questo tipo di reato risale agli anni ’80 del

XX secolo, a seguito di alcune aggressioni psicologiche e fisiche che hanno visto

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come bersagli personaggi famosi della cultura e della politica americana: John

Lennon (1980), il presidente Ronald Reagan (1981), le attrici Theresa Saldana

(1982) e Rebecca Shaeffer (1989), episodio, quest’ultimo, che darà il via alla

prima definizione ufficiale di stalking e alle prime norme legislative.

Nello stesso periodo, le associazioni americane che difendono le vittime

di violenza domestica decidono di adottare il termine per descrivere le azioni

insistenti e invasive degli uomini incapaci di accettare la fine di una relazione

sentimentale con una donna.

Il primo Paese ad adottare una legislazione penale anti-stalking è la

California nel 1990. Da lì in poi è un susseguirsi costante di definizioni, ricerche

e promulgazioni di leggi da parte degli altri Stati americani, fino ad arrivare ad

una legge di portata nazionale che darà il via alla diffusione di una legislazione

ad hoc anche in altri Paesi del mondo.

L’Italia si è dotata di una legge anti-stalking solo nel 2009. Il problema è

che la legge (non priva, peraltro, di notevoli difetti nella formulazione

normativa) da sola non basta: non a caso, da quando è stata introdotta il

numero di donne uccise da ex partner è addirittura cresciuto, nonostante

l’aumento di denunce e richieste di misure cautelari.

La classificazione degli stalker di Mullen, Pathè, Purcell e Stuart

(1999).

È quella più usata dagli studiosi perché definisce meglio di altre le

caratteristiche di personalità e i comportamenti associati ai diversi tipi di

molestatori.

Mullen e coll (1999) analizzano, in particolare, le dinamiche della

relazione vittima-molestatore e la motivazione scatenante che provoca l’inizio

del comportamento persecutorio, individuando cinque tipologie di soggetti.

Il rifiutato.

Questo soggetto, di solito, dà inizio alle molestie dopo aver subito

l’allontanamento da parte di un partner, un familiare, un amico oppure dopo

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l’interruzione di una relazione professionale. L’interruzione del legame viene

vissuta come insostenibile e il soggetto è disposto a tutto per prolungarlo, anche

se aveva una connotazione angosciante.

Il rifiutato ha una personalità tormentata che oscilla tra il desiderio di

riconciliarsi con l’oggetto del suo amore e quello di vendicarsi per il torto che

percepisce di aver subito: i sentimenti prevalenti sono senso di perdita

mescolato a rabbia, frustrazione, gelosia, rivalsa, malinconia.

La maggior parte di questi soggetti soffre di un disturbo di personalità,

ma ci può essere anche un disturbo delirante a complicare il quadro.

Il cercatore d’intimità.

In questo caso, non esiste un rapporto pregresso con la vittima-bersaglio,

che però viene identificata con il “vero amore” da raggiungere ad ogni costo. Il

soggetto di questa tipologia si convince che la vittima sia la sua anima gemella e

ritiene di essere a sua volta amato e desiderato, anche se la vittima non ne è

consapevole. Il quadro più comune è quello della ricerca di un partner, ma può

riguardare anche la relazione affettiva con un familiare o con un amico. In ogni

caso, l’elemento centrale è il desiderio di creare e di consolidare una relazione

che esiste solo nella mente dello stalker.

Il cercatore di intimità è talmente focalizzato sull’oggetto della sua

ossessione da non considerare minimamente le risposte negative, che vengono

costantemente interpretate come incapacità di avere la stessa consapevolezza di

“essere fatti l’uno per l’altra”. Di solito questo soggetto è un solitario, con pochi

contatti sociali, che riversa tutte le sue attenzioni sulla vittima-bersaglio.

L’incompetente.

Questo soggetto si rende conto che la vittima-bersaglio non ricambia le

sue attenzioni, ma nutre la speranza incrollabile che, perseverando nel suo

comportamento, prima o poi riuscirà a stabilire una relazione intima.

L’incompetente ha un livello intellettivo scarso e una marcata incapacità

sociale che gli rende impossibile stabilire qualunque tipo di relazione umana.

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Proprio per questa povertà di mezzi, le violenze sono caratterizzate da rituali di

corteggiamento spesso rudimentali e inadeguati, che fanno sì che spesso lo

stalking si esaurisca in un lasso di tempo più breve rispetto ad altre tipologie.

Attenzione: questo stalker cambia spesso vittima.

Il risentito (o rancoroso).

Caratteristica principale di questo soggetto è l’esperienza di sentimenti e

di rivalsa. L’obiettivo delle molestie è quello di generare paura e angoscia nella

vittima-bersaglio ritenuta (a torto o a ragione) responsabile di un danno (a sé o

alle persone con cui lo stalker ha un legame). In alcuni casi, la vittima può anche

essere scelta a caso, magari in base a qualche attributo che il soggetto considera

desiderabile in quel momento.

Il risentito può avere la sensazione di essere in lotta contro forze più

grandi di lui, di cui si sente vittima, e quindi si sente giustificato nella messa in

atto di comportamenti persecutori che gli danno una sensazione appagante di

potere e controllo sulla vittima.

Il predatore.

Si tratta del più pericoloso di tutti, perché è socialmente competente e

spesso dotato di caratteristiche antisociali e/o psicopatiche di personalità, che

prende di mira una vittima-bersaglio a scopo di aggressione sessuale. È un

soggetto molto organizzato, che pianifica ogni attacco con cura, prendendosi

tutto il tempo per scegliere la vittima e studiarne le abitudini, per prolungare il

piacere derivante dal senso di potere e di controllo prima dell’attacco vero e

proprio.

Di solito, il predatore ha precedenti per delitti contro la libertà sessuale.

Nella totalità di soggetti studiati da Mullen e coll., gli stalker di sesso

maschile costituiscono la maggioranza in tutte le tipologie, ma si notano due

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particolari interessanti: i predatori sono sempre maschi, mentre le donne sono

più frequenti tra i cercatori d’intimità (un terzo del totale).

I rifiutati sono quelli che utilizzano il maggior numero di comportamenti

molesti contro la vittima: le assillano più a lungo e passano più facilmente

all’atto aggressivo insieme ai predatori.

Le tipologie “risentito”, “cercatore d’intimità” e “incompetente” si

limitano, di solito, a comportamenti e comunicazioni minacciose piuttosto che

aggredire le vittime.

Le donne autrici di stalking: tipologie e caratteristiche.

Esiste una nutrita casistica di minoranza in cui è la donna a mettere in

atto una serie di molestie. Nell’immaginario collettivo americano, e non solo, è

ben radicata la figura cinematografica di Glenn Close, stalker di Michael

Douglas nel film diretto da Adrian Lyne, Attrazione fatale (1987), pellicola che

terrorizzò il maschio americano facendo crollare vertiginosamente il numero

delle relazioni extraconiugali in concomitanza con la proiezione del film nelle

sale.

Un’analisi comparata delle diverse ricerche condotte sul fenomeno dello

stalking, effettuata da Purcell, Pathé e Mullen (2001), stabilisce una frequenza

variabile tra il 17 e il 22 % delle donne molestatrici. Dal punto di vista

psichiatrico, le donne stalker risultano meno affette da disturbo di sostanze e

disturbo bipolare, mentre sembrano più soggette alla depressione e alla

schizofrenia.

