367
INDICE-SOMMARIO SENTENZA N. 3 DEL 1957........................................... 2 SENTENZA N. 9 DEL 1959..........................................10 SENTENZA N. 231 DEL 1975........................................34 SENTENZA N. 129 DEL 1981........................................46 SENTENZA N. 78 DEL 1984.........................................57 SENTENZA N. 292 DEL 1984........................................66 SENTENZA N. 154 DEL 1985........................................78 SENTENZA N. 1150 DEL 1988.......................................95 SENTENZA N. 391 DEL 1995.......................................101 SENTENZA N. 7 DEL 1996.........................................106 SENTENZA N. 379 DEL 1996.......................................125 SENTENZA N. 10 DEL 2000........................................140 SENTENZA N. 11 DEL 2000........................................149 SENTENZA N. 225 DEL 2001.......................................157 SENTENZA N. 219 DEL 2003.......................................169 SENTENZA N. 379 DEL 2003.......................................175 SENTENZA N. 24 DEL 2004........................................184 SENTENZA N. 120 DEL 2004.......................................202 SENTENZA N. 163 DEL 2005.......................................216 SENTENZA N. 241 DEL 2007.......................................228 1

SENTENZA Nstatic.luiss.it/siti/media/6/20080409-sentenze dir ass el... · Web viewSENTENZA N. 3 DEL 1957 2 SENTENZA N. 9 DEL 1959 10 SENTENZA N. 231 DEL 1975 34 SENTENZA N. 129 DEL

  • Upload
    buianh

  • View
    215

  • Download
    0

Embed Size (px)

Citation preview

INDICE-SOMMARIO

SENTENZA N. 3 DEL 1957..............................................................................................................2SENTENZA N. 9 DEL 1959............................................................................................................10SENTENZA N. 231 DEL 1975........................................................................................................34SENTENZA N. 129 DEL 1981........................................................................................................46SENTENZA N. 78 DEL 1984..........................................................................................................57SENTENZA N. 292 DEL 1984........................................................................................................66SENTENZA N. 154 DEL 1985........................................................................................................78SENTENZA N. 1150 DEL 1988......................................................................................................95SENTENZA N. 391 DEL 1995......................................................................................................101SENTENZA N. 7 DEL 1996..........................................................................................................106SENTENZA N. 379 DEL 1996......................................................................................................125SENTENZA N. 10 DEL 2000........................................................................................................140SENTENZA N. 11 DEL 2000........................................................................................................149SENTENZA N. 225 DEL 2001......................................................................................................157SENTENZA N. 219 DEL 2003......................................................................................................169SENTENZA N. 379 DEL 2003......................................................................................................175SENTENZA N. 24 DEL 2004........................................................................................................184SENTENZA N. 120 DEL 2004......................................................................................................202SENTENZA N. 163 DEL 2005......................................................................................................216SENTENZA N. 241 DEL 2007........................................................................................................228

1

SENTENZA N. 3 DEL 1957

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Avv. ENRICO DE NICOLA, Presidente

Dott. GAETANO AZZARITI

Prof. TOMASO PERASSI

Prof. GASPARE AMBROSINI

Prof. ERNESTO BATTAGLINI

Dott. MARIO COSATTI

Prof. FRANCESCO PANTALEO GABRIELLI

Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO

Prof. MARIO BRACCI

Prof. NICOLA JAEGER

Prof. GIOVANNI CASSANDRO

Prof. BIAGIO PETROCELLI

Dott. ANTONIO MANCA, Giudici,

ha pronunziato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 52 del D.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1067, promosso con l'ordinanza 17 febbraio 1956 della Corte di appello di Venezia nel procedimento su ricorso proposto da Pascolo Etelredo, rappresentato e difeso nel presente giudizio dagli avvocati Antonio Sorrentino e Luigi Biamonti, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 91 del 14 aprile 1956 ed iscritta al n. 76 del Reg. ord. 1956.

Vista la dichiarazione di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 10 ottobre 1956 la relazione del Giudice Francesco Pantaleo Gabrieli;

uditi l'avv. Antonio Sorrentino per Pascolo Etelredo ed il sostituto avvocato generale dello Stato Dario Foligno per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

2

Ritenuto in fatto

La questione di legittimità costituzionale, oggetto del presente giudizio, é stata sollevata nel corso del procedimento promosso dal ragioniere Etelredo Pascolo con l'impugnazione, presso il Tribunale di Venezia, della delibera 30 luglio 1954 della Commissione straordinaria per la prima formazione dell'albo e dell'elenco dei dottori commercialisti, istituito presso la Corte di appello di Venezia, ai sensi dell'art. 50 del D. P. 27 ottobre 1953, n. 1067. Tale deliberazione rigettava la domanda con la quale il Pascolo chiedeva l'iscrizione nell'albo dei dottori commercialisti, ai sensi dell'art. 52 del citato D. P. n. 1067, perché sfornito del certificato di previa cancellazione del medesimo dall'albo dei ragionieri. Il Pascolo era già iscritto, a norma dell'art. 6 R.D. 28 marzo 1929, n. 588, e nell'albo degli esercenti in economia e commercio e nell'albo dei ragionieri.

Nel menzionato procedimento, la difesa del Pascolo ha dedotto la incostituzionalità della norma contenuta nel citato art. 52: perché eccedente i limiti della delega conferita al Governo con la legge 28 dicembre 1952, n. 3060 (artt. 76 e 77 della Costituzione): perché contrastante con le norme degli artt. 3 e 4 della Costituzione stessa. L'eccezione, respinta dal Tribunale (sent. 23 novembre - 12 dicembre 1955), veniva riproposta nel successivo giudizio davanti alla Corte di appello di Venezia; la quale, dissentendo dai primi giudici, riteneva che la questione d'illegittimità costituzionale non appariva manifestamente infondata, ed ordinava la trasmissione degli atti a questa Corte (ordinanza 17 febbraio 1956).

Detta ordinanza era regolarmente notificata il 12 marzo 1956, comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

La difesa del Pascolo, con le deduzioni depositate in cancelleria all'atto della costituzione in giudizio, chiede che la Corte dichiari la illegittimità costituzionale della ripetuta norma dell'art. 52 e di quelle altre disposizioni la cui illegittimità, a giudizio della Corte, debba derivare come conseguenza della adottanda decisione.

A sostegno di tale richiesta la difesa del Pascolo assume: che la norma dell'art. 52 del D. P. 27 ottobre 1953, n. 1067, stabilendo che i ragionieri iscritti nell'albo degli esercenti in economia e commercio (art. 6 del R.D. 28 marzo 1929, n. 588) sono iscritti a loro domanda nell'albo o nell'elenco di cui nel detto decreto, "previa cancellazione dall'albo dei ragionieri", ha superato i limiti posti dalla legge delegante (legge 28 dicembre 1952, n. 3060) e quindi é costituzionalmente illegittima, ai sensi del primo comma dell'art. 77 della Costituzione.

Invero i principi e i criteri direttivi enunciati dalla legge, sono i seguenti:

a) la determinazione del campo delle attività professionali non deve importare attribuzioni di attività in via esclusiva;

b) la costituzione degli organi professionali deve ispirarsi a principi democratici;

c) la iscrizione negli albi non deve in alcun caso consentirsi agli impiegati dello Stato e delle altre pubbliche amministrazioni, ai quali, secondo gli ordinamenti loro applicabili, sia vietato l'esercizio della libera professione;

d) i procedimenti relativi alla iscrizione e alla cancellazione dall'albo, e quelli in materia disciplinare, devono essere regolati in maniera da assicurare la tutela dei diritti degli interessati e la difesa degli incolpati.

3

In detti principi non sarebbe compresa la facoltà di sopprimere il trattamento stabilito dal precedente ordinamento della professione di ragioniere, e cioé la possibilità per i ragionieri aventi determinati requisiti (quelli indicati dal cennato art. 6 del R.D. 28 marzo 1929, n. 588) di essere iscritti nell'albo degli esercenti in economia e commercio senza rinunziare, ma mantenendo l'iscrizione nell'albo dei ragionieri.

La difesa del Pascolo pone in rilievo, che il ripetuto art. 52, consentendo soltanto ai dottori commercialisti, se in possesso del diploma di ragioniere, l'esercizio anche di tale professione, sarebbe in contrasto con gli artt. 3 e 4 della Costituzione, in quanto avrebbe creato disparità di trattamento tra persone ammesse ad esercitare la medesima professione di dottore in economia e commercio: cioé ragionieri aventi i requisiti indicati dall'art. 6 del R.D. 28 marzo 1929, n. 588, e dottori commercialisti.

L'art. 52 non avrebbe soppresso la parificazione tra antichi ragionieri e commercialisti, ai fini della iscrizione nell'albo dei commercialisti. Diversamente, mentre a un dottore commercialista, in possesso anche del diploma di ragioniere, sarebbe consentito l'esercizio di entrambe le professioni con la iscrizione nei due albi, ciò verrebbe inibito ai soli antichi ragionieri, già iscritti e nell'albo dei commercialisti e in quello dei ragionieri; venendosi così a creare, per gli esclusi, un motivo di incompatibilità per l'esercizio della professione di ragioniere: discriminazione in contrasto con i principi enunciati negli artt. 3 e 4 della Costituzione.

Nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso, come per legge (artt. 20 e 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87), dall'Avvocatura generale dello Stato. La difesa con le deduzioni depositate in cancelleria all'atto dell'intervento, sostiene che la delega venne conferita al Governo per procedere alla "revisione" (il titolo della legge usa anzi addirittura il termine "riforma") dell'ordinamento allora vigente. Al Governo, cioé, era stata data facoltà di procedere ad una revisione o riforma del vecchio ordinamento del quale non era necessario ricalcare pedissequamente le direttive e la disciplina, potendosi far luogo ad innovazioni, che non contrastassero con i criteri stabiliti dalla legge delega. Tale contrasto non si sarebbe verificato con la modifica contenuta nell'art. 52 del D. P. 27 ottobre 1953, n. 1067. Inoltre la difesa pone in evidenza, che il divieto della contemporanea iscrizione nei due albi non costituisce violazione di alcun principio di eguaglianza. Contro tale divieto, posto per coloro che, in via transitoria, avevano potuto fruire della doppia iscrizione sotto l'impero del R.D. 28 marzo 1929, n. 588, non può invocarsi la più ampia facoltà concessa ai dottori commercialisti. Trattasi di due categorie professionali ben distinte (art. 6 ult. comma del R.D. citato), e il legislatore non ha violato, né la dignità sociale dei ragionieri esclusi, né i criteri di eguaglianza, se ha voluto consentire ai dottori di ottenere la doppia iscrizione negata invece ai ragionieri, ammessi, in virtù di norma transitoria, ad un albo professionalmente superiore. A prescindere che, in pratica, le funzioni spettanti ai dottori commercialisti assorbono le funzioni proprie dei ragionieri (art. 1 D. P. 27 ottobre 1953, n. 1067, e art. 1 D. P. 27 ottobre 1953, n. 1068).

Considerato in diritto

La difesa del Pascolo ha impugnato di illegittimità costituzionale la norma contenuta nell'art. 52 del D.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1067, sull'ordinamento della professione di dottore commercialista, perché in contrasto con le disposizioni degli artt. 3 primo comma e 4 primo comma della Costituzione. La proposta eccezione é infondata.

Dispone l'art. 52: "Sono iscritti a loro domanda nell'albo o nell'elenco, ai sensi dell'art. 50, previa cancellazione dall'albo dei ragionieri, i ragionieri iscritti nell'albo degli esercenti in

4

economia e commercio: tale iscrizione non dà diritto al titolo di dottore commercialista". In sostanza la norma delegata mentre consente ad un dottore commercialista, in possesso anche del diploma di ragioniere, di iscriversi e nell'albo degli esercenti in economia e commercio e nell'albo dei ragionieri, inibisce agli antichi ragionieri, già iscritti in entrambi detti albi (art. 6 R.D. 28 marzo 1929, n. 588), di iscriversi nell'albo degli esercenti in economia e commercio, senza "previa cancellazione" dall'albo dei ragionieri. Tale divieto della contemporanea iscrizione nei due albi non viola la "dignità sociale" degli esclusi. Invero il principio enunciato nel comma primo dell'art. 3 della Costituzione sta a significare, che devesi riconoscere ad ogni cittadino uguale dignità pur nella varietà delle occupazioni o professioni, anche se collegate a differenti condizioni sociali; perché ogni attività lecita é manifestazione della persona umana, indipendentemente dal fine cui tende e dalle modalità con cui si compie. Ora il divieto ai vecchi ragionieri di poter mantenere la iscrizione nei due albi professionali non ha violato la loro dignità sociale; che anzi il legislatore ha messo costoro in condizione di potersi iscrivere ad un albo professionale per cui é prescritto un titolo accademico superiore, quale é quello degli esercenti in economia e commercio rispetto a quello dei ragionieri.

Né detto divieto é in contrasto con l'altro principio della "eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge", enunciato nello stesso art. 3 della Costituzione.

Questo principio non va inteso nel senso, che il legislatore non possa dettare norme diverse per regolare situazioni che esso ritiene diverse, adeguando così la disciplina giuridica agli svariati aspetti della vita sociale. Ma lo stesso principio deve assicurare ad ognuno eguaglianza di trattamento, quando eguali siano le condizioni soggettive ed oggettive alle quali le norme giuridiche si riferiscono per la loro applicazione. La valutazione della rilevanza delle diversità di situazioni in cui si trovano i soggetti dei rapporti da regolare non può non essere riservata alla discrezionalità del legislatore, salva l'osservanza dei limiti stabiliti nel primo comma del citato art. 3.

Pertanto la norma impugnata non viola il dedotto principio della "eguaglianza dei cittadini davanti alla legge", perché non disconosce ai vecchi ragionieri la posizione giuridica corrispondente alla loro capacità e all'attività che svolgono. Essi sia rimanendo nell'albo dei ragionieri, sia iscrivendosi nell'albo degli esercenti in economia e commercio possono svolgere la loro professione, entro la sfera che la legge stabilisce, rispettivamente, per i ragionieri e per gli esercenti in economia e commercio.

Infine non sussiste la violazione dell'art. 4, primo comma, della Costituzione, che "riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro". Trattasi di un'affermazione sul piano costituzionale della importanza sociale del lavoro che, senza creare rapporti giuridici perfetti, costituisce un invito al legislatore a che sia favorito il massimo impiego delle attività libere nei rapporti economici. Ciò posto non si può invocare nella specie il su enunciato principio, perché il ragioniere Pascolo, con la iscrizione in uno degli albi prescritti dalla legge, può pienamente svolgere l'attività corrispondente alla sua professione.

Ma la questione di legittimità costituzionale si pone sotto altro profilo in quanto si assume, che il menzionato art. 52 avrebbe ecceduto i limiti della delega conferita al Governo con la legge 28 dicembre 1952, n. 3060. Viene così sottoposta all'esame della Corre la questione, se, ed entro quali limiti, sia consentito il sindacato di legittimità costituzionale sulla legge delegata.

Occorre anzitutto stabilire, se la legge delegata possa essere denunciata a questa Corte per vizio d'incostituzionalità. L'art. 134 della Costituzione stabilisce la competenza della

5

Corte costituzionale a giudicare "sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge". Questa garanzia della costituzionalità delle leggi si riannoda al principio generale di carattere costituzionale, che il potere - dovere di fare le leggi spetta soltanto al Parlamento nelle forme prescritte. Dal sistema sul processo formativo delle leggi, accolto dalla Carta costituzionale, risulta che la funzione legislativa é esercitata dalle due Camere collettivamente con una procedura bene definita (ex artt. 70, 71, 1 comma, 72, 73, 74). Può inoltre essere esercitata, in via eccezionale, dal Governo con modalità legislativa mente stabilite (artt. 76, 77).

La legge delegata é una delle due forme eccezionali con cui si esercita il potere normativo del Governo. Il relativo procedimento consta di due momenti: nella prima fase il Parlamento con una norma di delegazione prescrive i requisiti e determina la sfera entro cui deve essere contenuto l'esercizio della funzione legislativa delegata (art. 76); successivamente, in virtù di tale delega, il potere esecutivo emana i "decreti che hanno forza di legge ordinaria" (art. 77, comma 1 ). Queste fasi si inseriscono nello stesso iter, e ricollegando la norma delegata alla disposizione dell'art. 76, attraverso la legge di delegazione, pongono il processo formativo della legge delegata, come una eccezione al principio dell'art. 70. La norma dell'art. 76 non rimane estranea alla disciplina del rapporto tra organo delegante e organo delegato, ma é un elemento del rapporto di delegazione in quanto, sia il precetto costituzionale dell'art. 76, sia la norma delegante costituiscono la fonte da cui trae legittimazione costituzionale la legge delegata.

La inscindibilità dei cennati momenti formativi dell'atto avente forza di legge si evince anche dalla disposizione dell'art. 77, comma 1, secondo cui si nega al Governo il potere normativo, se non sia intervenuta la delegazione delle Camere: l'art. 76, fissando i limiti del potere normativo delegato, contiene una preclusione di attività legislativa, e la legge delegata, ove incorra in un eccesso di delega, costituisce il mezzo con cui il precetto dell'art. 76 rimane violato. La incostituzionalità dell'eccesso di delega, traducendosi in una usurpazione del potere legislativo da parte del Governo, é una conferma del principio, che soltanto il Parlamento può fare le leggi.

Né per sottrarre le leggi delegate al controllo costituzionale si dica che, nella specie, mancherebbe il presupposto per la esistenza della controversia di legittimità costituzionale; cioé un contrasto diretto tra norma ordinaria e precetto costituzionale, in quanto soltanto tale contrasto potrebbe dar luogo ad un accertamento di conformità o di divergenza costituzionale. Giacché se di regola il rapporto di costituzionalità sorge tra un precetto costituzionale e una legge ordinaria, non é da escludere che, in piena aderenza al sistema, possa egualmente verificarsi una violazione di un precetto costituzionale, come per le leggi delegate, qualora nello esercizio del potere normativo eccezionalmente attribuito al Governo non siano osservati i limiti prescritti. Anche in siffatta ipotesi si verifica un caso di mancanza di potere normativo delegato, che non può sfuggire al sindacato di questa Corte.

La tesi opposta, che considera la legge delegante e la legge delegata, come leggi ordinarie, porterebbe a negare la competenza di questa Corte a conoscere di eventuali contrasti tra le due norme, attribuendone l'esame al giudice ordinario.

Non può inoltre sostenersi che, considerando la norma delegata come provvedimento di esecuzione della legge delegante, le eventuali esorbitanze debbano essere conosciute dal giudice ordinario, al pari degli eccessi dei regolamenti esecutivi; perché, non trovandosi la legge delegata sullo stesso piano costituzionale del regolamento esecutivo, non si può relativamente ai vizi dell'atto avente forza di legge ordinaria negare la particolare più efficace tutela disposta dalla Costituzione.

6

Sarebbe in contrasto col principio organizzativo posto a base della formazione delle leggi, negare per le leggi delegate, aventi anche esse carattere generale e che pur possono essere mancanti di elementi essenziali, sia la tutela costituzionale predisposta per le leggi del potere legislativo, sia la possibilità di una decisione con efficacia erga omnes (art. 136 Costituzione).

Pertanto non é a dubitare, che la violazione delle norme strumentali per il processo formativo della legge nelle sue varie specie (artt. 70, 76, 77 Costituzione), al pari delle norme di carattere sostanziale contenute nella Costituzione, siano suscettibili di sindacato costituzionale; e che nelle "questioni di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge" (artt. 1 legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1; 23 comma 3 e 27 legge 11 marzo 1953, n. 87) vanno comprese le questioni di legittimità costituzionale relative alle leggi delegate.

Consegue che il sindacato é devoluto sempre alla competenza della Corte costituzionale, ai sensi degli artt. 1 cit. legge costituzionale n. 1, 23 cit. legge 1953, n. 87; soltanto le decisioni della Corte costituzionale possono assicurare, con la certezza del diritto, la piena tutela del diritto del cittadino alla costituzionalità delle leggi.

Affermata la sindacabilità costituzionale della legge delegata, occorre precisare i rapporti tra legge delegante e legge delegata.

La legge delegante va considerata con riferimento all' art. 76 della Costituzione, per accertare se sia stato rispettato il precetto che ne legittima il processo formativo. L'art. 76 indica i limiti entro cui può essere conferito al Governo l'esercizio della funzione legislativa.

Per quanto la legge delegante sia a carattere normativo generale, ma sempre vincolante per l'organo delegato, essa si pone in funzione di limite per lo sviluppo dell'ulteriore attività legislativa del Governo. I limiti dei principi e criteri direttivi, del tempo entro il quale può essere emanata la legge delegata, di oggetti definiti, servono da un lato a circoscrivere il campo della delegazione sì da evitare che la delega venga esercitata in modo divergente dalle finalità che la determinarono; devono dall'altro consentire al potere delegato la possibilità di valutare le particolari situazioni giuridiche della legislazione precedente, che nella legge delegata deve trovare una nuova regolamentazione.

Se la legge delegante non contiene, anche in parte, i cennati requisiti, sorge il contrasto tra norma dell'art. 76 e norma delegante, denunciabile al sindacato della Corte costituzionale, s'intende dopo l'emanazione della legge delegata.

Del pari si verifica un'ipotesi d'incostituzionalità, quando la legge delegata viola direttamente una qualsiasi norma della Costituzione. Nel caso in esame l'art. 52 precitato non é in contrasto, come si é dimostrato, con gli articoli 3 e 4 della Costituzione.

La legittimità costituzionale della legge delegata va poi esaminata in relazione alla norma dell'art. 77, comma 1, della Costituzione, secondo la quale "il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria".

La delegazione é accompagnata, come si é detto, da limiti che si riflettono sulla legge delegata, la cui legittimità costituzionale é subordinata alla conformità della norma delegata alla norma delegante.

E le controversie di legittimità costituzionale hanno appunto per oggetto l'accertamento della conformità o divergenza della legge o dell'atto avente forza di legge da un precetto costituzionale.

