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Stalking e femminicidio di Lucilla Risicato
I dati sul fenomeno
Nel mondo, ogni anno le statistiche registrano circa 3.500 morti provocati
dalla violenza tra partner. La percentuale di vittime di sesso femminile è
praticamente uguale a costante, attestandosi oltre il 77 %. La maggior parte di
queste donne viene uccisa da mariti, compagni, ex di qualsiasi genere. Storie di
violenza quotidiana senza interruzioni.
In Italia, nel 2013 le vittime di femminicidio sono state 130. Nel 2012 sono
state 127: erano state 119 nel 2011, 127 nel 2010, 119 nel 2009, anche se i dati non
sono ufficiali (manca un osservatorio ufficiale del fenomeno).
I dati dell’ultimo rapporto Eures-Ansa sul femminicidio, pubblicati nel
dicembre 2012, mostrano che nel periodo compreso tra il 2000 e il 2011 sono
stati compiuti 2061 femminicidi e che questi ultimi, nel 2011, hanno toccato il
30,9 per cento degli omicidi totali, raggiungendo la percentuale più alta in
assoluto (nel 1991 rappresentavano soltanto l’11 per cento) con una media di
172 vittime l’anno. Una donna su cinque, inoltre, risulta di nazionalità non
italiana. Si stima che nel nostro Paese ogni 96 ore circa una donna venga uccisa
per mano del marito, del fidanzato, del convivente o di un ex. A una forte
diminuzione degli omicidi da parte della criminalità organizzata si contrappone
un preoccupante aumento degli omicidi compiuti nel contesto familiare. In
particolar modo, quelli perpetrati all’interno della coppia sono aumentati di
quasi il 50 per cento negli ultimi dieci anni, con un’incidenza sul totale degli
omicidi mediamente attestata attorno al 50 per cento. Negli ultimi tre anni
considerati dallo studio si registra addirittura una recrudescenza del fenomeno,
con 173 vittime nel 2009, 158 nel 2010, 170 nel 2011, pari a 501 vittime su un
totale di 1671 morti per omicidio (29,9%).
La decisione di concludere una relazione e i primi tre mesi dalla rottura
del rapporto costituiscono il momento più rischioso per le donne: è il periodo in
cui avviene quasi la metà (il 47, 2 per cento) degli omicidi compiuti dall’ex (il
22,4 nel primo mese e il 24,8 per cento tra il primo e il terzo mese). Il
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femminicidio è infatti la conseguenza di un “possesso negato” e
frequentemente è dipeso dalla decisione della vittima di uscire da una relazione
sentimentale: ben 258 femminicidi tra le coppie separate, e 109 tra quelle ancora
conviventi in cui emerge l’intenzione di concludere la storia, sono da ricondurre
a tale dinamica. I femminicidi scendono all’11,8 per cento tra i 90 e i 180 giorni
dalla separazione, per risalire al 16, 1 per cento nel periodo compreso tra sei e
dodici mesi, al 14, 9 per cento in quello tra tre e cinque anni, dove un ruolo
importante viene assunto dalle decisioni legali e dai tentativi di rifarsi una vita.
Limitati al 3, 7 per cento risultano infine i femminicidi nelle coppie separate a
distanza di cinque anni dalla separazione.
Da un punto di vista territoriale il femminicidio si manifesta soprattutto
nelle regioni dell’Italia del nord, dove si registra la metà dei reati: il 49, 9 per
cento del totale tra il 2000 e il 2011, pari a 728 donne uccise. Risultano
nettamente inferiori i dati relativi all’Italia del sud (30, 7 per cento) e del centro
(19, 4 per cento). Il rapporto analizza il fenomeno anche a livello regionale,
indicando che la Lombardia ha il primato dei femminicidi (251 in valore
assoluto, che corrisponde al 17, 2 per cento del totale), seguita dall’Emilia
Romagna (128 vittime e 8, 8 per cento), dal Piemonte e dal Lazio (tutte e due
con 122 vittime nei 12 anni considerati, pari all’8, 4 per cento del totale).
Concentrandosi però sull’incidenza derivante dalla popolazione femminile, è
però il Molise la regione in cui il rischio risulta più elevato, con 8,1 femminicidi
medi annui per milione di residenti (16 casi), seguito dalla Liguria (6,1),
dall’Emilia Romagna (4,9), dall’Umbria (4,8), dal Piemonte (4,5) e dalla
Lombardia (4,3).
Circa l’epoca in cui vengono commessi in Italia omicidi di donne, i dati
del periodo 2000-2011 dimostrano che luglio è il mese più a rischio, mentre il
mercoledì risulta il giorno più cruento (15, 6 per cento del totale), seguito a
ruota dal fine settimana (15 per cento). Le fasce orarie più rischiose vanno
invece dalle 6.00 alle 12.00 e dalle 18.00 alle 24.00.
Tra tutti i femminicidi considerati in Italia nel decennio 2000-2011, ben il
70, 8 per cento è maturato all’interno dell’ambiente familiare o delle relazioni
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sentimentali e l’autore è da individuarsi nel partner, in un ex partner o
nell’amante, confermando che il femminicidio rappresenta una patologia della
famiglia, con l’82 per cento degli omicidi consumati all’interno delle mura
domestiche: solo il 5, 2 per cento dei delitti è commesso in centri abitati e solo il
3 per cento in località isolate. Ciò si spiega col ruolo centrale che la donna
assume negli equilibri e nelle dinamiche del rapporto di coppia e nei
conseguenti riverberi in ambito familiare, che la vedono spesso come la
responsabile della rottura di quel delicato e complesso patto emotivo e
sentimentale il quale, una volta compromesso, provoca nell’uomo frustrazioni,
violenze e aggressività, veicolate soltanto da un bieco senso di possesso che non
ha più nulla a che vedere con l’amore.
Nella metà degli omicidi l’autore risulta coniugato o convivente con la
vittima, mentre nell’11, 8 per cento dei casi la coppia conviveva ma non era
ancora coniugata, confermando che il rapporto di convivenza costituisce un
elevato fattore di rischio. Nell’84, 9 per cento dei casi l’assassino è italiano e
cade nella fascia di età compresa tra i 25 e i 54 anni (64,8 per cento), mentre gli
autori dai 54 in su costituiscono il 30 per cento degli assassini. L’autore risulta
inoltre pensionato nel 23, 1 per cento dei casi, lavoratore autonomo o
dipendente nel 15, 7 per cento, disoccupato nel 14, 2 per cento e operaio nel 13,
6 per cento.
Risulta elevato anche il numero dei femminicidi domestici in cui sono i
figli a uccidere le madri (176 vittime, pari al 12, 1 per cento), mentre più ridotto
è il numero delle figlie che vengono assassinate dai genitori (124 vittime, pari
all’8, 5 per cento). Nettamente inferiori risultano i dati relativi alle relazioni
restanti, con incidenze del 2,5 per cento per le sorelle, dell’1,9 per cento per le
suocere e dell’1,1 per cento per le nonne. Significativi anche i casi di
femminicidio maturati negli ambiti “di prossimità”, che registrano 91 casi in cui
l’assassino è un amico o un conoscente (il 4,4 per cento del totale), 49 episodi nei
rapporti di vicinato (2,4 per cento) e 29 nei rapporti di tipo economico (1,4 per
cento). Maggiore risulta, infine, l’incidenza dei femminicidi ad opera della
criminalità comune (236, pari all’11, 5 per cento del totale), cui è da imputare
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larga parte della mattanza nei confronti delle prostitute dell’ultimo decennio,
con 148 vittime, mentre più ridotto appare il peso dovuto alla criminalità
organizzata (40 femminicidi, pari all’1,9 per cento del totale) e quello delle
rimanenti tipologie di omicidio tra estranei (sette sataniche, serial killer), con 39
vittime.
Nel 32 per cento dei casi, l’omicidio è la reazione sproporzionata alla
volontà della donna di chiudere il rapporto di coppia. Nel 23 per cento dei casi,
invece, il movente è da ricercarsi in situazioni di conflittualità, anche per motivi
futili (gestione della casa, questioni economiche). Rimane poi la vasta fascia del
disagio comprendente gli omicidi dovuti a un disturbo psichico dell’autore (15,
5 per cento), episodi di raptus apparentemente imprevisti e imponderabili (9, 8
per cento), le malattie e gli handicap della vittima (8,4 per cento).
Molto interessante e allarmante è il dato relativo alle violenze subite
dalla vittima prima di essere uccisa: il 21 per cento delle vittime era oggetto di
violenze di altro genere, peraltro note a terze persone nel 74 per cento dei casi e
persino denunciate nel 47, 2 per cento degli omicidi. Il 65 per cento dei casi noti
aveva subito violenze fisiche, il 40, 2 per cento violenze psicologiche e il 26 per
cento aveva subito stalking. Il 17, 6 per cento delle vittime era già stato
minacciato di morte in precedenza. Il mezzo più frequentemente usato per
uccidere è un’arma da fuoco (31,2 per cento). Seguono le armi da punta e taglio
(31, 1), l’uso di corpi contundenti (13,7), lo strangolamento (9), il soffocamento
(5), le percosse (3,8), la precipitazione (1), il fuoco (1,8) e l’annegamento (1,2).