Una differenza fondamentale tra uomini e donne è che il 95 % delle

stalker rientra nelle categorie del rifiutato o del risentito: per la donna è

fondamentale l’esistenza di una precedente relazione – intima o di conoscenza –

con la vittima-bersaglio. Le donne cercano più frequentemente il contatto

diretto con la vittima tramite telefonate, lettere e approcci di vario genere.

Contemporaneamente, passano con maggiore facilità a comportamenti

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aggressivi e orientati al controllo. In molti casi le vittime delle donne stalker

sono altre donne, non uomini.

Profilo psico-patologico degli stalker.

Il primo dato che salta agli occhi esaminando le storie dei molestatori

assillanti è che, nella maggior parte dei casi, non è possibile diagnosticare un

disturbo psichiatrico specifico, anche se, ovviamente, il comportamento è

l’espressione di una struttura patologica della personalità. La malattia mentale è

spesso un comodo alibi invocato a difesa del persecutore, ma non corrisponde -

o almeno non sempre corrisponde – a realtà: lo stalker è perfettamente

consapevole della campagna di molestie messa in atto.

Nei casi in cui entra in gioco un problema psichiatrico, è facile che si noti

la presenza di sintomi schizofrenici, in particolare deliri e allucinazioni. Nella

maggior parte dei casi, il delirio riguarda un’idea fissa romantica per cui lo

stalker si convince di avere un legame spirituale molto forte con la vittima-

bersaglio finché questa idea si radica nel profondo della psiche: qualsiasi

tentativo razionale di farlo desistere è destinato all’insuccesso. Il persecutore

non accetta l’eventualità che l’oggetto del suo amore non ricambi le attenzioni e

non provi lo stesso sentimento nei suoi confronti. La sua convinzione

incrollabile è che, a dispetto delle apparenze, la vittima-bersaglio prova amore

per lui, o quanto meno lo proverà in futuro, per cui anche gli insulti e le risposte

rabbiose vengono interpretate come segni d’incoraggiamento, in una modalità

del tutto distorta.

I deliri possono essere una componente importante anche nei casi di

gelosia ossessiva, quando lo stalker si convince, a dispetto della mancanza totale

di prove a supporto, che il partner gli è infedele: qualsiasi comportamento della

vittima-bersaglio viene interpretato in un’unica direzione, quella di confermare

i suoi sospetti di tradimento. Stesso discorso vale per il risentito, nella cui mente

può essersi formata la convinzione delirante di aver subito un serio torto che,

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nei casi più gravi, può addirittura assumere le vesti di un complotto delirante di

cui sarebbe la sventurata vittima.

Piuttosto frequenti negli stalker sono anche le alterazioni del tono

dell’umore, sia in positivo che in negativo: nei casi più gravi, si arriva fino al

disturbo bipolare, con marcata oscillazione tra pensieri megalomanici e

disperazione infinita.

Per quanto riguarda l’area dei disturbi della personalità, la diagnosi più

frequente è quella del disturbo borderline, tipico delle personalità che mostrano

notevoli difficoltà a stabilire relazioni interpersonali equilibrate, cosa che le

porta a oscillare dalla totale idealizzazione alla svalutazione completa di una

persona che non viene percepita nella sua unità indissolubile. In un quadro

psichico del genere, il soggetto sperimenta a fasi alterne rabbia, irritabilità,

ansia, tristezza, in particolare se costretto a confrontarsi con momenti di

abbandono (non importa se reale o immaginario). La separazione dall’altro non

è un’opzione da considerare, con conseguenti comportamenti aggressivi volti a

osteggiare il distacco.

Quando entra in gioco la violenza, di solito viene agita in base a due

tipologie collegate al genere di relazione che è stata stabilita con la vittima-

bersaglio. Nella relazione intima, è comune l’esplosione di una violenza

emozionale successiva al vissuto di uno stato di collera indotto da un

atteggiamento della vittima-bersaglio: lo stalker vuole provocare sofferenza in

chi ritiene responsabile di avergli inflitto un maltrattamento (reale o

immaginario), un abbandono o un rifiuto forzato. In una relazione non-intima,

si manifesta invece una violenza predatoria preparata razionalmente, quindi

premeditata, non anticipata da avvisi o minacce in modo da garantire un effetto

sorpresa al momento dell’aggressione.

Le minacce non dovrebbero mai essere sottovalutate: molto spesso,

invece, si commette questo tragico errore. Praticamente tutti gli omicidi

commessi da uomini ai danni delle loro ex compagne potrebbero essere previsti

ed evitati se si prestasse la dovuta attenzione alle minacce e all’escalation di

comportamenti aggressivi che le accompagnano.

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Le ricerche indicano che, a una maggior durata del periodo di molestie,

corrisponde una minore possibilità di passaggio all’atto violento: la ragione

principale sembra rapportata alla rabbia, per cui il soggetto fa più fatica a

trattenerla se è elevata. Nello specifico, l’esame dei casi il cui esito finale sfocia

nell’omicidio mostra una correlazione con i seguenti elementi:

- assenza di disturbo da abuso di sostanze;

- assenza di psicosi;

- presenza di un disturbo depressivo;

- presenza di un lavoro;

- visite alla casa della vittima durante la campagna di molestie.

La tipologia che più di frequente arriva a commettere un omicidio è

quella del rifiutato.

La scarsa empatia e l’insensibilità nei confronti dei bisogni dell’altro

rendono il soggetto antisociale particolarmente a rischio di agire

comportamenti molesti, perché l’unico criterio che guida le sue azioni è il

proprio tornaconto personale.

Anche il soggetto sofferente di disturbo istrionico di personalità è a

rischio, dato il suo bisogno esasperato di ricevere affetto e attenzioni causato

dalla forte dipendenza affettiva che lo porta ad essere molto sensibile al rifiuto e

a vivere con la paura costante di essere abbandonato e rimanere solo. Un

quadro simile è riscontrabile in un disturbo narcisistico di personalità, per cui il

soggetto affetto ritiene di essere speciale e unico e quindi di meritare ogni

attenzione (in caso contrario può scattare una rabbia incontrollabile).

Gli stalker non possono quindi essere inquadrati in un’unica tipologia

psichiatrica: personalità differenti possono indulgere in comportamenti molesti

ripetitivi, quindi non esiste un unico profilo psicologico né una diagnosi

psichiatrica valida per tutti.

La caratteristica psicologica che accomuna tutti i persecutori che

rientrano nella tipologia dei rifiutati e dei risentiti è quella di non avere la

capacità di elaborare correttamente i sentimenti provocati dalla fine di una

relazione. Se manca la capacità di metabolizzare tristezza, delusioni e sensi di

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colpa, la perdita non elaborata può sfociare nel bisogno ossessivo di ricreare il

rapporto a tutti i costi.

Meloy (1996) ha proposto un’interpretazione psicodinamica per spiegare

i comportamenti di stalking fondati sulla patologia del narcisismo e

sull’attaccamento, basata sulla classificazione di Bartholomew (1990) dei vari

stili di attaccamento. Secondo questa teoria, lo stalker avrebbe sviluppato uno

stile di adattamento Preoccupato che lo porta ad avere una bassa autostima, a

percepirsi come fragile, non amabile, alla continua ricerca di attenzione e

approvazione da parte delle figure emotivamente significative. Nella relazione,

questo soggetto interagisce con un’intensa emotività e ha paura di essere

abbandonato, motivo per cui cerca sempre di mantenere il controllo, esprime le

mozioni in modo esagerato e soffoca il partner con continue richieste d’affetto,

alle quali si alternano rimproveri a ogni più piccola mancanza.

