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OTTOBRE NOVEMBRE DICEMBRE 2012 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in abbonamento postale D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, Aut: 170/ CBPA-SUD/CS SMALL ZINE Angelo Sarleti - Claudia Giannuli - Shawnette Poe - Pino Scaglione - Ninni Donato - Vettor Pisani - Daniel Buren - Bado - Zoom Puglia - Patrizia Emma Scialpi - Luca Agnani Magazine di arte contemporanea / Anno I N. 4 / Trimestrale free press CLAUDIA GIANNULI

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Magazine di arte contemporanea

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CLAUDIA GIANNULI

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8Per conoscere il programma completo della Giornata visita www.amaci.org6 Ottobre 2012

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TALENT TALENT

MUTEVOLI SCRIGNI

Shawnette Poe - Loredana Barillaro

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Incontro Shawnette Poe in una tarda mattinata di settem-bre. Splendida, leggiadra, una creatura incantevole, lo stesso incanto che sembra trapelare dal suo lavoro. Un la-

voro in cui il dato biografico risulta dominante, e l’assenza di un centro, di una “patria”, quello che in tedesco si traduce nel-la parola heimat, determina gran parte della “scena”, una ri-cerca in cui l’attaccamento ad una “casa” diviene attaccamento alle persone come centro nomade, ma forte e imprescindibile come può essere il legame con la madre, in fondo, origine e fine. Al contempo, però, il senso di sradicamento si avverte in modo intenso.Un’assenza che si colma con la presenza evocata, l’uso dei capelli come elemento corporeo forte, in grado di esistere a sé, di staccarsi dal corpo senza nessuno strappo, senza dolo-re alcuno, un elemento che l’artista utilizza spesso, sia nelle installazioni che nei video, ad esempio in quelli realizzati per la sua recente personale dal titolo “Collateral Rooms”, cura-ta da Giovanni Viceconte ad Altomonte (Cs), in cui “stanze” parallele si affiancano, si intrecciano l’un l’altra determinando uno sconfinamento fisico quanto ideale, tipico dell’indagine di Shawnette Poe, una simultaneità tale da saturare lo spazio ol-tre che la visione. Un luogo che, ancora una volta, risulta inde-finito, così come lo è il contesto delle tele, scatole, forse scrigni, in cui figure femminili, leggiadre e leggere nei loro movimenti, sembrano fluttuare. Shawnette non pianifica nulla, il suo è un lavoro che si costruisce man mano partendo da ciò che le ac-cade o che le accade intorno, un punto di partenza che può divenire qualsiasi cosa. Un lavoro elegante, raffinato, minimale e di grande forza co-municativa ed evocativa, in grado di “ramificarsi”. Evocativa di un mondo che è quello terrestre, ma traslato quasi in un’altra dimensione in cui ogni discorso appare superfluo e lo spazio fisico è solo un elemento ragionato. Nessun limite nel pensare, e nessuno negli strumenti da utiliz-zare in un racconto abitato da personaggi forse alla ricerca di un punto di “attracco”, ma incapaci di andare oltre perché alla guida di “veicoli impossibili”.

Dall’alto: WASHING ROOM N° 0, 2012. Still da video, 2,39 min. END OF WORDS, 2009. Olio su tela, 140x165 cm. Per entrambe courtesy dell’artista.

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“C’ è l’artista, c’è una volta/ c’è mille volte l’artista / nella sua favola, nella sua storia. […] Un de-mone lo sorveglia / nel suo sfogliare Marghe-

rite. Ha la fatalità dello sguardo / ben allenato a ciò che coincide.”Così recita la poesia di Mimma Pisani C’è l’artista, nel ca-talogo alla mostra del 2002 “Meglio un asino vivo che un artista morto” al Trevi Flash Art Museum. E in questi versi c’è tutto, c’è l’artista, la favola, la storia, il demone, le Mar-gherite, lo sguardo, ciò che coincide, c’è Vettor Pisani. Si potrebbe dire che manchi il tema del mito, ma in fondo cos’altro è il Mito se non l’estrema coincidenza tra la storia e la favola? La storia di Marcel Duchamp che racconta la favola di un pasto sacro, festoso, danzante, erotico, dissa-crante. Vettor Pisani, artista controverso, nato a Napoli nel 1934 e morto suicida lo scorso anno, in agosto. Vettor Pisani, arti-sta anarchico ed esoterico, che insieme a Gino De Domini-cis e Carmelo Bene, sfidava le tenebre per accendere la luce della libertà completa. Per decenni ai margini del sistema dell’arte, anche se aveva esposto sue opere a Documenta, alla Biennale di Venezia, alla Quadriennale, oltre che in spazi prestigiosi come il Guggenheim, il PS1, il Grand Palais e il Castello di Rivoli. Oggi non ancora giustamente celebrato, banchetta al tavolo con il compagno invisibile. La sua prima mostra “Maschile, femminile e androgino. In-cesto e cannibalismo in Marcel Duchamp” si tiene nel 1970 alla Galleria La Salita, in una Roma di intenso fermento ar-tistico, anche se il sole dell’arte povera era già al tramonto. Vettor Pisani preleva il ready made fissandolo in uno spa-zio atemporale dove impone la convivenza con altri oggetti tratti dal quotidiano rituale. Catapulta così l’inconscio nella realtà, senza veli se non quello dell’ironia. I collage, le installazioni e le diverse raf-figurazioni del tema della Sfinge e di Edipo, piuttosto che di Hermes o della Vergine, sono opere di grande impatto visivo, in cui si avvale della simbologia dei Rosacroce. Della sua opera magna, il Museo della Catastrofe a Serre di Ra-polano, Pisani dice: “Le cave [...] possono però essere an-che viste come luoghi dell’immaginario, della dimensione onirica e della memoria, come luoghi dell’arte che esistono [...] per un’esistenza interiore altrettanto necessaria all’uo-mo quanto la dimensione quotidiana del vivere”.Sono le coincidenze possibili ad attirare l’attenzione di Vet-tor. Quelle particolari congiunzioni ottiche che aprono lo sguardo della mente alla ricerca di spazi dove l’Io si mani-festa. Apollineo e dionisiaco si sublimano in un’unica mate-ria plasmata da sapienti mani di alchimista. Sotto un’unica lente di ingrandimento più oggetti insieme formano il re-bus per accedere alla grande verità... e sembra di vedere la Vergine ridere, perché quella stessa verità, probabilmente, non esiste. E monito per chi resta, ancora le parole di Mimma Pisani: “Angelo mio dal volto viola/ decorato di sangue./ Angelo mio inerme, casto/ t’allontani tra gli Dei del Nulla. / La-sciando bisce e serpenti / arrotolarsi nelle acque nere / del tuo silenzio”.