Nel 40, 5 per cento dei casi l’assassino si suicida o tenta il suicidio dopo il
fatto, nel 14, 6 per cento rimane sul luogo del delitto e nel 16,6 per cento dei casi
decide di costituirsi o di informare la polizia. Nel 16,9 per cento dei casi, però,
l’autore si nasconde o si allontana e, nel 9,8 per cento degli omicidi, tenta di
sottrarsi alla giustizia e riprende addirittura la vita quotidiana.
Oltre la metà delle vittime di femminicidio è composta da donne di età
compresa tra i 25 e i 54 anni (49, 8 per cento del totale. L’incidenza raggiunge il
51 per cento se si considerano i femminicidi familiari). La fascia di età più a
rischio è compresa tra i 35 e i 44 anni, ma sorprendentemente sono le
5
ultrasettantenni le vittime più colpite (472 nell’intero periodo, pari al 22, 9 per
cento del totale). La categoria più a rischio risulta essere quella delle pensionate
(24, 1 per cento del totale), cui segue quella delle casalinghe (16, 2), quindi le
impiegate (12,1), le donne impegnate in attività non legali come le prostitute
(9,6), poi le lavoratrici autonome (7,6), le studentesse (7,6), le domestiche (5,4) e
infine le bambine in età prescolare (3, 7 per cento).
Stalking: definizioni e tipologie. Il termine stalking è stato mutuato dal
linguaggio venatorio e, letteralmente, significa inseguire furtivamente la preda:
poi, però, i significati si sono arricchiti nella letteratura scientifica
internazionale.
In italiano, la definizione più corretta di stalking è stata introdotta da
Curci, Galeazzi e Secchi nel 2003: «sindrome delle molestie assillanti». Le
caratteristiche di tale sindrome sono:
- un insieme di comportamenti di sorveglianza e controllo, ripetuti
e intrusivi, alla ricerca di un contatto con la vittima;
- specifiche interazioni nella coppia molestatore-vittima: distorsione
e/o vera e propria patologia della comunicazione e della
relazione;
- ripetute, indesiderate comunicazioni e/o intrusioni che vengono
inflitte da un individuo a un altro e che producono paura,
cambiamenti nello stile di vita, sofferenza psichica (elemento
fondamentale dello stalking).
La caratteristica principale che differenzia lo stalking dagli altri tipi di
reato è la seguente: si tratta di un crimine prettamente soggettivo, definito dalla
percezione della vittima di essere molestata. Se le ripetute aggressioni di uno
stalker non suscitano paura o angoscia, il reato non sussiste.
Pur essendo un fenomeno trattato nella letteratura e nel cinema da molto
tempo, l’interesse professionale verso questo tipo di reato risale agli anni ’80 del
XX secolo, a seguito di alcune aggressioni psicologiche e fisiche che hanno visto
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come bersagli personaggi famosi della cultura e della politica americana: John
Lennon (1980), il presidente Ronald Reagan (1981), le attrici Theresa Saldana
(1982) e Rebecca Shaeffer (1989), episodio, quest’ultimo, che darà il via alla
prima definizione ufficiale di stalking e alle prime norme legislative.
Nello stesso periodo, le associazioni americane che difendono le vittime
di violenza domestica decidono di adottare il termine per descrivere le azioni
insistenti e invasive degli uomini incapaci di accettare la fine di una relazione
sentimentale con una donna.
Il primo Paese ad adottare una legislazione penale anti-stalking è la
California nel 1990. Da lì in poi è un susseguirsi costante di definizioni, ricerche
e promulgazioni di leggi da parte degli altri Stati americani, fino ad arrivare ad
una legge di portata nazionale che darà il via alla diffusione di una legislazione
ad hoc anche in altri Paesi del mondo.
L’Italia si è dotata di una legge anti-stalking solo nel 2009. Il problema è
che la legge (non priva, peraltro, di notevoli difetti nella formulazione
normativa) da sola non basta: non a caso, da quando è stata introdotta il
numero di donne uccise da ex partner è addirittura cresciuto, nonostante
l’aumento di denunce e richieste di misure cautelari.
La classificazione degli stalker di Mullen, Pathè, Purcell e Stuart
(1999).
È quella più usata dagli studiosi perché definisce meglio di altre le
caratteristiche di personalità e i comportamenti associati ai diversi tipi di
molestatori.
Mullen e coll (1999) analizzano, in particolare, le dinamiche della
relazione vittima-molestatore e la motivazione scatenante che provoca l’inizio
del comportamento persecutorio, individuando cinque tipologie di soggetti.
Il rifiutato.
Questo soggetto, di solito, dà inizio alle molestie dopo aver subito
l’allontanamento da parte di un partner, un familiare, un amico oppure dopo
7
l’interruzione di una relazione professionale. L’interruzione del legame viene
vissuta come insostenibile e il soggetto è disposto a tutto per prolungarlo, anche
se aveva una connotazione angosciante.
Il rifiutato ha una personalità tormentata che oscilla tra il desiderio di
riconciliarsi con l’oggetto del suo amore e quello di vendicarsi per il torto che
percepisce di aver subito: i sentimenti prevalenti sono senso di perdita
mescolato a rabbia, frustrazione, gelosia, rivalsa, malinconia.
La maggior parte di questi soggetti soffre di un disturbo di personalità,
ma ci può essere anche un disturbo delirante a complicare il quadro.
Il cercatore d’intimità.
In questo caso, non esiste un rapporto pregresso con la vittima-bersaglio,
che però viene identificata con il “vero amore” da raggiungere ad ogni costo. Il
soggetto di questa tipologia si convince che la vittima sia la sua anima gemella e
ritiene di essere a sua volta amato e desiderato, anche se la vittima non ne è
consapevole. Il quadro più comune è quello della ricerca di un partner, ma può
riguardare anche la relazione affettiva con un familiare o con un amico. In ogni
caso, l’elemento centrale è il desiderio di creare e di consolidare una relazione
che esiste solo nella mente dello stalker.
Il cercatore di intimità è talmente focalizzato sull’oggetto della sua
ossessione da non considerare minimamente le risposte negative, che vengono
costantemente interpretate come incapacità di avere la stessa consapevolezza di
“essere fatti l’uno per l’altra”. Di solito questo soggetto è un solitario, con pochi
contatti sociali, che riversa tutte le sue attenzioni sulla vittima-bersaglio.
L’incompetente.
Questo soggetto si rende conto che la vittima-bersaglio non ricambia le
sue attenzioni, ma nutre la speranza incrollabile che, perseverando nel suo
comportamento, prima o poi riuscirà a stabilire una relazione intima.
L’incompetente ha un livello intellettivo scarso e una marcata incapacità
sociale che gli rende impossibile stabilire qualunque tipo di relazione umana.
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Proprio per questa povertà di mezzi, le violenze sono caratterizzate da rituali di
corteggiamento spesso rudimentali e inadeguati, che fanno sì che spesso lo
stalking si esaurisca in un lasso di tempo più breve rispetto ad altre tipologie.
Attenzione: questo stalker cambia spesso vittima.
Il risentito (o rancoroso).
Caratteristica principale di questo soggetto è l’esperienza di sentimenti e
di rivalsa. L’obiettivo delle molestie è quello di generare paura e angoscia nella
vittima-bersaglio ritenuta (a torto o a ragione) responsabile di un danno (a sé o
alle persone con cui lo stalker ha un legame). In alcuni casi, la vittima può anche
essere scelta a caso, magari in base a qualche attributo che il soggetto considera
desiderabile in quel momento.
Il risentito può avere la sensazione di essere in lotta contro forze più
grandi di lui, di cui si sente vittima, e quindi si sente giustificato nella messa in
atto di comportamenti persecutori che gli danno una sensazione appagante di
potere e controllo sulla vittima.
Il predatore.
Si tratta del più pericoloso di tutti, perché è socialmente competente e
spesso dotato di caratteristiche antisociali e/o psicopatiche di personalità, che
prende di mira una vittima-bersaglio a scopo di aggressione sessuale. È un
soggetto molto organizzato, che pianifica ogni attacco con cura, prendendosi
tutto il tempo per scegliere la vittima e studiarne le abitudini, per prolungare il
piacere derivante dal senso di potere e di controllo prima dell’attacco vero e
proprio.
Di solito, il predatore ha precedenti per delitti contro la libertà sessuale.
Nella totalità di soggetti studiati da Mullen e coll., gli stalker di sesso
maschile costituiscono la maggioranza in tutte le tipologie, ma si notano due
9
particolari interessanti: i predatori sono sempre maschi, mentre le donne sono
più frequenti tra i cercatori d’intimità (un terzo del totale).