Ecco che, in un quadro del genere, lo stalking ha la funzione di difendere

il persecutore dalla ferita narcisistica provocata dalla separazione e dalla

perdita.

Una ricerca effettuata da Keinlen e coll. (1997) è arrivata alla conclusione

che la maggior parte dei persecutori è stata vittima di abusi fisici, sessuali ed

emotivi e/o ha sperimentato la perdita o la separazione di chi se ne prendeva

cura nei primi anni di vita. Secondo questa teoria, i maltrattamenti, l’assenza

emotiva e la separazione precoce dalla figura di riferimento contribuirebbero

allo sviluppo di uno stile di attaccamento preoccupato che favorisce, in età

adulta, relazioni conflittuali e impoverite, indebolendo la capacità di mantenere

un rapporto stabile.

Kienlen ha esaminato anche i fattori che precipitano il comportamento di

stalking e ha trovato, nel suo campione d’analisi, che l’80 % aveva sopportato

uno stress o una perdita nei sette mesi precedenti l’inizio della campagna di

molestie: il 43,7 % più di un fattore di stress, mentre il 47, 9 % aveva vissuto la

rottura di un rapporto sentimentale e la stessa percentuale una perdita del

lavoro. Gli eventi particolarmente stressanti minano l’identità e l’autostima dei

soggetti più fragili, che non hanno gli strumenti per affrontarli e quindi

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decidono di tormentare la loro vittima per diminuire l’angoscia e sfogare i

sentimenti di collera.

In Italia, una ricerca effettuata da Gargiullo e Damiani (2008) ha

riscontrato che una delle più importanti caratteristiche comportamentali dello

stalker è quella di non essere capace di accettare il rifiuto perché si percepisce

come la sola e unica vittima della situazione. Questo soggetto ha bisogno di

ricevere una qualsiasi forma di risposta emotiva – amore, rabbia, compassione,

odio – ma non è in grado di sopportare una non risposta come il silenzio o

l’indifferenza, perché prova un’angoscia insostenibile e deve passare all’atto

(aggressivo). La non accettazione del rifiuto è accompagnata, secondo gli

Autori, da tratti ossessivo-compulsivi: sotto il profilo ossessivo, l’esistenza dello

stalker si polarizza totalmente attorno alla vita della vittima-bersaglio, attraverso

la manifestazione di una serie di pensieri intrusivi; dal punto di vista

compulsivo, i tratti tipici sono la coazione a ripetere, l’ipercontrollo

generalizzato, la tendenza alla morbosità e alla vischiosità che paralizzano la

vittima.

Gli Autori elencano anche le caratteristiche comportamentali che

vengono riscontrate più frequentemente nella personalità degli stalker:

1) incapacità di accettare il rifiuto (reale o immaginario), vissuto

come un’offesa personale intollerabile che provoca angoscia e

ostilità spesso sfogate attraverso azioni aggressive;

2) presenza della “visione a tunnel”: modalità di pensiero rigida che

consiste nella focalizzazione esclusiva (fissazione ideo-affettiva)

per cui il molestatore polarizza tutta la sua vita su quella della

vittima, arrivando ad alterare i confini tra realtà e fantasia:

diversi stalker si autoconvincono di essere amati dalla persona

che scelgono come bersaglio, credono che esista un rapporto

affettivo o che, prima o poi, riusciranno a instaurare una

relazione sentimentale;

3) tendenza a manipolare l’ambiente in tutti i modi possibili per

cercare di ottenere informazioni utili per avvicinare la vittima:

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è una forma di stalking “per procura”, in cui il molestatore

utilizza terze persone (familiari e/o amici della vittima,

investigatori, etc.) che possono essere o meno consapevoli del

ruolo giocato dalla sua ossessione.

Le strategie comportamentali attuate dagli stalker per mantenere il

contatto con la vittima possono essere molto diverse, soprattutto nei casi in cui

ci sia stato veramente un rapporto (categoria dei rifiutati) o il soggetto voglia

riconquistare l’ex partner:

- invio di regali (oggetti costosi, fiori, lettere d’amore);

- messa in atto di comportamenti generosi (pagamento della rata

del mutuo, accollo di un debito);

- false promesse (“non voglio costringerti a tornare con me, ciò che

desidero è solo amicizia”);

- manifestazione di atteggiamenti vittimistici (inventare di soffrire

di una grave malattia per creare allarme e attirare l’attenzione);

- creazione e sfruttamento di sensi di colpa (“tu sei l’unica persona

che possa veramente capirmi, non posso parlarne con nessun

altro”);

- messa in atto di comportamenti ricattatori (“racconterò ai nostri

figli che ti sei separata solo perché ti piace la bella vita”);

- Aggressioni verbali e fisiche.

Molto importante anche l’interpretazione di Galeazzi e Curci (2001), che

considerano lo stalking come una distorsione e/o una vera e propria patologia

della comunicazione e della relazione. Gli Autori introducono il concetto di

“malinteso originario” che sarebbe alla base del fenomeno: una disparità di

percezione tra stalker e vittima per cui il primo interpreta come segnali d’affetto

e addirittura d’amore dei comportamenti di mera cortesia da parte della

seconda. A volte l’ambiguità può essere amplificata da situazioni sociali che

favoriscono interazioni emotive facilmente fraintendibili (pranzi di lavoro,

vacanze comuni in località turistiche, magari in un villaggio dove si resta

vittime della vicinanza forzata).

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Appare evidente che lo stalking è una patologia della relazione e le

dinamiche, reali o immaginarie, della comunicazione sono un elemento

fondamentale per comprenderne lo svolgimento.

Da diversi anni attivo in Italia, l’Osservatorio nazionale sullo stalking

presieduto da Massimo Lattanzi afferma come la sola coercizione non sia uno

strumento sufficiente a tutelare la vittima e che l’unico modo per cercare una

soluzione sia aiutare lo stalker a prendere coscienza dei propri meccanismi

mentali mediante un “percorso di risocializzazione”: dal 2007, l’Osservatorio ha

istituito il Centro presunti autori, dove viene offerto un aiuto psicologico

gratuito al molestatore che ha già messo in atto il comportamento patologico

oppure lo sta immaginando. La terapia dura dai diciotto ai ventiquattro mesi. Il

Centro lavora anche all’interno del carcere di Rebibbia, allo scopo di prevenire

eventuali recidive, e dentro le scuole, per educare gli studenti al rispetto per

l’altro sesso.

Le vittime dello stalking.

A seconda della tipologia in cui rientra il molestatore, le vittime primarie

(dirette) dello stalking possono essere molto diverse.

Ex intimi.

Un gruppo considerevole di vittime è composto da persone che hanno

intrattenuto una relazione intima col molestatore. L’intimità è normalmente (ma

non sempre) di tipo sessuale. Sebbene molte vittime riferiscano di essere state

molestate anche durante la relazione, a rigor di termini lo stalking inizia solo

quando la vittima comunica in modo netto il desiderio di terminare la

relazione. Queste vittime, in maggior parte di sesso femminile, subiscono

stalking insistente e duraturo, in cui vengono utilizzati diversi metodi di

molestie. I molestatori, più frequentemente di altri, minacciano, aggrediscono

fisicamente e procurano danni alla proprietà. In linea di massima, quanto più è

intenso l’investimento affettivo dello stalker sulla vittima, tanto più prolungate

sono le molestie, specie se il molestatore e la vittima hanno figli in comune.

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Amici e conoscenze occasionali.