Dall’alto: copertina del catalogo MEGLIO UN ASINO VIVO CHE UN ARTI-STA MORTO, per l’omonima mostra al Trevi Flash Art Museum nel 2002. CONCERTO INVISIBILE DI GINO DE DOMINICIS, 2007. Installazione con autopiano, dimensioni variabili. Courtesy Cardelli & Fontana.

REMIND IO SONO UN VERO FALSO D’AUTOREVettor Pisani - Serena Carbone

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IL PENSIERO ACRITICONinni Donato - Loredana Barillaro

INTERVIEWS

Loredana Barillaro/ Ciao Ninni, dimmi un po’ del tuo lavoro…

Ninni Donato/ Quotidianamente, come tutti, mi scontro con le cose: libri, film, persone che conosco o intravedo solamente, im-magini mentali o reali. Un continuo, faticoso, osservare che genera un flusso di informa-zioni che alimentano spunti e idee che spesso rimangono sospese e indefinite, altre volte si sviluppano e si articolano fino a costruire un vero e proprio progetto. Si tratta di processi lenti, spesso caoti-ci, che decantando cercano di liberarsi dal rischio della citazione ma, allo stesso tempo, senza parossismo rivoluzionario. Insomma qualcosa che accade anche senza impugnare la macchi-na fotografica. Fotografo non come atto eroico che mi costringe ad essere laddove succederà necessariamente qualcosa, ma come “azione minimalista e noetica”.

LB/ Molti edifici del Sud Italia si caratterizzano per una sorta di nuovo “non finito” nel tentativo di nascondere, paradossalmente, alla vista e al pensiero, quello che ci sta dietro... Ma laddove l’in-compiuto si palesa in una mancanza di senso, l’assenza - in termini culturali - quanto può, secondo te, bloccare il flusso di crescita di una generazione?

ND/ Cito Karl Mannheim: “gli uomini pensano inevitabilmente in termini condizionati dalla loro posizione nella società. Vi è sem-pre nel pensiero la presenza di fattori extrateorici, extrarazionali, esistenziali...”. Coloro che hanno generato gli edifici incompiuti

sono gli stessi che, regalandoci il pensiero acritico, hanno relegato la cultura in una posizione di marginalità estrema rendendo ogni nuova generazione un po’ più “povera” rispetto alla precedente. I risultati sono evidenti, spesso il ragionamento è sostituito dal-la più comoda omologazione. Più che l’esperimento cerchiamo il consenso. Fare fotografia o dipingere, o anche scrivere in un certo modo, sovente non è legato ad una necessità espressiva ma alle tendenze del momento.

LB/ Quanto può uno scatto fotografico essere teorizzazione della sofferenza?

ND/ Direi piuttosto formalizzazione. Quando parliamo di sof-ferenza tutti sappiamo a cosa ci riferiamo. Accade a volte che le stesse immagini, in seguito alle continue operazioni di deconte-stualizzazione e ricontestualizzazione, assumano un valore diver-so legato alle cornici discorsive nelle quali sono calate, divenendo denuncia o memoria individuale. La sofferenza originaria è immutabile perché fuori da noi, varia il nostro coinvolgimento emotivo: indignato o assimilato, sempre però empatico. Si dibatte se sia giusto estetizzare il dolore, credo non ci sia nulla di male. Penso che Goya o McCullin o Natchtwey pur avendo rappresen-tato l’atrocità della guerra non abbiano contribuito a generarne di nuove. Inglobare la sofferenza in una forma estetica non significa depotenziarla o renderla accettabile, ma costringere a guardare, il danno collaterale è l’assuefazione.

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Un continuo, faticoso osser-

vare che genera un flusso di informa-zioni che alimenta-no spunti e idee... Si tratta di pro-cessi lenti, spesso caotici, che decan-tando cercano di liberarsi dal rischio della citazione ma, allo stesso tempo, senza parossismo rivoluzionario.

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LB/ Dai tuoi scatti sembra trapelare un certo “oblio della memo-ria”, una specie di linea invisibile che separa ciò che era da quello che ne rimane…

ND/ Tutti sappiamo cos’è un ricordo. Sappiamo definirlo come il riportare alla mente un fatto, un evento del passato, ma non sap-piamo esattamene quali meccanismi lo governino, se esso sia un processo, un’immagine mentale piuttosto che un fenomeno elet-trochimico di qualche zona del cervello. Oggi i mezzi della riproducibilità tecnica ci spingono ad equipara-re il ricordo alla riproduzione fotografica o cinematografica di un evento, alla sua codificazione digitale, alla sua impressione su un supporto. Più che circoscrivere un’esistenza nella sua possibilità di registrazione io spero di trovarne le tracce. Trovo piacevole seguire le orme avendo la certezza che mi condur-ranno dove voglio stare. Ho acquisito la consapevolezza che oblio

e memoria non sono opposti e antagonisti ma complementari e necessariamente connessi. Senza luogo. Perché nessuno potrebbe pretendere che nel cervello ci sia un luogo fisico in cui stoccare l’oblio. Il non luogo dell’oblio è insomma lo stesso, necessariamente e irriducibilmente, di quello della memoria. Le tracce equivalgono all’immagine latente della pellicola fotografica, è presente ma non ancora rivelata, forse relegata alla dimensione di oblio da una “chi-mica” sbagliata.