7

Il giudizio sulla conformità o divergenza porta a considerare l'eccesso di delega, come figura comprensiva della mancanza, anche parziale, di delegazione, nonché l'uso del potere normativo da parte del Governo oltre il termine fissato, ovvero in contrasto con i predeterminati criteri direttivi o per uno scopo estraneo a quello per cui la funzione legislativa fu delegata.

Lo stesso giudizio ricorre anche quando, fuori dei casi su indicati, trattasi di coordinare la legge delegata a quella delegante, ricercandone i caratteri sistematici che le collegano e che valgano a ricondurre, nei giusti limiti della norma delegante, il contenuto della legge delegata.

In questa ipotesi non sorge una normale questione d'interpretazione devoluta al giudice ordinario, bensì, venendo in contestazione il profilo costituzionale della norma impugnata, si pone sempre una questione di legittimità costituzionale.

La valutazione, poi, circa la conformità o divergenza deve necessariamente risultare da un processo di confronto tra le due norme; il quale peraltro va contenuto alla indagine sulla sussistenza dei requisiti, che condizionano la legittimità costituzionale della norma delegata; una più approfondita interpretazione, investendo il merito, ossia l'opportunità della norma, esorbiterebbe dalle finalità istituzionali di questa Corte.

Applicando i su menzionati principi alla specie in esame, é a ritenere che il Governo non sia incorso nel denunciato eccesso di delega col vietare ai vecchi ragionieri, già iscritti e nell'albo dei ragionieri e nell'albo degli esercenti in economia e commercio, e sforniti del titolo di dottore commercialista, di iscriversi nel secondo albo senza previa cancellazione dall'albo dei ragionieri (art. 52 legge delegata approvata con D.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1067). Invero la legge delegante 28 dicembre 1952, n. 3060, dopo avere precisato l'oggetto della delega nella "revisione degli ordinamenti delle professioni di professionista in economia e commercio e di ragioniere", ha segnato al potere normativo delegato i seguenti limiti: divieto di attribuzioni di attività in via esclusiva; costituzione degli organi professionali ispirata a principi democratici; esclusione dagli albi dei pubblici impiegati cui sia vietato l'esercizio della libera professione; tutela dei diritti degli interessati e difesa degli incolpati in materia disciplinare.

Il Governo, investito del cennato potere, ha emanato l'ordinamento della professione di dottore commercialista, riguardante lo stesso oggetto della delega; e poiché la nuova legge si ricollegava a precedenti ordinamenti da modificare, completare e coordinare, ha tenuto conto, come doveva, delle disposizioni già vigenti e, in modo particolare, degli artt. 5 e 6 del R.D. 28 marzo 1929, n. 588, relativi al regolamento per l'esercizio della professione in materia di economia e commercio.

Infine il divieto impugnato di illegittimità costituzionale non contrasta con i criteri direttivi contenuti, nell'atto di delegazione, giacché l'opzione accordata ai vecchi ragionieri di iscriversi nell'albo degli esercenti in economia e commercio, previa cancellazione dall'albo dei ragionieri, risponde da un lato alla rigorosa specificazione cui si informano i nuovi albi, rientra dall'altro nella facoltà data al Governo di procedere ad una revisione (o riforma) del precedente ordinamento, che doveva essere rinnovato per adeguarlo alle sopravvenute esigenze dell'attività professionale che disciplina.

Pertanto la legge delegata si é mantenuta nei limiti indicati nell'atto di delegazione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

8

dichiara non fondata la questione proposta con l'ordinanza della Corte di appello di Venezia, in data 24 febbraio 1956, sulla legittimità costituzionale della norma contenuta nell'art. 52 del D.P.R. 27 ottobre 1953, n. 1067, che disciplina l'ordinamento della professione di dottore commercialista, in riferimento alle norme degli articoli 3, comma 1, e 4, comma 1, della Costituzione nonché alla legge delega 28 dicembre 1952, n. 3060.

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 gennaio 1957.

ENRICO DE NICOLA, PRESIDENTE

FRANCESCO PANTALEO GABRIELI, REDATTORE

Depositata in cancelleria il 26 gennaio 1957.

9

SENTENZA N. 9 DEL 1959

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Dott. GAETANO AZZARITI, Presidente

Avv. GIUSEPPE CAPPI

Prof. TOMASO PERASSI

Prof. GASPARE AMBROSINI

Prof. ERNESTO BATTAGLINI

Dott. MARIO COSATTI

Prof. FRANCESCO PANTALEO GABRIELI

Prof. GIUSEPPE CASTELLI AVOLIO

Prof. ANTONINO PAPALDO

Prof. MARIO BRACCI

Prof. NICOLA JAEGER

Prof. GIOVANNI CASSANDRO

Prof. BIAGIO PETROCELLI

Prof. ALDO SANDULLI, Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale della legge 28 marzo 1956, n. 168, e dell'ultimo comma dell'art. 1 della legge 13 giugno 1940, n. 868, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 28 gennaio 1957 dalla Corte di cassazione, Sezioni unite civili, nel procedimento civile vertente tra l'Ente nazionale per la cellulosa e per la carta e la società p.a. "Cartiera italiana" ed altre cartiere, iscritta al n. 69 del Registro ordinanze 1957 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 187 del 27 luglio 1957;

2) ordinanza emessa il 28 gennaio 1957 dalla Corte di cassazione, Sezioni unite civili, nel procedimento civile vertente tra l'Ente nazionale per la cellulosa e per la carta e la società p.a. "Cartiera Ambrogio Binda" ed altre cartiere, iscritta al n. 70 del Registro ordinanze 1957 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 187 del 27 luglio 1957;

10

3) ordinanza emessa l'8 gennaio 1958 dal Tribunale di Bergamo nel procedimento civile vertente tra l'Ente nazionale per la cellulosa e per la carta e la società p.a. "Cartiera Paolo Pigna", iscritta al n. 11 del Registro ordinanze 1958 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 66 del 15 marzo 1958.

Viste le dichiarazioni di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udita nell'udienza pubblica del 21 gennaio 1959 la relazione del Giudice Tomaso Perassi;

uditi gli avvocati Aldo Boneschi, Gennaro Werthmuller, Paolo Barile per le cartiere, Antonio Sorrentino e Carlo Arturo Jemolo per l'Ente nazionale per la cellulosa e per la carta e il sostituto avvocato generale dello Stato Giuseppe Guglielmi per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Con legge 13 giugno 1935, n. 1453, fu istituito l'Ente nazionale per la cellulosa e per la carta, coi principali compiti di promuovere lo sviluppo della fabbricazione della cellulosa in Italia e di curare la disciplina e la vendita della carta, con particolare riguardo alle esigenze di determinati consumi.

I mezzi finanziari per il funzionamento dell'Ente furono così stabiliti nell'art. 1 della legge 13 giugno 1940, n. 868: a) un contributo annuo dello Stato di lire 8.000.000; b) un contributo del 5% sull'importo delle fatture emesse dalle cartiere nazionali o loro consorzi, o da importatori in Italia, per tutte le cessioni di carta e cartone, fabbricati in Italia o importati dall'estero e destinati al consumo interno; c) un contributo annuo di lire 2.000.000 a carico di produttori in Italia di fibre tessili artificiali; d) un contributo di lire 5 per ogni quintale di cellulosa importata o prodotta in Italia e destinata ad impieghi diversi dalla fabbricazione di fibre tessili artificiali. Nell'ultimo comma dello stesso articolo della legge fu poi testualmente stabilito: "Le modalità per l'applicazione e la riscossione dei contributi di cui alle lettere b, c e d, ed eventuali modifiche della misura di tutti i contributi previsti nel presente articolo, saranno stabilite con decreto del Ministro per le corporazioni, di concerto col Ministro per le finanze".

In base a questa disposizione, furono emanati i seguenti decreti (i primi due dal Ministro per le corporazioni e gli altri, essendo stato soppresso il Ministero per le corporazioni, dal Ministro per l'industria e per il commercio): 3 luglio 1940, con cui furono stabilite le modalità di applicazione e riscossione dei contributi; 1 marzo 1942, con cui fu elevato al 10% il contributo sulla carta e sul cartone (lett. b dell'art. 1 della legge n. 868 del 1940); 12 giugno 1945, con cui lo stesso contributo fu ridotto al 2,50%; 29 dicembre 1945, con cui lo stesso contributo fu ulteriormente ridotto all'1%; 15 gennaio 1951, con cui il contributo sulla carta fu fissato nella misura del 3% e il contributo sulla cellulosa (lett. d dell'art. 1 della legge n. 868 del 1940) fu fissato in lire 6 per chilogrammo; 30 dicembre 1952, con cui il contributo sulla cellulosa fu ridotto a lire 3,50 per chilogrammo. Col decreto 15 gennaio 1951, fu anche stabilito che, per il contributo sulla carta e sui cartoni, le cartiere avrebbero potuto esercitare il diritto di rivalsa sui compratori solo fino alla concorrenza dell'1% dell'importo netto delle fatture.

Successivamente, la materia formò oggetto di nuova disciplina nella legge 28 marzo 1956, n. 168 (c.d. Legge Agrimi), intitolata "Provvidenze per la stampa" e composta di un solo articolo in dodici commi, con cui la misura del contributo sulla carta e sui cartoni fu fissata nel 3% dell'importo netto delle fatture (con diritto di rivalsa del 2,50% verso i compratori) e

11

la misura del contributo sulla cellulosa venne fissata in lire 2,50 per chilogrammo: il tutto con decorrenza dal giorno di entrata in vigore della legge.

Nella stessa legge furono anche inserite disposizioni retroattive in ordine alla misura dei contributi per i periodi dal 1 marzo 1945 al 31 dicembre 1945, dal 1 gennaio 1946 al 15 gennaio 1951 e dal 16 gennaio 1951 al giorno di entrata in vigore della legge.

2. - Con atto notificato il 10 dicembre 1951 le società p.a. "Cartiera italiana", "Cartiera Giacomo Bosso", "Cartiera Subalpina Sertorio", "Cartiera Rodolfo Reguzzoni", "Cugini Sezzano-Cartiera di Borgosesia", tutte con sede in Torino, e la società in acc. p.a. "L. De Medici e C.", con sede in Cirié, citarono l'Ente nazionale per la cellulosa e per la carta dinanzi al Tribunale di Torino, affinché:

1) fossero dichiarati incostituzionali o comunque illegittimi e privi di effetti giuridici l'ultimo comma dell'art. 1 della legge 13 giugno 1940, n. 868, i decreti 3 luglio 1940 e 1 marzo 1942, del Ministro per le corporazioni, e i decreti 12 giugno 1945, 29 dicembre 1945 e 15 gennaio 1951 del Ministro dell'industria e del commercio;

2) fosse dichiarato, in conseguenza, che l'Ente convenuto non poteva pretendere dalle società attrici i contributi sulla carta e sulla cellulosa richiesti in virtù della suddetta legge e dei suddetti decreti;

3) fosse dato atto della riserva delle società attrici di chiedere la restituzione di quanto avrebbero pagato in forza di ruoli messi in riscossione, e fosse dichiarato altresì l'obbligo dell'Ente convenuto di effettuare il rimborso.

Le società attrici dedussero, a motivi della domanda, che l'ordinamento costituzionale vigente nel 1940 non consentiva la delega di potestà legislativa a singoli ministri; che tale potestà non era stata attribuita direttamente ai ministri né da leggi costituzionali emanate successivamente al 1940 né, tanto meno, dalla nuova Costituzione; che l'illegittimità costituzionale della indicata disposizione di legge e degli indicati decreti ministeriali derivava altresì dal contrasto con l'art. 30 dello Statuto albertino e con l'art. 23 della nuova Costituzione, sulla riserva di legge in materia di prestazioni patrimoniali.

Il Tribunale di Torino, con sentenza 18 giugno - 4 luglio 1952, respinse la domanda.

Le cartiere proposero appello circoscrivendo la domanda alla declaratoria di illegittimità costituzionale del solo decreto 15 gennaio 1951, ma la Corte di appello di Torino con sentenza 6 febbraio-6 marzo 1953 respinse il gravame.

La controversia venne quindi portata all'esame della Corte di cassazione, a seguito di ricorso principale delle cartiere e di ricorso incidentale dell'Ente per la cellulosa. E la Corte di cassazione, con sentenza a sezioni unite 18 febbraio-14 luglio 1954, cassò la sentenza impugnata e rinviò la causa, per nuovo esame, alla Corte di appello di Genova, osservando che la legge n. 868 del 1940 andava ricondotta "sul piano generale tributario" e che il potere regolamentare dell'autorità amministrativa, di fronte alla norma dell'art. 23 della Costituzione, non poteva estendersi fino ad aumentare un contributo oltre il limite massimo stabilito dalla legge.

A seguito di questa pronuncia la Corte di appello di Genova, in sede di rinvio, ritenne incostituzionali, con sentenza 22 dicembre 1955-29 febbraio 1956, l'ultimo comma dell'art. 1 della legge 13 giugno 1940, n. 868, ed il decreto ministeriale 15 gennaio 1951, dichiarò che i contributi dovuti all'Ente dalle cartiere in base a tale decreto dovevano essere contenuti nei limiti stabiliti dall'art. 1, lett. d, della stessa legge n. 868 del 1940 e dal

12

decreto ministeriale 29 dicembre 1945, e condannò l'Ente a restituire le maggiori somme indebitamente riscosse.

Dopo questa sentenza, fu emanata la legge 28 marzo 1956, n. 168. L'Ente perciò, nel ricorrere nuovamente in Cassazione, per impugnare la sentenza della Corte di appello di Genova, chiese, fra l'altro, l'applicazione della legge sopravvenuta.

Le cartiere sollevarono varie questioni in ordine alla legittimità costituzionale della nuova legge e chiesero che il relativo esame fosse devoluto alla Corte costituzionale, frattanto entrata in funzione.

La Corte di cassazione ritenne che non fossero manifestamente infondate:

a) la questione sollevata in riferimento agli artt. 23, 81 e 42 della Costituzione, per l'efficacia retroattiva attribuita alla legge, nonostante la sua natura di legge tributaria;

b) la questione sollevata in riferimento all'art. 70 della Costituzione, per esservi difformità fra il testo della legge approvato dalle Commissioni I e X della Camera dei Deputati e il testo approvato dal Senato della Repubblica.

La Corte di cassazione, perciò, con ordinanza emessa il 28 gennaio 1957, ordinò che il procedimento venisse sospeso e che gli atti fossero rimessi alla Corte costituzionale per la risoluzione delle due questioni ora indicate.

L'ordinanza debitamente notificata alle parti e al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere, fu pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica del 27 luglio 1957, n. 187, ed iscritta al n. 69 del Registro ordinanze di questa Corte dell'anno 1957.

Dinanzi a questa Corte si costituirono tutte le parti e spiegò intervento il Presidente del Consiglio dei Ministri. Le rispettive deduzioni furono depositate: il 13 luglio 1957, dall'Avvocatura dello Stato (per il Presidente del Consiglio); il 15 luglio 1957 dalla difesa delle cartiere (avvocati Werthmuller, Barile e Sequi) e dalla difesa dell'Ente (avvocati Sorrentino e Jemolo).

3. - La stessa domanda proposta dalle cartiere sopraindicate dinanzi al Tribunale di Torino venne proposta contro l'Ente della cellulosa dinanzi al Tribunale di Milano:

- con citazione 10 dicembre 1951, dalle società p.a. "Cartiera Ambrogio Binda", "Cartiera Rossi", "La fibra vulcanizzata e cartiere prealpine" e "Cartiere di Verona", nonché dalla società in acc. "Cartiera Villa", tutte con sede in Milano;

- con citazione 24 dicembre 1951 delle società p.a. "Cartificio Ermolli" e "Cartiera Paolo Pigna", entrambe con sede in Milano, e dalla "Cartiera di Carmignano di Brenta", succursale, con sede a Carmignano, della "Società per la fabbricazione della pasta di legno", avente sede in Basilea.

Le due cause furono riunite e nel giudizio spiegarono intervento, per aderire alla domanda proposta dalle società attrici e per proporla direttamente, anche per proprio conto, le società p.a. "Cartiera Fedrigoni e C.", "Cartiera del Varone" e "Cartiera di Marzabotto", la cartiera "F. A. Morsoni" e la società in acc. sempl. "Cartiera Cima Isidoro".

Il Tribunale di Milano, con sentenza 9 ottobre-13 novembre 1952, ritenne illegittimi l'ultimo comma dell'art. 1 della legge n. 868 del 1940, nella sola parte con cui si conferisce al Ministro per le corporazioni la facoltà di variare, di concerto col Ministro delle finanze, la

13

misura dei contributi dovuti all'Ente, e i soli decreti ministeriali che avevano apportato modifiche a tali contributi (escluso cioé il decreto 3 luglio 1940, col quale erano state stabilite unicamente le modalità di applicazione e di riscossione dei contributi stessi). Dichiarò pertanto che l'Ente non poteva pretendere dalle cartiere contributi in misura superiore a quella indicata nella legge del 1940 e lo condannò a restituire le maggiori somme indebitamente riscosse.

In parziale difformità di questa pronuncia, la Corte di appello di Milano, con sentenza 28 maggio-5 ottobre 1954, ritenne illegittimi l'intero ultimo comma dell'art. 1 della legge del 1940 e tutti i successivi decreti ministeriali, compreso quello del 3 luglio 1940. Non solo, perciò, confermò la condanna dell'Ente alla restituzione delle somme riscosse in misura superiore a quella fissata dalla legge del 1940, ma dichiarò anche illegittimo il procedimento di accertamento e iscrizione a ruolo dei contributi.

Questa sentenza fu impugnata dinanzi alla Corte di cassazione, con ricorso principale dell'Ente cellulosa e ricorso incidentale delle cartiere.

Entrata frattanto in vigore la legge 28 marzo 1956, n. 168, l'Ente cellulosa chiese che la Corte di cassazione, in applicazione di tale legge, dichiarasse cessata la materia di contendere. Ma le cartiere, con istanza notificata il 13 giugno 1956, riproposero la questione di legittimità costituzionale dell'ultimo comma della legge 13 giugno 1940, n. 868, nonché dei decreti ministeriali 3 luglio 1940 e 15 gennaio 1951, sollevarono varie altre questioni di legittimità costituzionale in ordine alla nuova legge 28 marzo 1956, n. 168, e chiesero che gli atti fossero rimessi alla Corte costituzionale.

La Corte di cassazione, con ordinanza emessa il 28 gennaio 1957, rimise a questa Corte l'esame delle seguenti questioni:

1) se l'ultimo comma dell'art. 1 della legge n. 868 del 1940, che attribuisce ai ministri di stabilire con decreto le modifiche alle misure dei contributi previsti con lo stesso articolo, sia in contrasto con l'art. 23 della Costituzione;

2) se sussista l'illegittimità costituzionale del comma settimo dell'articolo unico della legge 28 marzo 1956, n. 168, per violazione dell'art. 70 della Costituzione;

3) se sia viziata di illegittimità costituzionale l'intera legge 28 marzo 1956, n. 168, per violazione degli artt. 23, 25, 41, 53, 76, 77, 89, 97, 100 e 136 della Costituzione.

L'ordinanza, debitamente notificata alle parti e al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti dei due rami del Parlamento fu pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica del 27 luglio 1957, n. 187, ed iscritta al n. 70 del Registro Ordinanze di questa Corte dell'anno 1957.

Dinanzi a questa Corte si costituirono tutte le parti e spiegò intervento il Presidente del Consiglio dei Ministri. Le rispettive deduzioni furono depositate: il 12 agosto 1957 dalla difesa delle cartiere Fedrigoni, del Varone, di Verona, di Marzabotto, di Carmignano, Paolo Pigna e Cima Isidoro (avvocati Boneschi e Silvestri); il 13 luglio 1957 dall'Avvocatura dello Stato (per il Presidente del Consiglio dei Ministri); il 15 luglio 1957 dalla difesa dell'Ente (avvocati Sorrentino e Jemolo); il 23 luglio 1957 dalla difesa delle cartiere La Fibra vulcanizzata, Villa, Rossi ed Ermolli (avvocati Barile, Pallante e Sequi); il 13 agosto 1957 dalla difesa della cartiera Marsoni (avvocato Sequi).

4. - Con atto notificato il 20 gennaio 1955, l'Ente cellulosa citò la cartiera Paolo Pigna dinanzi al Tribunale di Bergamo, perché venisse condannata a pagare la differenza fra le

14

somme già corrisposte, in base ai decreti ministeriali 12 giugno 1945 e 15 gennaio 1951, a titolo di contributi sulle fatture relative a cessioni di carta e cartoni e le somme dovute, sempre per questo titolo, in base all'art. 1, lett. b, della legge n. 868 del 1940.

L'Ente dichiarò di fondare la sua domanda sulla citata sentenza 28 maggio-5 ottobre 1954, della Corte di appello di Milano, che aveva ritenuto illegittima ogni variazione, con decreto ministeriale, della misura dei contributi indicati nella legge del 1940.

Nelle more del giudizio entrò in vigore la legge 28 marzo 1956, e la cartiera Pigna, ritenendo che il Tribunale non potesse non tener conto di questa legge per la definizione della lite, la impugnò di illegittimità costituzionale, sotto vari aspetti, con istanza del 30 ottobre 1956, chiedendo la sospensione del processo e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.

Il Tribunale di Bergamo ritenne rilevanti per il giudizio e non manifestamente infondate le due questioni già rimesse alla Corte costituzionale con le citate ordinanze della Corte di cassazione (illegittimità della legge per violazione del principio della irretroattività delle norme tributarie; illegittimità della legge per la difformità fra i testi approvati dalle due Camere) e le seguenti altre due:

- violazione degli artt. 72, primo comma, della Costituzione e 40 del regolamento della Camera dei Deputati, per essersi seguito il procedimento di approvazione attraverso le Commissioni della Camera e non il procedimento di approvazione in Assemblea, per una legge di natura tributaria;

- violazione degli artt. 41 e 97 della Costituzione, per essersi attribuito, con la nuova legge, all'Ente nazionale per la cellulosa e per la carta uno scopo che prima non aveva (l'erogazione di fondi a favore della stampa), omettendosi di riorganizzare l'Ente in maniera adeguata al nuovo fine istituzionale.