La maggior parte delle vittime di sesso maschile appartiene a questa

categoria. Di solito, le molestie cominciano dopo un incontro sociale casuale o

dopo il fallimento di un’amicizia, oppure possono sorgere nel contesto di una

lite tra vicini (cenni allo stalking condominiale). Le vittime possono essere il

bersaglio di attenzioni da parte di un innamorato che vuole iniziare una

relazione, della rabbia di un conoscente rifiutato o di un vicino rancoroso. Di

solito queste vittime non subiscono violenze comparabili a quelle degli ex

intimi, sia per intensità che per durata: alcuni casi di molestie tra vicini si

concludono, però, col trasloco della vittima.

Contatti professionali.

Alcune professioni, come l’insegnante, lo psicoterapeuta, l’avvocato o

l’operatore sanitario, sembrano più soggette ad attirare Molestie Assillanti.

Ogni professione che entra in contatto con individui isolati e facilmente portati

a fraintendere l’offerta di aiuto e l’empatia come segno di interesse

sentimentale, è potenzialmente a rischio di subire molestie da parte di stalker in

cerca di intimità.

Le “professioni d’aiuto”, dove si instaura cioè una relazione in qualche

modo intima e confidenziale (con disparità di ruoli) fra il prestatore d’opera e

l’utente/cliente, sono di sicuro quelle più a rischio.

Nella letteratura internazionale, è nota la possibilità che gli Operatori

Socio-Sanitari (OSS) possano trovarsi a fronteggiare episodi di molestie nel

corso della loro carriera professionale. Un’indagine condotta da Pathè, Mullen e

Purcell (2002) ha evidenziato un’alta percentuale di vittimizzazione all’interno

delle professioni sanitarie a causa del contatto con persone sole e/o disturbate.

Una ricerca condotta in Italia da Galeazzi, Elkins e Curci (2005) ha esaminato

361 OSS psichiatrici: il 32 % del totale si è descritto vittima di almeno un

episodio di molestie e l’11 per cento di stalking vero e proprio.

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Diversi autori, tra i quali Sandberg, McNiel e Binder (1998), hanno

riscontrato che gli OSS tendono a non denunciare i casi di stalking alle forze

dell’ordine, perché mettono in atto la negazione e la minimizzazione, due

meccanismi di difesa comuni quando si accorgono di attenzioni moleste da

parte dei pazienti: questo atteggiamento è dovuto al fatto che le intrusioni nella

vita privata sono viste come un momento imprescindibile di una professione

che implica stretti contatti con persone sofferenti di problemi emotivi,

relazionali e psichici. Un altro fattore che limita le denunce di stalking da parte

di OSS è il timore di essere accusati di incompetenza, come se affermare di

essere diventati delle “vittime” possa suscitare scetticismo tra i colleghi. Sia nel

campione della ricerca italiana che in uno studio inglese del tutto analogo,

risulta che la modalità di reazione più comune in risposta alle molestie sia

quella di cercare aiuto tra i colleghi, cercando di tenere fuori dalla vicenda

familiari e amici.

Secondo la classificazione di Pathè e Mullen, le due tipologie di stalker

riscontrabili più frequentemente nelle molestie contro gli OSS sono

l’incompetente e il risentito: il primo sviluppa con l’OSS un attaccamento

romantico di tipo infantile; il secondo ritiene di aver subito un grave torto (non

importa se reale o immaginario) dall’OSS, perciò lo accusa di non aver saputo

gestire nel modo giusto la relazione terapeutica e/o l’intervento professionale

(nel campione italiano, il 42, 5 % delle vittime considera l’inizio degli episodi di

molestie come fraintendimento degli obiettivi della relazione di cura,

considerata invece come relazione intima).

Esistono dei fattori facilitanti che rendono più probabile lo stalking

proprio in questo tipo di relazioni professionali:

1) presenza di un malinteso su limiti, significato e regole della relazione

professionale;

2) condizioni di “vulnerabilità relazionale” nel molestatore

comprendenti isolamento sociale, immaturità affettiva collegata all’età, stili di

attaccamento e tratti di personalità disfunzionali, mancanza o carenza di abilità

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sociali e della capacità di interpretare correttamente i segnali non verbali

dell’interlocutore;

3) carattere di particolare intimità proprio di alcune relazioni

professionali (psichiatra-paziente), che possono creare un fuorviante senso di

confidenza;

4) fraintendimento dell’utente/cliente dell’obbligo contrattuale e della

responsabilità del professionista;

5) brusca interruzione di un rapporto terapeutico.

Altri contatti lavorativi.

Questa categoria comprende vittime molestate dai datori di lavoro, dai

dipendenti, dai colleghi e dai clienti. In questi ambiti, i molestatori di solito

appartengono al tipo dei corteggiatori inadeguati, in cerca d’intimità o

rancorosi.

Sconosciuti.

Questo gruppo comprende le vittime che non hanno avuto alcun

contatto col molestatore prima dell’inizio dei comportamenti sgraditi. I

molestatori, di solito, sono cercatori d’intimità che tentano di iniziare una

relazione o stalker del tipo predatore che stanno organizzando un’aggressione

sessuale. Le vittime possono essere di entrambi i sessi, adulti o bambini, di

solito scelte per le loro caratteristiche fisiche, per il loro status sociale o, nel caso

dei molestatori telematici, per la versione di queste stesse caratteristiche

fantasticata nella propria mente disturbata.

Personalità pubbliche.

Comprendono persone note nel mondo dello spettacolo e dello sport,

politici e governanti, membri di famiglie reali, che tendono ad attirare

molestatori in cerca d’intimità, corteggiatori inadeguati e rancorosi. I mass

media alimentano un senso di pseudointimità con i personaggi famosi tale da

“riempire” il vuoto di intimità autentica e da suscitare eventualmente

comportamenti di Molestie Assillanti. Molestatori rancorosi possono anche

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prendere di mira personalità pubbliche nella loro veste (chiaramente

disprezzata) di simbolo di potere e di successo.

Come distinguere un caso reale di stalking da semplici comportamenti

fastidiosi?

Il Centro di Terapia Strategica di Arezzo, diretto da Giorgio Nardone,

propone un modello di intervista da sottoporre alla presunta vittima che

denuncia un caso di Molestie Assillanti, allo scopo di comprendere nella

maniera più precisa possibile la situazione concreta. Si base di un modello

basato sulle tecniche di indagine di dialogo strategico.

Il primo modello fondamentale dell’intervista è fare una serie di

domande con due alternative “secche” di risposta, allo scopo di definire con

chiarezza se il comportamento molesto sia effettivamente stalking o espressione

di altro tipo di difficoltà. Le risposte vanno verificate con riassunti neutri,

evitando qualunque tipo di giudizio o suggestione, fino a quando non siano

stati raggiunti tutti gli elementi necessari per inquadrare o meno la fattispecie

nell’ambito delle Molestie Assillanti.

Il femminicidio: uomini che uccidono le donne.

Il termine (orrendo) “femminicidio” si riferisce alle violenze perpetrate

dagli uomini alle donne in quanto tali, ovvero in quanto appartenenti al genere

femminile. Questo delitto comprende anche tutti i casi di omicidio in cui una

donna venga uccisa da un uomo per motivi legati alla sua identità di genere.

In lingua inglese, il termine femicide era già usato in Inghilterra nel 1801

per indicare l’uccisione di una donna. In tempi moderni, il termine è stato

utilizzato dalla criminologa Diana Russell nel 1992. La Russell ha identificato

nel femminicidio una vera e propria categoria criminologica: la violenza

estrema di un uomo contro la donna “perché donna”, ovvero una violenza

esercitata come esito di un atteggiamento misogino.

