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Singolari Books Box vol. VI

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Tre racconti Singolari editi da Liberaria

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LA VITA NATURALEMARCO LUPO

LA PENULTIMA COSAraffaele riba

SCATTIARIANNA PETROSINO

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LA VITA NATURALE

MARCO LUPO

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Non si può vivere senza nemici. Sarebbe possibile in un posto caldo, schermati da

protezioni solari che profumano di agrumi e hanno il colore dei pastelli. Sarebbe possibile in un posto freddo, i piedi coperti da calzettoni di lana, la gola nascosta nelle pieghe di un collo alto e musica quadrifonica che vibra sulla moquette.

Diversamente no, non è possibile.

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1944 Dopo una passeggiata durata ore e finita in un

rifugio da qualche parte sulla dorsale di una montagna. Sono le prime ore di un giorno che non prevede altro che neve, o pioggia che scioglie neve. Ha la pelle dei piedi arricciata, come se li avesse tenuti a bagno per ore. Calli grandi tre dita che bruciano quando decide di muoversi dal letto per cercare qualcosa da mangiare nell’armadio in cucina.

1951Scivola sulla lunga pista sotto le luci che seguono

l’orchestra. Aspira l’odore di colonie che incrociano sudori sulla pista da ballo. Preme le dita su una schiena di uomo che si tende sotto le arcate bianche di un hotel, nel cuore di Parigi.

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1956Non ditele mai che assomiglia a Marlene. Il regista

ha occhi grigi che diventano gialli quando finiscono le riprese e inizia l’ora dei cocktail. Gli attrezzisti sistemano la scena facendo scricchiolare l’impiantito dell’appartamento. Non ditele mai che assomiglia alla Dietrich, dice il regista con la lingua addolcita dal liquido bruno. Non vuole sentirselo dire.

1944 Il continente non dorme e non si aspetta che

qualcuno lo faccia. Le rughe non dimostrano nulla. Bisogna portare

in pegno tutto il corpo, muovere bene le braccia, assicurarsi che il culo e i seni siano visibili dal lato sinistro come da quello destro. Mettiamo in conto che le dimensioni della stanza pretendono una certa mobilità. Assicuriamoci che gli uomini in divisa stiano guardando il corpo che devono guardare e che la stoffa del vestito copra il necessario, come nelle riviste che lasciano immaginare ciò che non si può vedere.

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LA PENULTIMA COSA

RAFFAELE RIBA

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Prima dell’apertura Celeste metteva fuori l’ingresso tutte le cose di immediato consumo che attirano i clienti. Sulla destra una griglia, per dimensioni e ricorrenza, con biglietti d’auguri, a fianco uno scaffale con quaderni, rubriche, agende e block notes. Dall’altra parte una cassettiera di legno con articoli di cancelleria.

Il negozio era anche quella porzione di marciapiede, in un comodato d’uso talmente remoto da non essere mai stato formalizzato, lì da sempre, da prima dei vigili che chiudevano un occhio perché nell’altro c’era l’osservanza e il rispetto di un esercizio che presto avrebbe terminato l’attività, lì da prima che certe usanze, come i piccoli furti che pure c’erano, Celeste pensava fossero appannaggio di bambini che bramano una penna o una gomma, piuttosto che sottrazioni fatte per punire l’ingenuità della proprietaria e del suo mondo antico.

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L’insegna recitava Cartolibreria Benedicenti e sotto “Articoli per la scuola, la casa e l’ufficio”.

Per quarant’anni sempre la stessa procedura, il negozio portato fuori l’ingresso, la disposizione degli oggetti, il mutamento appena percettibile dei marciapiedi, delle crepe, l’evolversi delle dimensioni e delle forme delle auto che passano davanti, gli altri esercizi che cambiano e si trasformano come i colleghi che li occupano comprando licenze e poi lasciandoli, magari per ingrandirsi, magari per cambiare attività o semplicemente domicilio. Le stesse persone che passano e salutano, le stesse mani che però accumulano pieghe e rughe e le voci che si lasciano andare come le bocche da cui escono. Abitudini talmente forti, e neanche più rassicuranti o insopportabili, che hanno dato ritmo e sequenza ad avvicendamenti e invecchiamenti, che non stupiscono, che, anzi, oramai Celeste sapeva e aspettava con la regolarità che aveva previsto.