Il Tribunale di Bergamo, perciò, con ordinanza in data 8 gennaio 1958, sospese il procedimento e rimise alla Corte costituzionale l'esame delle indicate quattro questioni.

L'ordinanza, debitamente notificata alle parti e al Presidente del Consiglio dei Ministri, e comunicata ai Presidenti delle due Camere, fu pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica del 15 marzo 1958, n. 66, ed iscritta al n. 11 del Registro ordinanze di questa Corte per l'anno 1958.

Dinanzi a questa Corte si costituirono entrambe le parti e spiegò intervento il Presidente del Consiglio dei Ministri. Le rispettive deduzioni furono depositate: l'11 febbraio 1958 dall'Avvocatura dello Stato (per il Presidente del Consiglio dei Ministri); il 1 aprile 1958 dalla difesa dell'Ente (avvocati Sorrentino e Jemolo); il 4 aprile 1958 dalla difesa della cartiera Pigna (avvocati Boneschi e Silvestri).

5. - I tre giudizi di legittimità costituzionale promossi dinanzi a questa Corte con le ordinanze sopra indicate furono fissati per l'udienza del 25 giugno 1958, nella quale, per disposizione del Presidente, si procedette ad un'unica discussione.

Le deduzioni delle difese delle parti, svolte negli atti di costituzione, nelle memorie e nella discussione orale, si possono così riassumere in relazione a ciascuna delle questioni rimesse all'esame della Corte:

1) Questione di legittimità costituzionale dell'ultimo comma dell'art. 1 della legge n. 868 del 1940, sollevata in riferimento all'art. 23 della Costituzione.

15

La censura di illegittimità costituzionale si riferiva alla sola disposizione con cui si dà facoltà al Ministro delle corporazioni (ora dell'industria e commercio) di variare, di concerto col Ministro delle finanze, la misura dei contributi.

La difesa di un gruppo di cartiere (cartiere Fedrigoni, del Varone, di Verona, di Marzabotto, Cima Isidoro, Paolo Pigna e cartiera di Carmignano: deduzioni depositate il 12 agosto 1957 nel giudizio promosso con l'ordinanza n. 70) chiese, preliminarmente, che su questa questione la Corte costituzionale dichiarasse di non dover emettere alcuna pronunzia: la norma in esame sarebbe stata abrogata dalla legge n. 168 del 1956 e non sarebbe potuta tornare in vita neanche se la Corte costituzionale avesse dichiarato l'illegittimità della legge abrogatrice.

Nel merito, le cartiere si riportarono alla giurisprudenza di questa Corte in tema di interpretazione dell'art. 23 della Costituzione; se le norme che regolano l'attività discrezionale dell'Ente impositore sono sufficienti a delimitare quell'attività, la prestazione patrimoniale é legittimamente imposta; nel caso contrario, l'imposizione é illegittima. Nella specie, le norme sull'attività dell'Ente cellulosa non sarebbero state sufficienti a delimitare la discrezionalità del medesimo.

L'Avvocatura dello Stato eccepì che nella specie si trattava di contributi consortili e quindi si era fuori dell'ambito di applicazione dell'art. 23 della Costituzione. La stessa Avvocatura e la difesa dell'Ente eccepirono inoltre che l'essersi attribuito esclusivamente a due Ministri, senza alcun intervento, neanche formale dell'Ente, la facoltà di variare la misura dei contributi dava già la massima garanzia contro ogni imposizione arbitraria; che erano le necessità stesse dell'Ente, valutate dal Ministro dell'industria (alla cui vigilanza l'Ente é sottoposto), a fornire i criteri per le eventuali variazioni dei contributi; che lo stesso contenuto dei decreti emanati stava a dimostrare, infine, con quanta ponderatezza i Ministri competenti avessero fatto uso della facoltà a loro accordata.

2) Questione di legittimità costituzionale della legge 28 marzo 1956, n. 168, sollevata in riferimento agli artt. 72 della Costituzione e 40 del regolamento della Camera dei Deputati.

La questione era stata sollevata per il motivo che la legge Agrimi, invece di essere approvata dall'Assemblea plenaria della Camera dei Deputati, era stata approvata da due Commissioni riunite (la prima e la decima), laddove, trattandosi di una legge tributaria, la procedura decentrata di approvazione, secondo l'art. 40 del regolamento della stessa Camera, non era applicabile.

La cartiera Paolo Pigna si richiamò alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale la violazione delle norme strumentali del processo formativo delle leggi, nelle sue varie specie é suscettibile di sindacato di legittimità costituzionale (sentenza n. 3 del 1957), e sostenne che tutte le norme del procedimento formativo delle leggi, anche se non sono norme costituzionali, sono rilevanti per il giudizio di costituzionalità formale basato su vizio del procedimento. Se la Costituzione (art. 72) - rilevò la difesa della Cartiera - concede al regolamento delle Camere di attuare e integrare i principi da essa sanciti in materia di approvazione delle leggi, salvo dove essa stessa vieta determinati procedimenti, non si può negare che la violazione di una norma così emanata concreti una figura di illegittimità costituzionale.

L'Ente cellulosa eccepì innanzi tutto che il richiamo dello art. 72 della Costituzione non determina ricezione dei regolamenti interni delle Camere nell'ordinamento statale, né tanto meno fa acquistare ad essi il valore di norme costituzionali. Le norme sulla validità delle deliberazioni si troverebbero tutte e per intero nella Costituzione, mentre le norme dei

16

regolamenti sarebbero dirette solo a disciplinare il funzionamento delle singole Assemblee e avrebbero perciò efficacia meramente interna. La stessa procedura di approvazione dei regolamenti porterebbe ad escludere che si possa attribuire loro rilevanza costituzionale.

A queste considerazioni l'Ente cellulosa aggiunse poi che l'applicazione delle norme regolamentari é affidata al Presidente, sotto il controllo della Camera, sicché la denunzia di una violazione del regolamento si risolverebbe in una inammissibile censura del l'operato del Presidente e della stessa Camera; che, nella specie, restava sempre da esaminare se la legge in contestazione potesse considerarsi una legge tributaria, nei sensi di cui tale espressione é assunta dal regolamento alla Camera; che, infine, si poteva porre il problema più generale se le modalità di approvazione delle leggi (attraverso l'Assemblea o da parte delle Commissioni) abbiano oggi rilevanza esterna, una volta che la formula di promulgazione delle leggi non fa alcuna menzione di tali modalità.

Le stesse argomentazioni vennero sostanzialmente svolte dal l'Avvocatura dello Stato nell'interesse del Presidente del Consiglio dei Ministri.

3) Questione di legittimità costituzionale della legge 28 marzo 1956, n. 168, sollevata in riferimento all'art. 70 della Costituzione.

Veniva denunziata una difformità esistente fra il testo della legge Agrimi approvato dalla Camera dei Deputati e il testo della stessa legge approvato dal Senato della Repubblica, difformità che traeva la sua origine dalle seguenti circostanze:

Nella seduta comune del 22 aprile 1955, la prima e la decima Commissione della Camera avevano demandato a un comitato ristretto il compito di appontare alcune modifiche al testo originario del progetto. Il nuovo testo era stato presentato il 26 maggio 1955 e conteneva un comma (il settimo) nel quale era stabilito che i contributi per il periodo dal 16 gennaio 1951 alla data di entrata in vigore della legge dovessero essere calcolati in ragione del 90% delle misure previste dai decreti ministeriali 15 gennaio 1951 e 30 dicembre 1952.

Nella seduta del 2 dicembre dello stesso anno, l'on. Agrimi aveva proposto che fosse eliminato il riferimento ai suddetti decreti ministeriali e si fossero indicate direttamente le aliquote proposte dal comitato. Le Commissioni avevano autorizzato allora la Presidenza a procedere al coordinamento dei due testi "mantenendone ferma la sostanza", e avevano quindi approvato il disegno di legge a scrutinio segreto, senza emendamenti. Sennonché, nel testo coordinato, le disposizioni del settimo comma del testo originario erano state suddivise in tre commi distinti - il settimo, l'ottavo e il nono - mentre l'ottavo comma, divenuto decimo, non aveva subito alcuna variazione. Inoltre, alle parole "Rimane immutata per il predetto periodo la limitazione all'1% del diritto di rivalsa ecc.", contenuto nel settimo comma del testo originario, erano state sostituite, nell'ottavo comma del testo definitivo, le parole "Per il periodo sopra indicato il diritto di rivalsa verso i compratori può essere esercitato ecc.".

Le cartiere sostennero che, per effetto di queste modifiche erano stati cambiati, innanzi tutto, il senso e la portata delle disposizioni contenute nel suddetto ottavo comma, poi divenuto decimo. Questo comma stabilisce che l'Ente "provvederà, entro il termine massimo di cinque anni, a rimborsare ai contribuenti le somme da loro versate in eccedenza alla misura indicata al comma precedente". Ma nel testo originario - rilevarono le cartiere - quel comma ottavo, parlando di somme versate in eccedenza alla misura indicata nel comma precedente, si riferiva a tutti e due i contributi, sulla carta e sulla cellulosa; mentre, spezzato il comma precedente in più commi, il richiamo vale ora solo

17

per il nono comma, dove si parla esclusivamente del contributo sulla cellulosa. Inoltre il diritto di rivalsa delle cartiere verso i compratori previsto come un "diritto-dovere" nel settimo comma del testo originario era divenuto un "diritto libero" nell'ottavo comma del testo definitivo.

Secondo la difesa della cartiera Pigna, il denunciato vizio di legittimità costituzionale inficiava tutta la legge, data l'interdipendenza dei vari commi fra loro.

Di fronte a questi rilievi l'Ente cellulosa negò innanzi tutto che la Corte costituzionale potesse sindacare gli interna corporis di un organo come la Camera, superiorem non recognoscens. La dichiarazione con cui il Presidente della Camera, nel trasmetterlo al Senato, attestava che il disegno di legge era stato votato dalla I e dalla X Commissione in seduta comune, non poteva essere posta in discussione. Subordinatamente, l'Ente cellulosa contestò l'interesse delle cartiere a sollevare la questione di legittimità costituzionale, negando che la difformità dei due testi incidesse sulla sostanza delle disposizioni: la difficoltà di interpretare il richiamo contenuto nel decimo comma dell'articolo unico della legge sarebbe stata soltanto apparente e si sarebbe potuta superare con gli ordinari mezzi di interpretazione. Il vizio di legittimità costituzionale - dedusse infine lo stesso Ente - avrebbe colpito comunque solo il decimo comma, del tutto autonomo rispetto agli altri, e non l'intero testo della legge.

L'Avvocatura dello Stato, nell'interesse del Presidente del Consiglio dei Ministri, sostenne anche essa che l'attestazione del Presidente della Camera circa l'identità fra il testo inviato al Senato e quello approvato dalle Commissioni, precludeva ogni indagine alla Corte costituzionale.

4) Questione di legittimità costituzionale della legge 28 marzo 1956, n. 168, sollevata in riferimento agli artt. 23, 25, 42, 53, 77 e 81 della Costituzione.

Le cartiere sostennero che esiste un principio costituzionale per cui le leggi tributarie non possono essere retroattive. Questo principio si dovrebbe desumere dalla stretta affinità esistente fra le norme tributarie e le norme penali. Si dovrebbe desumere, inoltre, dalle disposizioni contenute negli artt. 53 e 81 della Costituzione, in base alle quali i tributi devono essere destinati a far fronte alle spese pubbliche e, insieme con le spese, devono essere riportati nei bilanci di previsione annuali dello Stato. Una legge tributaria retroattiva non potrebbe essere mai giustificata dalla necessità di far fronte a pubbliche spese, appunto perché ogni spesa e la corrispondente entrata devono essere approvate anno per anno; l'imposizione, priva di causa, si tradurrebbe in una espropriazione senza indennizzo (violazione dell'art. 42 Cost.). Né, d'altra parte, la retroattività potrebbe essere ammessa al solo scopo di rendere irripetibili prestazioni tributarie che non erano state imposte con legge, perché una norma retroattiva, anche se diretta a questo solo scopo, violerebbe l'art. 32 della Costituzione non meno di quanto l'avesse violato l'originaria norma incostituzionale. Nella specie, poi, la legge impugnata, in quanto diretta a sanare una irregolare delegazione legislativa, sarebbe stata in contrasto anche con gli artt. 76 e 77 della Costituzione.

Le cartiere fecero rilevare, infine, che lò della legge Agrimi era stata spinta oltre i limiti dell'ordinaria prescrizione tributaria, senza nemmeno tener conto del fatto che il loro obbligo di conservare le scritture contabili cessa dopo cinque anni (art. 1 D.M. 3 luglio 1940).

La difesa dell'Ente cellulosa negò che il nostro ordinamento costituzionale sancisca il principio della irretroattività delle leggi tributarie. Fece rilevare, d'altra parte, che nella

18

specie non erano stati colpiti redditi prodotti quando non si supponeva che potessero venir falcidiati da alcun tributo, ma si erano colpiti redditi che già erano sottoposti a tributo, sia pure con un procedimento viziato, e che sarebbe stato oltremodo ingiusto far rimanere l'Ente privo di mezzi, sacrificando l'interesse pubblico a quello privato, e far gravare le necessità dell'Ente sui produttori di redditi avvenire, mentre altri produttori si sarebbero avvantaggiati dalla imperfezione del procedimento riconosciuto illegittimo. Lo stesso fatto che trattavasi di legge relativa a tributi già pagati - o quanto meno, già accertati - escludeva, poi, secondo la difesa dell'Ente, ogni possibilità di pratici inconvenienti in relazione al fatto che alcune cartiere potevano aver distrutto le scritture contabili del periodo anteriore all'ultimo quinquennio.

Contestata la fondatezza della questione, la difesa dell'Ente fece altresì rilevare, in via del tutto subordinata, che il dedotto vizio di legittimità costituzionale non poteva colpire, comunque, tutta la legge, della quale sarebbero rimasti sempre validi i primi quattro commi.

L'Avvocatura dello Stato, per il Presidente del Consiglio dei Ministri, negò che la legge impugnata avesse carattere tributario e che esistesse, comunque, un principio costituzionale sulla irretroattività delle leggi tributarie.

5) Questione di legittimità costituzionale della legge 28 marzo 1956, n. 168, sollevata in riferimento agli artt. 41 e 97 della Costituzione.

Secondo l'assunto della cartiera Pigna, la legge Agrimi era stata emanata per consentire all'Ente cellulosa di devolvere alla stampa periodica, sotto forma di sovvenzioni, il gettito dei contributi riscossi. Ciò risultava dal titolo della legge ("Provvidenze per la stampa"), dai lavori parlamentari e dal fatto stesso che, in pratica, l'Ente aveva già cominciato a svolgere questa attività di erogazione di fondi alla stampa. Lo scopo dell'imposizione tributaria, nella legge del 1956, era stato perciò del tutto diverso dagli scopi istituzionalmente attribuiti all'Ente con la legge 13 giugno 1935, n. 1453. Ma l'organizzazione dell'Ente, collegata agli scopi assegnatigli dalla legge del 1935, era rimasta immutata: nessuna disposizione, nella legge del 1956, era diretta ad evitare che le sovvenzioni della stampa restassero affidate alla discrezionalità assoluta degli amministratori dell'Ente e degli organi del potere esecutivo che hanno la vigilanza sull'Ente. Di qui la violazione degli artt. 97 e 41 della Costituzione. Dell'art. 97, che riferendosi anche agli enti pubblici, stabilisce una regola di alto valore sociale, affinché risultino sempre chiari, attraverso la parola della legge, sia la natura dell'attività degli enti a cui lo Stato affida parte dell'amministrazione, sia le regole fondamentali e necessarie per il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione stessa. Dell'art. 41, il quale dispone che, quando si incide nell'attività economica privata per condizionarla ai fini sociali, é la legge che deve determinate i programmi e disporre i controlli opportuni.

L'Avvocatura dello Stato, per il Presidente del Consiglio dei Ministri, eccepì l'inammissibilità della questione, sostenendo che, in realtà, non era stato denunciato un vizio di legittimità costituzionale, ma un preteso eccesso di potere legislativo, insindacabile dalla Corte costituzionale.

Nel merito, poi, tanto la difesa dell'Ente cellulosa quanto l'Avvocatura dello Stato eccepirono l'infondatezza della questione per i seguenti motivi:

- L'art. 97 della Costituzione contiene una norma direttiva e non precettiva, riguarda gli uffici statali e non riguarda gli enti autonomi, che ancora oggi sono organizzati sulla base di norme statutarie.

19

- Rientra comunque nella discrezionalità del Parlamento valutare se l'assegnazione di uno scopo nuovo a un determinato ente richieda una diversa organizzazione dell'ente medesimo.

- Nella specie, peraltro, non vi era stata attribuzione di scopo nuovo, perché l'Ente cellulosa provvedeva da oltre un ventennio alla erogazione di fondi alla stampa quotidiana e tale erogazione si era sempre effettuata con la più assoluta obiettività ed imparzialità, sotto il controllo dei competenti organi dello Stato.

- Quanto all'art. 41 della Costituzione, il richiamo era fuori luogo, perché le norme di tale articolo regolano materia del tutto estranea a quella in esame.

6. - Questa Corte, con ordinanza 27 giugno 1958, depositata in cancelleria il 2 luglio successivo, riunì le tre cause. E poiché a sostegno delle questioni sulla legittimità formale della legge 28 marzo 1956, n. 168, erano stati prodotti dalle cartiere i resoconti stenografici delle sedute delle Commissioni riunite interni ed industria della Camera dei Deputati, che avevano esaminato, in sede legislativa, la proposta di legge di iniziativa dei deputati Agrimi ed altri, e l'Avvocatura dello Stato e la difesa dell'Ente cellulosa avevano contestato che tali resoconti avessero valore ufficiale, ritenne opportuno acquisire al riguardo idonei elementi di fatto. Perciò, dichiarando sospesa ed impregiudicata ogni questione, dispose, con detta ordinanza, che il Giudice relatore Tomaso Perassi assumesse le opportune informazioni presso la Camera dei Deputati.

In esecuzione di questa ordinanza, il Giudice relatore, recatosi il giorno 3 luglio 1958 alla Camera dei Deputati, conferì con il Presidente della Camera on. Giovanni Leone, al quale, presente anche il Segretario generale dott. Coraldo Piermani, diede comunicazione di quanto disposto dalla Corte circa le informazioni da assumere. Ai fini di tali informazioni chiese in primo luogo al Presidente della Camera di voler autorizzare il rilascio di copia conforme dei processi verbali delle sedute 4 agosto 1954, 23 marzo 1955, 22 aprile 1955 e 2 dicembre 1955 delle Commissioni riunite interni e industria, che avevano esaminato in sede legislativa la proposta di legge d'iniziativa dei deputati Agrimi ed altri: "Provvidenze per la stampa" (doc. n. 743).

Il Presidente della Camera, per il tramite del Segretario generale dott. Piermani, fece poi conoscere di non ritenere possibile rilasciare copia dei processi verbali delle sedute delle Commissioni o della Camera trattandosi di atti interni, precisando pure che i resoconti stenografici delle sedute della Camera e delle Commissioni avevano carattere informativo ma non ufficiale: il solo atto ufficiale relativo al procedimento di formazione di una legge avanti alla Camera era il messaggio col quale il Presidente trasmette al Presidente dell'altra Camera od al Capo dello Stato il testo del disegno di legge approvato dalla Camera.

Con riferimento alla questione circa la difformità fra il testo della proposta di legge Agrimi approvato dalle Commissioni della Camera e quello approvato dal Senato, il Giudice relatore assunse poi informazioni presso la Presidenza della Camera sul seguente punto: se, nel caso che la Camera o una Commissione in sede legislativa, come avvenne nella seduta del 2 dicembre 1955 delle Commissioni riunite interni e industria per la proposta di legge Agrimi, prima di aver proceduto alla votazione finale a scrutinio segreto su di un disegno di legge, abbia autorizzato la Presidenza a procedere al coordinamento, il testo coordinato della Presidenza é sottoposto di nuovo alla Camera od alla Commissione e si procede su di esso ad una nuova votazione finale.

20

A tale riguardo, il Giudice relatore venne informato che secondo la prassi seguita dalla Camera dei Deputati, quando la Camera od una Commissione in sede legislativa, prima della votazione finale su un disegno di legge, ha autorizzato la Presidenza a procedere al coordinamento, il testo del disegno di legge coordinato dalla Presidenza non é ripresentato alla Camera od alle Commissioni competenti per una nuova votazione finale.

Delle indagini compiute, il Giudice relatore riferì alla Corte con relazione 23 luglio 1958, depositata in cancelleria il giorno 25 successivo.

Successivamente lo stesso Giudice ritenne di prospettare al Presidente della Corte l'opportunità di chiedere al Presidente della Camera dei Deputati un chiarimento circa il testo dei resoconti stenografici delle sedute delle Commissioni riunite interni e industria, che esaminarono in sede legislativa la proposta di legge Agrimi: "Provvidenze per la stampa". Con nota 11 ottobre 1958 il Presidente della Corte trasmise poi al Giudice relatore la lettera in data 30 settembre 1958, n. 253, con la quale il Presidente della Camera dei Deputati comunicava che "il testo dei resoconti stenografici delle sedute del 4 aprile 1954, 23 marzo 1955, 22 aprile 1955 e 2 dicembre 1955 delle Commissioni riunite interni e industria che esaminarono in sede legislativa la proposta di legge dei deputati Agrimi ed altri - Provvidenze per la stampa (n. 743) - riproduce fedelmente lo svolgimento dei lavori delle Commissioni stesse".

Di ciò il Giudice relatore riferì alla Corte con relazione aggiuntiva in data 27 ottobre 1958, depositata lo stesso giorno in cancelleria.

7. - Dopo il deposito delle indicate relazioni, di cui venne dato avviso alle parti, i tre giudizi riuniti sono stati nuovamente fissati per la pubblica udienza del 21 gennaio 1959.