Nel 1993, l’antropologa messicana Marcela Lagarde ricorre al termine

“femminicidio” per comprendere

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La forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione

dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine –

maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica,

patrimoniale, familiare, comunitaria o anche istituzionale – che comportano l’impunità

delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la

donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare nell’uccisione o nel

tentativo di uccisione della donna stessa, in altre forme di morte violenta di donne e

bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili,

dovuti all’insicurezza, al disinteresse delle istituzioni e alla esclusione dallo sviluppo e

dalla democrazia.

Il termine è stato ripreso e diffuso da numerosi studi di sociologia,

antropologia, criminologia e usato negli appelli internazionali lanciati dalle

madri delle ragazze uccise a Ciudad Juarez (dove le fonti ufficiali parlano di 740

donne uccise tra il 1993 e il 2009 e di 4500 donne scomparse tra il 1993 e il 2004).

Il 25 giugno 2012 Rashida Manjoo, relatrice speciale delle Nazioni Unite

per la lotta contro la violenza sulle donne, ha presentato un Rapporto completo

e aggiornato sugli omicidi di genere a livello globale, risultato di visite sul

campo, colloqui con i governi e con le associazioni civili.

Le forme di femminicidio elencate dal Rapporto sono molteplici e

travalicano i confini culturali, religiosi e di status sociale. Ognuna di esse

meriterebbe un’analisi dettagliata:

- delitti passionali e d’onore;

- uccisioni di donne in situazioni e zone di guerra;

- donne bruciate a causa della dote in alcuni Stati dell’Asia

meridionale;

- omicidi delle donne indigene e aborigene;

- forme estreme di accanimento sui corpi delle donne assassinate

dalla criminalità organizzata o da gruppi paramilitari;

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- uccisione di donne accusate di stregoneria e di magia in alcuni

Paesi dell’Africa, dell’Asia e delle isole del Pacifico;

- delitti a causa dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere

o altre forme estreme come la pratica del sati (le vedove indiane

indotte a bruciarsi vive sulla pira funebre del marito);

- aborto dei feti di sesso femminile e infanticidio delle bambine in

Cina, India e Bangladesh.

Accanto a queste forme dirette, esistono anche forme indirette di

femminicidio, come i decessi delle madri causati da aborti clandestini, quelli

legati al traffico di esseri umani, al crimine organizzato, alla mancanza di cure

mediche e di un’alimentazione adeguata per le bambine, le morti dovute a

pratiche come le Mutilazioni Genitali Femminili (MGF).

Negli ultimi anni, il termine “femminicidio” viene usato anche in Italia e

si è creata una percezione sociale di questo fenomeno. Anche se le cifre non

vengono raccolte in modo sistematico e a livello istituzionale, dal 2005 i Centri

Antiviolenza raccolgono i dati delle donne uccise dai casi riportati dalla stampa.

Nel 2012, anno in cui l’EURES ha pubblicato la prima ricerca specifica sul

femminicidio, intitolata Il femminicidio in Italia nell’ultimo decennio, circa il 70 %

delle donne uccise in Italia è morta per mano di uomini con cui avevano – o

avevano avuto – una relazione sentimentale (mariti, compagni, ex mariti, ex

compagni). La maggior parte degli omicidi avviene a casa della coppia, della

vittima o dell’assassino. Circa l’ottanta per cento delle donne uccise è di

nazionalità italiana, così come gli autori dell’omicidio. La maggior parte di loro

vive nell’Italia settentrionale.

La condizione delle donne in Italia non è affatto buona, come risulta

dall’analisi effettuata nel 2012 dal World Economic Forum: l’Italia risulta

all’ottantesimo posto nella classifica mondiale (piazzandosi dopo Paesi come

Ghana, Botswana, Kenya e Perù) sulle disparità di genere, con livelli

d’istruzione, partecipazione politica, tutela della salute, opportunità lavorative

e disparità economiche e salariali generalmente inferiori per le donne rispetto

agli uomini. Nel già citato Rapporto stilato per l’ONU da Rashida Manjoo, si

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segnala come l’Italia sia l’unico Paese europeo ad esser stato richiamato

(insieme al Messico, per la cronaca) dalla Convention on the Elimination of all

Forms of Discrimination against Women (CEDAW).

Dalla violenza domestica al femminicidio.

Il posto più pericoloso per una donna è la propria casa.

Se un compagno o un marito uccide la “propria” donna, non si tratta

quasi mai di un raptus improvviso sorto dal nulla. Di solito esiste un percorso

in cui la violenza aumenta progressivamente, da saltuaria diventa episodica,

regolare, fino a sfociare nel femminicidio.

Facendo una sintesi dei contributi di diversi studiosi del settore, si

possono identificare delle fasi che vanno a comporre il modello generale di

violenza coniugale esercitata dagli uomini verso le donne:

1. La prima fase corrisponde ad uno stato di tensione e di irritabilità

in cui l’uomo si fa innervosire da qualsiasi cosa dica la donna, a

prescindere dai contenuti della comunicazione. La violenza è

qui ancora sfumata, sottocutanea, e si manifesta con piccoli

segni, come un cambiamento del tono della voce, l’intensificarsi

di silenzi ostili e di sguardi minacciosi. La donna si sforza di

essere gentile e comprensiva per non alimentare la tensione, ma

più lei è paziente più cresce la rabbia.

2. La seconda fase è quella delle prime aggressioni reali: l’uomo

grida, insulta, minaccia, lancia oggetti a terra o contro la donna,

azioni a cui possono seguire schiaffi, spinte o altre condotte

violente. In alcuni casi, l’uomo usa il sesso come mezzo per

rafforzare o ristabilire la situazione di potere. Non sempre si

arriva alla violenza fisica, ma l’intimidazione cronica può essere

altrettanto devastante perché annulla la capacità di reazione

della donna, impedendole spesso di provare sentimenti di

rabbia e determinando paura, tristezza e impotenza. Le

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microviolenze verbali e psicologiche indeboliscono

progressivamente le resistenze della donna.

3. La terza fase è quella delle scuse. Quando si accorge che sta

passando di segno e che la donna è troppo spaventata, l’uomo

tende a minimizzare il proprio comportamento cercando delle

giustificazioni. Spesso colpevolizza la compagna perché lo ha

provocato. A volte chiede perdono, giura che non succederà più

e può anche promettere di rivolgersi a uno psicologo. A volte

l’uomo tira in ballo la sua infanzia triste o drammatica e, se la

donna è troppo esasperata, lui ricorre alla minaccia del suicidio

(per cercare, ancora una volta, di far leva sul senso di colpa).

Spesso in questo periodo la donna è oggetto di un

“bombardamento amoroso”, ma si tratta solo di una seduzione

narcisistica per affascinare la compagna, paralizzarla e ottenere

più potere su di lei.

4. La quarta fase è quella più deleteria per la donna perché è il

momento in cui lei torna dentro l’illusione e vuole credere che

lui sia cambiato, tornando il compagno premuroso del quale si

era innamorata. Quando l’uomo è di nuovo sicuro di aver

ristabilito il suo ascendente sulla donna, la spirale di violenza

ricomincia. E può arrivare agli esiti più drammatici.