I rifiutati sono quelli che utilizzano il maggior numero di comportamenti
molesti contro la vittima: le assillano più a lungo e passano più facilmente
all’atto aggressivo insieme ai predatori.
Le tipologie “risentito”, “cercatore d’intimità” e “incompetente” si
limitano, di solito, a comportamenti e comunicazioni minacciose piuttosto che
aggredire le vittime.
Le donne autrici di stalking: tipologie e caratteristiche.
Esiste una nutrita casistica di minoranza in cui è la donna a mettere in
atto una serie di molestie. Nell’immaginario collettivo americano, e non solo, è
ben radicata la figura cinematografica di Glenn Close, stalker di Michael
Douglas nel film diretto da Adrian Lyne, Attrazione fatale (1987), pellicola che
terrorizzò il maschio americano facendo crollare vertiginosamente il numero
delle relazioni extraconiugali in concomitanza con la proiezione del film nelle
sale.
Un’analisi comparata delle diverse ricerche condotte sul fenomeno dello
stalking, effettuata da Purcell, Pathé e Mullen (2001), stabilisce una frequenza
variabile tra il 17 e il 22 % delle donne molestatrici. Dal punto di vista
psichiatrico, le donne stalker risultano meno affette da disturbo di sostanze e
disturbo bipolare, mentre sembrano più soggette alla depressione e alla
schizofrenia.
Una differenza fondamentale tra uomini e donne è che il 95 % delle
stalker rientra nelle categorie del rifiutato o del risentito: per la donna è
fondamentale l’esistenza di una precedente relazione – intima o di conoscenza –
con la vittima-bersaglio. Le donne cercano più frequentemente il contatto
diretto con la vittima tramite telefonate, lettere e approcci di vario genere.
Contemporaneamente, passano con maggiore facilità a comportamenti
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aggressivi e orientati al controllo. In molti casi le vittime delle donne stalker
sono altre donne, non uomini.
Profilo psico-patologico degli stalker.
Il primo dato che salta agli occhi esaminando le storie dei molestatori
assillanti è che, nella maggior parte dei casi, non è possibile diagnosticare un
disturbo psichiatrico specifico, anche se, ovviamente, il comportamento è
l’espressione di una struttura patologica della personalità. La malattia mentale è
spesso un comodo alibi invocato a difesa del persecutore, ma non corrisponde -
o almeno non sempre corrisponde – a realtà: lo stalker è perfettamente
consapevole della campagna di molestie messa in atto.
Nei casi in cui entra in gioco un problema psichiatrico, è facile che si noti
la presenza di sintomi schizofrenici, in particolare deliri e allucinazioni. Nella
maggior parte dei casi, il delirio riguarda un’idea fissa romantica per cui lo
stalker si convince di avere un legame spirituale molto forte con la vittima-
bersaglio finché questa idea si radica nel profondo della psiche: qualsiasi
tentativo razionale di farlo desistere è destinato all’insuccesso. Il persecutore
non accetta l’eventualità che l’oggetto del suo amore non ricambi le attenzioni e
non provi lo stesso sentimento nei suoi confronti. La sua convinzione
incrollabile è che, a dispetto delle apparenze, la vittima-bersaglio prova amore
per lui, o quanto meno lo proverà in futuro, per cui anche gli insulti e le risposte
rabbiose vengono interpretate come segni d’incoraggiamento, in una modalità
del tutto distorta.
I deliri possono essere una componente importante anche nei casi di
gelosia ossessiva, quando lo stalker si convince, a dispetto della mancanza totale
di prove a supporto, che il partner gli è infedele: qualsiasi comportamento della
vittima-bersaglio viene interpretato in un’unica direzione, quella di confermare
i suoi sospetti di tradimento. Stesso discorso vale per il risentito, nella cui mente
può essersi formata la convinzione delirante di aver subito un serio torto che,
11
nei casi più gravi, può addirittura assumere le vesti di un complotto delirante di
cui sarebbe la sventurata vittima.
Piuttosto frequenti negli stalker sono anche le alterazioni del tono
dell’umore, sia in positivo che in negativo: nei casi più gravi, si arriva fino al
disturbo bipolare, con marcata oscillazione tra pensieri megalomanici e
disperazione infinita.
Per quanto riguarda l’area dei disturbi della personalità, la diagnosi più
frequente è quella del disturbo borderline, tipico delle personalità che mostrano
notevoli difficoltà a stabilire relazioni interpersonali equilibrate, cosa che le
porta a oscillare dalla totale idealizzazione alla svalutazione completa di una
persona che non viene percepita nella sua unità indissolubile. In un quadro
psichico del genere, il soggetto sperimenta a fasi alterne rabbia, irritabilità,
ansia, tristezza, in particolare se costretto a confrontarsi con momenti di
abbandono (non importa se reale o immaginario). La separazione dall’altro non
è un’opzione da considerare, con conseguenti comportamenti aggressivi volti a
osteggiare il distacco.
Quando entra in gioco la violenza, di solito viene agita in base a due
tipologie collegate al genere di relazione che è stata stabilita con la vittima-
bersaglio. Nella relazione intima, è comune l’esplosione di una violenza
emozionale successiva al vissuto di uno stato di collera indotto da un
atteggiamento della vittima-bersaglio: lo stalker vuole provocare sofferenza in
chi ritiene responsabile di avergli inflitto un maltrattamento (reale o
immaginario), un abbandono o un rifiuto forzato. In una relazione non-intima,
si manifesta invece una violenza predatoria preparata razionalmente, quindi
premeditata, non anticipata da avvisi o minacce in modo da garantire un effetto
sorpresa al momento dell’aggressione.
Le minacce non dovrebbero mai essere sottovalutate: molto spesso,
invece, si commette questo tragico errore. Praticamente tutti gli omicidi
commessi da uomini ai danni delle loro ex compagne potrebbero essere previsti
ed evitati se si prestasse la dovuta attenzione alle minacce e all’escalation di
comportamenti aggressivi che le accompagnano.
12
Le ricerche indicano che, a una maggior durata del periodo di molestie,
corrisponde una minore possibilità di passaggio all’atto violento: la ragione
principale sembra rapportata alla rabbia, per cui il soggetto fa più fatica a
trattenerla se è elevata. Nello specifico, l’esame dei casi il cui esito finale sfocia
nell’omicidio mostra una correlazione con i seguenti elementi:
- assenza di disturbo da abuso di sostanze;
- assenza di psicosi;
- presenza di un disturbo depressivo;
- presenza di un lavoro;
- visite alla casa della vittima durante la campagna di molestie.
La tipologia che più di frequente arriva a commettere un omicidio è
quella del rifiutato.
La scarsa empatia e l’insensibilità nei confronti dei bisogni dell’altro
rendono il soggetto antisociale particolarmente a rischio di agire
comportamenti molesti, perché l’unico criterio che guida le sue azioni è il
proprio tornaconto personale.
Anche il soggetto sofferente di disturbo istrionico di personalità è a
rischio, dato il suo bisogno esasperato di ricevere affetto e attenzioni causato
dalla forte dipendenza affettiva che lo porta ad essere molto sensibile al rifiuto e
a vivere con la paura costante di essere abbandonato e rimanere solo. Un
quadro simile è riscontrabile in un disturbo narcisistico di personalità, per cui il
soggetto affetto ritiene di essere speciale e unico e quindi di meritare ogni
attenzione (in caso contrario può scattare una rabbia incontrollabile).
Gli stalker non possono quindi essere inquadrati in un’unica tipologia
psichiatrica: personalità differenti possono indulgere in comportamenti molesti
ripetitivi, quindi non esiste un unico profilo psicologico né una diagnosi
psichiatrica valida per tutti.
La caratteristica psicologica che accomuna tutti i persecutori che
rientrano nella tipologia dei rifiutati e dei risentiti è quella di non avere la
capacità di elaborare correttamente i sentimenti provocati dalla fine di una
relazione. Se manca la capacità di metabolizzare tristezza, delusioni e sensi di
13
colpa, la perdita non elaborata può sfociare nel bisogno ossessivo di ricreare il
rapporto a tutti i costi.
Meloy (1996) ha proposto un’interpretazione psicodinamica per spiegare
i comportamenti di stalking fondati sulla patologia del narcisismo e
sull’attaccamento, basata sulla classificazione di Bartholomew (1990) dei vari
stili di attaccamento. Secondo questa teoria, lo stalker avrebbe sviluppato uno
stile di adattamento Preoccupato che lo porta ad avere una bassa autostima, a
percepirsi come fragile, non amabile, alla continua ricerca di attenzione e
approvazione da parte delle figure emotivamente significative. Nella relazione,
questo soggetto interagisce con un’intensa emotività e ha paura di essere
abbandonato, motivo per cui cerca sempre di mantenere il controllo, esprime le
mozioni in modo esagerato e soffoca il partner con continue richieste d’affetto,
alle quali si alternano rimproveri a ogni più piccola mancanza.
Ecco che, in un quadro del genere, lo stalking ha la funzione di difendere
il persecutore dalla ferita narcisistica provocata dalla separazione e dalla
perdita.