Nelle nuove memorie, tempestivamente depositate, e nella discussione orale svoltasi all'udienza del 21 gennaio 1959, le parti hanno ulteriormente illustrato le precedenti deduzioni, anche con riguardo ai risultati delle indagini compiute in esecuzione della citata ordinanza di questa Corte del 27 giugno 1958.

 

Considerato in diritto

 

1. - I tre giudizi promossi dalle ordinanze della Corte di Cassazione, Sezioni unite civili, e del Tribunale di Bergamo, indicate in epigrafe, essendo stati congiuntamente discussi e già riuniti con l'ordinanza della Corte del 27 giugno 1958, devono essere decisi con unica sentenza.

2. - Fra le questioni sulla legittimità costituzionale della legge 28 marzo 1956, n. 168, che sono state sottoposte alla Corte, la prima da prendere in esame é, in ordine logico, quella proposta dall'ordinanza del Tribunale di Bergamo che, in riferimento agli artt. 64, 72 e 73 della Costituzione, prospetta l'illegiitimità costituzionale di detta legge per essere stata approvata dalle Commissioni della Camera dei Deputati in sede legislativa, mentre il regolamento della Camera (art. 40) esclude che il procedimento di approvazione per mezzo delle Commissioni sia applicabile ai progetti in materia tributaria.

La censura di illegittimità costituzionale dell'intera legge 28 marzo 1956, n. 168, così proposta dall'ordinanza del Tribunale di Bergamo, involge la questione della competenza

21

della Corte costituzionale a controllare la legittimità costituzionale di una legge per quanto concerne il procedimento della sua formazione.

Nella competenza di giudicare sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi, attribuita alla Corte dallo art. 134 della Costituzione, rientra senza dubbio ed anzi in primo luogo quella di controllare l'osservanza delle norme della Costituzione sul procedimento di formazione delle leggi: in tal senso si é già affermato l'orientamento della Corte (sentenze n. 3 e 57 del 1957).

L'art. 72 della Costituzione, dopo aver descritto nel primo comma il procedimento normale di approvazione di un disegno di legge, dispone, nel terzo comma, che il regolamento "può altresì stabilire in quali casi e forme l'esame e l'approvazione dei disegni di legge sono deferiti a commissioni anche permanenti, composte in modo da rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari", ma aggiunge, nell'ultimo comma, che "la procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della Camera é sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale e per quelli di delegazione legislativa, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, di approvazione di bilanci e consuntivi".

L'art. 40 del regolamento della Camera dei Deputati, in relazione all'art. 72 della Costituzione, stabilisce che la procedura di approvazione di un disegno di legge per mezzo di Commissioni non si applica ai disegni di legge per i quali tale procedura é esclusa dall'ultimo comma dell'art. 72 della Costituzione, "nonché ai progetti in materia tributaria".

Non sembra dubbio, ed anche l'Avvocatura generale dello Stato esplicitamente lo ammette, che se la procedura c.d. decentrata fosse applicata per l'approvazione di un disegno di legge rientrante fra quelli elencati nell'ultimo comma dell'art. 72 della Costituzione, si avrebbe un vizio del procedimento di formazione della legge che sarebbe costituzionalmente rilevante perché consistente in una violazione della norma della Costituzione (art. 72 u.c.) che esclude la procedura decentrata per tale specie di disegni di legge.

Nel caso concreto si controverte sul punto se l'inosservanza della norma dell'art. 40 del regolamento della Camera che esclude la inapplicabilità della procedura decentrata ai "progetti in materia tributaria", costituisca un vizio di formazione della legge che sia costituzionalmente rilevante agli effetti del controllo della Corte costituzionale.

L'esistenza nel regolamento di disposizioni che ammettono la procedura decentrata per l'approvazione di un disegno di legge é bensì la condizione dalla quale l'art. 72 della Costituzione fa dipendere la possibilità dell'approvazione del disegno di legge con detta procedura in deroga a quella qualificata come "normale" dallo stesso art. 72, ma ciò non importa che sia fondata la tesi, prospettata nell'ordinanza del Tribunale di Bergamo, secondo la quale l'art. 72 della Costituzione, deferendo al regolamento della Camera di stabilire in quali casi e forme un disegno può essere assegnato a Commissioni in sede legislativa, abbia posto una norma in bianco con la conseguenza che le disposizioni inserite a tale riguardo da una Camera nel suo regolamento assumano il valore di norme costituzionali.

L'art. 72 della Costituzione attribuisce specificamente a ciascuna Camera la facoltà di prevedere nel suo regolamento l'applicazione della procedura decentrata per l'approvazione di disegni di legge, salvo per quelli per i quali l'ultimo comma dell'art. 72 prescrive come inderogabile la procedura normale. Ora anche la disposizione, con la

22

quale l'art. 40 del regolamento della Camera dei Deputati limita l'applicabilità della procedura decentrata escludendola per i "progetti in materia tributaria", sebbene questi non rientrino fra quelli per i quali essa é esclusa dall'art. 72 della Costituzione, é un modo nel quale si esplica la facoltà, attribuita dal terzo comma dell'art. 72 della Costituzione a ciascuna Camera, di stabilire in quali casi e forme si può derogare alla procedura normale di esame e di approvazione di un disegno di legge.

Ciò importa che, fra l'ultimo comma dell'art. 72 della Costituzione e la disposizione contenuta nell'ultima parte dell'art. 40 del regolamento della Camera, esiste una rilevante differenza per quanto concerne, da un lato rispetto al primo, la qualificazione di un disegno di legge agli effetti di valutare se esso rientra fra quelli per i quali la procedura normale regolata dal primo comma dell'art. 72 della Costituzione debba essere inderogabilmente seguita e, dall'altro, rispetto alla seconda, la qualificazione di un disegno di legge per valutare se esso sia "un progetto in materia tributaria" agli effetti di accertare se, secondo l'art. 40 del regolamento della Camera, non sia ad esso applicabile la procedura decentrata.

Mentre il giudizio se un disegno di legge rientra fra quelli per i quali l'ultimo comma dell'art. 72 della Costituzione esige la procedura normale di approvazione, escludendo quella decentrata, involge una questione di interpretazione di una norma della Costituzione che é di competenza della Corte costituzionale agli effetti del controllo della legittimità del procedimento di formazione di una legge, la determinazione, invece, del senso e della portata della disposizione dell'art. 40 del regolamento della Camera, che esclude la procedura decentrata per l'approvazione di "progetti in materia tributaria" riguarda una norma, sull'interpretazione della quale, essendo stata posta dalla Camera nel suo regolamento esercitando la facoltà ad essa attribuita dall'art. 72 della Costituzione, é da ritenersi decisivo l'apprezzamento della Camera. L'osservanza di quella disposizione eccettuativa é rimessa alla Camera stessa avuto anche riguardo alle disposizioni dell'art. 72, terzo comma, della Costituzione e dell'art. 40 del regolamento della Camera, che prevedono sia la possibilità di opposizioni al deferimento di un disegno di legge ad una Commissione in sede legislativa, sia la possibilità, su richiesta a determinate condizioni, che, fino al momento dell'approvazione definitiva, un disegno di legge già deferito ad una Commissione in sede legislativa sia obbligatoriamente rimesso alla Camera.

Ora, quale sia il senso che nell'art. 40 del regolamento della Camera assume, l'espressione "progetti in materia tributaria" ha dato luogo a qualche dubbio, come risulta dalla prassi parlamentare.

Sta di fatto, nel caso concreto, che non solo la decisione del Presidente della Camera di assegnare alle Commissioni interni e industria, in sede legislativa, la proposta di legge dei deputati Agrimi ed altri non sollevò opposizione da parte della Camera all'atto dell'annuncio, ma nella seduta del 4 agosto 1954 delle dette Commissioni riunite la questione pregiudiziale della competenza di esse ad esaminare quella proposta di legge in riferimento all'art. 40 del regolamento, venne sollevata, e tale pregiudiziale, come risulta dal resoconto stenografico di quella seduta, messa in votazione, non fu approvata (Atti parlamentari, Leg. II, Commissioni riunite interni e industria, p. 7).

In queste condizioni, fermi restando i criteri sopra affermati sulla competenza della Corte a controllare la legittimità costituzionale del procedimento di formazione delle leggi, la Corte ritiene che non sia fondata la questione di legittimità costituzionale della legge 28 marzo 1956, n. 168, proposta con l'ordinanza del Tribunale di Bergamo in riferimento agli artt. 64, 72 e 73 della Costituzione.

23

3. - Le ordinanze della Cassazione e quella del Tribunale di Bergamo hanno rimesso al giudizio della Corte costituzionale la questione sulla legittimità costituzionale della legge 28 marzo 1956, n. 168, in riferimento all'art. 70 della Costituzione, per difformità dei testi approvati rispettivamente dalle Commissioni della Camera e dal Senato.

Le fasi del procedimento svoltosi nelle Commissioni riunite della Camera dei Deputati per l'esame e l'approvazione della proposta di legge, che é stata poi trasmessa al Senato, si può così riassumere in base ai resoconti stenografici delle sedute delle Commissioni riunite I e X del 4 aprile 1954, 23 marzo 1955, 22 aprile 1955 e 2 dicembre 1955, il cui testo, come risulta dagli atti, riproduce fedelmente lo svolgimento dei lavori delle Commissioni.

La proposta di legge dei deputati Agrimi ed altri concernente "Provvidenze per la stampa", annunciata alla Camera dei Deputati nella seduta del 30 marzo 1954, era stata deferita dal Presidente della Camera per l'esame e l'approvazione alle Commissioni riunite I (Interni) e X (Industria). Nella seduta comune del 22 aprile 1955 le due Commissioni, essendo stati presentati vari emendamenti nel corso della discussione, deliberarono di deferire ad un Comitato ristretto il compito di concordare un nuovo testo dell'articolo unico di quella proposta di legge. Il testo concordato dal Comitato ristretto veniva sottoposto alle Commissioni riunite nella seduta del 2 dicembre 1955. I commi settimo ed ottavo del testo elaborato dal detto Comitato erano così formulati:

"I contributi dovuti all'Ente per il periodo che va dal 16 gennaio 1951 al giorno dell'entrata in vigore della presente legge sono limitati al 90 per cento (novanta per cento) della misura prevista nell'art. 1 e nell'art. 2, primo e secondo comma, del decreto ministeriale 15 gennaio 1951, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 24 del 30 gennaio 1951, e nel decreto ministeriale 30 dicembre 1952, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 16 del 21 gennaio 1953. Rimane immutata, per il predetto periodo, la limitazione all'1 per cento del diritto di rivalsa stabilito dall'art. 2, terzo comma, del decreto ministeriale 15 gennaio 1951.

"L'Ente provvederà, entro il termine massimo di cinque anni dall'entrata in vigore della presente legge, a rimborsare ai contribuenti le somme da essi versate in eccedenza alla misura indicata nel comma precedente. Nei confronti dei contribuenti che non abbiano versato i contributi o li abbiano versati in misura inferiore, l'Ente provvederà alla riscossione dei contributi stessi coi mezzi indicati nell'art. 16 del decreto ministeriale 3 luglio 1940, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 175 del 17 luglio 1940".

L'on. Agrimi nella seduta del 2 dicembre 1955, dopo aver rilevato l'opportunità che, nel testo dell'articolo unico proposto dal Comitato ristretto, non si facesse riferimento a decreti ministeriali già dichiarati dalla magistratura non conformi al disposto costituzionale, osservò che a tale effetto, e tenendo conto della determinazione del Comitato ristretto di limitare al 90 per cento le misure originariamente disposte per i contributi dovuti all'Ente, sarebbe stato sufficiente sostituire, al settimo comma del testo sottoposto dal Comitato ristretto alle Commissioni riunite, il testo dell'articolo unico della sua proposta di legge, stabilendo, in luogo della misura del 3 per cento, quella del 2,70%, in luogo del contributo di lire 6 al chilogrammo il contributo di lire 5,40; in luogo del contributo di lire 3,50, quello di lire 3,15 al chilogrammo (Atti parl. cit., p. 36).

Dal resoconto stenografico della seduta del 2 dicembre 1955 delle Commissioni riunite risulta che l'osservazione dell'on. Agrimi relativa alla formulazione del comma settimo del testo proposto dal Comitato ristretto venne considerata "una questione di carattere formale" e che, avendo l'on. Alessandrini, relatore per la X Commissione, dichiarato che

24

"mantenendo la sostanza si potrebbe provvedere in sede di coordinamento", il Presidente dichiarò che, non essendovi osservazioni, "così rimane stabilito".

Posto dopo ciò in votazione ed approvato l'articolo unico nel testo proposto dal Comitato ristretto, il Presidente chiese che "come d'intesa" la Presidenza fosse "autorizzata al coordinamento del testo", e, non essendovi osservazioni, "così rimase stabilito". Immediatamente dopo, il Presidente indisse la votazione a scrutinio segreto sul testo della proposta di legge che risultò approvato con 59 voti favorevoli e due contrari.

Dopo effettuato il coordinamento da parte della Presidenza delle Commissioni riunite, il testo coordinato dell'articolo unico della proposta di legge, venne trasmesso, con messaggio del Presidente della Camera in data 11 dicembre 1955, alla Presidenza del Senato, come disegno di legge approvato in riunione comune, in sede legislativa, dalla I Commissione permanente e dalla X Commissione permanente della Camera dei Deputati nella seduta del 2 dicembre 1955 (Atti parlamentari, Senato della Repubblica, Leg. II, doc. n. 1277).

Il disegno di legge venne approvato dal Senato in assemblea plenaria nella seduta del 21 marzo 1956. La relativa legge fu promulgata il 28 marzo 1956.

4. - Nel testo della legge 28 marzo 1956, n. 168, i commi 7 e 8 del testo che era stato votato dalle Commissioni della Camera dei Deputati nella seduta del 2 dicembre 1955, sono sostituiti dai commi seguenti (7, 8, 9, 10):

"Il contributo dovuto all'Ente ai sensi dell'art. 1, lett. b, della legge 13 giugno 1940, n. 868, é stabilito, per il periodo che va dal 16 gennaio 1951 al giorno dell'entrata in vigore della presente legge, nella misura del 2,70%. "Per il periodo sopra indicato il diritto di rivalsa verso i compratori può essere esercitato dalle cartiere nazionali o loro consorzi e dagli importatori solo sino alla concorrenza dell'uno per cento dell'importo netto delle fatture.

"Il contributo dovuto all'Ente dagli importatori e dai produttori di cellulosa destinata ad impieghi diversi dalla fabbricazione di fibre tessili artificiali, previsto dall'art. 1, lett. d, della legge 13 giugno 1940, n. 868, é stabilito nelle seguenti misure:

a) dal 16 gennaio 1951 al 31 dicembre 1952 in lire 5,40 al chilogrammo;

b) a decorrere dal 1 gennaio 1953 e fino al giorno dell'entrata in vigore della presente legge, in lire 3,15 al chilogrammo.

"L'Ente provvederà, entro il termine massimo di cinque anni dall'entrata in vigore della presente legge, a rimborsare ai contribuenti le somme da essi versate in eccedenza alla misura indicata nel comma precedente. Nei confronti dei contribuenti che non abbiano versato i contributi o li abbiano versati in misura inferiore, l'Ente provvederà alla riscossione dei contributi stessi coi mezzi indicati nell'art. 16 decreto ministeriale 3 luglio 1940".

Mentre nel testo dell'articolo unico della legge i primi sei commi sono identici ai corrispondenti commi del testo votato a scrutinio segreto dalle Commissioni della Camera nella seduta del 2 dicembre 1955, i commi 7, 8, 9 non sono identici a disposizioni contenute nel testo votato dalle Commissioni. Il testo del comma 10 della legge é invece letteralmente identico al comma 8 del testo approvato dalle Commissioni della Camera.

Non é contestato che le Commissioni riunite, dopo aver approvato il testo elaborato dal Comitato ristretto e autorizzato la Presidenza delle Commissioni a procedere al

25

coordinamento mantenendo ferma la sostanza, non hanno proceduto a nuova votazione sul testo coordinato dalla Presidenza delle Commissioni e che é stato poi trasmesso al Senato.

Nelle due ordinanze, con le quali la Corte di cassazione ha sottoposto alla Corte la questione della legittimità della legge 28 marzo 1956 relativa ad una difformità dei testi approvati rispettivamente dalle Commissioni della Camera e dal Senato, si rileva che é fortemente da dubitare che l'attestazione del Presidente della Camera che il testo trasmesso al Senato era stato approvato nella riunione delle Commissioni permanenti importi una limitazione al potere d'indagine della Corte costituzionale, giacché negandosi la possibilità di un controllo del processo formativo della legge si arriverebbe ad ammettere la possibilità di leggi irregolarmente formate: il che sembra contrario alla volontà del Costituente.

5. - La prima questione, che si pone alla Corte é perciò quella di stabilire se l'attestazione contenuta nel messaggio del Presidente della Camera, come si assume dall'Ente nazionale per la cellulosa e per la carta e dall'Avvocatura generale dello Stato, precluda il sindacato della Corte sugli atti anteriori.

La competenza della Corte di controllare l'osservanza delle norme costituzionali sul procedimento formativo delle leggi implica che quando la controversia sulla legittimità costituzionale di una legge sorge per la denunciata difformità fra i testi approvati dalle due Camere, la Corte ha la potestà di accertare se il testo, che il Presidente di una Camera nel suo messaggio di trasmissione attesta essere stato approvato, é effettivamente conforme al testo approvato dalla stessa Camera.

Il messaggio del Presidente di una Camera, che é una formalità necessariamente inerente ad un procedimento di formazione della legge al quale, come in quello vigente, partecipano organi costituzionali diversi, ha la funzione di comunicare che un disegno di legge é stato approvato dalla Camera. Esso, come appare dalla sua stessa denominazione, non ha effetti che si esauriscono nell'interno della Camera, essendone destinatario un altro organo costituzionale al quale da notizia di un fatto (l'approvazione di un disegno di legge), che ha una essenziale rilevanza giuridica per il processo di formazione di una legge. E, pertanto, non preclude l'esercizio da parte della Corte costituzionale della sua competenza di controllare se il processo formativo di una legge si é compiuto in conformità alle norme con le quali la Costituzione direttamente regola tale procedimento.

La posizione costituzionale di indipendenza delle Camere non implica, come si sostiene dall'Ente, l'assoluta insindacabilità, da parte di qualsiasi altro organo dello Stato, del procedimento con cui gli atti delle Camere vengono deliberati, ed in particolare l'insindacabilità da parte della Corte costituzionale del procedimento di formazione di una legge.

Secondo l'art. 70 della Costituzione, il potere legislativo é esercitato collettivamente dalle Camere. In base a questa norma costituzionale, la legge risulta dalla concordanza delle volontà delle due Camere su un identico testo. Ora il testo di un disegno di legge, che é determinante ai fini di accertare l'identità dei testi votati dalle due Camere, é quello che da ciascuna Camera é stato fissato secondo le norme della Costituzione che regolano il procedimento di approvazione di un disegno di legge e cioé quello sul quale la Camera ha manifestato la sua volontà con la votazione finale richiesta dal primo comma dell'art. 72 della Costituzione, che integra l'art. 70 della stessa.

26

6. - Da parte dell'Avvocatura dello Stato e della difesa del l'Ente, si é sostenuta la tesi, che il primo comma dell'art. 72 della Costituzione regola solo il procedimento di approvazione della legge da parte delle Camere quale procedimento normale di approvazione diretta e non sia applicabile alla procedura di approvazione delle Commissioni. Questa tesi non può ritenersi fondata.

L'art. 72, nell'attribuire alla Camera la facoltà di stabilire in quali casi e forme l'esame e l'approvazione dei disegni di legge sono deferite alle Commissioni permanenti, non consente a ciascuna Camera di disciplinare l'approvazione di un disegno di legge, deferito alle Commissioni, in modo diverso da quello stabilito dal primo comma dell'art. 72, secondo il quale é richiesta l'approvazione del disegno di legge articolo per articolo e con votazione finale.

Non vale a sostenere la detta tesi il rilievo che nel terzo comma dell'art. 72, nel quale si prevede la procedura decentrata, si parla di "approvazione definitiva" da parte della Commissione competente per dedurne che questa espressione non corrisponde alla "votazione finale" prevista dal primo comma dell'art. 72 della Costituzione. Quell'espressione é usata nel contesto della disposizione di detto terzo comma dell'art. 72, secondo la quale un disegno di legge deferito ad una Commissione in sede legislativa, fino all'approvazione definitiva, é rimesso alla Camera se ne é fatta richiesta, alle condizioni ivi previste: l'espressione "fino alla approvazione definitiva" significa che la richiesta di rimessione della Camera può essere fatta anche dopo che il disegno di legge sia stato discusso ed approvato articolo per articolo dalle Commissioni, ma prima della votazione finale, che é quella richiesta per l'approvazione definitiva.

La tesi secondo la quale la disposizione del primo comma dell'art. 72 non si applica alla procedura di approvazione di un disegno di legge nelle Commissioni, é, del resto, contraddetta dalla prassi del funzionamento delle Commissioni in sede legislativa, nella quali si procede all'approvazione articolo per articolo e poi alla votazione finale, che nelle Commissioni della Camera dei Deputati, ha luogo a scrutinio segreto, secondo l'art. 91 del regolamento.

Questa procedura é stata, in fatto, seguita dalle Commissioni per l'approvazione della proposta di legge Agrimi. In esse la votazione finale a scrutinio segreto si é avuta sul testo proposto dal Comitato ristretto con la riserva del coordinamento che le Commissioni, prima della votazione finale, avevano autorizzato la Presidenza ad eseguire secondo i criteri esposti dal deputato Agrimi ed accolti dalle Commissioni stesse.

7. - In occasione delle indagini eseguite presso la Camera dei Deputati in esecuzione dell'ordinanza della Corte 27 giugno 1958 é stato fatto conoscere che quando la Camera o una Commissione in sede legislativa, prima della votazione finale su un disegno di legge, ha autorizzato la Presidenza a procedere al coordinamento, il testo del disegno di legge coordinato dalla Presidenza non é ripresentato alla Camera o alla Commissione competente per una nuova votazione finale.