Gli uomini che si spingono al limite e uccidono la propria

compagna mostrano dei tratti in comune tra loro:

- immaturità affettiva, traducibile nell’incapacità di stabilire una

relazione di fiducia reciproca fondata sulla parola e sull’ascolto;

- egocentrismo profondo, che porta a considerare inesistenti e

ininfluenti le ragioni altrui;

- presenza di un temperamento impulsivo;

- difficoltà di comunicazione;

- fragilità e timidezza, spesso mascherata da una facciata di

spavalderia, con presenza di tratti fobici e ossessivi;

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Sintetizzando i risultati degli studi che indagano sulle motivazioni

che spingono l’uomo ad agire varie forme di violenza domestica, Dobash

e Dobash (1992) spiegano che:

Le quattro fonti principali del conflitto che porta ad attacchi violenti sono

la possessività e la gelosia degli uomini, le aspettative maschili sul lavoro

domestico delle donne, il presunto diritto di punire le donne per quelle che sono

ritenute delle trasgressioni e l’importanza per gli uomini di mantenere o

esercitare una posizione di autorità.

Un fattore importante per comprendere il motivo che spinge

molte donne a sopportare mariti violenti è il ruolo di genere femminile,

interiorizzato ma anche imposto dall’ambiente sociale, come ben

delineato nel 2004 da Giovanna Ponzio:

Chi lavora quotidianamente con le donne vittime di violenza ne conosce i

sensi di colpa e il senso di diffidenza e sospetto che suscitano se decidono di

allontanarsi dal partner. Il fatto che fin da bambine abbiano interiorizzato come

“qualità” femminili il sopportare, il saper tacere, l’abnegazione, la disponibilità

totale e la responsabilità del buon andamento della relazione, può produrre già di

per sé un’asimmetria nella coppia in quanto codifica che da tali “virtù” ci sia

qualcuno che trae vantaggio.

(…)

Essere sempre disponibili appare fin dall’infanzia alle bambine come una

“virtù” indispensabile, soprattutto nella relazione con il partner. È una “virtù”

che mette sempre l’altro al primo posto e che, spinta all’eccesso, non produce un

accumulo di qualità ma la perdita di spazio e di autonomia, favorendo la

dipendenza.

Le ricerche effettuate sugli uomini che maltrattano evidenziano

come la loro violenza sia una sorta di perversa estrinsecazione di una

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profonda insicurezza. Solo una minoranza di comportamenti violenti è

autenticamente riconducibile alla patologia vera e propria.

L’ONU e l’Unione Europea definiscono violenza di genere una

violenza che si annida nello squilibrio relazionale tra i sessi e nel desiderio di

controllo e di possesso da parte del genere maschile su quello femminile.

La letteratura internazionale elenca diverse tipologie di violenza

contro le donne:

1. Atti persecutori.

2. Matrimoni forzati.

3. Mutilazioni Genitali Femminili o ablazione.

4. Tratta di donne e di bambine.

5. Violenza economica.

6. Violenza fisica.

7. Violenza psicologica.

8. Violenza sessuale e abusi sessuali.

La Spagna si è dimostrata all’avanguardia per ciò che riguarda

prevenzione e repressione della violenza domestica. Già nel 1998, il governo ha

varato il primo piano d’azione contro la violenza domestica. Nel 2005, poi, è

entrata in vigore la Legge integrale contro la violenza di genere, che considera

quelle coniugali violenze sessiste, frutto di un sistema nel quale le donne

subiscono numerose discriminazioni. La repressione, si stabilisce, deve essere

accompagnata da un lavoro di prevenzione degli abusi e delle diseguaglianze

tra i sessi. La legge prevede anche la formazione e il coordinamento di

professionisti in vari settori: medici, forze dell’ordine, avvocati, magistrati,

psicologi, assistenti sociali, in modo che le vittime possano ricorrere in ogni

momento a specialisti della materia.

La nuova normativa prevede poi la creazione di servizi di informazione

attivi 24h/24, che garantiscano un primo aiuto legale e psicologico, oltre a

centri di emergenza e di recupero per le donne e per i loro figli. L’assistenza

legale specializzata deve essere gratuita e sono previsti contributi economici che

consentano alle vittime di iniziare una nuova vita, oltre a un fondo per pagare

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loro gli alimenti. Le vittime usufruiscono inoltre di trattamenti speciali nel

lavoro, come l’adattamento dell’orario alle loro esigenze, mobilità geografica,

etc. Giudici specializzati in materia decidono le misure di protezione a seconda

della gravità del caso: dall’allontanamento dell’aggressore dall’abitazione di

famiglia all’interruzione di ogni contatto e comunicazione con la vittima, fino

alla revoca della potestà genitoria o alla sospensione del regime di visite ai figli.

Diventano più severe le pene da scontare: le minacce lievi possono essere

punite con un periodo di detenzione da tre mesi a un anno. In caso di lesioni, la

pena aumenta fino a cinque anni. Una volta in carcere, i condannati dovranno

seguire programmi specifici per evitare le recidive.

Il momento della separazione è il più delicato: in questa fase avviene

circa un terzo del totale delle violenze e degli omicidi. Quasi sempre è l’uomo a

uccidere la donna, quasi sempre è la donna a prendere la decisione di separarsi

e/o divorziare: questo evento assume per l’uomo un particolare significato

drammatico, andando a costituire quello che Sorgato (2010) definisce il “Colpo

di Abbandono Improvviso” (CAI). In base alle sue ricerche, il CAI è descritto

nel modo seguente:

1. Il CAI sembra essere la matrice delle condotte degli stalker.

2. Durante i colloqui, gli uomini in terapia definiscono il CAI come uno

“tsunami emotivo affettivo” che trasformerà per sempre la loro vita:

da quel preciso momento i valori, gli obiettivi e gli affetti precedenti

non esistono più.

3. Gli uomini che subiscono il CAI non possono fare a meno di agire

quella specifica serie di comportamenti di tipo persecutorio che

percepiscono come funzionali al loro benessere, che sedano la loro

ansia e che contengono la paura.

Anche in Francia, a partire dal 2005, sono stati elaborati dei progetti

triennali di lotta alla violenza contro le donne che rispondono alle direttive

europee. Una legge, entrata in vigore nel 2006, rafforza prevenzione e

repressione delle violenze all’interno della coppia, allargando l’applicazione

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delle aggravanti ai conviventi e agli ex e rendendo più semplice

l’allontanamento degli autori di maltrattamenti dal domicilio delle vittime.

In aggiunta, diventa crimine la violenza sessuale tra coniugi quando

abbia come scopo l’asservimento della vittima. Sempre più di frequente,

psicologi ed esperti francesi avanzano la richiesta di eliminare la parola

“passionale” dalla descrizione degli omicidi commessi da uomini contro le ex

compagne: la passione sarebbe elemento positivo e non potrebbe, in

quest’ottica, essere associata alle mattanze.

Lipperini e Murgia (2013) dichiarano con forza che, in molti casi, la

rappresentazione mediatica del femminicidio data dai mass media in Italia è

colpevolmente errata: alcuni titoli di giornale apparsi negli ultimi anni rischiano

di essere fuorvianti, perché sembrano propalare l’immagine di un uomo da

compatire (“l’amavo più della mia vita”; “l’ho uccisa durante un lungo

abbraccio”) e verso il quale mostrare comprensione per l’incapacità di vivere

senza la “sua” amata. Le Autrici propongono di eliminare la parola “amore”

dalla descrizione di un contesto nel quale è avvenuto un omicidio, ma non basta

togliere la parola dai giornali: è anche e soprattutto necessario eliminarla dalle

nostre teste, altrimenti finiamo inconsapevolmente con lo spostare la

responsabilità dal carnefice (incapace di sopportare l’abbandono) alla vittima

(responsabile dell’abbandono).