Per questo in una delle ultime di quelle cinquantamila e rotte mattine, un evento tutt’al più curioso assunse per Celeste proporzioni inattese e definitive. Tra il tempo di rientrare, dopo aver occupato la parte destra del marciapiede con la griglia girevole e lo scaffale delle agende e quello

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di uscire per addobbare il lato sinistro dell’ingresso con la cassettiera per la cancelleria, un cestino di vimini che pendeva da una corda e sostava a mezz’aria immise un principio di caos nella misurata geometria di Celeste.

Le era capitato di ospitare in negozio due gatti su un cuscino per aiutare un’amica senza più tempo e spazio a intenerire qualche cliente, o aveva avuto con sé un ragazzo che le diede una mano in quel Natale in cui proprio le mancavano le forze. Tutto qui. Quindi, per godere di quell’apparizione che andava al di là dei soliti cambiamenti, Celeste accomodò la cassettiera nel posto preciso di ogni mattina, diede un’occhiata all’insieme per stabilire che tutto fosse dove doveva e, solo allora, dando il giusto spazio alla curiosità, si diresse verso il cesto.

Le ci volle un attimo per riuscire a vederne il contenuto. Dovette alzarsi sulle punte, inclinarlo e poi scendere con lo sguardo verso gli strati di intrecci. Solo allora colse una fotografia capovolta a cui era attaccata una banconota arrotolata. Prese tutto tra le dita per osservare in posizione migliore. Voltandola vide che la polaroid ritraeva una scatola vuota di puntine, un rotolo di scotch alla fine e un quaderno a quadretti sulla cui ultima pagina c’era scritto “Grazie”.

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SCATTI

ARIANNA PETROSINO

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Tutti ti videro mentre correvi via. Scavalcavi la balaustra, saltando il muretto.

Tutti ti videro inciampare nei pantaloni troppo larghi, e imprecare prima che ricominciassi a correre. Ma nessuno ti guardò per davvero. Eri come la macchiolina nera sull’obiettivo della macchina fotografica, quella di cui nessuno si cura, e che poi si fa notare in tutta la sua importanza nascosta quando si sviluppano le foto.

Eri sempre rimasto nell’ombra, un po’ celato all’attenzione: non ti piacevano le folle, non amavi parlare in pubblico, preferivi stare dietro l’obiettivo piuttosto che davanti. Forse per questo facevi il fotografo, perché i megafoni non li sopportavi e la

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calca ti infastidiva: avevi passato la tua adolescenza nelle piazze piene di studenti, ma non avevi una foto che lo testimoniasse. Mentre avevi degli scatti splendidi dei tuoi compagni: di classe, di scuola, di lotta.

Avevi vissuto momenti di tensione come tutti. I tuoi genitori avevano passato notti d’ansia credendoti già sotto i manganelli e, per tua fortuna, avevano pensato bene di dirti come evitarli. Ti avevano consigliato il posto migliore per nascondersi: fra due macchine, non ti trova nessuno, lì. Mai un loro consiglio ti fu tanto utile.

Due auto, dovevi trovarle, ma è difficile continuare a correre e guardarsi intorno, quando l’unica cosa da fare è allontanarsi.

Paura, terrore, panico dentro gli occhiali spaccati e nel sudore della fronte. Ma chi ha paura non tira fuori la Reflex, non si ripara per montare un obiettivo.

La palestra era di fronte, con tutti i suoi materassini sporchi e le docce rotte da giorni, con le stanze da cui

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trasmettevano tutto via radio. La cappa di fumo non ti dava fastidio come i primi giorni, alla fine ti ci eri abituato anche tu, ma iniziasti a tossire ugualmente.

Marcos, il ragazzo spagnolo seduto al computer, ti aveva guardato e, passandoti un bicchiere d’acqua, aveva ricominciato a battere un altro comunicato. Non si era reso conto che ansimavi, non si era reso conto dei tuoi occhi color terrore.

- L’hanno ammazzata.Marcos ti stava fissando come se ti fossi fumato il

mondo, senza prenderti troppo sul serio.- L’hanno ammazzata. Come dieci anni fa. Cosa

state aspettando? Dove sta la radio? Lo volete dire cazzo?

- Che cazz... le foto! Hai le foto?Avevi lasciato lo zaino e tirato fuori il portatile,

poggiato a terra tutto ciò che ti infastidiva: la camicia, i giornali. Pure le sigarette.

Eri quasi sulla porta, scritte due righe sull’assassinio, ed eri già in strada, di nuovo.