Questa prassi, in quanto risponde ad esigenze del funzionamento di organi collegiali, non può ritenersi senz'altro contraria alla Costituzione. Ma é evidente che il concetto stesso di coordinamento implica che il testo coordinato, in tanto può non essere sottoposto ad una nuova votazione finale, in quanto abbia una formulazione che non alteri la sostanza del testo che aveva formato oggetto della votazione finale della Camera o della Commissione competente. Tale prassi, perciò, non preclude l'esercizio, da parte della Corte costituzionale, del potere di controllare la legittimità costituzionale del procedimento di formazione della legge nel senso di accertare, caso per caso, se la formulazione data al

27

testo legislativo coordinato si é mantenuta nei limiti nei quali il coordinamento é stato autorizzato, in modo che essa esprima l'effettiva volontà della Camera e sia idoneo a concorrere con una identica volontà dell'altra Camera a produrre la legge.

8. - Nel caso concreto, i limiti, entro i quali le Commissioni riunite, prima della votazione finale sul testo elaborato dal Comitato ristretto, avevano autorizzato la Presidenza a procedere al coordinamento, risultano dai resoconti stenografici della seduta del 2 dicembre 1955, che hanno riprodotto fedelmente lo svolgimento dei lavori delle Commissioni. Il coordinamento é stato autorizzato per dare al testo una formulazione che rispondesse ai criteri suggeriti dal deputato Agrimi, mantenendo ferma la sostanza del testo presentato dal Comitato ristretto e che era stato approvato dalle Commissioni riunite con la votazione finale a scrutinio segreto nella seduta del 2 dicembre 1955.

9. - Ai fini del controllo della Corte per accertare se il coordinamento del testo si é mantenuto nei limiti coi quali era stato autorizzato, é rilevante il raffronto fra il testo, votato dalle Commissioni con riserva del coordinamento, ed il testo coordinato e poi promulgato.

Da questo raffronto risulta:

1) che i primi 6 commi del testo coordinato sono identici ai corrispondenti commi del testo approvato dalle Commissioni;

2) che nel testo coordinato i commi settimo e nono sono formulati in modo da attuare il criterio di coordinamento indicato dal deputato Agrimi ed accolto dalle Commissioni, sostituendosi al riferimento ai decreti ministeriali, richiamati nella prima parte del comma settimo del testo approvato dalle Commissioni, l'indicazione diretta della misura dei contributi dovuti all'Ente, con la limitazione di essi al 90% preveduta nel testo approvato dalle Commissioni riunite;

3) che nel testo coordinato non é riprodotta testualmente, nel comma settimo, la disposizione relativa al diritto di rivalsa, che era contenuta nella seconda parte del comma settimo del testo approvato dalle Commissioni, ma é inserito il comma ottavo così formulato: "Per il periodo sopra indicato (cioé dal 16 gennaio 1951 al giorno dell'entrata in vigore della presente legge) il diritto di rivalsa verso i compratori può essere esercitato dalle cartiere nazionali e loro consorzi e dagli importatori solo fino alla concorrenza dell'1% dell'importo netto delle fatture".

A questo riguardo, nelle ordinanze della Cassazione e del Tribunale di Bergamo si é rilevato che mentre il testo approvato dalla Camera rendeva obbligatoria la rivalsa, il testo coordinato (comma ottavo) ha introdotto la formula "il diritto di rivalsa può essere esercitato", che costituirebbe una variazione sostanziale rispetto alle norme precedenti. Ora, la disposizione del comma ottavo del testo coordinato ricalca sostanzialmente quella contenuta nell'ultima parte del comma settimo del testo approvato dalle Commissioni e che faceva riferimento alla limitazione all'1% del diritto di rivalsa stabilito nell'art. 2, terzo comma, del decreto ministeriale 15 gennaio 1951. Infatti l'art. 2, terzo comma, di detto decreto ministeriale dispone che il diritto di rivalsa, di cui all'art. 4 del decreto ministeriale 3 luglio 1940, "può essere esercitato fino alla concorrenza dell'1% dell'importo netto delle fatture". Il fatto che nel testo coordinato si sia introdotta la formula "il diritto di rivalsa può essere esercitato" non importa che sia stata sostanzialmente variata la disposizione del testo approvato dalle Commissioni della Camera nel senso che si sia resa facoltativa la rivalsa. La frase "il diritto di rivalsa può essere esercitato" deve intendersi nel concetto del comma, in cui é inserita, e cioé in connessione col testo del comma "Il diritto di rivalsa può essere esercitato solo fino alla concorrenza dell'1 %". Il comma, così formulato, ha solo lo

28

scopo di limitare all'1 per cento la rivalsa, come già era stabilito nell'art. 2 del decreto ministeriale 15 gennaio 1951 senza per nulla modificare il carattere della rivalsa risultante dalla disposizione contenuta nella seconda parte del comma settimo del testo approvato dalle Commissioni. É da notare che la formulazione del comma ottavo del testo coordinato relativo al diritto di rivalsa é identica a quella del secondo comma dell'articolo unico originario della proposta di legge Agrimi. La formulazione del comma ottavo del testo coordinato é, pertanto, sostanzialmente conforme alla disposizione dell'ultima parte del comma settimo approvato dalle Commissioni della Camera, e, quindi, si é mantenuta nei limiti entro i quali era stato autorizzato il coordinamento;

4) che il comma decimo del testo coordinato é letteralmente identico al comma ottavo del testo votato dalle Commissioni della Camera.

Nei riguardi di detto comma, si é però rilevato, nelle ordinanze della Cassazione e del Tribunale di Bergamo, che mentre nel comma ottavo del testo votato della Camera la disposizione che regola il rimborso ai contribuenti delle somme da essi versate in eccedenza della misura indicata "nel comma precedente" si riferiva ai due contributi indicati nel comma settimo del detto testo, la stessa espressione "in eccedenza alla misura indicata nel comma precedente", riprodotta letteralmente nel primo periodo del comma decimo del testo coordinato, é riferibile al solo contributo sulla cellulosa stabilito nel comma nono del medesimo testo e per conseguenza tale espressione é venuta ad assumere una portata sostanzialmente diversa da quella primitiva.

Non é contestabile che nel primo periodo del comma decimo del testo coordinato la frase "le somme da essi (contribuenti) versate in eccedenza alla misura indicata nel comma precedente", se letteralmente ed isolatamente presa, si riferisce solo al contributo sulla cellulosa essendo questo contributo il solo che é menzionato nel precedente comma nono dello stesso testo. É da rilevare, peraltro, che nel comma decimo del testo coordinato, come nell'identico comma ottavo del testo votato dalle Commissioni, al primo periodo segue un secondo, che é identico nei due testi. Il secondo periodo, col quale il primo é connesso, é così formulato: "Nei confronti dei contribuenti che non abbiano versato i contributi o li abbiano versati in misura inferiore, l'Ente provvederà alla riscossione dei contributi stessi coi mezzi indicati nell'art. 16 del decreto ministeriale 3 luglio 1940". La disposizione del secondo periodo del comma decimo, si riferisce, pertanto, ai contributi, e cioé ad entrambi i contributi, sulla fattura e sulla cellulosa. Si avrebbe una manifesta incongruenza fra il primo ed il secondo periodo dello stesso comma, se mentre il secondo si riferisce ad entrambi i contributi, il primo, invece, come letteralmente sembrerebbe, si riferisse solo al contributo sulla cellulosa, che é il solo preveduto nel comma che precede il comma decimo.

Si aggiunga che non si hanno elementi per ritenere che, in sede di coordinamento, si sia deliberatamente voluto modificare la portata sostanziale della disposizione relativa al rimborso, contenuta nel comma ottavo votato dalle Commissioni, nel senso che la norma relativa al rimborso venisse limitata al solo contributo sulla cellulosa. Il fatto stesso che l'intero comma decimo del testo coordinato sia letteralmente identico al comma ottavo del testo approvato dalle Commissioni, ed abbia mantenuto inalterata nella prima parte la frase "nel comma precedente", lascia ritenere che non si può attribuire a quella frase un significato diverso da quello che essa aveva nella prima parte del comma ottavo del testo votato dalle Commissioni e che si desume dalla seconda parte del comma decimo del testo coordinato, la quale, come si é detto, é identica alla seconda parte del comma ottavo del testo votato dalle Commissioni. Vi é pertanto fondato motivo di ritenere che l'effettivo significato della frase "nel comma precedente" si ottenga collegando il primo periodo del

29

comma decimo col secondo periodo dello stesso comma, nel quale si fa riferimento ai contributi, cioé ai due contributi, e tenendo conto che il significato di riferimento ai due contributi quella frase aveva certamente nel testo approvato dalle Commissioni, la cui sostanza in sede di coordinamento doveva rimanere inalterata.

In conclusione, non essendovi state modificazioni di sostanza, la Corte ritiene che l'eccezione di illegittimità costituzionale della legge 28 marzo 1956, n. 168, per assunta difformità dei testi votati rispettivamente delle Commissioni della Camera e del Senato non sia fondata.

10. - Le ordinanze della Cassazione e del Tribunale di Bergamo hanno sottoposto alla decisione della Corte la questione se sia viziata di illegittimità costituzionale la legge 28 marzo 1956, n. 168, per violazione degli artt. 23, 25, 41, 53, 76, 77, 89, 97, 100 e 136 della Costituzione in quanto legge tributaria retroattiva.

L'articolo unico della legge 28 marzo 1956, n. 168, contiene, nei primi quattro commi, alcune disposizioni che, con effetto dal giorno dell'entrata in vigore della stessa legge, stabiliscono nella misura dell'1% il contributo dovuto all'Ente nazionale per la cellulosa e per la carta previsto dall'art. 1, lett. b, della legge 13 giugno 1940, n. 868; dispongono che il diritto di rivalsa verso i compratori viene esercitato dalle cartiere nazionali e loro consorzi e dagli importatori nella misura del 2.50%; stabiliscono nella misura di lire 3,50 al chilogrammo il contributo dovuto all'Ente dagli importatori e dai produttori di cellulosa destinata ad impieghi diversi dalla fabbricazione di fibre tessili artificiali; prevedono che le misure dei detti contributi potranno essere modificate, purché entro i limiti massimi stabiliti dalla stessa legge, con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto col Ministro per l'industria e per il commercio.

Nel quinto comma dell'articolo unico della detta legge si dispone che restano ferme relativamente al periodo dal 1 marzo 1945 al 31 dicembre 1945 e dal 1 gennaio 1946 al 15 gennaio 1951 le aliquote che sia per i contributi che per il diritto di rivalsa erano state stabilite, riducendole, dai decreti ministeriali 12 giugno 1945 e 29 dicembre 1945, e nel comma sesto che per gli stessi periodi sopraindicati resta ugualmente ferma la misura del contributo previsto dalla lett. d dell'art. 1 della legge 13 giugno 1940, n. 868.

Rispetto a questi primi sei commi della legge non é stata proposta alcuna specifica questione di legittimità costituzionale.

Le disposizioni dei commi settimo, ottavo e nono dell'articolo unico della legge 28 marzo 1956, n. 168, per determinati periodi anteriori all'entrata in vigore della legge, e cioé retroattivamente, stabiliscono i contributi dovuti all'Ente ai sensi dell'art. 1, lett. b e d, della legge 13 giugno 1940, n. 868, in misure che corripondono, con la riduzione del dieci per cento, a quelle che per tali contributi, aumentando quelle previste dall'art. 1 della legge 13 giugno 1940, n. 868, erano state stabilite con decreti ministeriali emanati in base alla facoltà di modificare i contributi dovuti all'Ente, attribuita al Ministro per le corporazioni dall'ultimo comma dell'art. 1 della legge 13 giugno 1940, n. 868.

Si assume dalle cartiere che le disposizioni retroattive in materia tributaria siano costituzionalmente illegittime in riferimento a diversi articoli della Costituzione (23, 25, 41, 42, 53, 76, 77, 89, 97, 100 e 136). La Corte ha già avuto occasione di pronunciarsi sulla questione della legittimità costituzionale della retroattività delle leggi in generale. Essa ha affermato che il principio generale della irretroattività delle leggi non é mai assurto nell'ordinamento giuridico italiano al valore di norma costituzionale, né vi é stato elevato dalla vigente Costituzione se non per la materia penale, senza con ciò escludere che in

30

singole materie, anche fuori di quelle penali, l'emanazione di una legge retroattiva possa rivelarsi in contrasto con qualche specifico principio o precetto costituzionale (sent. 118 del 1957).

Per quanto concerne le leggi tributarie la Corte ha ritenuto che non sia ricavabile dall'art. 23 della Costituzione un precetto costituzionale che precluda la possibilità di leggi retroattive (sent. 81 del 1958). Né una legge tributaria retroattiva può dirsi in contrasto con l'art. 25 della Costituzione, il quale riguarda soltanto la materia penale.

A sostegno della eccezione di illegittimità costituzionale delle disposizioni retroattive contenute nella legge 28 marzo 1956 si é fatto riferimento a vari altri articoli della Costituzione.

L'art. 41 della Costituzione non contiene norme dalle quali si possa fondatamente desumere l'illegittimità costituzionale di una legge tributaria retroattiva.

Lo stesso é a dirsi per quanto concerne l'art. 42 della Costituzione. Non si vede come una legge tributaria retroattiva contrasti coi principi costituzionali enunciati nell'art. 42 Cost. ed in particolare col principio che limita l'espropriazione della proprietà privata. Una legge tributaria, anche retroattiva, non dà luogo ad un'espropriazione di proprietà privata, ma solo ad un'obbligazione pecuniaria verso lo Stato o altro ente pubblico.

Quanto all'art. 53 della Costituzione, che afferma il dovere di tutti di concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva, a prescindere dalla sua portata generale, si rileva che non é esatto che una legge tributaria quando é retroattiva violi per se stessa il principio della capacità contributiva.

Non si vede poi quale rilevanza rispetto alla questione della legittimità costituzionale delle disposizioni retroattive contenute nella legge 28 marzo 1956, n. 168, abbiano gli artt. 76, 77, 89, 97, 100 e 136 della Costituzione, di cui si denuncia la violazione nel l'ordinanza della Corte di cassazione ed in quella del Tribunale di Bergamo.

Si é anche assunto che una legge tributaria, in particolare una legge che, come quella in esame, abbia lo scopo di sanare una precedente situazione illegittima, sarebbe incostituzionale. A prescindere dal rilevare che non é indicata la norma costituzionale che sotto tale profilo sarebbe violata dalla legge in esame, si osserva che, pur essendo ammesso che la legge impugnata ha avuto il carattere di sanatoria, questo motivo della legge non può costituire un vizio di legittimità costituzionale di essa; esso anzi può spiegare il carattere retroattivo di talune sue disposizioni, suggerite, nel caso concreto, in particolare dalla considerazione delle difficoltà di procedere al rimborso dei contributi che almeno in gran parte erano stati trasferiti sui compratori.

Non é esatto, poi, che la legge in questione abbia superato i limiti della prescrizione e della cosa giudicata. La legge si é limitata a stabilire la misura di contributi in quanto fossero tuttora dovuti, senza pregiudizio della prescrizione eventualmente verificatasi secondo le leggi applicabili a tale riguardo e di eventuali decisioni aventi l'autorità della cosa giudicata.

É pertanto da ritenersi non fondata la questione sulla legittimità costituzionale della legge 28 marzo 1956, n. 168, in quanto contiene norme tributarie retroattive.

11. - L'ordinanza del Tribunale di Bergamo ha rimesso alla decisione della Corte, non ritenendola manifestamente infondata, la questione della legittimità costituzionale della legge 28 marzo 1956, n. 168, per contrasto con gli artt. 97 e 41 della Costituzione.

31

Si é rilevato nella detta ordinanza che la legge 28 marzo 1956, intitolata "Provvidenze per la stampa", comporta la percezione di contributi in favore dell'Ente nazionale per la cellulosa e per la carta ai fini del finanziamento di una attività dell'Ente, quella di erogare fondi a favore della stampa, che non rientra negli scopi fissati all'Ente dall'art. 2 della legge 13 giugno 1935, n. 1453, essendo sostanzialmente diversa l'attività di disciplina della produzione e della vendita della carta, prevista dalla legge del 1935, dall'attività di finanziamento della stampa secondo criteri determinati. La legge, come risulta dallo stesso suo titolo "Provvidenze per la stampa", ha attribuito all'Ente uno scopo nuovo, in rapporto ad un'attività, che, prima della legge, non era legittimamente esercitata dall'ente medesimo. Poiché l'organizzazione dell'Ente, stabilita dalla legge 13 giugno 1935, n. 1453, era tipica degli scopi assegnati all'Ente da quella legge, la legge del 1956, per non avere cercato di assicurare all'Ente un'organizzazione specifica per l'esercizio dell'attività di erogazione di fondi alla stampa allo scopo di assicurare l'imparzialità ed il buon funzionamento dell'amministrazione, avrebbe violato l'art. 97 della Costituzione ed anche l'art. 41, secondo il quale, quando si incide nell'attività economica privata per condizionarla a fini sociali, ciò che é reso evidente dallo stesso finanziamento dell'attività, é la legge che deve determinare i programmi o disporre gli opportuni controlli.

Il titolo dato alla legge 28 marzo 1956, n. 168, "Provvidenze per la stampa", non é per sé elemento sufficiente per dedurre che la stessa legge ha portato innovazioni ai fini dell'Ente attribuendogli uno scopo nuovo rispetto a quelli fissati dall'art. 2 della legge 13 giugno 1935, n. 1453, che ha istituito l'Ente con lo scopo di "curare la disciplina della produzione e della vendita della carta con particolare riguardo alla esigenza di determinati consumi". Per quanto concerne il riferimento all'art. 97 della Costituzione, a prescindere dalla questione se e in quale misura sia da ritenere applicabile anche all'organizzazione di enti pubblici diversi dallo Stato, é da rilevare che l'organizzazione dell'Ente nazionale per per la cellulosa e per la carta é stata determinata con legge e che l'apprezzamento sull'idoneità delle relative disposizioni ad assicurare il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione, in quanto non contrastino con specifiche norme costituzionali, rientra nell'esercizio del potere discrezionale del legislatore, nell'ambito delle norme della Costituzione.

Né un'illegittimità costituzionale della legge 28 marzo 1956, n. 168, può dedursi dall'art. 41 della Costituzione, in quanto tale legge non riguarda la disciplina di un'attività economica privata per indirizzarla e coordinarla a fini sociali, ma esclusivamente la disciplina del finanziamento di un ente pubblico per l'espletamento dei fini attribuitigli dalla legge.

La questione di legittimità costituzionale della legge 28 marzo 1956, n. 168, proposta dall'ordinanza del Tribunale di Bergamo, in riferimento agli artt. 97 e 41 della Costituzione é pertanto da ritenersi non fondata.

12. - La Corte di cassazione con l'ordinanza n. 70 ha rimesso alla Corte costituzionale la questione se l'ultimo comma dell'art. 1 della legge 13 giugno 1940, n. 868, che attribuisce ai Ministri di stabilire con decreto le modifiche alle misure dei contributi dovuti all'Ente, previsti con lo stesso articolo, sia in contrasto con gli artt. 23, 70, 76, 81 e 87 della Costituzione.

Nei riguardi di tale questione, la Corte rileva che, avendo ritenuto che non sono fondate le eccezioni di illegittimità della legge del 1956 ed in particolare quella relativa alla retroattività delle disposizioni con le quali la stessa legge ha stabilito la misura dei contributi dovuti all'Ente con effetto dal 16 gennaio 1951, cioé dalla stessa decorrenza del decreto ministeriale 15 gennaio 1951 che, emanato in base all'ultimo comma dell'art. 1 della legge 13 giugno 1940, n. 868, aveva, fra l'altro, elevato a lire 6 per ciascun

32

chilogrammo il contributo sulla cellulosa, la questione relativa alla legittimità costituzionale dell'ultimo comma dell'art. 1 della legge 13 giugno 1940, n. 868, é da considerarsi assorbita.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

pronunciando con unica sentenza sui tre procedimenti riuniti indicati in epigrafe:

respinge le eccezioni di inammissibilità proposte dall'Ente nazionale per la cellulosa e per la carta e dall'Avvocatura generale dello Stato;

dichiara non fondate le questioni, proposte con le ordinanze della Corte di cassazione, Sezioni unite civili, del 28 gennaio 1957, e con l'ordinanza del Tribunale di Bergamo dell'8 gennaio 1958, sulla legittimità costituzionale della legge 28 marzo 1956, n. 168, in riferimento agli artt. 23, 25, 41, 42, 53, 76, 77, 81, 89, 97, 100, 136 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 marzo 1959.

GAETANO AZZARITI, PRESIDENTE

TOMASO PERASSI, REDATTORE

Depositata in cancelleria il 9 marzo 1959.

33

SENTENZA N. 231 DEL 1975

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

Prof. Francesco Paolo BONIFACIO, Presidente

Dott. Luigi OGGIONI

Avv. Angelo DE MARCO

Avv. Ercole ROCCHETTI

Prof. Enzo CAPALOZZA

Prof. Vincenzo Michele TRIMARCHI

Prof. Vezio CRISAFULLI

Dott. Nicola REALE

Prof. Paolo ROSSI

Avv. Leonetto AMADEI

Dott. Giulio GIONFRIDA

Prof. Edoardo VOLTERRA

Prof. Guido ASTUTI

Dott. Michele ROSSANO,

Prof. Antonino DE STEFANO

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti, promossi con le ordinanze emesse il 18 aprile 1975 dal tribunale di Torino (II sezione penale) ed il 16 aprile 1975 dal tribunale di Milano (I sezione penale), rispettivamente iscritte ai nn. 15 e 16 del registro ricorsi 1975, per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito del rifiuto, opposto dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, di trasmettere documenti richiesti dai predetti tribunali.

Visti gli atti di costituzione in giudizio della Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia;

udito nell'udienza pubblica dell'8 ottobre 1975 il Giudice relatore Vezio Crisafulli;

34

uditi gli avvocati Aldo Sandulli e Gian Domenico Pisapia, per la Commissione parlamentare, e gli avvocati Alberto Dall'Ora e Giovanni Bovio, per il tribunale di Milano.