Lanciando un’evidente provocazione, Lipperini e Murgia arrivano a dire

che, se l’uomo non sarà in grado di modificare la percezione della donna come

“cosa sua”, allora sarebbe auspicabile la nascita di società separate, comunità

omosessuali, come in alcune specie di animali. I cinghiali, per esempio, vivono così. Se

non riusciremo più a convivere ci separeremo, andando a vivere in due territori diversi,

che varcheremo solo per procreare come fanno i cinghiali. I quali, com’è noto, non

praticano l’omicidio su base sessuale, come del resto la maggior parte degli animali.

Nessuna donna è al sicuro: le vittime che hanno più di sessant’anni.

In tutto il 2012, in Italia sono state uccise 127 donne. Ben 48 tra queste

avevano più di sessant’anni, a dimostrazione del fatto che una donna

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impegnata in una relazione con un uomo non può ritenersi “salva” in nessuna

fascia di età. Tra queste, venti sono state uccise dal proprio marito, compagno o

amante.

Il sentire comune percepisce che le passioni si affievoliscono col passare

degli anni, ma questo assunto non vale per il femminicidio, visto che i crudi

dati numerici raccontano un’altra storia. Anche dopo i 60, la gelosia, il senso di

possesso o la crisi post-abbandono degli uomini sono sempre presenti. Di più:

l’età avanzata preclude la speranza di potersi “rifare una vita”, di trovare nuovi

affetti e di non trascorrere la vecchiaia da soli (pensiero insostenibile per molti).

La psicologa Silvia Vegetti Finzi analizza le problematiche specifiche dei

rapporti quando i partner si trovano a dover fronteggiare il tema della

vecchiaia:

Quello che si nota sempre di più è l’incapacità di accettare la vecchiaia. Siamo

sempre meno capaci di modulare il tempo e di dare alla vita il colore che spetta alle varie

stagioni. Aumentano le separazioni degli ultrasessantenni come se a tutti i livelli di età

si potesse sempre ricominciare. Crescono le tensioni tra le coppie che si lasciano dopo

tanti anni. Spesso però si scopre che dietro l’idea di una vita nuova ci sono solo illusioni

e, quando lo si capisce, si passa attraverso la sofferenza, si arriva alla disperazione.

Lo strano caso di don Piero Corsi e del suo “manifesto” sul

femminicidio.

«Le donne e il femminicidio. Facciano sana autocritica: quante volte

provocano?». È questo il titolo del tanto contestato volantino comparso (e poi

subito scomparso) il 24 dicembre del 2012 nella bacheca della parrocchia di San

Terenzo di Lerici. A scriverlo e ad affiggerlo è stato il parroco don Piero Corsi,

che si è trovato – per ovvie ragioni - nel mezzo di una furiosa polemica.

Sul volantino il sacerdote riprendeva un articolo del sito ultraintegralista

Pontifex.it: «Una stampa fanatica e deviata attribuisce all'uomo che non

accetterebbe la separazione la spinta alla violenza. Possibile che in un sol colpo

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gli uomini siano impazziti? Non lo crediamo. Il nodo sta nel fatto che le donne

sempre più spesso provocano, cadono nell'arroganza, si credono

autosufficienti e finiscono con esasperare le tensioni».

«Bambini abbandonati a loro stessi, case sporche, piatti in tavola freddi e

da fast food, vestiti sudici. Dunque se una famiglia finisce a ramengo e si arriva

al delitto (forma di violenza da condannare e punire con fermezza), spesso le

responsabilità sono condivise», si legge sul volantino.

E poi ancora, in merito alla violenza sessuale: «Quante volte

vediamo ragazze e signore mature circolare per strada con vestiti provocanti e

succinti? Quanti tradimenti si consumano sui luoghi di lavoro, nelle palestre e

nei cinema? Potrebbero farne a meno. Costoro provocano gli istinti peggiori e

poi si arriva alla violenza o abuso sessuale (lo ribadiamo. Roba da mascalzoni).

Facciano un sano esame di coscienza: forse questo ce lo siamo cercate anche

noi?

Basterebbe, per esempio, proibire o limitare ai negozi di lingerie

femminile di esporre la loro mercanzia per la via pubblica per attutire certi

impulsi; proibire l’immonda pornografia; proibire gli spot televisivi erotici,

anche in primo pomeriggio. Ma questa società malata di pornografia ed

esibizionismo, davanti al commercio, proprio non ne vuol sapere: così le donne

diventano libertine e gli uomini, già esauriti, talvolta esagerano».

Alcune parti di questo “manifesto” sono particolarmente gravi perché

forniscono delle false giustificazioni morali che possono essere utilizzate da

tutti gli uomini violenti. Definire le donne “arroganti”, considerare

l’“autosufficienza” ricercata dalle donne come un peccato e tirar fuori la vecchia

storia dei vestiti “provocanti e succinti” come causa di slatentizzazione di istinti

animaleschi nei maschi non merita ulteriori commenti.

Dopo essere stato costretto a ritirare il volantino, Don Corsi non ha

mostrato alcun segno di contrizione o pentimento. Il caso ha suscitato tale

clamore che la Santa Sede è stata obbligata a prendere pubblicamente le

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distanze dalle affermazioni di Don Corsi tramite una dichiarazione rilasciata

dal Presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia.

Il problema è che, accanto alle reazioni di condanna, com’era facile

prevedere, ci sono state anche parole di sostegno per Don Corsi, a riprova di

quanto lavoro ci sia da fare per scardinare un certo tipo di pensiero maschilista

e retrivo che ritiene le donne, almeno in parte, responsabili delle violenze di cui

sono vittime.

I dati su stalking e maltrattamenti del 2012 e del primo semestre 2013.

Le misure cautelari (carcere, arresti domiciliari, allontanamento coatto,

obbligo di dimora) adottate per i reati di stalking, violenza sessuale e

maltrattamenti sono passate dalle 200 del 2011 alle 269 del 2012 (aumento del 33

%). Da gennaio a giugno 2013, sono stati 143 i provvedimenti adottati, con una

proiezione sull’intero anno che segna un 10 % di ulteriore aumento. Sono

aumentati anche gli arresti in flagranza: dai 114 del 2011 ai 160 del 2012 (+50 %).

All’interno di questi dati, lo stalking è il reato maggiormente in crescita:

sempre in riferimento alle misure cautelari, si è passati da 55 casi (2011) a 83

(2012) a 52 per il solo periodo gennaio-giugno 2013. Si registra anche un forte

aumento percentuale dei maltrattamenti, dato che nei primi sei mesi del 2013 si

è verificato un numero di casi già uguale a quello di tutto il 2011 (54 casi contro

59, nel 2012 sono stati 86). In crescita sono anche i casi di violenza sessuale.

Le donne risultano essere vittime in oltre il 90 % dei casi e uno dei fattori

scatenanti di questo incremento di violenza è senz’altro la crisi economica, che

esaspera situazioni di tensione preesistenti. Va, però, contestualmente notato

come questi reati, in special modo stalking e maltrattamenti, siano decisamente

trasversali dal punto di vista sociale.

I dati segnalano anche un aumento dei casi di stalking “al femminile”. In

molti casi, però, le minacce femminili vengono derubricate a semplici molestie,

mancando l’elemento della concreta minaccia fisica quando l’oggetto della

persecuzione sia un uomo (mah…).