Dalla serie PARSING DREAMS, 2012. Fotografie, 60x60 cm. In alto e nella pagina precedente dalla seire CLINAMEN, 2012. Fotografie, 60x60 cm. Per tutte courtesy dell’artista.

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Serena Carbone/ Parlami della tua ricerca....

Bado/ A volte penso che se facessi una personale con tutti i miei lavori, questa potrebbe sembrare una collettiva. Il punto è che non ho una ricerca, ne ho diverse, spesso con diversi livelli di lettura e linguaggi. Ma negli ultimi anni vedo ricorrere determinate temati-che come natura, umanità, tecnologia e società, e mi rendo conto di affrontarle costruendo relazioni tra esse.

SC/ Hai vinto il concorso con un’idea progettuale di “Urbanizza-zione”, dove coniughi il microcosmo elettronico al macrocosmo urbano, riproducendo in scala l’aerografia di una zona e posizio-nandola a diretto contatto con la terra facendola vivere di un’ener-gia attinta direttamente da fonte naturale, il tronco di un albero. Cos’è cambiato nella realizzazione in situ rispetto all’ideazione in studio?

B/ Nell’idea nulla è cambiato, molto di più nella forma, se per for-ma intendi la bozza presentata in concorso. Una volta in situ mi sono fatto ispirare dal luogo, e infatti ho realizzato anche altri due progetti.

SC/ Com’è stato lavorare in un centro di residenza dove giungono artisti da tutto il mondo?

B/ Straordinario. La formula creata dagli organizzatori è interes-sante perché non soltanto si lavora a contatto con altri artisti ma per un intero mese vivi, dormi, giochi, scherzi, mangi assieme, per cui stringere rapporti diventa estremamente semplice. È stata una fortissima esperienza di condivisione e scambio culturale. Con al-cuni artisti vorremmo creare dei progetti insieme e questo penso sia semplicemente stupendo.

SC/ Credi che un giovane artista che viva e lavori nei centri peri-ferici, come può essere la Calabria, possa ad oggi sviluppare una ricerca tanto “aperta” da poter essere compresa e apprezzata al-trove?

B/ Assolutamente si. Se parliamo di “ricerca” il concetto di pe-riferia credo si perda nell’oceano di possibilità che la rete mette a disposizione di chi intende “aprirsi”. In tal senso non solo non vedo differenza tra centro e periferia ma trovo quest’ultima, gra-zie ai suoi ritmi meno frenetici, addirittura più adatta per focaliz-zarsi sulle proprie priorità espressive. Tutto cambia se spostiamo il discorso sul terreno delle opportunità di confronto, di contatti, di relazioni, in questo caso la periferia è spesso una gabbia senza sbarre, e spostarsi diventa necessario.

SC/ I circuiti sono il tuo significante e l’energia è la linfa del tuo la-voro. Cambiando contesto e suggestioni questi due elementi han-no subito variazioni?

B/ I circuiti sono uno dei miei significanti, i quali si modificano assieme a me. In questo trovo la maggior affinità con l’energia che è materia amorfa ed è soggetta a incessanti trasformazioni. Il con-testo newyorchese, il contatto con altri artisti e i loro linguaggi, mi hanno senz’altro fornito ossigeno e input nuovi ma, per futuri significanti, forse, non credo abbiano modificato i miei significati o se l’hanno fatto, devo ancora rendermene conto.

SC/ La tua ricerca accoglie concetti come l’ecologia e la tecnologia. Come l’arte incontra oggi la scienza?

B/ Passo. Questa domanda merita maggiore riflessione. Potrei ri-spondere nell’immediato più a quanto l’arte si incontra oggi con le scienze. E ti direi, mi pare poco. Credo che là dove più o meno in tutti i campi si mastica ormai pane e scienze, l’arte tende invece a stagnare sulle solite formule.

SC/ Dopo questa esperienza, ad oggi che cos’è per te una residen-za d’artista?

B/ Una indiscutibile opportunità di crescita da rifare al più presto, in diverse parti del mondo, altri contesti, con altri artisti e nuovi stimoli.

CATANZARO - NEW YORK A/RBado - Serena Carbone

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Bado è il vincitore della borsa di studio all’estero per giovani artisti calabresi che con-sente l’accesso all’Omi International Arts Center nello stato di New York per tre setti-

mane nel mese di giugno. Il progetto, nato dalla collaborazione tra il MARCA di Catanzaro e la Dena Foundation for Contemporary Art, presieduta da Giuliana Carusi Setari, è giunto quest’anno alla seconda edizione.

INTERVIEWS

Per entrambe: UTOPIA?, 2012. Cemento, circuiti stampati, alluminio, natura, dimensioni ambientali. Dal ciclo URBANIZZAZIONI. Courtesy dell’artista.

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INTERVIEWS SENTIMENTI DEBOLILuca Agnani - Luca Cofone

Luca Cofone/ Il Mapping è una tecnica che sta ottenendo molto successo nel mon-do. Potremmo definirla “arte attraverso la videoproiezione 3D applicata all’architet-tura, un gioco di immagini in movimen-to, in grado di trasformare, ad esempio, un edificio in materia animata”, è giusto? Dimmi dell’altro.

Luca Agnani/ Si, è giusto, il Mapping ha il “potere” di trasformare l’architettura. Per fare questo è fondamentale la ricostruzione in 3d dell’architettura stessa al computer, lavorare su di essa con programmi di ani-mazione e grafica e ottenere un video che andrà proiettato sulla struttura. In pratica non è arte, ma illusione.

LC/ Come si sviluppa l’idea progettuale che sta alla base dei tuoi interventi?