Ritenuto in fatto

1. - Con ordinanza emessa il 18 aprile 1975 nel corso di un procedimento penale a carico di Pantaleone Michele e Einaudi Giulio, il tribunale di Torino sollevava conflitto di attribuzione ai sensi dell'art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, nei confronti del potere legislativo, assumendo che la Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, istituita con legge 20 dicembre 1962, n. 1720 - dopo aver aderito solo in minima parte alle richieste, avanzate con precedenti ordinanze dallo stesso tribunale, di copie di documenti ritenuti necessari ai fini della indagine - ad una successiva richiesta, disposta con ordinanza 31 gennaio 1975, della predetta documentazione, ritenuta ormai non più segreta a seguito della pubblicazione della "Relazione sui lavori svolti e sullo stato del fenomeno mafioso al termine della V Legislatura", aveva ribadito il proprio rifiuto con una lettera in data 21 febbraio 1975.

2. - I fatti da cui ha tratto origine il procedimento penale risalgono al 1969 quando l'editore Giulio Einaudi pubblicava il libro di Michele Pantaleone "Antimafia occasione mancata" nel quale l'attore attribuisce a Bernardo Canzoneri, Gaspare Cusenza, Giovanni Gioia e Orazio Ruisi la commissione di vari reati.

A seguito delle querele sporte dalle persone sopra menzionate, nell'aprile e nel maggio 1969 il Procuratore della Repubblica di Torino citava a giudizio direttissimo il Pantaleone e l'Einaudi per rispondere dei reati di cui agli artt. 81, 110-595 del codice penale e 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47.

Nel corso del dibattimento ed in particolare nelle diverse udienze tenutesi nel 1973, la difesa degli imputati, cui si è generalmente associato il pubblico ministero, chiedeva l'acquisizione agli atti di documenti in possesso della Commissione antimafia ed il tribunale provvedeva emettendo le relative ordinanze.

Seguivano le risposte in gran parte negative della Commissione, cui peraltro il tribunale continuò a chiedere oltre la documentazione non ricevuta, anche altri atti che lo svolgimento del processo faceva, via via, apparire rilevanti ai fini dell'accertamento della verità.

Perdurando il diniego della Commissione, espresso definitivamente con la citata lettera del 21 febbraio 1975, alla udienza del 18 aprile 1975 la difesa degli imputati sollecitava il tribunale a sollevare conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale. Il pubblico ministero si associava alla richiesta e, in conformità, il tribunale emetteva la nota ordinanza del 18 aprile 1975.

3. - Con altra ordinanza, emessa il 16 aprile 1975 nel corso di un procedimento penale a carico di Villani Silvano, il tribunale di Milano sollevava analogo conflitto nei confronti della Commissione antimafia, denunciando la violazione degli artt. 24, 101 e seguenti della Costituzione.

Il Villani aveva pubblicato sul Corriere della Sera del 4 settembre 1971 un articolo intitolato "La voce della mafia al telefono", nel quale affermava essere Italo Jalongo un pregiudicato per truffa, un mafioso e come tale aver fatto diversi favori a personaggi importanti. Lo Jalongo sporse querela per diffamazione a mezzo stampa concedendo la più ampia facoltà di prova. Il 2 aprile 1973 il Villani veniva citato a giudizio direttissimo dal Procuratore della Repubblica di Milano sotto l'imputazione del reato di cui agli articoli 595-

35

81 del codice penale e 13 della legge n. 47 del 1948, per le affermazioni contenute nell'articolo suddetto.

Dall'8 maggio 1973 si sono susseguite le udienze dibattimentali spesso rinviate a causa della pendenza delle trattative per la remissione della querela. All'udienza del 22 aprile 1974, avendo la difesa del Villani chiesto che venissero acquisiti atti in possesso della Commissione antimafia ed essendosi associato alla richiesta il pubblico ministero, il tribunale in pari data emetteva la relativa ordinanza. Pervenuta la comunicazione in data 6 dicembre 1974, con la quale la Commissione antimafia rifiutava gli atti richiesti, il tribunale, in data 12 febbraio 1974, emetteva nuova ordinanza di richiesta degli atti in questione, replicando nelle premesse alle argomentazioni della Commissione, e affermando, tra l'altro, che la prova liberatoria spetta all'imputato o per richiesta del querelante o a norma dell'art. 51 del codice penale in relazione agli artt. 21 e 24 della Costituzione.

Con successiva nota del 26 marzo 1975 la Commissione in risposta all'ordinanza 12 febbraio, ribadiva il rifiuto di esibire i documenti, insistendo sul corretto significato da attribuire alla "pubblicazione" disposta al termine della V legislatura.

All'udienza del 16 aprile la difesa del Villani chiedeva al tribunale di sollevare conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale nei confronti dell'antimafia. Il pubblico ministero, dal canto suo, si associava alla richiesta "facendola propria", ed il tribunale emetteva la nota ordinanza 16 aprile 1975.

4. - Con ordinanze nn. 228 e 229 dell'8 luglio 1975 la Corte costituzionale, a norma dell'art. 37 della legge n. 87 del 1953, dichiarava l'ammissibilità dei ricorsi per conflitto di attribuzione proposti rispettivamente dal tribunale di Torino e dal tribunale di Milano, disponendo altresì che: a) la cancelleria della Corte desse immediata comunicazione al ricorrente della ordinanza; b) che a cura di ciascun ricorrente l'ordinanza e il ricorso venissero notificati alla Commissione antimafia in persona del suo Presidente entro il termine di trenta giorni dalla data di comunicazione di cui sopra.

A seguito della comunicazione e delle notificazioni prescritte, la Commissione antimafia si é costituita nei due conflitti con deduzioni dell'avv. Aldo Sandulli e dell'avv. Gian Domenico Pisapia depositate il 7 agosto 1975, cui hanno fatto seguito memorie aggiuntive depositate in data 25 settembre 1975.

A loro volta i tribunali di Torino e di Milano provvedevano al deposito dei ricorsi a norma dell'art. 26, terzo comma, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale rispettivamente in data 20 agosto e 8 agosto 1975. Il tribunale di Milano depositava altresì memoria e successivamente conferiva mandato di rappresentarlo in udienza agli avvocati Giovanni Bovio e Alberto Dall'Ora.

Nella pubblica udienza i difensori delle parti hanno ribadito le rispettive tesi e conclusioni.

Considerato in diritto

1. - I giudizi per conflitto di attribuzione, promossi con le due ordinanze dei tribunali di Torino e di Milano nei confronti della Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della "mafia", a seguito del rifiuto da questa opposto di trasmettere ai tribunali medesimi, che ne avevano fatto formale richiesta, determinati atti e documenti in suo possesso, ritenuti dai giudici predetti necessari ai fini dell'accertamento della verità nei rispettivi

36

processi, involgono sostanzialmente le stesse questioni e vanno perciò decisi con unica sentenza.

2. - La difesa della Commissione eccepisce pregiudizialmente l'inammissibilità dei conflitti, sia sotto il profilo soggettivo che sotto il profilo oggettivo. Deduce, infatti, per un verso, che né i tribunali ricorrenti né essa Commissione sarebbero legittimati - rispettivamente - a sollevare i conflitti in oggetto ed a resistervi, non essendo organi "competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono", come prescritto dall'art. 37, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e che mancherebbe altresì, per altro verso, la materia di conflitto e difetterebbe nei tribunali l'interesse a ricorrere, perché gli atti e documenti, cui si riferivano le loro richieste e i dinieghi della Commissione, o non sarebbero validamente utilizzabili come mezzi di prova nei processi in corso in sede dibattimentale o avrebbero potuto e potrebbero essere richiesti ai soggetti, pubbliche autorità e privati, che li avevano autonomamente formati e da cui provenivano.

Gli argomenti addotti, peraltro, non sono tali da indurre la Corte a mutare l'avviso già espresso in linea di prima delibazione nelle ordinanze nn. 228 e 229 del corrente anno, alla motivazione delle quali, con le ulteriori precisazioni che seguono, si fa quindi espresso rinvio.

3. - Più particolarmente, sotto il profilo soggettivo, riecheggiando una nota tesi dottrinale che, nell'interpretazione del primo comma dell'art. 37, tende a distinguere gli organi che possono entrare tra loro in conflitto da quelli legittimati al relativo giudizio (i quali ultimi sarebbero unicamente gli organi supremi dei poteri cui i primi appartengono), si assume che, nella specie, i conflitti avrebbero dovuto essere proposti dalla Corte di cassazione, anziché dai tribunali direttamente interessati, e nei confronti delle Camere, anziché della Commissione d'inchiesta. Senonché, a prescindere dalle difficoltà che all'accoglimento, in generale, di siffatta tesi, derivano dallo stesso testo dell'art. 37, dove parlandosi di "conflitto" si allude all'oggetto del giudizio, e non viceversa al giudizio sul conflitto, e dove pertanto il riferimento agli organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà dei poteri va inteso come rivolto a designare gli organi confliggenti, e non soltanto quelli legittimati ad processum, é significativo rilevare che la difesa della Commissione esplicitamente ammette - da un lato - che alle Commissioni d'inchiesta deve riconoscersi (ed é positivamente riconosciuta) un'amplissima autonomia, tanto più quando, come nel caso in oggetto, siano istituite con legge e senza prefissione di termini, quindi destinati a durare oltre le singole legislature; ed altresì ammette - d'altro lato - che attualmente l'ordinamento non predispone (almeno, "espressamente") i congegni attraverso i quali l'organo giudiziario "minore" potrebbe sollecitare l'intervento della Corte di cassazione, la quale a sua volta (si aggiunge) non può essere considerata giuridicamente come "superiore" rispetto agli altri, senza dire delle perplessità (anch'esse accennate, ma non risolte, nelle deduzioni di costituzione della Commissione) che la struttura "composita" della stessa Corte di cassazione farebbe sorgere quando si volesse più precisamente stabilire in quale delle sue articolazioni (Primo Presidente, Sezioni Unite, ecc.) dovrebbe ritenersi concentrata la competenza a proporre conflitto.

Ma tutte queste ammissioni, riserve e perplessità finiscono per avvalorare indirettamente, anche sul terreno pratico, le conclusioni cui la Corte ebbe a pervenire nelle ordinanze numeri 228 e 229, evidenziando - da un lato - il carattere "diffuso" che tipicamente contrassegna il potere giudiziario, ciascuna componente del quale é idonea a porre in essere pronunce sulle quali la Corte di cassazione non sarebbe in grado di esercitare il proprio sindacato, se non nei casi previsti dai codici di rito e (con la sola eccezione di cui all'art. 41, primo comma, cod. proc. civ.) sempre dietro iniziativa di chi sia parte in giudizio;

37

nonché - d'altro lato - l'indipendenza di cui godono, durante il corso del loro mandato, le Commissioni parlamentari d'inchiesta, anche nei confronti delle Camere, le quali, come non potrebbero procedere esse stesse, direttamente, ad inchieste ex art. 82 Cost., così nemmeno sono autorizzate ad interferire nelle deliberazioni adottate dalle Commissioni medesime per il più proficuo svolgimento dei loro lavori.

É da soggiungere che l'art. 37 della legge n. 87, nel definire i conflitti tra poteri la cui risoluzione spetta alla Corte costituzionale, non muove dal criterio della definitività degli atti che ne possono essere all'origine, ché anzi in tali conflitti (a differenza che in quelli tra Stato e Regioni o tra Regioni) un atto può addirittura mancare, essendo sufficiente a determinarli un mero comportamento, anche omissivo; ma designa gli organi legittimati a sollevarli ed a resistervi alla stregua della loro capacità ad impegnare l'intero potere. Né, in tale ordine di idee, ha riferimento agli organi che - in concreto - abbiano dichiarato definitivamente la volontà del potere, quanto invece agli organi a ciò "competenti", vale a dire che ne abbiano l'astratta possibilità.

Perde perciò consistenza il rilievo della difesa della Commissione, secondo cui, a norma dell'art. 200 cod. proc. pen., le ordinanze istruttorie dei tribunali ricorrenti, alle quali seguirono le risposte negative della Commissione, sarebbero state (e sarebbero), oltre che revocabili come ogni ordinanza, impugnabili unitamente alla sentenza di merito.

4. - É anche da disattendere l'eccezione di inammissibilità sotto il profilo oggettivo, per mancanza di materia di conflitto e carenza di interesse, che, peraltro, nella parte in cui accenna a distinguere tra le diverse specie di atti richiesti dai tribunali e rifiutati dalla Commissione, finisce per involgere questioni inerenti al merito della controversia, o comunque con questo strettamente connesse, sulle quali occorrerà soffermarsi in prosieguo.

Ferma restando tale riserva, può e deve essere ribadito che sussiste indubbiamente nei casi in esame materia di conflitto e interesse a sollevarlo, assumendosi dai tribunali ricorrenti che dal rifiuto illegittimamente opposto dalla Commissione risulterebbe menomata la sfera di attribuzioni ad essi garantita dalla Costituzione, per l'impedimento derivantene all'acquisizione delle prove ritenute necessarie per l'accertamento della verità.

Né può contestarsi che ogni valutazione sulla utilità e sulla valida utilizzabilità in giudizio dei mezzi di prova é di esclusiva competenza dell'autorità giudiziaria procedente, sottraendosi pertanto a qualsiasi sindacato che non sia quello esplicabile dal giudice eventualmente adito in sede di gravame.

5. - Nel merito, la controversia concerne determinati atti e documenti dell'inchiesta antimafia, non inseriti negli Atti parlamentari (Documento n. XXIII-2, Septies, della V Legislatura) come allegati alla "Relazione sui lavori svolti e sullo stato del fenomeno mafioso al termine della V Legislatura", ivi pubblicata, ma specificatamente indicati nell'elenco, anch'esso allegato alla relazione predetta (n. 62), denominato "Indice analitico della documentazione esistente agli atti della Commissione". Ed il problema di fondo che si dibatte in entrambi i giudizi é, dunque, più precisamente, se la Commissione abbia l'obbligo giuridico di trasmettere all'autorità giudiziaria tali atti e documenti, potendo esimersene soltanto nei casi ed alle condizioni di cui all'art. 342 cod. proc. pen. (in relazione anche all'art. 352), ovvero se, in considerazione delle finalità di pubblico interesse cui é costituzionalmente preordinato il potere di inchiesta e delle prerogative di cui godono le Assemblee legislative ed i loro organi, nell'esercizio delle loro funzioni istituzionali (delle quali soltanto é questione nella specie e tra le quali certamente rientra la funzione ispettiva, esprimentesi tra l'altro attraverso le inchieste), sia da riconoscere alla

38

Commissione predetta la facoltà di stabilire se e quali dei suoi atti e relativa documentazione debbano essere coperti da segreto, opponibile anche agli organi giudiziari.

La posizione "di assoluta indipendenza" del Parlamento, come di altri organi "ai vertici dello Stato", anche nei loro rapporti reciproci (sent. n. 143 del 1968), é stata più volte riaffermata da questa Corte (sent. n. 15 del 1969 e sent. numero 110 del 1970: quest'ultima, con particolare riferimento alle deroghe alla giurisdizione, ammissibili nei loro confronti pur se "sempre di stretta interpretazione"), che non ha mancato, in occasione del conflitto insorto tra la Commissione parlamentare inquirente per i giudizi di accusa e il giudice istruttore del tribunale di Roma, di sottolineare la necessità di contemperare "l'autonomia e l'indipendenza del potere giudiziario da ogni altro potere" con "l'indipendenza del potere politico rispetto ad ogni indebita ingerenza", anche da parte del potere giudiziario (sent. n. 13 del 1975).

Più analiticamente, l'indipendenza delle Camere (riflettentesi naturalmente sui loro organi) si articola, nella normativa direttamente dettata dal testo costituzionale, nell'autonomia organizzativa e normativa spettante a ciascuna di esse ("riserva di regolamento": art. 64, primo comma); nella loro esclusiva competenza alla convalida dei propri membri (art. 66); nella non responsabilità dei medesimi "per i voti dati e le opinioni espresse nell'esercizio delle loro funzioni" (art. 68, primo comma: immunità, sotto questo aspetto, assoluta, che, in omaggio al principio democratico rappresentativo, l'art. 122, ultimo comma, estende anche ai membri dei Consigli regionali), oltre che nella immunità, che può dirsi relativa, di cui al secondo comma del detto art. 68 (non proseguibilità dell'azione penale e divieto di arresto e perquisizione personale o domiciliare senza autorizzazione dell'Assemblea, fuori dei casi di flagrante delitto che comporti obbligatorietà di mandato di cattura).

Alle quali disposizioni, contenute nella Costituzione, si aggiungono poi, svolgendone ed applicandone i principi, quelle dei regolamenti parlamentari, tra cui sono specialmente da ricordare, ai fini che qui interessano, l'art. 62 del Regolamento della Camera e il corrispondente art. 69 del Regolamento del Senato, che attribuiscono ai rispettivi Presidenti l'esercizio dei poteri di polizia e la disposizione della forza pubblica nell'interno delle Assemblee: poiché da queste disposizioni, per lunga tradizione, si suole trarre la regola della cosi detta "immunità della sede" (valevole anche per gli altri supremi organi dello Stato) in forza della quale nessuna estranea autorità potrebbe far eseguire coattivamente propri provvedimenti rivolti al Parlamento ed ai suoi organi. Di guisa che, ove gli organi parlamentari non vi ottemperassero, sarebbe unicamente possibile provocare l'intervento di questa Corte, in sede di conflitto di attribuzione, cosi come precisamente é avvenuto nel caso in oggetto.

6. - Ma é soprattutto da rilevare che, fermo restando che il principio fondamentale in materia é quello della pubblicità degli atti parlamentari (art. 64, secondo comma, Cost.), é tuttavia rimesso alla valutazione delle Camere (e rientra nella autonomia costituzionale ad esse, come sopra accennato, garantita) di derogarvi in singoli casi, deliberando di riunirsi in seduta segreta (nella quale ipotesi, gli artt. 34, punto 3, Reg. Camera e 60, punto 4, Reg. Senato consentono che possano altresì stabilire di non farne stendere processo verbale). A sua volta, l'art. 72 Cost., nel terzo comma, demanda ai regolamenti parlamentari di determinare le forme di pubblicità dei lavori delle Commissioni legislative: al che, codificando una prassi già formatasi sotto il vigore dei precedenti regolamenti, provvede ora l'art. 65 del Regolamento della Camera, disponendo che tale pubblicità sia assicurata "mediante resoconti pubblicati nel Bollettino delle Giunte e delle Commissioni parlamentari", a cura del Segretario Generale. E del principio implicito in questa

39

disposizione, espressamente dettata per le Commissioni legislative, ha fatto applicazione, nel caso in oggetto, la Commissione di inchiesta, cosi stabilendo nell'art. 1 del suo Regolamento interno del 31 luglio 1969 e nell'art. 1 del successivo Regolamento del 16 maggio 1973.

Sempre in tema di pubblicità, a parte per ora le disposizioni regolamentari che prevedono il segreto delle Commissioni "nell'interesse dello Stato" (art. 65, punto 3 , Reg. Camera, ed analogamente, seppure con formulazione più generica, parlando di "documenti, notizie o discussioni che interessano lo Stato", l'art 31, punto 3, Reg. Senato), sulle quali dovrà tornarsi subito appresso, mette conto rammentare in particolar modo quelle dettate per le indagini conoscitive esperite dalle Commissioni, cui viene data facoltà di decidere di non fare verbale né resoconto stenografico delle sedute a dette indagini dedicate (art. 144, punto 4, Reg. Camera, e art. 48, Reg. Senato): trattandosi evidentemente di un settore di attività parlamentare molto vicino a quello delle inchieste.

7. - Dal complesso dei principi e delle disposizioni richiamate nei precedenti nn. 5 e 6 si ricava, dunque, che le Commissioni parlamentari d'inchiesta, le quali, sostituendo necessariamente a norma dell'art. 82, primo comma, Cost. il plenum delle Camere, a buon diritto possono configurarsi come le stesse Camere nell'atto di procedere all'inchiesta, sono libere di organizzare i propri lavori, anche stabilendo - in tutto od in parte - il segreto delle attività da esse direttamente svolte e della documentazione risultante dalle indagini esperite: e ciò in funzione del conseguimento dei fini istituzionalmente ad esse propri, specificamente indicati, nel caso in oggetto, dall'art. 2 della legge 20 dicembre 1962, n. 1720, a termini del quale "La Commissione, esaminate la genesi e le caratteristiche del fenomeno della mafia, dovrà proporre le misure necessarie per reprimerne le manifestazioni ed eliminarne le cause".

Non vale in contrario l'argomento che l'ordinanza del tribunale di Milano vorrebbe trarre proprio dalle disposizioni dei regolamenti parlamentari, ricordate alla fine del punto precedente, relative al segreto "nell'interesse dello Stato", poiché tali disposizioni, che letteralmente non tanto consentono, quanto impongono, la segretezza di determinate sedute delle Commissioni, in realtà rimettono pur sempre all'apprezzamento politico delle stesse (sicuramente non sindacabile dall'Autorità giudiziaria) di verificare se e quando l'ipotesi prevista concretamente ricorra; e perciò, nella sostanza, lungi dall'intaccare i principi sopra enunciati, ne offrono indiretta conferma. Senza dire che la circostanza che, per particolari casi, sia prescritto un obbligo non basterebbe ad escludere, per ogni altro, una facoltà, che appare invece, secondo il già detto, insita nell'autonomia delle Camere e dei loro organi, e segnatamente delle Commissioni di inchiesta da esse istituite; per le quali ultime la segretezza, che può circondarne i lavori, é funzionalizzata al conseguimento dei fini alle medesime assegnati.