Una ricerca effettuata da Keinlen e coll. (1997) è arrivata alla conclusione
che la maggior parte dei persecutori è stata vittima di abusi fisici, sessuali ed
emotivi e/o ha sperimentato la perdita o la separazione di chi se ne prendeva
cura nei primi anni di vita. Secondo questa teoria, i maltrattamenti, l’assenza
emotiva e la separazione precoce dalla figura di riferimento contribuirebbero
allo sviluppo di uno stile di attaccamento preoccupato che favorisce, in età
adulta, relazioni conflittuali e impoverite, indebolendo la capacità di mantenere
un rapporto stabile.
Kienlen ha esaminato anche i fattori che precipitano il comportamento di
stalking e ha trovato, nel suo campione d’analisi, che l’80 % aveva sopportato
uno stress o una perdita nei sette mesi precedenti l’inizio della campagna di
molestie: il 43,7 % più di un fattore di stress, mentre il 47, 9 % aveva vissuto la
rottura di un rapporto sentimentale e la stessa percentuale una perdita del
lavoro. Gli eventi particolarmente stressanti minano l’identità e l’autostima dei
soggetti più fragili, che non hanno gli strumenti per affrontarli e quindi
14
decidono di tormentare la loro vittima per diminuire l’angoscia e sfogare i
sentimenti di collera.
In Italia, una ricerca effettuata da Gargiullo e Damiani (2008) ha
riscontrato che una delle più importanti caratteristiche comportamentali dello
stalker è quella di non essere capace di accettare il rifiuto perché si percepisce
come la sola e unica vittima della situazione. Questo soggetto ha bisogno di
ricevere una qualsiasi forma di risposta emotiva – amore, rabbia, compassione,
odio – ma non è in grado di sopportare una non risposta come il silenzio o
l’indifferenza, perché prova un’angoscia insostenibile e deve passare all’atto
(aggressivo). La non accettazione del rifiuto è accompagnata, secondo gli
Autori, da tratti ossessivo-compulsivi: sotto il profilo ossessivo, l’esistenza dello
stalker si polarizza totalmente attorno alla vita della vittima-bersaglio, attraverso
la manifestazione di una serie di pensieri intrusivi; dal punto di vista
compulsivo, i tratti tipici sono la coazione a ripetere, l’ipercontrollo
generalizzato, la tendenza alla morbosità e alla vischiosità che paralizzano la
vittima.
Gli Autori elencano anche le caratteristiche comportamentali che
vengono riscontrate più frequentemente nella personalità degli stalker:
1) incapacità di accettare il rifiuto (reale o immaginario), vissuto
come un’offesa personale intollerabile che provoca angoscia e
ostilità spesso sfogate attraverso azioni aggressive;
2) presenza della “visione a tunnel”: modalità di pensiero rigida che
consiste nella focalizzazione esclusiva (fissazione ideo-affettiva)
per cui il molestatore polarizza tutta la sua vita su quella della
vittima, arrivando ad alterare i confini tra realtà e fantasia:
diversi stalker si autoconvincono di essere amati dalla persona
che scelgono come bersaglio, credono che esista un rapporto
affettivo o che, prima o poi, riusciranno a instaurare una
relazione sentimentale;
3) tendenza a manipolare l’ambiente in tutti i modi possibili per
cercare di ottenere informazioni utili per avvicinare la vittima:
15
è una forma di stalking “per procura”, in cui il molestatore
utilizza terze persone (familiari e/o amici della vittima,
investigatori, etc.) che possono essere o meno consapevoli del
ruolo giocato dalla sua ossessione.
Le strategie comportamentali attuate dagli stalker per mantenere il
contatto con la vittima possono essere molto diverse, soprattutto nei casi in cui
ci sia stato veramente un rapporto (categoria dei rifiutati) o il soggetto voglia
riconquistare l’ex partner:
- invio di regali (oggetti costosi, fiori, lettere d’amore);
- messa in atto di comportamenti generosi (pagamento della rata
del mutuo, accollo di un debito);
- false promesse (“non voglio costringerti a tornare con me, ciò che
desidero è solo amicizia”);
- manifestazione di atteggiamenti vittimistici (inventare di soffrire
di una grave malattia per creare allarme e attirare l’attenzione);
- creazione e sfruttamento di sensi di colpa (“tu sei l’unica persona
che possa veramente capirmi, non posso parlarne con nessun
altro”);
- messa in atto di comportamenti ricattatori (“racconterò ai nostri
figli che ti sei separata solo perché ti piace la bella vita”);
- Aggressioni verbali e fisiche.
Molto importante anche l’interpretazione di Galeazzi e Curci (2001), che
considerano lo stalking come una distorsione e/o una vera e propria patologia
della comunicazione e della relazione. Gli Autori introducono il concetto di
“malinteso originario” che sarebbe alla base del fenomeno: una disparità di
percezione tra stalker e vittima per cui il primo interpreta come segnali d’affetto
e addirittura d’amore dei comportamenti di mera cortesia da parte della
seconda. A volte l’ambiguità può essere amplificata da situazioni sociali che
favoriscono interazioni emotive facilmente fraintendibili (pranzi di lavoro,
vacanze comuni in località turistiche, magari in un villaggio dove si resta
vittime della vicinanza forzata).
16
Appare evidente che lo stalking è una patologia della relazione e le
dinamiche, reali o immaginarie, della comunicazione sono un elemento
fondamentale per comprenderne lo svolgimento.
Da diversi anni attivo in Italia, l’Osservatorio nazionale sullo stalking
presieduto da Massimo Lattanzi afferma come la sola coercizione non sia uno
strumento sufficiente a tutelare la vittima e che l’unico modo per cercare una
soluzione sia aiutare lo stalker a prendere coscienza dei propri meccanismi
mentali mediante un “percorso di risocializzazione”: dal 2007, l’Osservatorio ha
istituito il Centro presunti autori, dove viene offerto un aiuto psicologico
gratuito al molestatore che ha già messo in atto il comportamento patologico
oppure lo sta immaginando. La terapia dura dai diciotto ai ventiquattro mesi. Il
Centro lavora anche all’interno del carcere di Rebibbia, allo scopo di prevenire
eventuali recidive, e dentro le scuole, per educare gli studenti al rispetto per
l’altro sesso.
Le vittime dello stalking.
A seconda della tipologia in cui rientra il molestatore, le vittime primarie
(dirette) dello stalking possono essere molto diverse.
Ex intimi.
Un gruppo considerevole di vittime è composto da persone che hanno
intrattenuto una relazione intima col molestatore. L’intimità è normalmente (ma
non sempre) di tipo sessuale. Sebbene molte vittime riferiscano di essere state
molestate anche durante la relazione, a rigor di termini lo stalking inizia solo
quando la vittima comunica in modo netto il desiderio di terminare la
relazione. Queste vittime, in maggior parte di sesso femminile, subiscono
stalking insistente e duraturo, in cui vengono utilizzati diversi metodi di
molestie. I molestatori, più frequentemente di altri, minacciano, aggrediscono
fisicamente e procurano danni alla proprietà. In linea di massima, quanto più è
intenso l’investimento affettivo dello stalker sulla vittima, tanto più prolungate
sono le molestie, specie se il molestatore e la vittima hanno figli in comune.
17
Amici e conoscenze occasionali.
La maggior parte delle vittime di sesso maschile appartiene a questa
categoria. Di solito, le molestie cominciano dopo un incontro sociale casuale o
dopo il fallimento di un’amicizia, oppure possono sorgere nel contesto di una
lite tra vicini (cenni allo stalking condominiale). Le vittime possono essere il
bersaglio di attenzioni da parte di un innamorato che vuole iniziare una
relazione, della rabbia di un conoscente rifiutato o di un vicino rancoroso. Di
solito queste vittime non subiscono violenze comparabili a quelle degli ex
intimi, sia per intensità che per durata: alcuni casi di molestie tra vicini si
concludono, però, col trasloco della vittima.
Contatti professionali.
Alcune professioni, come l’insegnante, lo psicoterapeuta, l’avvocato o
l’operatore sanitario, sembrano più soggette ad attirare Molestie Assillanti.
Ogni professione che entra in contatto con individui isolati e facilmente portati
a fraintendere l’offerta di aiuto e l’empatia come segno di interesse
sentimentale, è potenzialmente a rischio di subire molestie da parte di stalker in
cerca di intimità.
Le “professioni d’aiuto”, dove si instaura cioè una relazione in qualche
modo intima e confidenziale (con disparità di ruoli) fra il prestatore d’opera e
l’utente/cliente, sono di sicuro quelle più a rischio.
Nella letteratura internazionale, è nota la possibilità che gli Operatori
Socio-Sanitari (OSS) possano trovarsi a fronteggiare episodi di molestie nel
corso della loro carriera professionale. Un’indagine condotta da Pathè, Mullen e
Purcell (2002) ha evidenziato un’alta percentuale di vittimizzazione all’interno
delle professioni sanitarie a causa del contatto con persone sole e/o disturbate.