LA/ Nei miei lavori, quando le tempistiche lo permettono, l’idea progettuale di solito è quella di unire l’architettura alla sua storia. In questo anno ho avuto la fortuna di la-vorare su architetture con profonde radici storiche come il Santuario di San Michele vicino Foggia, il Duomo di Catania, e la Gu-glia degli Orsini nel Salento. Nel Santuario di San Michele, costruito dai Longobardi l’idea è stata di raccontare l’in-contro in sogno tra il re Rotari e San Miche-le. Ho notato che l’architettura del Santua-rio si poteva adattare facilmente nel casco di un guerriero e quindi ho giocato molto su questo aspetto. Nel Duomo di Catania in oc-casione della festa di Sant’Agata ho cercato

di raccontare l’incontro tra la lava dell’Etna che distrusse il Duomo e l’acqua che scorre sotto di esso passando per il misticismo di Agata. La leggenda vuole che la Torre di So-leto sia stata costruita in una sola notte ad opera di demoni e grifoni e così ho cercato di rappresentare questa costruzione “male-detta”. Nell’ultimo lavoro fatto a Macerata l’idea è stata di trasformare il Comune in una chiesa, considerando il forte legame di questa città con lo stato pontificio, sintetiz-zato anche nella definizione di “civica ma-riae” che campeggia proprio sulla facciata

del municipio.

LC/ L’arte del pre-sente e quella del futuro. L’arte otte-nuta con tecnologia avanzata è quella che necessariamen-te ci attende?

LA/ Secondo me è la comunicazione ottenuta con tecno-logia avanzata che ci attende, per fare arte non c’è bisogno di computer poten-ti ma di sentimenti deboli, questo è un lavoro nuovo, de-clinato per supporti di grandi dimensio-ni alternativi allo schermo.

LC/ Quanto è forte, secondo te, la rela-zione tra arte, mapping 3D, architettura e design?

LA/ Io cerco sempre di lavorare con un cer-to rispetto nei confronti dell’architettura, lavorare su una chiesa non è come lavorare su una discoteca o su un centro commer-ciale, mapping, architettura e design sono fortemente legati tra loro. Sicuramente una componente fondamentale è la “colonna sonora” che accompagna la proiezione.

LC/ Una location ideale per il tuo lavoro...

LA/ Da sempre il bello dell’architettura è stato applicato alle chiese per attrarre la gente, è quindi molto stimolante lavorare su una chiesa. In Italia, sotto questo punto di vista, abbiamo la fortuna di averne molte e architettonicamente senza paragoni. Al di fuori delle chiese trovo stupendo il Palaz-zo Ducale di Genova, mi piacerebbe molto fare un lavoro lì, ma spero presto di speri-mentare nuove superfici, anche più piccole, come scenografie, quadri, disegni.

In Croazia, nell’isola di Pag ho lavorato, per un festival, su degli alberi di una pineta, è stato divertente ..

LC/ Ogni anno si tengono numerosi festi-val di mapping, quale ritieni sia il più in-teressante e a cui partecipare obbligatoria-mente?

LA/ Obbligatoriamente a nessuno, in Ita-lia l’unico festival incentrato per lo più sul mapping è il Kernel Festival di Desio, ho partecipato sia a questa che all’edizione passata, è un’esperienza bella, con la possi-bilità di vedere il proprio lavoro proiettato su un’enorme villa ottocentesca immersa in un parco. Ma partecipare ad un festival deve prevedere uno scambio, deve essere qualcosa di più che consegnare un video, altrimenti diventa solo lavoro non retribu-ito. Penso che per chi volesse avvicinarsi in maniera professionale a questo mondo la cosa migliore da fare sia partecipare ad un workshop.

LC/ Quale tra i tuoi “colleghi” ritieni sia il più innovativo e avveniristico?

LA/ Di solito questo lavoro è svolto da col-lettivi composti da diverse persone, in Ita-lia Apparati Effimeri ha tracciato la strada, io ho avuto la fortuna di partecipare ad un workshop del fondatore di questo gruppo, Roberto Fazio, che oltre ad avere un gran-de gusto estetico, lavora in continua speri-mentazione tra interattività, mapping 3d, stereoscopia e altri linguaggi, un vero genio del settore e davvero un alt(r)o livello.

Dall’alto: Santuario di San Michele, Monte Sant’Angelo. Kernel Festival, Desio. Per entrame courtesy dell’arti-sta.

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PEOPLEART

VIE DI FUGA Pino Scaglione

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La mia formazione artistica - mi si perdoni il ter-mine, io non sono un artista, ma ho amato e amo l’arte - inizia molto presto.