Ora, com'é riconosciuto, può ben dirsi, unanimemente dalla dottrina antica e recente, tali fini differiscono nettamente da quelli che caratterizzano le istruttorie delle autorità giudiziarie. Compito delle Commissioni parlamentari di inchiesta non é di "giudicare", ma solo di raccogliere notizie e dati necessari per l'esercizio delle funzioni delle Camere; esse non tendono a produrre, né le loro relazioni conclusive producono, alcuna modificazione giuridica (com'é invece proprio degli atti giurisdizionali), ma hanno semplicemente lo scopo di mettere a disposizione delle Assemblee tutti gli elementi utili affinché queste possano, con piena cognizione delle situazioni di fatto, deliberare la propria linea di condotta, sia promuovendo misure legislative, sia invitando il Governo a adottare, per quanto di sua competenza, i provvedimenti del caso. L'attività di inchiesta rientra, insomma, nella più lata nozione della funzione ispettiva delle Camere; muove da cause

40

politiche ed ha finalità del pari politiche; né potrebbe rivolgersi ad accertare reati e connesse responsabilità di ordine penale, ché se così per avventura facesse, invaderebbe indebitamente la sfera di attribuzioni del potere giurisdizionale. E, ove nel corso delle indagini vengano a conoscenza di fatti che possano costituire reato, le Commissioni sono tenute a farne rapporto all'autorità giudiziaria, cosi come, nel caso in oggetto, la Commissione antimafia si é vincolata a fare con i propri regolamenti interni sopra citati, del 1969 e del 1973, e, stando a quanto affermato nella relazione, in pratica ha fatto.

Come sono diversi i fini, così differiscono o possono differire i mezzi di cui si valgono le Commissioni parlamentari d'inchiesta, rispetto a quelli tipici dell'autorità giudiziaria. Il secondo comma dell'art. 82 Cost. attribuisce, bensì, alle prime a gli stessi poteri", e prescrive a le stesse limitazioni", di quest'ultima, e ciò per consentire loro di superare, occorrendo, anche coercitivamente, gli ostacoli nei quali potrebbero scontrarsi nel loro operare. Ma le Commissioni restano libere di prescegliere modi di azione diversi, più duttili ed esenti da formalismi giuridici, facendo appello alla spontanea collaborazione dei cittadini e di pubblici funzionari, al contributo di studiosi, ricorrendo allo spoglio di giornali e riviste, e via dicendo. Come esattamente fu notato da una antica dottrina, le persone dalle Commissioni interrogate non depongono propriamente quali "testimoni", ma forniscono informazioni; e lo stesso é a dirsi delle relazioni varie che pubbliche autorità possono, su richiesta delle Commissioni, ad esse presentare con riferimento a determinate situazioni e circostanze ambientali, tra cui bene possono trovar posto anche stati d'animo e convincimenti diffusi, registrati per quel che sono, indipendentemente dalla loro fondatezza, da chi, per la sua particolare esperienza o per l'ufficio ricoperto, sia meglio in grado di averne diretta notizia.

Ma siffatti obiettivi e mezzi di azione, nella loro reciproca connessione, postulano logicamente che le Commissioni d'inchiesta abbiano il potere di opporre il segreto alle risultanze di volta in volta acquisite nel corso della loro indagine, libere rimanendo di derogarvi, quando non lo vietino altri principi, ogni qual volta non possano derivarne conseguenze tali da impedire o intralciare gravemente l'assolvimento del loro compito: specie per venire incontro a richieste provenienti da autorità giudiziarie, in uno spirito di doverosa collaborazione tra organi di poteri distinti e diversi, per fini di giustizia. In questo senso, il segreto delle Commissioni di inchiesta non corrisponde, a rigore, ai vari specifici tipi di segreto previsti dalle norme dei codici di diritto e procedura penale, ma può qualificarsi piuttosto, più genericamente, come un segreto funzionale, del quale spetta alle Commissioni medesime determinare la necessità ed i limiti. E non importa che, nella specie, la Commissione antimafia, nel suo ricordato regolamento interno del 1973, abbia ritenuto di affermare un "segreto istruttorio" e poi un "segreto di ufficio", ed a quest'ultimo abbia fatto riferimento nelle lettere di risposta ai tribunali ricorrenti, che stanno alle origini dei sollevati conflitti, adoperando anche circonlocuzioni e perifrasi non sempre necessarie, poiché quel che conta é la sostanza, e la sostanza é quella che emerge dalle considerazioni fin qui svolte.

Comunque, che la Commissione antimafia potesse opporre un segreto alle richieste delle autorità giudiziarie non viene contestato, se ben si guarda, dallo stesso tribunale di Torino, che, in un primo momento, nell'ordinanza 4 giugno 1973, dopo aver affermato in premessa che al Parlamento "unicamente spetta, nell'esercizio della discrezionalità politica, di stabilire e in quali limiti dare pubblicità agli atti" dell'inchiesta, invitava l'organo parlamentare al riesame "dell'opportunità di aderire alla richiesta" precedentemente avanzata, con riferimento alla documentazione "non pubblicata, pur se di essa vi é cenno nel testo delle relazioni". Mentre poi, nell'ordinanza-ricorso del 18 aprile 1975, il tribunale medesimo sollevava il conflitto, assumendo che con la intervenuta pubblicazione, nel

41

1972, della "Relazione sui lavori svolti e sullo stato del fenomeno mafioso, al termine della V Legislatura", sarebbe venuto meno il segreto per determinazione della stessa Commissione, per avere questa disposto di pubblicare tra gli allegati alla Relazione predetta l'indice analitico cui si é sopra accennato al punto 5.

Ma si tratta di un equivoco, nel quale d'altronde cade anche la difesa del tribunale di Milano, insistendo, sia pure in linea subordinata, su analoga tesi. Altro é, infatti, pubblicare una serie di documenti, quali appunto quelli di cui agli allegati da 1 a 61 uniti alla relazione presentata al termine della V Legislatura, altro pubblicare un indice di documenti tuttora detenuti dalla Commissione; altra cosa é esteriorizzare il contenuto di certi atti, altro limitarsi a renderne nota l'esistenza.

E poiché, come a suo luogo non si é mancato di rilevare, il contrasto tra Commissione e tribunali ricorrenti verte esclusivamente intorno a documenti inclusi nell'indice, rimangono ferme le conclusioni fin qui raggiunte, nel senso che la Commissione d'inchiesta disponeva e dispone, in funzione delle proprie finalità, del regime di pubblicità o di segretezza dei documenti in questione.

8. - Tali conclusioni, peraltro, come dovrebbe risultare implicito nel già detto, valgono limitatamente alla documentazione relativa ad accertamenti svolti o direttamente disposti dalla Commissione, oltre che alle discussioni che hanno avuto luogo nel corso delle sue sedute e alle valutazioni ed apprezzamenti in quella sede espressi, ma non divulgati attraverso le relazioni pubblicate, e sono logicamente estensibili ad esposti ed anonimi ad essa rivolti.

Le considerazioni che precedono quanto ai particolari metodi di indagine cui una Commissione d'inchiesta può ricorrere, alla natura confidenziale o comunque riservata che possono avere le informazioni ad essa fornite o da essa raccolte, delle quali non sempre la Commissione é in grado di accertare con sufficiente sicurezza la piena conformità al vero, giustificano, infatti, la eventuale segretezza dei risultati in tali forme acquisiti, e di questi soltanto, anche per non esporre quanti forniscono informazioni al rischio di conseguenze dannose. Ed é ovvio che anche la sola prospettiva di consimili rischi costituirebbe una remora non indifferente per gli interessati, minacciando di compromettere il conseguimento, non soltanto delle finalità della singola inchiesta, ma altresì, in prospettiva, di ogni possibile inchiesta futura, vanificando in definitiva il potere che l'art. 82 Cost. conferisce alle Camere.

9. - Entro l'ambito testé precisato, il limite che dal segreto funzionale delle Commissioni d'inchiesta (cui esse soltanto hanno facoltà di derogare) può derivare all'esercizio della funzione giurisdizionale al diritto di difesa delle parti, essenzialmente connaturato al suo vario esplicarsi, non può essere giudicato illegittimo.

A criteri analoghi si é ispirata la sentenza n. 13 del 1975, sopra citata, in tema di rapporti tra giurisdizione penale e potere politico; mentre, per quel che più particolarmente concerne il diritto di difesa garantito nell'art. 24 Cost., la Corte nella sua giurisprudenza, costantemente affermandone il carattere di diritto fondamentale, ha più volte avuto occasione di rilevare come non sia da escludere che esso abbia ad incontrare determinati limiti, necessari a contemperarne la tutela con quella pure spettante ad altri interessi costituzionalmente rilevanti; purché in ogni caso detti limiti "non siano di entità tale da comprometterne seriamente l'esercizio" (sent. n. 175 del 1970), o peggio da ridurlo ad un nome vano.

42

Il che non si verifica quando una Commissione d'inchiesta si attenga al criterio, nella specie adottato, come risulta dal resoconto della seduta del 16 novembre 1972, di indicare alle autorità che ad essa richiedono documenti coperti dal suo segreto "le fonti delle notizie raccolte... in modo che lé predette autorità siano poste in grado di svolgere in materia propri autonomi accertamenti".

Può aggiungersi, con specifico riguardo alla presente controversia, che non soltanto l'ampiezza delle relazioni già pubblicate e l'abbondanza della documentazione allegata, ma la stessa formulazione dell'indice, che costituisce, come accennato, un vero e proprio sommario, sono suscettibili di offrire ai tribunali ricorrenti una traccia tutt'altro che esigua per procedere essi stessi, ove lo ritengano, agli incombenti istruttori del caso, nei modi e nelle forme previste dal codice di rito.

10. - D'altro canto, non tutti i documenti nella specie richiesti dai tribunali ricorrenti e rifiutati dalla Commissione si riferiscono ad atti da questa formati o direttamente disposti ai propri fini e secondo i propri metodi di lavoro. Sono, infatti, tra essi ricompresi anche atti precostituiti da altre autorità o da enti pubblici, nell'esplicazione dei loro compiti istituzionali; come pure documenti privati e scritti anonimi.

Di questi ultimi, consistenti in un esposto rivolto alla Commissione da Michele Pantaleone nonché in lettere anonime aventi riguardo al medesimo, del pari indirizzate alla Commissione (doc. di cui al n. 846 dell'indice allegato alla relazione pubblicata nel 1972, nn. 2 e 3), si é già detto sopra, al punto 8 della motivazione, che debbono essere assimilati a quelli formati o disposti dalla Commissione, perché nessuna differenza sostanziale sussiste tra deposizioni o confidenze da questa raccolte ed esposti o lettere, anche se anonime, ad essa direttamente pervenuti. Non vi é, pertanto, obbligo di trasmetterli ai giudici richiedenti.

Tra gli altri atti che la Commissione semplicemente detiene, una considerazione a parte meritano quelli indicati ai nn. 787 e 788 dell'indice più volte citato, e precisamente i verbali di trascrizione delle intercettazioni telefoniche, nonché le trascrizioni dei relativi nastri magnetici, riferentisi all'apparecchio di Italo Jalongo, trasmessi dalla Procura della Repubblica presso il tribunale di Roma e dalla Questura di Roma.

Questi documenti, inerendo ad un procedimento penale in corso di istruttoria, erano e sono già a disposizione del potere giudiziario, complessivamente considerato, entro l'ambito del quale non mancano gli strumenti suscettibili di consentirne ai giudici che vi abbiano interesse l'acquisizione, né gli strumenti per dirimere eventuali contrasti tra l'una e l'altra autorità giudiziaria (art. 51 cod. proc. pen.). E non può ritenersi illegittimamente menomata la sfera di attribuzioni del potere giudiziario, per il fatto che la Commissione parlamentare, organo di un diverso potere, abbia rifiutato di consegnarli al tribunale di Milano, invitandolo per l'appunto a procurarseli presso l'altra autorità giudiziaria investita del processo cui originariamente pertengono.

Per tutto il resto, e sempre nell'ambito della specie di atti e documenti di cui ora si discorre, in ordine ai quali la Commissione non può invocare il proprio segreto funzionale (e non lo ha, in effetti, invocato), si tratta di accertare se e per quali tra essi i soggetti da cui originariamente provengono fossero alla stregua di specifiche norme di legge (della cui legittimità costituzionale non sorge questione nei presenti conflitti) tenuti ad un segreto opponibile anche all'autorità giudiziaria penale.

Ma l'ipotesi non ricorre nella specie. Ed infatti:

43

1) il prospetto dei voti preferenziali delle elezioni regionali 1963 nella Provincia di Palermo, trasmesso da quella Prefettura (doc. di cui al n. 69 dell'indice, richiesto dal tribunale di Torino) non può considerarsi comunque segreto e la Commissione pertanto ha l'obbligo di trasmetterlo al tribunale predetto;

2) considerazioni analoghe e identiche conclusioni valgono per gli atti della Commissione d'inchiesta del Consiglio della Regione Lazio sul caso Rimi ed i relativi resoconti stenografici (doc. di cui ai nn. 736 e 784 dell'indice, richiesti dal tribunale di Milano);

3) appartengono alla categoria di atti coperti da segreto d'ufficio o professionale, non opponibile peraltro all'autorità giudiziaria in sede penale:

- le copie delle deliberazioni della Cassa di Risparmio "Vittorio Emanuele" di Palermo, relative ai rapporti tra la Cassa medesima ed il Vassallo, e gli estratti conti delle varie operazioni (doc. di cui al n. 8, nn. 1 e 2, richiesti dal tribunale di Torino);

- la "documentazione varia" della Questura di Palermo, relativa alla proposta di assegnazione a soggiorno obbligato di Francesco Vassallo (doc. di cui al n. 627, richiesto dal tribunale di Torino);

- il fascicolo personale intestato al medesimo presso il Comando della Guardia di finanza di Palermo, riferentesi alle infrazioni valutarie accertate nei suoi confronti e comprendente altresì note informative, documentazione e corrispondenza varia (doc. di cui al n. 12, richiesto dal tribunale di Torino);

- l'altro fascicolo personale, intestato ad Italo Jalongo e trasmesso dalla Questura di Roma (doc. di cui al n. 790, richiesto dal tribunale di Milano).

In ordine ai quali tutti va pertanto affermato l'obbligo della Commissione parlamentare di trasmetterli ai tribunali richiedenti, restando pur sempre esclusi, in conformità dei principi sopra affermati ai punti 7 e 8 della motivazione, eventuali atti inseriti nei documenti ora elencati, ma formati dietro specifica richiesta della Commissione medesima e ad essa rivolti.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara:

a) che la Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia non ha l'obbligo di trasmettere ai tribunali di Torino e di Milano gli atti e documenti da essa formati o direttamente disposti, gli scritti e gli anonimi ad essa originariamente rivolti, atti tutti che la Commissione medesima abbia ritenuto di mantenere segreti ai fini dell'adempimento delle proprie funzioni; nonché gli atti già a disposizione di organi del potere giudiziario;

b) che ha l'obbligo di trasmettere ai tribunali predetti gli altri atti e documenti in suo possesso, che, a norma di legge, non siano coperti all'origine da segreto o siano coperti da segreto non opponibile all'autorità giudiziaria penale,

e in conseguenza:

annulla le note della Commissione n. 1250/D - 4369, in data 21 febbraio 1975, e n. 1294/D - 4399 in data 26 marzo 1975, in relazione anche alla precedente n. 1139/D - 4340 del 6

44

dicembre 1974, indirizzate rispettivamente al presidente della II sezione penale del tribunale di Torino e alla cancelleria della I sezione penale del tribunale di Milano, limitatamente al rifiuto di trasmettere gli atti e documenti di cui alla lettera b, indicati nel punto 10 della motivazione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 1975.

Francesco Paolo BONIFACIO - Luigi OGGIONI - Angelo DE MARCO - Ercole ROCCHETTI - Enzo CAPALOZZA - Vincenzo Michele TRIMARCHI - Vezio CRISAFULLI - Paolo ROSSI - Leonetto AMADEI - Edoardo VOLTERRA - Guido ASTUTI - Michele ROSSANO - Antonino DE STEFANO.

Arduino SALUSTRI - Cancelliere

Depositata in cancelleria il 22 ottobre 1975.

45

SENTENZA N. 129 DEL 1981

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Avv. LEONETTO AMADEI, Presidente

Dott. GIULIO GIONFRIDA

Prof. EDOARDO VOLTERRA

Dott. MICHELE ROSSANO

Prof. ANTONINO DE STEFANO

Prof. LEOPOLDO ELIA

Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN

Avv. ORONZO REALE

Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI

Avv. ALBERTO MALAGUGINI

Prof. LIVIO PALADIN

Dott. ARNALDO MACCARONE

Prof. ANTONIO LA PERGOLA

Prof. GIUSEPPE FERRARI, Giudici, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti promossi con i ricorsi del Presidente della Repubblica, del Presidente del Senato della Repubblica e del Presidente della Camera dei deputati nei confronti della Corte dei conti - Sezione I giurisdizionale, notificati il primo il 19 novembre 1980 e gli altri due il 1 dicembre 1980, rispettivamente depositati nella Cancelleria della Corte costituzionale in data 25 novembre, 5 e 17 dicembre 1980 e iscritti ai nn. 32, 33 e 34 del registro conflitti 1980, per conflitti di attribuzione sorti a seguito dei decreti 30 ottobre 1979-19 febbraio 1980, con i quali è stato prescritto ai Tesorieri dei tre organi ricorrenti di presentare nel termine di sei mesi i conti relativi alle gestioni degli anni dal 1969 al 1977.

Udito nell'udienza pubblica del 13 maggio 1981 il giudice relatore Livio Paladin;

46

uditi gli avvocati Aldo Sandulli, per il Presidente della Repubblica, Vezio Crisafulli, per il Presidente del Senato della Repubblica, e Paolo Barile, per il Presidente della Camera dei deputati.

Ritenuto in fatto

1. - Con altrettanti decreti emessi il 30 ottobre 1979, su istanza del Procuratore generale, la Sezione I giurisdizionale della Corte dei conti ha prescritto ai tesorieri della Camera dei deputati, del Senato della Repubblica e della Presidenza della Repubblica il termine di mesi sei per la presentazione dei conti relativi alle gestioni degli anni dal 1969 al 1977.

Nei decreti in questione si premette che, "ai sensi dell'art. 103 Cost., la Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge"; e pertanto "giudica, con giurisdizione contenziosa" - ai sensi dell'art. 44 del r.d. 12 luglio 1934, n. 1214 "sui conti dei tesorieri, dei ricevitori, dei cassieri e degli agenti incaricati di riscuotere, di pagare, di conservare e di maneggiare danaro pubblico o di tenere in custodia valori e materie di proprietà dello Stato". Di qui la conseguenza - messa in luce da questa Corte, nella sentenza n. 114 del 1975 - che "è principio generale del nostro ordinamento che il pubblico danaro proveniente dalla generalità dei contribuenti e destinato al soddisfacimento dei pubblici bisogni debba essere assoggettato alla garanzia costituzionale della correttezza della sua gestione, garanzia che si attua con lo strumento del rendiconto giudiziale": cui non è consentito sottrarsi a nessun ente gestore di mezzi di provenienza pubblica e a nessun agente contabile che abbia comunque maneggio di danaro e di valori di proprietà dell'ente". Nei riguardi dei contabili degli stessi organi costituzionali dello Stato, pur dotati "di uno specialissimo regime di autonomia", dovrebbe dunque affermarsi "l'obbligo della resa del conto delle loro gestioni ad un giudice indipendente ed imparziale", quale la Corte dei conti; senza di che ne discenderebbe "un privilegio anacronistico", tanto meno giustificabile in quanto "afferente la posizione giuridica di soggetti svolgenti attività meramente strumentali" (o facenti parte "di un apparato burocratico di regime giuridico eguale a quello di ogni altro apparato dell'Amministrazione dello Stato, previsto proprio per tenere indenne il titolare della suprema carica dello Stato da incombenze di gestione e dalle connesse responsabilità d'ordine amministrativo o contabile", come si verificherebbe nel caso del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica). Ed il sindacato sul comportamento di tali soggetti non implicherebbe alcuna menomazione delle prerogative spettanti alla Camera dei deputati, al Senato della Repubblica ed al Capo dello Stato.

Depositati il 19 febbraio 1980, i predetti decreti sono stati quindi inviati - con note del direttore della segreteria presso la Procura generale della Corte dei conti, datate 21 marzo 1980 - alla Presidenza della Repubblica, nonchè alle Presidenze della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, affinchè si provvedesse "alla notificazione giudiziale nei confronti del Tesoriere".

2. - In relazione a tali atti, ha sollevato conflitto di attribuzione il Presidente della Repubblica, con ricorso depositato il 18 luglio 1980 (al quale ha preso parte, "per quanto di ragione", sottoscrivendolo e "formulando le medesime richieste", il Segretario generale della Presidenza), perchè venga "dichiarato il difetto di potere della Corte dei conti ad esercitare la giurisdizione contabile nei confronti del tesoriere della Presidenza della Repubblica", annullando il decreto 30 ottobre 1979-19 febbraio 1980 della Sezione I giurisdizionale, la relativa istanza 2 novembre 1978 del Procuratore generale, la nota 21 marzo 1980 della Procura generale della Corte, nonchè "ogni altro atto preordinato, connesso e conseguenziale".

47

Posto che fra i poteri dello Stato rientrerebbero tanto la Presidenza della Repubblica quanto la Corte dei conti, nell'esercizio della funzione giurisdizionale, il ricorso argomenta l'ammissibilità dell'azione anche "sotto il profilo oggettivo": dal momento che la Presidenza della Repubblica agirebbe "a salvaguardia della propria autonomia costituzionale", risultante da una serie di norme della Costituzione (come quelle dettate negli artt. 87, 88, 90, 91, "nonchè dai principi consuetudinari relativi alla posizione degli organi costituzionali, che partecipano della sovranità".