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Il primo Rapporto mondiale sulla violenza contro le donne.

Il 20 giugno 2013, l’OMS ha presentato i risultati del più grande studio

mai condotto sugli abusi sessuali subiti dalle donne in tutte le zone del mondo,

in totale 141 ricerche effettuate in 81 Paesi:

- il 35 % delle donne diventa vittima di qualche forma di violenza

nel corso della sua vita. La più comune è quella compiuta da

mariti e fidanzati (30 %).

- il 38 % di tutte le vittime di omicidio viene ucciso dal partner

(contro il 6 % di uomini uccisi dalle loro compagne);

- il 42 % delle donne che hanno subito violenza fisica o sessuale da

uomini con cui hanno avuto una relazione intima ha riportato

danni alla salute fisio-psichica: nello specifico, risultano due

volte più a rischio di depressione, quasi due volte più a rischio di

sviluppare una dipendenza dall’alcol e una volta e mezzo più a

rischio di contrarre malattie a trasmissione sessuale (AIDS,

sifilide, clamidia, gonorrea).

I livelli di violenza sono decisamente alti in tutte le parti del mondo. In

generale, la classifica delle violenze domestiche è guidata dall’Asia sudorientale

(38 %), seguita a ruota dai Paesi arabi del Mediterraneo e dall’Africa (entrambi

al 37 %): in tutto il continente americano si registra il 30 % di violenze, con il 23

% che si verifica tra le fasce ad alto reddito, a riprova che non si tratta di un

fenomeno riconducibile tout court a povertà e ad ignoranza. Europa, Russia e

area del Pacifico orientale si attestano sul 25 %.

Le prime iniziative per arginare quella che si configura come una vera e

propria epidemia globale sono due: in primo luogo, proteggere i bambini dalle

violenze per aiutarli a diventare degli adulti più responsabili, e poi aumentare

l’istruzione femminile secondaria per creare maggiori competenze e maggiore

sicurezza personale. In un’ottica preventiva, lo sforzo maggiore deve essere

orientato all’educazione e alla sensibilizzazione al problema, ad esempio

attraverso le riforme del diritto familiare e la lotta a tutte le disparità di genere.

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Le nuove norme del 2013 per difendere le donne dalle violenze

domestiche.

Un decreto varato a giugno 2013 prevede una corposa sezione dedicata

alla violenza in famiglia. Pur non modificando più di tanto il codice penale,

vengono attribuiti maggiori poteri alla polizia, dando in particolare la

possibilità di intervenire d’ufficio. In caso di lesioni personali i questori possono

intervenire autonomamente, somministrando un “ammonimento” alla persona

violenta; è sufficiente che la polizia venga informata da qualcuno, anche da una

segnalazione anonima di terzi, per chiamare in ufficio il coniuge violento e

intimargli di interrompere tutti gli atti, non episodici, di violenza fisica, sessuale,

psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare.

Soggetti all’ammonimento non sono solo i compagni attuali, ma anche

precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti

condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima. Il questore può anche

richiedere al prefetto la sanzione aggiuntiva della sospensione da uno a tre mesi

della patente di guida.

Nel caso di reiterazione delle violenze domestiche dopo l’ammonimento,

il giudizio può partire d’ufficio. In caso di condanna, la mancata osservanza

dell’ammonimento implicherà un automatico aumento di pena. Se le violenze

domestiche avvengono all’interno di una famiglia di immigrati, la vittima potrà

usufruire di un permesso di soggiorno di carattere umanitario.

Il decreto prevede aumenti di pena qualora violenza sessuale e atti

persecutori siano commessi in danno di donne in stato di gravidanza o di

disabilità psico-fisica (anche temporanea).

Subiscono una revisione anche le norme sullo stalking, focalizzando

l’attenzione anche sui separati in via di fatto. Viene inclusa nello stalking anche

la persecuzione commessa attraverso strumenti informatici o telematici.

Vengono infine rafforzate le sanzioni per chi viola il divieto di avvicinamento

ai luoghi frequentati dalla persona offesa.

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Un nuovo provvedimento su stalking e femminicidio è stato approvato in

parlamento a inizio agosto 2013, completando il decreto già approvato a

giugno.

Riassumendo, i punti salienti dei due provvedimenti del 2013 sono i

seguenti:

- le mail insistenti, violente o minacciose, ma anche i post offensivi

sui social network sono considerati una nuova forma di

persecuzione;

- in caso di gravi indizi di violenza, le forze dell’ordine possono

chiedere al giudice il divieto per lo stalker di avvicinarsi ai luoghi

frequentati dalla vittima;

- vengono considerate violenze sessuali aggravate quelle commesse

in danno del coniuge anche se separato o divorziato, o se

l’imputato ha avuto una relazione affettiva con la vittima;

- è previsto l’arresto in flagranza per chi compie maltrattamenti in

famiglia e per gli stalker, ma anche l’irreversibilità della querela

in caso di stalking;

- viene rilasciato un permesso di soggiorno alla vittima di

nazionalità straniera che denuncia le violenze, per consentirle di

sottrarsi agli abusi domestici;

- è previsto un inasprimento delle pene di un terzo quando il delitto

di maltrattamenti avviene davanti a minori, il delitto di violenza

sessuale è consumato ai danni di donne in gravidanza oppure il

fatto è consumato ai danni del coniuge o del partner;

- chi denuncia sarà costantemente informato e aggiornato sullo

stato dei procedimenti penali in corso;

- i reati di maltrattamenti ai danni di familiari o conviventi e di atti

persecutori sono inclusi tra quelli per i quali è garantita

assistenza legale gratuita;

- alle forze dell’ordine è attribuito il potere di allontanare da casa il

coniuge violento;

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- sono previste azioni di intervento multidisciplinari per prevenire

lo stalking e il femminicidio, potenziando i centri antiviolenza e i

servizi di assistenza.

Vediamo le principali similitudini e differenze tra la normativa italiana e

quella di alcuni Paesi europei in tema di atti persecutori e femminicidio.

- Francia. La legge del 2010 punisce le violenze psicologiche del

coniuge che maltratta anche solo verbalmente l’altro. Quanto alle

violenze fisiche, un nuovo progetto di legge presentato il 3 luglio

2013 prevede l’espulsione immediata dal domicilio e pene più

severe. Negli ultimi due anni, sono state registrate 400.000 donne

vittime di violenze coniugali.

- Germania. Il 49,2 % delle donne uccise nel 2011 sono state vittime

del partner o dell’ex. La legge sulla prevenzione della violenza di

genere è del 2002. All’uomo può essere impedito il contatto con

la vittima e l’ingresso nella casa comune. Gli atti persecutori

sono reato dal 2008.

- Spagna. Il reato di violenza sulle donne è nella legislazione

spagnola dal 1989, in più nel 2004 è stata introdotta l’aggravante

della violenza interna alla coppia, con l’istituzione di tribunali

specifici. Per uscire da una convivenza violenta, viene fornito

aiuto economico e giuridico. Circa 400.000 denunce l’anno si

traducono in 40.000 ordini di protezione.

- Austria. Una legge contro la violenza familiare esiste dal 1996 ed è

stata modificata in più riprese. La giustizia civile può emanare a

favore della vittima delle ordinanze di protezione che

prevedono, ad esempio, l’allontanamento dell’autore dalle

violenze della casa comune in attesa della sentenza.