Da bambino ero attratto dai disegni, dalle figure sui li-bri, dai dipinti. Il mio primo approccio con l’arte è stata una bellissima enciclopedia Garzanti, in cui ho scoper-to altri mondi e universi creativi, tra pittura, scultura e architettura. Intorno ai nove anni mia nonna mi rega-lò i volumi di una collana dedicata ai grandi artisti, mi colpirono la forza di Michelangelo, la bellezza suadente e sofisticata di Raffaello, le lance e i cavalieri di Paolo Uccello. Mi sorprendeva la luce metafisica di Leonar-do. Durante gli anni della Scuola media, ad Acri, nella rou-tine delle materie “obbligatorie” mi appassionarono la storia e la letteratura e poi un elegante e raffinato si-gnore, cui quasi nessuno dava peso, Filippo Gallipoli, maestro e insegnante di “disegno”. Da allora in poi frequentai la sua passione per le matite, le sanguigne, le crete, i volti, ed ero affascinato dalla sua casa/studio arredata con divani di design all’epoca impensabili. Mi attraggono, da sempre, le forme, la bel-lezza, tutto ciò che è estetica e stile, ma anche la concre-tezza di oggetti, materiali, trasformazioni alchemiche. Ho frequentato, stimolato da Filippo, il liceo artistico, disegnan-do figure, oggetti, architetture, paesaggi. Amavo lo spazio, ma mi incuriosiva il segno, adoravo i cromatismi e le superfici ma mi inquietavano la plasticità e i volumi. Ho visto un’infinità di mostre d’arte, ho conosciuto artisti, gal-leristi, tra Napoli e Salerno, dove studiavo, tra i quali Marotta, Brancaccio, Di Franco, e poi architetti, De Fusco, Pica Ciamar-ra, Capobianco. Ho finito gli studi proprio a Salerno, vincendo lo spazio sul segno e in seguito ho studiato architettura a Roma. Ma non finiva certo qui la mia curiosità per l’arte, passavo domeniche intere alla GNAM; girando per le chiese, mi stordiva il Bernini e la sua Estasi di Santa Teresa, ma anche Borromini e Sant’Ivo alla Sapienza, tornavo spesso ai Caravaggio di Santa Maria del Popolo, ma prima di uscire mi inginocchiavo di fronte al Raffa-ello, architetto della Cappella Chigi, in cui si agitano altre statue di Bernini.Negli anni romani ho conosciuto Enzo Cucchi, e prima ancora Mimmo Paladino, Achille Bonito Oliva fu il mio docente di Arte ad Architettura e poi mio amico, insieme curammo un “Fuori Uso” a Pescara, e Renato Mambor mi svelò i segreti del gruppo di Piazza del Popolo. Con Cucchi e Italo Rota anni dopo facemmo un bellissimo multiplo d’arte, che comprarono, in pochi giorni, i più importanti galleristi italiani. Da artisti giovani acquistavo opere che riempirono la mia prima casa; il mio gallerista d’elezione fu Cesare Manzo, a Pescara, da lui conobbi Pistoletto, Spalletti, Vanessa Beecroft, tanti artisti e grande vitalità. Le mie case sono state e restano segnate dal colore, come grandi quadri le pareti sono superfici mutuate dalle griglie di Piet Mon-drian, le forme e gli spazi sono sempre stati fortemente influenza-ti dalla fuga in avanti del pensiero artistico. Vivo, insegno e faccio architettura, da cinque anni in Trentino, conosco la collezione del Mart, ho perso poche inaugurazioni di splendide mostre curate da Gabriella Belli, direttrice fino ad un anno fa. Resto ancora oggi irretito di fronte ad un quadro, l’ultima volta mi è capitato a Lon-dra alla National Gallery, poco tempo fa. “Se una cosa vale la pena farla una volta, allora vale la pena farla in continuazione - esplorandola, indagandola, facendo della sua ripetizione il motivo per cui il pubblico la osserva”. Lo sosteneva Mark Rothko, e resto fedele a questa affermazione, continuando ossessivamente a scrutare l’arte, inclusa la videoarte, la performance, leggendo e sfogliando le pagine di questa e altre magnifiche riviste come la mitica Flash Art. Senza questo continuo guardare oltre, il mio lavoro di architetto sarebbe stato piatto e uguale a quello di molti altri. Costruire la mia via allo spazio, soprattutto amare, in forma smodata, la contemporaneità, di cui ormai non riesco a fare a meno, nella vita e nel lavoro è quan-to devo e dovrò alle arti.

CASA S&L (Architetto Pino Scaglione con Patrizia Leone, 1996, Avezzano). In alto Pino Scaglione foto-grafato da Arianna Scaglione.

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SPECIAL ZOOM PUGLIALorenzo Madaro

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Zoom Puglia è esattamente questo, uno zapping su voci, nomi, luo-ghi, spazi e territori mediante discorsi e riflessioni che la attraver-sano in lungo e in largo.

In tempi più o meno recenti e a più livelli si è detto della Puglia con-temporanea, della presenza o assenza di spazi pubblici, di personalità del settore capaci di rilanciare questa regione nel più generale e ampio “calderone” dell’arte contemporanea. Una regione che, a prescindere da una serie di problemi strutturali, ha saputo comunque produrre im-portanti interventi nel corso dell’ultimo cinquantennio. E oggi? Sono passati alcuni mesi dalla discussa inaugurazione della nuova sede della Fondazione Pino Pascali di Polignano a Mare – che resta l’unico vero avamposto stabile per l’arte contemporanea in Puglia e di cui abbiamo parlato sulle pagine nel precedente numero di SMALL ZINE – nel bel mezzo di un dibattito che ha invece visto la vicina Bari alle prese con il B.A.C., acronimo di Bari Arte Contemporanea, che nelle intenzioni dei promotori dovrebbe finalmente garantire uno spazio permanente e che ha piuttosto infiammato (e sta infiammando) più anime sulle modalità del concepimento di una simile realtà, sulla scelta della location e sulle tangenze operative con il territorio. Nonostante la mancanza di uno spazio permanente, anche l’osservato-re più distratto avrà però constatato che negli ultimi anni la Puglia si è imposta come terra fertile in grado di accogliere e produrre esperienze e vitalità legate alla contemporaneità artistica, con un carnet di appun-tamenti a tratti sorprendenti. Anche se non sono mancate esperienze culturali “importate” senza alcuna qualità scientifica e senza alcun con-tributo critico rilevante, magari nel bel mezzo dell’estate, in un clima di assenteismo che talvolta investe anche le istituzioni che per statuto dovrebbero incidere sulla formazione culturale e la ricerca artistica. La Puglia in ogni caso non è mai stata estranea a sollecitazioni culturali di pregio. Tutt’altro. In passato alcuni critici, galleristi e operatori cul-turali lungimiranti attivi in questa “periferia” hanno spesso condotto una battaglia a favore della diffusione delle nuove tendenze, mediante mostre, pubblicazioni e una vera e propria militanza. Viene ad esempio in mente una figura fondamentale ormai quasi misconosciuta alle gio-vani generazioni come il compianto Franco Sossi, teorico e promotore di pubblicazioni di grande qualità metodologica.