Una ricerca condotta in Italia da Galeazzi, Elkins e Curci (2005) ha esaminato
361 OSS psichiatrici: il 32 % del totale si è descritto vittima di almeno un
episodio di molestie e l’11 per cento di stalking vero e proprio.
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Diversi autori, tra i quali Sandberg, McNiel e Binder (1998), hanno
riscontrato che gli OSS tendono a non denunciare i casi di stalking alle forze
dell’ordine, perché mettono in atto la negazione e la minimizzazione, due
meccanismi di difesa comuni quando si accorgono di attenzioni moleste da
parte dei pazienti: questo atteggiamento è dovuto al fatto che le intrusioni nella
vita privata sono viste come un momento imprescindibile di una professione
che implica stretti contatti con persone sofferenti di problemi emotivi,
relazionali e psichici. Un altro fattore che limita le denunce di stalking da parte
di OSS è il timore di essere accusati di incompetenza, come se affermare di
essere diventati delle “vittime” possa suscitare scetticismo tra i colleghi. Sia nel
campione della ricerca italiana che in uno studio inglese del tutto analogo,
risulta che la modalità di reazione più comune in risposta alle molestie sia
quella di cercare aiuto tra i colleghi, cercando di tenere fuori dalla vicenda
familiari e amici.
Secondo la classificazione di Pathè e Mullen, le due tipologie di stalker
riscontrabili più frequentemente nelle molestie contro gli OSS sono
l’incompetente e il risentito: il primo sviluppa con l’OSS un attaccamento
romantico di tipo infantile; il secondo ritiene di aver subito un grave torto (non
importa se reale o immaginario) dall’OSS, perciò lo accusa di non aver saputo
gestire nel modo giusto la relazione terapeutica e/o l’intervento professionale
(nel campione italiano, il 42, 5 % delle vittime considera l’inizio degli episodi di
molestie come fraintendimento degli obiettivi della relazione di cura,
considerata invece come relazione intima).
Esistono dei fattori facilitanti che rendono più probabile lo stalking
proprio in questo tipo di relazioni professionali:
1) presenza di un malinteso su limiti, significato e regole della relazione
professionale;
2) condizioni di “vulnerabilità relazionale” nel molestatore
comprendenti isolamento sociale, immaturità affettiva collegata all’età, stili di
attaccamento e tratti di personalità disfunzionali, mancanza o carenza di abilità
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sociali e della capacità di interpretare correttamente i segnali non verbali
dell’interlocutore;
3) carattere di particolare intimità proprio di alcune relazioni
professionali (psichiatra-paziente), che possono creare un fuorviante senso di
confidenza;
4) fraintendimento dell’utente/cliente dell’obbligo contrattuale e della
responsabilità del professionista;
5) brusca interruzione di un rapporto terapeutico.
Altri contatti lavorativi.
Questa categoria comprende vittime molestate dai datori di lavoro, dai
dipendenti, dai colleghi e dai clienti. In questi ambiti, i molestatori di solito
appartengono al tipo dei corteggiatori inadeguati, in cerca d’intimità o
rancorosi.
Sconosciuti.
Questo gruppo comprende le vittime che non hanno avuto alcun
contatto col molestatore prima dell’inizio dei comportamenti sgraditi. I
molestatori, di solito, sono cercatori d’intimità che tentano di iniziare una
relazione o stalker del tipo predatore che stanno organizzando un’aggressione
sessuale. Le vittime possono essere di entrambi i sessi, adulti o bambini, di
solito scelte per le loro caratteristiche fisiche, per il loro status sociale o, nel caso
dei molestatori telematici, per la versione di queste stesse caratteristiche
fantasticata nella propria mente disturbata.
Personalità pubbliche.
Comprendono persone note nel mondo dello spettacolo e dello sport,
politici e governanti, membri di famiglie reali, che tendono ad attirare
molestatori in cerca d’intimità, corteggiatori inadeguati e rancorosi. I mass
media alimentano un senso di pseudointimità con i personaggi famosi tale da
“riempire” il vuoto di intimità autentica e da suscitare eventualmente
comportamenti di Molestie Assillanti. Molestatori rancorosi possono anche
20
prendere di mira personalità pubbliche nella loro veste (chiaramente
disprezzata) di simbolo di potere e di successo.
Come distinguere un caso reale di stalking da semplici comportamenti
fastidiosi?
Il Centro di Terapia Strategica di Arezzo, diretto da Giorgio Nardone,
propone un modello di intervista da sottoporre alla presunta vittima che
denuncia un caso di Molestie Assillanti, allo scopo di comprendere nella
maniera più precisa possibile la situazione concreta. Si base di un modello
basato sulle tecniche di indagine di dialogo strategico.
Il primo modello fondamentale dell’intervista è fare una serie di
domande con due alternative “secche” di risposta, allo scopo di definire con
chiarezza se il comportamento molesto sia effettivamente stalking o espressione
di altro tipo di difficoltà. Le risposte vanno verificate con riassunti neutri,
evitando qualunque tipo di giudizio o suggestione, fino a quando non siano
stati raggiunti tutti gli elementi necessari per inquadrare o meno la fattispecie
nell’ambito delle Molestie Assillanti.
Il femminicidio: uomini che uccidono le donne.
Il termine (orrendo) “femminicidio” si riferisce alle violenze perpetrate
dagli uomini alle donne in quanto tali, ovvero in quanto appartenenti al genere
femminile. Questo delitto comprende anche tutti i casi di omicidio in cui una
donna venga uccisa da un uomo per motivi legati alla sua identità di genere.
In lingua inglese, il termine femicide era già usato in Inghilterra nel 1801
per indicare l’uccisione di una donna. In tempi moderni, il termine è stato
utilizzato dalla criminologa Diana Russell nel 1992. La Russell ha identificato
nel femminicidio una vera e propria categoria criminologica: la violenza
estrema di un uomo contro la donna “perché donna”, ovvero una violenza
esercitata come esito di un atteggiamento misogino.
Nel 1993, l’antropologa messicana Marcela Lagarde ricorre al termine
“femminicidio” per comprendere
21
La forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione
dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine –
maltrattamenti, violenza fisica, psicologica, sessuale, educativa, sul lavoro, economica,
patrimoniale, familiare, comunitaria o anche istituzionale – che comportano l’impunità
delle condotte poste in essere tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la
donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare nell’uccisione o nel
tentativo di uccisione della donna stessa, in altre forme di morte violenta di donne e
bambine: suicidi, incidenti, morti o sofferenze fisiche e psichiche comunque evitabili,
dovuti all’insicurezza, al disinteresse delle istituzioni e alla esclusione dallo sviluppo e
dalla democrazia.
Il termine è stato ripreso e diffuso da numerosi studi di sociologia,
antropologia, criminologia e usato negli appelli internazionali lanciati dalle
madri delle ragazze uccise a Ciudad Juarez (dove le fonti ufficiali parlano di 740
donne uccise tra il 1993 e il 2009 e di 4500 donne scomparse tra il 1993 e il 2004).
Il 25 giugno 2012 Rashida Manjoo, relatrice speciale delle Nazioni Unite
per la lotta contro la violenza sulle donne, ha presentato un Rapporto completo
e aggiornato sugli omicidi di genere a livello globale, risultato di visite sul
campo, colloqui con i governi e con le associazioni civili.
Le forme di femminicidio elencate dal Rapporto sono molteplici e
travalicano i confini culturali, religiosi e di status sociale. Ognuna di esse
meriterebbe un’analisi dettagliata:
- delitti passionali e d’onore;
- uccisioni di donne in situazioni e zone di guerra;
- donne bruciate a causa della dote in alcuni Stati dell’Asia
meridionale;
- omicidi delle donne indigene e aborigene;
- forme estreme di accanimento sui corpi delle donne assassinate
dalla criminalità organizzata o da gruppi paramilitari;
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- uccisione di donne accusate di stregoneria e di magia in alcuni
Paesi dell’Africa, dell’Asia e delle isole del Pacifico;
- delitti a causa dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere
o altre forme estreme come la pratica del sati (le vedove indiane
indotte a bruciarsi vive sulla pira funebre del marito);
- aborto dei feti di sesso femminile e infanticidio delle bambine in
Cina, India e Bangladesh.
Accanto a queste forme dirette, esistono anche forme indirette di
femminicidio, come i decessi delle madri causati da aborti clandestini, quelli
legati al traffico di esseri umani, al crimine organizzato, alla mancanza di cure
mediche e di un’alimentazione adeguata per le bambine, le morti dovute a
pratiche come le Mutilazioni Genitali Femminili (MGF).
Negli ultimi anni, il termine “femminicidio” viene usato anche in Italia e
si è creata una percezione sociale di questo fenomeno. Anche se le cifre non
vengono raccolte in modo sistematico e a livello istituzionale, dal 2005 i Centri
Antiviolenza raccolgono i dati delle donne uccise dai casi riportati dalla stampa.