Per leggere il rapporto con l’arte contemporanea in Pu-glia non si possono naturalmente ignorare gli stimoli offerti da alcune rassegne espositive: dal “Maggio di

Bari” (1951-1968) al “Premio Massafra” (1960-1972) – che proponevano opere di nomi autoctoni accanto a quelle de-gli artisti provenienti da altre aree geo-culturali italiane – ai progetti coordinati nei decenni successivi da Lidia Carrieri nel suo spazio di Martina Franca, oggi Fondazione Noesi, alle raffinate mostre allestite nella galleria barese di Marilena Bo-nomo, che in quarant’anni di attività ha proposto confronti e dialoghi con significativi artisti del panorama internazionale, senza trascurare alcune personalità baresi, Paolo Lunanova e Franco Dell’Erba, per esempio, così come documentato dal recente volume sulla storia della galleria intitolato “But where is Bari?” (Allemandi, 2010). È ovviamente impossibile citare tutti i casi e le figure ragguar-devoli – attività espositive, gallerie, operatori del settore – che hanno contribuito a tale vitalità, in una regione che ha tra l’al-tro ben tre accademie di belle arti. Nei primi anni duemila sono state inaugurate diverse esposi-zioni periodiche aperte alla dialettica tra tutti i linguaggi della contemporaneità: dal video all’installazione, dalla fotografia alla pittura. Nel 2000 Marina Pizzarelli ha avviato al Castello Carlo V di Lecce “Art Woman”- esperienza purtroppo termi-nata nel 2009 - proponendo le giovani creatività, indigene e non, al femminile, mentre dal 2004 al 2008, a cadenza bien-nale, il “Premio Gap”, curato a Bari da Lia De Venere, Mari-lena di Tursi e Antonella Marino, ha rappresentato un fonda-mentale monitoraggio per le giovani energie creative, grazie anche ad una lunga e capillare attività di queste curatrici volta a investigare le novità in atto.

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SMALL ZINEMagazine di arte contemporanea

Iscrizione R.O.C. n. 21467 del 30/08/2011 Legge 62/2001 art. 16

Direttore Responsabile: Loredana BarillaroRedazione e Grafica: Luca Cofone

Stampa: Litotipografia S. Chiappetta, Cosenza

Redazione: Via della Repubblica, 119 87041 Acri (Cs)Editore: BOX ART & CO. Associazione Culturale

Contatti e info: 3393000574 / 3384452930 [email protected] - www.smallzine.info

Hanno collaborato:Serena Carbone, Lorenzo Madaro,

Gregorio Raspa, Pasquale De Sensi

© 2011/2012 BOX ART & CO. È vietata la riproduzione, anche parziale, dei testi

pubblicati senza l’autorizzazione dell’Editore.

In copertina: Claudia Giannuli, TORNO SUBITO, 2012, 20x20x35 cm. Courtesy Lagattolla-Schiano

Le opinioni degli autori impegnano soltanto la loro responsabilità e non rispecchiano necessariamente

quelle della direzione della rivista.

Altra importante rassegna è stata “Intramoenia Extrart” allestita dal 2006 al 2010 nei castelli della Puglia, a cura di Giusy Caroppo con la direzione scientifica di Achil-

le Bonito Oliva, in cui si è proposto un cortocircuito tra l’ar-te contemporanea e le architetture del passato: da Castel del Monte al Forte a Mare di Brindisi. Questo progetto, insieme alle opere provenienti dal citato museo di Polignano e ad un nucleo di opere di Pascali, nell’estate 2011 è sbarcato a Venezia per “Pino Pascali Ritorno a Venezia / Puglia Arte Contempora-nea”, mostra ordinata all’interno degli Eventi Collaterali della 54esima edizione della Biennale. Sempre in area barese, anzi nella città capoluogo, un paio di anni fa è andata in scena una prima mappatura sul collezionismo privato curata da Lia De Venere in collaborazione con Antonella Marino, un progetto questo che – ce lo auguriamo – sarà sviluppato anche in altre aree della regione. Per tornare agli spazi espositivi, per Lecce vanno segnalati, in particolare, l’ex chiesa di San Francesco della Scarpa e i Cantieri Teatrali Koreja, da sempre luogo aper-to a contaminazioni. Qui negli ultimi anni con “Senso Pluri-mo”, un progetto ideato e curato da Marinilde Giannandrea, è stata perseguita un’indagine sulla giovane creatività. È invece nato da poco il MUST, il museo storico della città diretto da Nicola Elia, spazio che ha le carte in regola per muoversi con un doppio sguardo “dentro e fuori luogo”. Mentre il resto del territorio salentino si sta caratterizzando per importanti pro-getti che si svolgono durante i mesi estivi: “Capo d’arte” a cura di Ludovico Pratesi, in quel di Gagliano del Capo, e le mostre site-specific a Specchia con la raffinata regia della bolognese Marina Forni. Sul doppio binario architettura-arti visive si col-loca Next Lab, l’associazione di Toti Semerano e Anna Cirigno-la ospitata in un’ex manifattura alle porte del capoluogo salentino dedita al dia-logo tra le arti. A proposito di giovani creatività non si possono, infine, omettere due significativi progetti che sono nati recentemente: “Vessel” a Bari, vincitore del bando regionale 2010 di Principi Attivi, che si sta orientando come centro di documentazione interdisciplinare e spazio vivo per progetti di residenza per curatori; e la galleria Doppelaenger, sempre nel capoluogo, nata su iniziativa di Michele Spinelli, collezionista, e Antonella Spano, formatasi alla “scuola” di Marilena Bonomo, che lascia ben sperare grazie ad una programmazione di respiro internazionale. E tra le professionalità emergenti non vanno sottaciuti alcuni nomi di giovani che operano nel campo della critica, del giornalismo e della curatela, come Antonio Frugis, Anna Saba Didonato, Roberto Lacarbo-nara e Maria Paola Spinelli. E gli artisti autoctoni? Sono stati naturalmente loro i veri protagonisti che hanno incoraggiato il dialogo con le istanze della contemporaneità, anche se il “problema” (ma è davvero tale?) dell’emigrazione è ovviamente all’ordine del giorno, pur registrandosi, sempre più, casi di pen-dolarismo culturale. Uno scenario multiforme insomma – così come quello delle poche ma operose gallerie d’arte attive sul territorio, soprattutto in quello barese, mentre Foggia e Taranto stentano ancora a spiccare il volo con progetti continuativi – e ancora tutto in progress. Non ci resta, pertanto, che attendere con trepidazione cosa ci riserverà il futuro per esprimere considerazioni più calzanti.

Fernando De Filippi, Installazione, anni Settanta. Courtesy dell’artista. In basso: Pierluigi Calignano, L. RAY, 2007. Legno, luminarie, installation view. Courtesy Antonio Colombo Arte. Foto Paolo Vandrasch. Nella pagina precedente dall’alto: Flavio Favelli, LUMINARIA ESSAY. Luminarie e tecniche miste, di-mensioni variabili. Ex Convento dei Francescani Neri e Palazzo Risolo, Specchia (Le), 2012. Courtesy dell’artista, Associazione Culturale Cactus e Associazione Art at Work. Marco Gastini, RILANCIO, 2007. Tecnica mista su vetro e ferro, 200x140 cm. Specchia (Le), 2011. Courtesy dell’artista e Associazione Cultu-rale Cactus.

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SHOWCASE PATRIZIA EMMA SCIALPI - a cura di Pasquale De Sensi

IMPRINTING_IL BRANCO 2011/2012

L’imprinting è una forma di apprendi-mento di base che si verifica durante

un determinato periodo della vita e lette-ralmente si traduce in prendere forma. Così le creature generate dall’incontro tra pittura e collage, vivono conflitti con il proprio divenire, con i loro simili ma anche con l’habitat in cui nascono e si confondono.

STATEMENTS

Attraverso l’uso del collage, della pittu-ra e dell’installazione, Patrizia Emma

Scialpi attua una personale ricerca riela-borando particolari visioni sul rapporto con la natura, con la spoglia e il ricordo. Le immagini che l’artista crea, o quelle su cui applica il proprio segno pittorico, descrivono spesso una natura indecifra-bile, impietosa ma anche intima. Enigmi umani e possibilità.

Nata a Taranto nel 1984, vive e lavora a Milano.

Laureata nel 2009 in Beni Architettonici, Archeologi-

ci e dell’Ambiente presso l’Università degli Studi

del Salento, è attualmente iscritta al Biennio Specia-

listico di Arti Visive presso l’Accademia di Belle Arti di

Brera a Milano.Da settembre 2010 è pro-motrice, in collaborazione

con altri artisti, di UNDERDOGSTUDIO,

spazio indipendente per l’arte contemporanea.

Attualmente si occupa della Sezione Copertine Arte

di VELUM, blog a cura di Giuseppe Damato per nssmag.com.

Dall’alto: IMPRINTING, 2011. Tecnica mista su tela, 20x20 cm. IMPRINTING_IL BRANCO, 2011. Tecnica mista su carta, 10x15cm. Per entrambe courtesy dell’artista.

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SMALL TALK

NUMERI. PITTURA. INVISIBILE. MAMMONAAngelo Sarleti - Serena Carbone

Serena Carbone/ “Mammona” è la tua ultima mostra alla galleria Artra di Milano. Iniziamo dal titolo...

Angelo Sarleti/ Mammona è una parola di origine Aramaica. Nell’antichità la si fa risalire ad una divinità o demone, prima nella mitologia caldeo-siriaca, poi greca e romana, fino alla citazione di Gesù nel Vangelo. Nelle comunità ebraiche viene usata come sinonimo di denaro. Mi sembrava appropriato usarla per un’espo-sizione che mostrava il sistema economico mondiale attraverso l’albero della vita cabalistico.

SC/ Cos’è l’invisibile? E che valore ha per te?

AS/ È il vero obiettivo implicito dell’arte, anche quando questa sembra occuparsi della realtà. Nella mostra Mammona c’era un’opera invisibile che indicava i servizi segreti, le mafie, l’insider trading ed il sommerso in generale. Tutto ciò è quello che nella pratica genera i macro-cambiamenti del sistema, aldilà dei limiti dell’informazione comune. L’essenziale si sa, è invisibile.

SC/ Quanto conta oggi nell’arte la τέχνη, ovvero l’atto del saper fare?

AS/ È importante solo nei lavori in cui la pratica è parte stessa dell’idea.

SC/ Come entra la bioeconomia in relazio-ne con la tua ricerca?

AS/ Allo stesso modo in cui la religione è entrata in relazione con l’arte del passato.

SC/ Quanto ti senti vicino ad un artista come Hans Haacke?

AS/ Capisco che l’interesse per certi argo-menti legati all’economia possa denotare dei richiami con il suo lavoro. Ma tra me e Haacke c’è un artista morto giovanissimo e fino a poco tempo fa quasi sconosciuto che si chiama Mark Lombardi. Se il dato nel primo viene sviluppato con un’ottica modernista, volta a intervenire direttamente sulla realtà, nel secondo la visualizzazione di un’informazione svela con la sua “forma” la natura stessa, se non addirittura il senso di questa. Per quanto riguarda il mio lavoro, penso che tenendo conto del “Principio di

Indeterminazione” di Heisenberg, si possa comunque avere un effetto su un fenome-no anche solo osservandolo.

SC/ “Billionairs” nel 2009, “Mammona” nel 2012, cos’è cambiato in questi anni nel tuo lavoro?

AS/ Non parlerei di cambiamenti ma di sviluppi all’interno di un metodo che ha come fil rouge la plausibilità. In particola-re ho focalizzato l’attenzione sul senso (o informazione aggiunta) che l’arte può dare ad un determinato soggetto andando a ricercare, con la pittura, la parte metafisica di un dato numerico.

SC/ “La bellezza salverà il mondo”, diceva L’idiota di Dostoevskij. Ci crediamo an-cora?

AS/ Certo, bisogna solo saperla riconosce-re quando verrà ad aiutarci.

Veduta della mostra MAMMONA, Galleria Artra Mila-no, 2012. Courtesy dell’artista.

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SMALL TALK

FRAGILITÀ E IRONIA SOTTO VETROClaudia Giannuli - Lorenzo Madaro

Piccole e apparentemente fragili. Incazzate o ironiche: sono le don-ne che popolano i teatrini domestici sotto “campane” (quelle delle

sculture votive sui comò delle nostre nonne) di Claudia Giannuli, una delle presenze più interessanti nel laboratorio pugliese dell’arte contemporanea.