Nel 2012, anno in cui l’EURES ha pubblicato la prima ricerca specifica sul
femminicidio, intitolata Il femminicidio in Italia nell’ultimo decennio, circa il 70 %
delle donne uccise in Italia è morta per mano di uomini con cui avevano – o
avevano avuto – una relazione sentimentale (mariti, compagni, ex mariti, ex
compagni). La maggior parte degli omicidi avviene a casa della coppia, della
vittima o dell’assassino. Circa l’ottanta per cento delle donne uccise è di
nazionalità italiana, così come gli autori dell’omicidio. La maggior parte di loro
vive nell’Italia settentrionale.
La condizione delle donne in Italia non è affatto buona, come risulta
dall’analisi effettuata nel 2012 dal World Economic Forum: l’Italia risulta
all’ottantesimo posto nella classifica mondiale (piazzandosi dopo Paesi come
Ghana, Botswana, Kenya e Perù) sulle disparità di genere, con livelli
d’istruzione, partecipazione politica, tutela della salute, opportunità lavorative
e disparità economiche e salariali generalmente inferiori per le donne rispetto
agli uomini. Nel già citato Rapporto stilato per l’ONU da Rashida Manjoo, si
23
segnala come l’Italia sia l’unico Paese europeo ad esser stato richiamato
(insieme al Messico, per la cronaca) dalla Convention on the Elimination of all
Forms of Discrimination against Women (CEDAW).
Dalla violenza domestica al femminicidio.
Il posto più pericoloso per una donna è la propria casa.
Se un compagno o un marito uccide la “propria” donna, non si tratta
quasi mai di un raptus improvviso sorto dal nulla. Di solito esiste un percorso
in cui la violenza aumenta progressivamente, da saltuaria diventa episodica,
regolare, fino a sfociare nel femminicidio.
Facendo una sintesi dei contributi di diversi studiosi del settore, si
possono identificare delle fasi che vanno a comporre il modello generale di
violenza coniugale esercitata dagli uomini verso le donne:
1. La prima fase corrisponde ad uno stato di tensione e di irritabilità
in cui l’uomo si fa innervosire da qualsiasi cosa dica la donna, a
prescindere dai contenuti della comunicazione. La violenza è
qui ancora sfumata, sottocutanea, e si manifesta con piccoli
segni, come un cambiamento del tono della voce, l’intensificarsi
di silenzi ostili e di sguardi minacciosi. La donna si sforza di
essere gentile e comprensiva per non alimentare la tensione, ma
più lei è paziente più cresce la rabbia.
2. La seconda fase è quella delle prime aggressioni reali: l’uomo
grida, insulta, minaccia, lancia oggetti a terra o contro la donna,
azioni a cui possono seguire schiaffi, spinte o altre condotte
violente. In alcuni casi, l’uomo usa il sesso come mezzo per
rafforzare o ristabilire la situazione di potere. Non sempre si
arriva alla violenza fisica, ma l’intimidazione cronica può essere
altrettanto devastante perché annulla la capacità di reazione
della donna, impedendole spesso di provare sentimenti di
rabbia e determinando paura, tristezza e impotenza. Le
24
microviolenze verbali e psicologiche indeboliscono
progressivamente le resistenze della donna.
3. La terza fase è quella delle scuse. Quando si accorge che sta
passando di segno e che la donna è troppo spaventata, l’uomo
tende a minimizzare il proprio comportamento cercando delle
giustificazioni. Spesso colpevolizza la compagna perché lo ha
provocato. A volte chiede perdono, giura che non succederà più
e può anche promettere di rivolgersi a uno psicologo. A volte
l’uomo tira in ballo la sua infanzia triste o drammatica e, se la
donna è troppo esasperata, lui ricorre alla minaccia del suicidio
(per cercare, ancora una volta, di far leva sul senso di colpa).
Spesso in questo periodo la donna è oggetto di un
“bombardamento amoroso”, ma si tratta solo di una seduzione
narcisistica per affascinare la compagna, paralizzarla e ottenere
più potere su di lei.
4. La quarta fase è quella più deleteria per la donna perché è il
momento in cui lei torna dentro l’illusione e vuole credere che
lui sia cambiato, tornando il compagno premuroso del quale si
era innamorata. Quando l’uomo è di nuovo sicuro di aver
ristabilito il suo ascendente sulla donna, la spirale di violenza
ricomincia. E può arrivare agli esiti più drammatici.
Gli uomini che si spingono al limite e uccidono la propria
compagna mostrano dei tratti in comune tra loro:
- immaturità affettiva, traducibile nell’incapacità di stabilire una
relazione di fiducia reciproca fondata sulla parola e sull’ascolto;
- egocentrismo profondo, che porta a considerare inesistenti e
ininfluenti le ragioni altrui;
- presenza di un temperamento impulsivo;
- difficoltà di comunicazione;
- fragilità e timidezza, spesso mascherata da una facciata di
spavalderia, con presenza di tratti fobici e ossessivi;
25
Sintetizzando i risultati degli studi che indagano sulle motivazioni
che spingono l’uomo ad agire varie forme di violenza domestica, Dobash
e Dobash (1992) spiegano che:
Le quattro fonti principali del conflitto che porta ad attacchi violenti sono
la possessività e la gelosia degli uomini, le aspettative maschili sul lavoro
domestico delle donne, il presunto diritto di punire le donne per quelle che sono
ritenute delle trasgressioni e l’importanza per gli uomini di mantenere o
esercitare una posizione di autorità.
Un fattore importante per comprendere il motivo che spinge
molte donne a sopportare mariti violenti è il ruolo di genere femminile,
interiorizzato ma anche imposto dall’ambiente sociale, come ben
delineato nel 2004 da Giovanna Ponzio:
Chi lavora quotidianamente con le donne vittime di violenza ne conosce i
sensi di colpa e il senso di diffidenza e sospetto che suscitano se decidono di
allontanarsi dal partner. Il fatto che fin da bambine abbiano interiorizzato come
“qualità” femminili il sopportare, il saper tacere, l’abnegazione, la disponibilità
totale e la responsabilità del buon andamento della relazione, può produrre già di
per sé un’asimmetria nella coppia in quanto codifica che da tali “virtù” ci sia
qualcuno che trae vantaggio.
(…)
Essere sempre disponibili appare fin dall’infanzia alle bambine come una
“virtù” indispensabile, soprattutto nella relazione con il partner. È una “virtù”
che mette sempre l’altro al primo posto e che, spinta all’eccesso, non produce un
accumulo di qualità ma la perdita di spazio e di autonomia, favorendo la
dipendenza.
Le ricerche effettuate sugli uomini che maltrattano evidenziano
come la loro violenza sia una sorta di perversa estrinsecazione di una
26
profonda insicurezza. Solo una minoranza di comportamenti violenti è
autenticamente riconducibile alla patologia vera e propria.
L’ONU e l’Unione Europea definiscono violenza di genere una
violenza che si annida nello squilibrio relazionale tra i sessi e nel desiderio di
controllo e di possesso da parte del genere maschile su quello femminile.
La letteratura internazionale elenca diverse tipologie di violenza
contro le donne:
1. Atti persecutori.
2. Matrimoni forzati.
3. Mutilazioni Genitali Femminili o ablazione.
4. Tratta di donne e di bambine.
5. Violenza economica.
6. Violenza fisica.
7. Violenza psicologica.
8. Violenza sessuale e abusi sessuali.
La Spagna si è dimostrata all’avanguardia per ciò che riguarda
prevenzione e repressione della violenza domestica. Già nel 1998, il governo ha
varato il primo piano d’azione contro la violenza domestica. Nel 2005, poi, è
entrata in vigore la Legge integrale contro la violenza di genere, che considera
quelle coniugali violenze sessiste, frutto di un sistema nel quale le donne
subiscono numerose discriminazioni. La repressione, si stabilisce, deve essere
accompagnata da un lavoro di prevenzione degli abusi e delle diseguaglianze
tra i sessi. La legge prevede anche la formazione e il coordinamento di
professionisti in vari settori: medici, forze dell’ordine, avvocati, magistrati,
psicologi, assistenti sociali, in modo che le vittime possano ricorrere in ogni
momento a specialisti della materia.
La nuova normativa prevede poi la creazione di servizi di informazione
attivi 24h/24, che garantiscano un primo aiuto legale e psicologico, oltre a
centri di emergenza e di recupero per le donne e per i loro figli. L’assistenza
legale specializzata deve essere gratuita e sono previsti contributi economici che
consentano alle vittime di iniziare una nuova vita, oltre a un fondo per pagare
27
loro gli alimenti. Le vittime usufruiscono inoltre di trattamenti speciali nel
lavoro, come l’adattamento dell’orario alle loro esigenze, mobilità geografica,
etc. Giudici specializzati in materia decidono le misure di protezione a seconda
della gravità del caso: dall’allontanamento dell’aggressore dall’abitazione di
famiglia all’interruzione di ogni contatto e comunicazione con la vittima, fino
alla revoca della potestà genitoria o alla sospensione del regime di visite ai figli.