Lorenzo Madaro/ Claudia, come sei approdata nel mondo delle arti visive?

Claudia Giannuli/ Sinceramente non so come sia arrivata al mondo dell’arte. Non ho mai deciso di fare l’artista. È stata una cosa naturale e indolore. Da piccola ero quella che in famiglia sapeva dise-gnare e a scuola il disegno era il mio punto di forza. Al Liceo Artistico di Bari ho avuto una bellissima esperienza: il professore di scultura mi ha preso sotto la sua ala e anche se all’inizio avevo il terrore per il modellato, poi è diventata la mia materia prediletta in assoluto. Ho concluso il liceo e dopo un breve periodo ad Architettura mi sono iscritta all’Accademia di Belle Arti di Bari con tanto entusiasmo. Ma ero completamente fuori dal giro: non partecipavo alle mostre ed ero abbastanza isolata. A un certo punto mi sono risvegliata, ho elimina-to l’accademismo e nel 2009 ho esordito con i nuovi lavori e con la partecipazione a mostre. Prima però ho sperimentato molti stili.

LM/ Per esempio?

CG/ Qualsiasi tipo di stile. Cercavo di spurgarmi un po’ e facevo di tutto. Mentre lavoravo come artista ho rischiato anche la vita utiliz-zando i forni per la ceramica (ride, ndr)… poi ho capito che erano la terracotta, il vetro e il legno i materiali prediletti.

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Le prime sculture hanno qualche ricordo accademico, ma sono già autonome, seppur contraddittorie.Nel 2010 ho poi incontrato Iginio Iurilli e sono diventata sua as-sistente. Molto spesso lavorare insieme è un pretesto per vedersi. Iginio è uno scultore estremamente fertile.

LM/ Cosa pensi del panorama pugliese dell’arte contemporanea?

CG/ A Bari siamo abbastanza fortunati, ci sono giovani gallerie disposte al sacrificio, come BLUorG, ARTcore e Fabrica Fluxus. Negli ultimi cinque sei anni sono stati inaugurati numerosi spazi. Ultimamente sto collaborando con la Fondazione Pino Pascali, un’esperienza molto importante per me, essendo il palcoscenico più interessante in Puglia. Difatti ho appena donato un’opera e proprio alcuni giorni fa l’ho montata in uno spazio del piano interrato… sarò in ottima compagnia con Dario Agrimi, i Chapmann e Jan Fabre!

LM/ Progetti per il futuro?

CG/ Per adesso sono in una nuova fase progettuale, se espongo pro-pongo qualcosa di vecchio. Vorrei fare qualcosa di diverso…

Dall’alto: CHECK OUT, 2012. Terracotta, 25x43 cm. LA VECCHIA, 2012. Terracotta, 25x25x43 cm. Per entranbe courtesy dell’artista.

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“Intervenire nell’architettura di un luogo vuol dire interve-nire sul suo senso, sulla sua storia”. Basterebbero queste poche parole, scritte dal protagonista della settima edizio-

ne della rassegna d’arte “Intersezioni”, Daniel Buren, per sintetiz-zare il lavoro svolto dal maestro francese al Parco Archeologico di Scolacium. L’esposizione, curata da Alberto Fiz, presenta cinque differenti installazioni, realizza-te sui luoghi simbolo del Parco, che testimoniano la straordina-ria capacità di Buren d’interve-nire sullo spazio con un segno al tempo stesso mimetico ed incisivo, fatto di ritmo e colore, dove l’opera esiste solo in fun-zione del sito che la ospita e la giustifica. Ciò vale in maniera particolare per l’intervento realizzato tra gli ulivi, dove degli anelli, decorati con le tradizionali strisce verti-cali bianche e verdi, abbraccia-no la base dei tronchi secolari eleggendo l’albero stesso a scul-tura. Suggestivo anche l’inter-vento sulla Basilica in cui nuova vita viene donata alla struttura da due grandi vetrate colorate e dai loro disegni di luce. Una “Cabane éclatée”, storica architettura attraversabile di Buren, regala poi stupore e imprevisto nel cuore del Parco, mimetizzandosi grazie alle sue superfici specchiate che amplificano la percezione dello spazio e moltiplicano le presenze del luogo. L’imponente Foro appare invece abitato da colonne, “segnate” con il caratteristico outil visuel bianco e rosso, posizionate tra i ruderi

come improbabili e sorprendenti reperti archeologici o semplici testimoni di un rinnovato presente.Di grande efficacia anche l’intervento effettuato nel Teatro, dove un lungo muro divide in due l’ambiente creando una dicotomia non solo visiva, ma anche simbolica, del luogo. Da un lato, infatti, la parete appare come una superficie specchiata capace, per mezzo

del riflesso, di completare visi-vamente la gradinata, dall’altro invece come una nuda quinta te-atrale. È così che lo spazio, rotto visivamente dal muro di Buren, si sdoppia anche concettual-mente in due luoghi speculari, il primo, simbolo della finzione della realtà, il secondo, vicever-sa, della realtà della finzione. Elegantissimo infine l’interven-to al MARCA, complementare a quello di Scolacium, dove le pa-reti diventano il supporto stesso dell’opera in un gioco di luci, ombre e riflessi. “Impermanen-ze”, quelle realizzate nel Parco e nel Museo da Buren, destinate ad essere smantellate e distrutte dopo l’esposizione. Ma quando l’intervento scomparirà come

“cosa” di sicuro rimarrà eternamente vivo come immagine. L’arte a volte è fatta più di memoria che di materia. Di ciò la storia è testimone.

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SHOW REVIEWS

LE IMPERMANENZE ETERNE DI BURENParco Archeologico di Scolacium - MARCA, Catanzaro - Gregorio Raspa

PONCTUER L’ESPACE, 55 TAMBOURS POUR LE FORUM. Opera in situ.

ANTONIO OLIVA MARIA LECCE GIULIA DE LA VIA

MOSTARDI ANNAMARIA PANARACE MARCO TIANO - ENRICO COPPOLA - FRANCO

PITRELLI

www.provincia.cosenza.it

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