Diventano più severe le pene da scontare: le minacce lievi possono essere
punite con un periodo di detenzione da tre mesi a un anno. In caso di lesioni, la
pena aumenta fino a cinque anni. Una volta in carcere, i condannati dovranno
seguire programmi specifici per evitare le recidive.
Il momento della separazione è il più delicato: in questa fase avviene
circa un terzo del totale delle violenze e degli omicidi. Quasi sempre è l’uomo a
uccidere la donna, quasi sempre è la donna a prendere la decisione di separarsi
e/o divorziare: questo evento assume per l’uomo un particolare significato
drammatico, andando a costituire quello che Sorgato (2010) definisce il “Colpo
di Abbandono Improvviso” (CAI). In base alle sue ricerche, il CAI è descritto
nel modo seguente:
1. Il CAI sembra essere la matrice delle condotte degli stalker.
2. Durante i colloqui, gli uomini in terapia definiscono il CAI come uno
“tsunami emotivo affettivo” che trasformerà per sempre la loro vita:
da quel preciso momento i valori, gli obiettivi e gli affetti precedenti
non esistono più.
3. Gli uomini che subiscono il CAI non possono fare a meno di agire
quella specifica serie di comportamenti di tipo persecutorio che
percepiscono come funzionali al loro benessere, che sedano la loro
ansia e che contengono la paura.
Anche in Francia, a partire dal 2005, sono stati elaborati dei progetti
triennali di lotta alla violenza contro le donne che rispondono alle direttive
europee. Una legge, entrata in vigore nel 2006, rafforza prevenzione e
repressione delle violenze all’interno della coppia, allargando l’applicazione
28
delle aggravanti ai conviventi e agli ex e rendendo più semplice
l’allontanamento degli autori di maltrattamenti dal domicilio delle vittime.
In aggiunta, diventa crimine la violenza sessuale tra coniugi quando
abbia come scopo l’asservimento della vittima. Sempre più di frequente,
psicologi ed esperti francesi avanzano la richiesta di eliminare la parola
“passionale” dalla descrizione degli omicidi commessi da uomini contro le ex
compagne: la passione sarebbe elemento positivo e non potrebbe, in
quest’ottica, essere associata alle mattanze.
Lipperini e Murgia (2013) dichiarano con forza che, in molti casi, la
rappresentazione mediatica del femminicidio data dai mass media in Italia è
colpevolmente errata: alcuni titoli di giornale apparsi negli ultimi anni rischiano
di essere fuorvianti, perché sembrano propalare l’immagine di un uomo da
compatire (“l’amavo più della mia vita”; “l’ho uccisa durante un lungo
abbraccio”) e verso il quale mostrare comprensione per l’incapacità di vivere
senza la “sua” amata. Le Autrici propongono di eliminare la parola “amore”
dalla descrizione di un contesto nel quale è avvenuto un omicidio, ma non basta
togliere la parola dai giornali: è anche e soprattutto necessario eliminarla dalle
nostre teste, altrimenti finiamo inconsapevolmente con lo spostare la
responsabilità dal carnefice (incapace di sopportare l’abbandono) alla vittima
(responsabile dell’abbandono).
Lanciando un’evidente provocazione, Lipperini e Murgia arrivano a dire
che, se l’uomo non sarà in grado di modificare la percezione della donna come
“cosa sua”, allora sarebbe auspicabile la nascita di società separate, comunità
omosessuali, come in alcune specie di animali. I cinghiali, per esempio, vivono così. Se
non riusciremo più a convivere ci separeremo, andando a vivere in due territori diversi,
che varcheremo solo per procreare come fanno i cinghiali. I quali, com’è noto, non
praticano l’omicidio su base sessuale, come del resto la maggior parte degli animali.
Nessuna donna è al sicuro: le vittime che hanno più di sessant’anni.
In tutto il 2012, in Italia sono state uccise 127 donne. Ben 48 tra queste
avevano più di sessant’anni, a dimostrazione del fatto che una donna
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impegnata in una relazione con un uomo non può ritenersi “salva” in nessuna
fascia di età. Tra queste, venti sono state uccise dal proprio marito, compagno o
amante.
Il sentire comune percepisce che le passioni si affievoliscono col passare
degli anni, ma questo assunto non vale per il femminicidio, visto che i crudi
dati numerici raccontano un’altra storia. Anche dopo i 60, la gelosia, il senso di
possesso o la crisi post-abbandono degli uomini sono sempre presenti. Di più:
l’età avanzata preclude la speranza di potersi “rifare una vita”, di trovare nuovi
affetti e di non trascorrere la vecchiaia da soli (pensiero insostenibile per molti).
La psicologa Silvia Vegetti Finzi analizza le problematiche specifiche dei
rapporti quando i partner si trovano a dover fronteggiare il tema della
vecchiaia:
Quello che si nota sempre di più è l’incapacità di accettare la vecchiaia. Siamo
sempre meno capaci di modulare il tempo e di dare alla vita il colore che spetta alle varie
stagioni. Aumentano le separazioni degli ultrasessantenni come se a tutti i livelli di età
si potesse sempre ricominciare. Crescono le tensioni tra le coppie che si lasciano dopo
tanti anni. Spesso però si scopre che dietro l’idea di una vita nuova ci sono solo illusioni
e, quando lo si capisce, si passa attraverso la sofferenza, si arriva alla disperazione.
Lo strano caso di don Piero Corsi e del suo “manifesto” sul
femminicidio.
«Le donne e il femminicidio. Facciano sana autocritica: quante volte
provocano?». È questo il titolo del tanto contestato volantino comparso (e poi
subito scomparso) il 24 dicembre del 2012 nella bacheca della parrocchia di San
Terenzo di Lerici. A scriverlo e ad affiggerlo è stato il parroco don Piero Corsi,
che si è trovato – per ovvie ragioni - nel mezzo di una furiosa polemica.
Sul volantino il sacerdote riprendeva un articolo del sito ultraintegralista
Pontifex.it: «Una stampa fanatica e deviata attribuisce all'uomo che non
accetterebbe la separazione la spinta alla violenza. Possibile che in un sol colpo
30
gli uomini siano impazziti? Non lo crediamo. Il nodo sta nel fatto che le donne
sempre più spesso provocano, cadono nell'arroganza, si credono
autosufficienti e finiscono con esasperare le tensioni».
«Bambini abbandonati a loro stessi, case sporche, piatti in tavola freddi e
da fast food, vestiti sudici. Dunque se una famiglia finisce a ramengo e si arriva
al delitto (forma di violenza da condannare e punire con fermezza), spesso le
responsabilità sono condivise», si legge sul volantino.
E poi ancora, in merito alla violenza sessuale: «Quante volte
vediamo ragazze e signore mature circolare per strada con vestiti provocanti e
succinti? Quanti tradimenti si consumano sui luoghi di lavoro, nelle palestre e
nei cinema? Potrebbero farne a meno. Costoro provocano gli istinti peggiori e
poi si arriva alla violenza o abuso sessuale (lo ribadiamo. Roba da mascalzoni).
Facciano un sano esame di coscienza: forse questo ce lo siamo cercate anche
noi?
Basterebbe, per esempio, proibire o limitare ai negozi di lingerie
femminile di esporre la loro mercanzia per la via pubblica per attutire certi
impulsi; proibire l’immonda pornografia; proibire gli spot televisivi erotici,
anche in primo pomeriggio. Ma questa società malata di pornografia ed
esibizionismo, davanti al commercio, proprio non ne vuol sapere: così le donne
diventano libertine e gli uomini, già esauriti, talvolta esagerano».
Alcune parti di questo “manifesto” sono particolarmente gravi perché
forniscono delle false giustificazioni morali che possono essere utilizzate da
tutti gli uomini violenti. Definire le donne “arroganti”, considerare
l’“autosufficienza” ricercata dalle donne come un peccato e tirar fuori la vecchia
storia dei vestiti “provocanti e succinti” come causa di slatentizzazione di istinti
animaleschi nei maschi non merita ulteriori commenti.
Dopo essere stato costretto a ritirare il volantino, Don Corsi non ha
mostrato alcun segno di contrizione o pentimento. Il caso ha suscitato tale
clamore che la Santa Sede è stata obbligata a prendere pubblicamente le
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distanze dalle affermazioni di Don Corsi tramite una dichiarazione rilasciata
dal Presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia.
Il problema è che, accanto alle reazioni di condanna, com’era facile
prevedere, ci sono state anche parole di sostegno per Don Corsi, a riprova di
quanto lavoro ci sia da fare per scardinare un certo tipo di pensiero maschilista
e retrivo che ritiene le donne, almeno in parte, responsabili delle violenze di cui
sono vittime.
I dati su stalking e maltrattamenti del 2012 e del primo semestre 2013.
Le misure cautelari (carcere, arresti domiciliari, allontanamento coatto,
obbligo di dimora) adottate per i reati di stalking, violenza sessuale e
maltrattamenti sono passate dalle 200 del 2011 alle 269 del 2012 (aumento del 33
%). Da gennaio a giugno 2013, sono stati 143 i provvedimenti adottati, con una
proiezione sull’intero anno che segna un 10 % di ulteriore aumento. Sono
aumentati anche gli arresti in flagranza: dai 114 del 2011 ai 160 del 2012 (+50 %).
All’interno di questi dati, lo stalking è il reato maggiormente in crescita:
sempre in riferimento alle misure cautelari, si è passati da 55 casi (2011) a 83
(2012) a 52 per il solo periodo gennaio-giugno 2013. Si registra anche un forte
aumento percentuale dei maltrattamenti, dato che nei primi sei mesi del 2013 si
è verificato un numero di casi già uguale a quello di tutto il 2011 (54 casi contro
59, nel 2012 sono stati 86). In crescita sono anche i casi di violenza sessuale.
Le donne risultano essere vittime in oltre il 90 % dei casi e uno dei fattori
scatenanti di questo incremento di violenza è senz’altro la crisi economica, che
esaspera situazioni di tensione preesistenti. Va, però, contestualmente notato
come questi reati, in special modo stalking e maltrattamenti, siano decisamente
trasversali dal punto di vista sociale.
I dati segnalano anche un aumento dei casi di stalking “al femminile”. In
molti casi, però, le minacce femminili vengono derubricate a semplici molestie,
mancando l’elemento della concreta minaccia fisica quando l’oggetto della
persecuzione sia un uomo (mah…).
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Il primo Rapporto mondiale sulla violenza contro le donne.
Il 20 giugno 2013, l’OMS ha presentato i risultati del più grande studio
mai condotto sugli abusi sessuali subiti dalle donne in tutte le zone del mondo,
in totale 141 ricerche effettuate in 81 Paesi:
- il 35 % delle donne diventa vittima di qualche forma di violenza
nel corso della sua vita. La più comune è quella compiuta da
mariti e fidanzati (30 %).
- il 38 % di tutte le vittime di omicidio viene ucciso dal partner
(contro il 6 % di uomini uccisi dalle loro compagne);
- il 42 % delle donne che hanno subito violenza fisica o sessuale da
uomini con cui hanno avuto una relazione intima ha riportato
danni alla salute fisio-psichica: nello specifico, risultano due
volte più a rischio di depressione, quasi due volte più a rischio di
sviluppare una dipendenza dall’alcol e una volta e mezzo più a
rischio di contrarre malattie a trasmissione sessuale (AIDS,
sifilide, clamidia, gonorrea).
I livelli di violenza sono decisamente alti in tutte le parti del mondo. In
generale, la classifica delle violenze domestiche è guidata dall’Asia sudorientale
(38 %), seguita a ruota dai Paesi arabi del Mediterraneo e dall’Africa (entrambi
al 37 %): in tutto il continente americano si registra il 30 % di violenze, con il 23
% che si verifica tra le fasce ad alto reddito, a riprova che non si tratta di un
fenomeno riconducibile tout court a povertà e ad ignoranza. Europa, Russia e
area del Pacifico orientale si attestano sul 25 %.
Le prime iniziative per arginare quella che si configura come una vera e
propria epidemia globale sono due: in primo luogo, proteggere i bambini dalle
violenze per aiutarli a diventare degli adulti più responsabili, e poi aumentare
l’istruzione femminile secondaria per creare maggiori competenze e maggiore
sicurezza personale. In un’ottica preventiva, lo sforzo maggiore deve essere
orientato all’educazione e alla sensibilizzazione al problema, ad esempio
attraverso le riforme del diritto familiare e la lotta a tutte le disparità di genere.
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Le nuove norme del 2013 per difendere le donne dalle violenze
domestiche.
Un decreto varato a giugno 2013 prevede una corposa sezione dedicata
alla violenza in famiglia. Pur non modificando più di tanto il codice penale,
vengono attribuiti maggiori poteri alla polizia, dando in particolare la
possibilità di intervenire d’ufficio. In caso di lesioni personali i questori possono
intervenire autonomamente, somministrando un “ammonimento” alla persona
violenta; è sufficiente che la polizia venga informata da qualcuno, anche da una
segnalazione anonima di terzi, per chiamare in ufficio il coniuge violento e
intimargli di interrompere tutti gli atti, non episodici, di violenza fisica, sessuale,
psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare.
Soggetti all’ammonimento non sono solo i compagni attuali, ma anche
precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti
condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima. Il questore può anche
richiedere al prefetto la sanzione aggiuntiva della sospensione da uno a tre mesi
della patente di guida.
Nel caso di reiterazione delle violenze domestiche dopo l’ammonimento,
il giudizio può partire d’ufficio. In caso di condanna, la mancata osservanza
dell’ammonimento implicherà un automatico aumento di pena. Se le violenze
domestiche avvengono all’interno di una famiglia di immigrati, la vittima potrà
usufruire di un permesso di soggiorno di carattere umanitario.
Il decreto prevede aumenti di pena qualora violenza sessuale e atti
persecutori siano commessi in danno di donne in stato di gravidanza o di
disabilità psico-fisica (anche temporanea).
Subiscono una revisione anche le norme sullo stalking, focalizzando
l’attenzione anche sui separati in via di fatto. Viene inclusa nello stalking anche
la persecuzione commessa attraverso strumenti informatici o telematici.
Vengono infine rafforzate le sanzioni per chi viola il divieto di avvicinamento
ai luoghi frequentati dalla persona offesa.
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Un nuovo provvedimento su stalking e femminicidio è stato approvato in
parlamento a inizio agosto 2013, completando il decreto già approvato a
giugno.
Riassumendo, i punti salienti dei due provvedimenti del 2013 sono i
seguenti:
- le mail insistenti, violente o minacciose, ma anche i post offensivi
sui social network sono considerati una nuova forma di
persecuzione;
- in caso di gravi indizi di violenza, le forze dell’ordine possono
chiedere al giudice il divieto per lo stalker di avvicinarsi ai luoghi
frequentati dalla vittima;
- vengono considerate violenze sessuali aggravate quelle commesse
in danno del coniuge anche se separato o divorziato, o se
l’imputato ha avuto una relazione affettiva con la vittima;
- è previsto l’arresto in flagranza per chi compie maltrattamenti in
famiglia e per gli stalker, ma anche l’irreversibilità della querela
in caso di stalking;
- viene rilasciato un permesso di soggiorno alla vittima di
nazionalità straniera che denuncia le violenze, per consentirle di
sottrarsi agli abusi domestici;
- è previsto un inasprimento delle pene di un terzo quando il delitto
di maltrattamenti avviene davanti a minori, il delitto di violenza
sessuale è consumato ai danni di donne in gravidanza oppure il
fatto è consumato ai danni del coniuge o del partner;
- chi denuncia sarà costantemente informato e aggiornato sullo
stato dei procedimenti penali in corso;
- i reati di maltrattamenti ai danni di familiari o conviventi e di atti
persecutori sono inclusi tra quelli per i quali è garantita
assistenza legale gratuita;
- alle forze dell’ordine è attribuito il potere di allontanare da casa il
coniuge violento;
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- sono previste azioni di intervento multidisciplinari per prevenire
lo stalking e il femminicidio, potenziando i centri antiviolenza e i
servizi di assistenza.
Vediamo le principali similitudini e differenze tra la normativa italiana e
quella di alcuni Paesi europei in tema di atti persecutori e femminicidio.
- Francia. La legge del 2010 punisce le violenze psicologiche del
coniuge che maltratta anche solo verbalmente l’altro. Quanto alle
violenze fisiche, un nuovo progetto di legge presentato il 3 luglio
2013 prevede l’espulsione immediata dal domicilio e pene più
severe. Negli ultimi due anni, sono state registrate 400.000 donne
vittime di violenze coniugali.
- Germania. Il 49,2 % delle donne uccise nel 2011 sono state vittime
del partner o dell’ex. La legge sulla prevenzione della violenza di
genere è del 2002. All’uomo può essere impedito il contatto con
la vittima e l’ingresso nella casa comune. Gli atti persecutori
sono reato dal 2008.
- Spagna. Il reato di violenza sulle donne è nella legislazione
spagnola dal 1989, in più nel 2004 è stata introdotta l’aggravante
della violenza interna alla coppia, con l’istituzione di tribunali
specifici. Per uscire da una convivenza violenta, viene fornito
aiuto economico e giuridico. Circa 400.000 denunce l’anno si
traducono in 40.000 ordini di protezione.
- Austria. Una legge contro la violenza familiare esiste dal 1996 ed è
stata modificata in più riprese. La giustizia civile può emanare a
favore della vittima delle ordinanze di protezione che
prevedono, ad esempio, l’allontanamento dell’autore dalle
violenze della casa comune in attesa della sentenza.