Nel merito, il ricorso contesta che quella contabile sia una giurisdizione "costituzionalmente riservata" alla Corte dei conti e sia stata comunque definita dalla Costituzione, anzichè formare oggetto - come già rilevato da questa Corte - di "puntuali specificazioni legislative". Per contro, la Corte dei conti pretenderebbe di assoggettare alla propria giurisdizione i tesorieri degli organi costituzionali, in virtù di una diretta ed immediata applicazione dell'art. 103 Cost.; per di più sostenendo la natura "meramente amministrativa" dell'apparato della Presidenza della Repubblica e delle relative attività. Ma, in realtà, il Segretariato di tale Presidenza (con i suoi uffici e servizi) non potrebbe esser ridotto ad una di quelle" Amministrazioni dello Stato", cui si riferisce il testo unico n. 1214 del 1934. Non a caso, nè prima nè dopo che entrasse in vigore la Costituzione repubblicana, gli agenti degli organi dello Stato non inquadrati nella pubblica amministrazione, quali gli organi costituzionali (ivi compresa la Real Casa) non sarebbero mai stati sottoposti al giudizio di conto. Lo vieterebbe il principio costituzionale non scritto, "ma ricavabile e ricavato dal sistema", che garantisce l'autonomia e l'inviolabilità della Presidenza della Repubblica; laddove la sottoposizione al giudizio di conto implicherebbe la verifica di tutti gli atti della gestione che stanno a monte delle poste contabili e ne condizionano la regolarità.

Con ciò stesso, però, il giudizio di conto comprometterebbe quella riservatezza che rappresenta - si afferma - "un aspetto assolutamente essenziale e imprescindibile" della funzione presidenziale (ivi compreso l'organismo "ausiliario" costituito dal Segretariato generale). Nè gioverebbe richiamare gli assunti della sentenza n. 114 del 1975, che riguarderebbe - in via di principio - la sola gestione contabile degli enti locali, già tradizionalmente sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti, senza potersi estendere agli organi sovrani, come questa Corte avrebbe più volte precisato, in particolar modo nella sentenza n. 143 del 1968.

Conclusivamente, nel ricorso si accenna che analoghe considerazioni varrebbero a risolvere il problema della cosiddetta autodichia degli organi costituzionali: rispetto alla quale, tuttavia, il problema dell'esenzione dal giudizio di conto si presenterebbe in termini del tutto diversi, dal momento che nessuna norma costituzionale darebbe fondamento alla pretesa della Corte dei conti.

3. - Con ricorso depositato il 18 luglio 1980 ha sollevato conflitto anche il Presidente della Camera dei deputati, previa deliberazione dell'Ufficio di presidenza, datata 19 giugno e quindi adottata dall'intera Assemblea nella seduta del 2 luglio 1980: chiedendo che questa Corte neghi alla Corte dei conti la spettanza del "potere di giurisdizione contabile nei confronti della Camera dei deputati" e di conseguenza annulli il decreto 19 febbraio 1980 della Sezione I giurisdizionale e la nota 21 marzo 1980 della Procura generale della Corte stessa.

Nel ricorso si assume che l'esercizio della giurisdizione contabile cui la Corte dei conti avrebbe così dato inizio, configurerebbe "un'ipotesi di lesione delle competenze e dell'autonomia costituzionalmente garantite alla Camera dei deputati". Posto che la Camera disporrebbe della legittimazione attiva a sollevare conflitto di attribuzione tra i

48

poteri dello Stato, in quanto "organo costituzionale all'interno del sistema bicamerale", e che la Sezione I giurisdizionale della Corte dei conti sarebbe passivamente legittimata, in quanto "titolare in via esclusiva del potere di giurisdizione contabile", il ricorso argomenta che sussisterebbero anche i presupposti oggettivi d'un conflitto. La Camera dei deputati sarebbe infatti sottoposta ad un "ordine proveniente da un potere esterno": ordine che ne violerebbe l'indipendenza, garantita "dal sistema costituzionale" e, in particolare, dagli artt. 55, 56, 63-69 e 72 della Costituzione.

In realtà, il secondo comma dell'art. 103 Cost., nell'affidare alla Corte dei conti la competenza in materia di contabilità pubblica, avrebbe avuto "come punto di riferimento la funzione della Corte stessa quale organo di controllo sulla utilizzazione del pubblico danaro", in base al secondo comma dell'art. 100. La tesi che la giurisdizione contabile si estenda ai tesorieri delle assemblee parlamentari condurrebbe invece "all'assurda conseguenza che le Camere sarebbero sottoposte al controllo del medesimo organo à mezzo del quale esse esercitano il potere costituzionale di controllo del Governo e delle pubbliche amministrazioni". Non a caso, la stessa Corte dei conti avrebbe finora pacificamente escluso dalla giurisdizione contabile - come risulterebbe, per esempio, dalle relazioni sul rendiconto generale dello Stato per il 1966 e per il 1967 - gli atti contabili della Camera. Il giudizio di conto implicherebbe necessariamente, infatti, un giudizio sulla gestione; ed un tale esercizio della giurisdizione contabile potrebbe addirittura coinvolgere "decisioni che le Camere ritengano invece di mantenere segrete". Inoltre, poichè il regolamento della Camera (con particolare riguardo agli artt. 12 e 66) disciplinerebbe compiutamente l'erogazione della spesa, ne verrebbe lesa l'autonomia regolamentare di tale Assemblea.

Del resto, anche dalla disciplina legislativa e regolamentare vigente in materia di contabilità pubblica si ricaverebbe la sottrazione degli organi costituzionali in genere, e della Camera dei deputati in specie, alla giurisdizione contabile della Corte dei conti. Il citato testo unico n. 1214 del 1934 concernerebbe la sola "amministrazione governativa in senso tecnico"; mentre il regolamento di procedura dettato dal r.d. 13 agosto 1933, n. 1038 (come pure il testo unico n. 2440 del 1923 ed il r.d. n. 827 del 1924) sarebbe coerentemente riferito ai soli "agenti comunque collegati ad organi del potere esecutivo".

Questa stessa Corte avrebbe più volte ribadito "che gli organi costituzionali non sono in alcun modo sottoposti al controllo e alla giurisdizione contabile". In tal senso il ricorso richiama la motivazione delle sentenze n. 143 del 1968 e n. 110 del 1970 (nonchè le decisioni n. 17 del 1965 e n. 33 del 1968).

Infine, il ricorso fa notare che "l'esistenza di un giudizio esterno all'organo costituzionale implica la possibilità di ordini e di sanzioni, non solo nei confronti dei tesorieri, ma anche degli uffici della Camera dei deputati". Oltre alla resa del conto, la Corte dei conti potrebbe infatti condannare gli agenti contabili della Camera ad una pena pecuniaria ed alla compilazione d'ufficio del conto medesimo; potrebbe proporne la sospensione e la destituzione; potrebbe ancora, in fase istruttoria, ordinare la produzione di atti ed accedere agli uffici per acquisire ulteriori elementi di giudizio.

4. - Analogo conflitto è stato altresì sollevato dal Presidente del Senato della Repubblica, previa deliberazione 17 giugno 1980 del Consiglio di presidenza, adottata dall'intera Assemblea nella seduta del 2 luglio 1980.

Il ricorso, depositato anch'esso il 18 luglio 1980, rinnova alla Corte la richiesta di "dichiarare che non spetta alla Corte dei conti (Sezione I giuridizionale per le materie di contabilità pubblica) il potere di estendere la giurisdizione contabile al tesoriere del Senato

49

della Repubblica", annullando di conseguenza il decreto 30 ottobre 1979-19 febbraio 1980 e " per quanto possa occorrere" - la predetta nota del 21 marzo 1980.

Sulla base di argomentazioni consimili a quelle svolte per il Presidente della Camera, anche la difesa del Senato sostiene la legittimazione attiva di tale Assemblea e la legittimazione passiva della Corte dei conti: quest'ultima costituirebbe bensì "un complesso organizzatorio strutturalmente unitario"; ma le attribuzioni assegnate dalla legge alle varie sue componenti sarebbero tra loro "distinte e differenziate". D'altronde, sussisterebbe il requisito oggettivo del conflitto, sia perchè la Sezione I giurisdizionale della Corte dei conti addurrebbe a fondamento della propria pretesa l'art. 103 Cost., sia perchè il Senato rivendicherebbe invece la propria autonomia contabile, "in forza di principi costituzionali da sempre osservati", recepiti e presupposti dagli artt. 55, 56 e 63-69 Cost., nonchè specificati dal regolamento dell'Assemblea in questione.

Nel merito, ferma restando la rigorosa esclusione di qualsiasi controllo della Corte dei conti sulla erogazione delle spese previste nel bilancio del Senato, il ricorso osserva che la stessa giurisdizione contabile non sarebbe provvista di una incondizionata "capacità espansiva", ma incontrerebbe un limite nell'indipendenza degli organi partecipi del potere sovrano. In tal senso andrebbe letta la citata sentenza n. 114 del 1975, richiamata dall'impugnato decreto della Sezione I giurisdizionale. Senza di che - si afferma - ne discenderebbe "una sorta di sindacato sugli organi politici ordinatori delle spese", anche a tacere degli oneri connessi ad "adempimenti disposti da Commissioni d'inchiesta e destinati a rimanere segreti" (o dell'approvazione dello stesso bilancio preventivo in seduta segreta).

D'altra parte, i poteri di ingerenza nella gestione del bilancio esplicabili dal magistrato contabile sarebbero " praticamente indeterminati" (già in forza dell'art. 28 del ricordato regolamento di procedura del 1933). Sicchè ne deriverebbe "una serie di obblighi di facere in capo agli organi del Senato preposti alla gestione del bilancio e al governo del personale", che potrebbero addirittura contrastare con "specifici poteri" spettanti al Senato medesimo ed implicherebbero comunque "interferenze nei rapporti tra il Senato e i suoi dipendenti".

5. - Ai sensi dell'art. 37 della legge n. 87 del 1953, "riservato ogni definitivo giudizio sull'ammissibilità e sul merito dei ricorsi", questi sono stati dichiarati ammissibili con ordinanza n. 150 del 1980 (fatta eccezione per la "partecipazione dei Segretario generale della Presidenza al giudizio promosso dal Presidente della Repubblica"). Conseguentemente, la predetta ordinanza e i relativi ricorsi sono stati tutti notificati alla Sezione I giurisdizionale della Corte dei conti, in data 19 novembre da parte del Presidente della Repubblica, in data 1 dicembre 1980 da parte dei Presidenti della Camera e del Senato.

Per altro, la Sezione I giurisdizionale non si è costituita nel presente giudizio. Hanno invece depositato memorie le difese della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica; mentre la difesa del Presidente della Repubblica si è limitata ad addurre - "a fini di documentazione" - le vigenti norme regolamentari, concernenti il servizio di tesoreria (e i relativi controlli) presso il Segretariato generale della Presidenza.

a) Riaffermata la sussistenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi del conflitto, la memoria riguardante la Camera dei deputati insiste nell'assunto che la giurisdizione contabile non potrebbe estendersi - in base al tuttora vigente art. 44 del r.d. 1214 del 1934 - anche nei confronti degli organi costituzionali. "La capacità espansiva e sostanzialmente innovativa" dell'art. 103, secondo comma, della Costituzione non implicherebbe - come avvertito da

50

questa stessa Corte, nella sentenza n. 102 del 1977 - nè l'"assoluta ... generalità" ditale previsione, nè la "sua immediata operatività in tutti i casi". Nemmeno il "legislatore futuro" potrebbe del resto "varcare il limite costituito dall'autonomia-indipendenza della Camera dei deputati". Tale limite opererebbe, invece, "anche nei confronti della funzione giurisdizionale": con particolare riguardo all'ordinamento contabile della Camera, nell'ambito del quale non si potrebbero comunque distinguere la funzione " gestionale" e la funzione di "maneggio".

Sotto questo aspetto, gli assunti della Sezione I giurisdizionale della Corte dei conti sarebbero errati, poichè "l'obbligo di rendiconto vincolerebbe direttamente funzioni esercitate congiuntamente non solo da funzionari ma anche da parlamentari"; mentre il giudizio di conto si estenderebbe - corrispondentemente - "a sindacare ... le finalità giustificative delle spese", coinvolgendo ad un tempo il comportamento dei funzionari e quello dei parlamentari stessi. Dal regolamento di amministrazione e contabilità della Camera risulterebbe, infatti, che "tutto il procedimento, dal momento della gestione ... a quello dell'effettivo pagamento, si svolge con la costante presenza, accanto ai funzionari, dei deputati Questori". Ciò starebbe a significare che "non soltanto la gestione dei fondi è nelle mani dell'organo politico, ma che lo è anche la fase successiva del maneggio del denaro e dei valori": donde una serie di "inammissibili interferenze funzionali", che la pretesa della Corte dei conti verrebbe a determinare nei confronti della Camera dei deputati.

b) A loro volta, le note illustrative per il Senato della Repubblica, ricostruita la lunga vicenda delle pretese della Corte dei conti nei riguardi degli organi costituzionali, premettono che la linea di condotta della Sezione I giurisdizionale potrebbe non esser condivisa dall'intera Corte.

In ogni caso, dal regolamento di amministrazione e contabilità del Senato si ricaverebbero fin d'ora puntuali garanzie di correttezza nella gestione del pubblico denaro: sia nei confronti del competente istituto di credito, sia nei rapporti fra funzionari, senatori questori e Presidente del Senato stesso. Per contro, "anche se formalmente rivolte al contabile", le disposizioni della Corte dei conti si risolverebbero sempre - in realtà - "in obblighi imposti all'Amministrazione da cui il contabile dipende". "L'applicazione al Senato dei principi che la Corte dei conti ha affermato ... implicherebbe perciò l'obbligo da parte del Senato stesso di modificare sul punto il proprio regolamento di amministrazione e, conseguentemente, la Convenzione con la Banca", rinunciando - in particolar modo - "al controllo giornaliero sull'esecuzione degli ordinativi di riscossione e dei mandati di pagamento". Più in generale, ne deriverebbe necessariamente "una sorta di soggezione dell'Assemblea, dei suoi organi politici e degli uffici amministrativi da loro dipendenti ad un estraneo potere": con la conseguente lesione "della indipendenza e dell'autonomia organizzatoria costituzionalmente garantita al Senato".

Considerato in diritto

1. - I ricorsi per conflitto di attribuzione, proposti dal Presidente della Repubblica, dal Presidente della Camera dei deputati e dal Presidente del Senato della Repubblica, nei confronti della Sezione I giurisdizionale della Corte dei conti, riguardano i contemporanei ed analoghi decreti, datati 30 ottobre 1979 e depositati il 19 febbraio 1980, con cui tale Sezione ha prescritto ai tesorieri della Presidenza della Repubblica, della Camera e del Senato il termine di mesi sei per la presentazione dei conti relativi alle gestioni degli anni dal 1969 al 1977. Pertanto i tre giudizi, già riuniti mediante l'ordinanza n. 150 del 1980, si prestano ad essere decisi con unica sentenza.

51

2. - Nella predetta ordinanza, "riservato ogni definitivo giudizio sull'ammissibilità e sul merito dei ricorsi", la Corte li ha dichiarati ammissibili, in applicazione dell'art. 37, terzo comma, della legge n. 87 del 1953. Le argomentazioni allora svolte vanno confermate in questa fase del procedimento, tanto più che sul punto non sono state sollevate eccezioni di sorta.

Sotto il profilo soggettivo, può dunque ripetersi che non è dubbia la legittimazione a promuovere conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, spettante ai Presidenti delle Camere, sulla base di conformi deliberazioni delle rispettive assemblee parlamentari; poichè l'una e l'altra sono "competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono" (come stabilito dall'art. 37, primo comma, della legge n. 87 del 1953), con particolare riguardo ai casi in cui si tratti di attribuzioni rivendicate in nome dell'indipendenza e dell'autonomia di ciascun ramo del Parlamento. Del pari, legittimato è il Presidente della Repubblica, che ricorre anch'esso per salvaguardare la propria autonomia, sostenendo che il Segretariato generale della Presidenza svolgerebbe compiti serventi rispetto alla "funzione presidenziale", costituzionalmente garantita, non già rispetto ad una "funzione amministrativa" genericamente assunta. Nè può contestarsi la legittimazione passiva della Sezione I giurisdizionale della Corte dei conti: anche nell'ambito della giurisdizione contabile, quello giurisdizionale è un potere "diffuso" (cfr. la sentenza n. 231 del 1975), sicchè ogni sua componente, nell'esercizio di funzioni giurisdizionali delle quali si ritenga titolare, può essere parte di conflitti.

Sotto il profilo oggettivo, è ben vero che la Sezione I giurisdizionale della Corte dei conti - non costituitasi negli attuali giudizi - non ha inteso determinare una situazione di conflitto, ledendo l'indipendenza e l'autonomia dei ricorrenti, che anzi i decreti impugnati affermano esplicitamente di voler lasciare integre; e lo conferma la circostanza che i decreti stessi impongono la presentazione dei conti ai tesorieri e non agli organi costituzionali di appartenenza (sebbene la notificazione giudiziale sia stata effettuata per il tramite delle rispettive Presidenze).

Tuttavia, ciò non toglie che i ricorrenti considerino invece menomata, qualora la giurisdizione contabile si estenda ai loro tesorieri (ed agli altri agenti del tipo indicato dall'art. 44 del r.d. 12 luglio 1934, n. 1214), una sfera di competenza costituzionalmente tutelata. Tale prospettazione è sufficiente a dimostrare che "esiste la materia di un conflitto" (in base all'art. 37, quarto comma, della legge n. 87 del 1953), anche se nei casi in esame non si controverte circa la spettanza di una stessa attribuzione, ma circa l'estensione della giurisdizione propria della Corte dei conti, nel rapporto con l'autonomia organizzativa e funzionale rivendicata dai tre organi costituzionali che hanno sollevato conflitto.

É infatti consolidato, nella giurisprudenza di questa Corte, il criterio per cui la figura dei conflitti di attribuzione, sia tra lo Stato e le Regioni sia tra i poteri dello Stato, "non si restringe alla sola ipotesi di contestazione circa l'appartenenza del medesimo potere, che ciascuno dei soggetti contendenti rivendichi per sè, ma si estende a comprendere ogni ipotesi in cui dall'illegittimo esercizio di un potere altrui consegua la menomazione di una sfera di attribuzioni costituzionalmente assegnate all'altro soggetto" (cfr. la sentenza n. 110 del 1970).

3. - Nel merito, i decreti impugnati si fondano sulla comune premessa che l'art. 103, secondo comma, della Costituzione riservi ed attribuisca senz'altro alla Corte dei conti la giurisdizione in qualunque materia di contabilità pubblica: elevando a principio di generalissima portata, riferibile anche ai tesorieri degli organi costituzionali ricorrenti, la disposizione dell'art. 44 del r.d. n. 1214 del 1934, per cui la Corte dei conti giudica "sui

52

conti dei tesorieri, dei ricevitori, dei cassieri e degli agenti incaricati di riscuotere, di pagare, di conservare e di maneggiare danaro pubblico o di tenere in custodia valori e materie di proprietà dello Stato". A sostegno della sua tesi, la Sezione I giurisdizionale richiama la sentenza di questa Corte n. 114 del 1975, per desumerne - come già si è ricordato in narrativa - che lo strumento del rendiconto giudiziale" e l'apposito "giudizio sul conto" debbano trovare immediata applicazione nei riguardi di tutti coloro che maneggino danaro o custodiscano valori o materie, nell'ambito degli ordinamenti della Presidenza della Repubblica, della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.

Senonchè la giurisprudenza finora elaborata da questa Corte, quanto alla giurisdizione della Corte dei conti nelle materie di contabilità pubblica, non conforta la tesi della Sezione I giurisdizionale. In primo luogo, non è pertinente il richiamo della sentenza n. 114 del 1975, poichè tale decisione ha risolto un problema ben lontano da quello in esame, dichiarando l'illegittimità costituzionale di una legge della Regione Trentino-Alto Adige, nella parte in cui questa rendeva eventuali anzichè necessari i giudizi sui conti degli agenti contabili dei rispettivi enti locali, e facendo valere in tal senso la specifica esigenza di non determinare "una palese situazione di disparità di trattamento ... rispetto agli agenti contabili degli enti locali del restante territorio nazionale"; sicchè i citati assunti della motivazione non possono venire universalizzati, estrapolandoli dal contesto della decisione stessa.

In secondo luogo, questa Corte ha più volte ritenuto - a partire dalla sentenza n. 110 del 1970 - che "il principio dell'art. 103 conferisca capacità espansiva alla disciplina dettata dal testo unico del 1934 per gli agenti contabili dello Stato, consentendone l'estensione a situazioni non espressamente regolate in modo specifico". Ma in quella stessa pronuncia si avverte che l'espandersi della giurisdizione costituzionalmente attribuita alla Corte dei conti, lungi dall'essere incondizionato, deve considerarsi circoscritto "laddove ricorra identità oggettiva di materia, e beninteso entro i limiti segnati da altre norme e principi costituzionali". Ed in questi termini si è ancor più chiaramente espressa la sentenza n. 102 del 1977: nella quale la Corte - sia pure dichiarando inammissibili le proposte questioni di legittimità costituzionale delle norme sulla responsabilità civile degli amministratori e dipendenti degli enti locali - ha in sostanza escluso che il precetto stabilito dal secondo comma dell'art. 103 Cost. sia caratterizzato da una "assoluta (e non tendenziale) generalità "e sia dunque dotato d'immediata operatività in tutti i casi".

In terzo luogo, determinante è la contrapposizione che la ricordata sentenza n. 110 del 1970 ha operato, di fronte alla giurisdizione contabile della Corte dei conti, fra le attribuzioni delle assemblee regionali e quelle spettanti alle assemblee parlamentari. Nell'argomentare che le prime si svolgono "a livello di autonomia", mentre le seconde sono collocate "a livello di sovranità", la Corte ne ha infatti ricavato che "deroghe alla giurisdizione ... sono ammissibili soltanto nei confronti di organi immediatamente partecipi del potere sovrano dello Stato, e perciò situati al vertice dell'ordinamento, in posizione di assoluta indipendenza e di reciproca parità". Pur precisando che deroghe del genere sono "sempre di stretta interpretazione", tale sentenza respinge pertanto - in un modo inequivoco - la meccanica assimilazione fra i tesorieri dei Consigli regionali e quelli degli organi costituzionali; e fa trasparire, almeno per quanto riguarda le Camere del Parlamento, l'opposta convinzione che i loro agenti contabili rimangano esenti dall'apposito giudizio di conto, in nome delle "prerogative riservate agli organi supremi dello Stato".

4. - Questo orientamento va ora tenuto fermo, nel risolvere i casi in esame.

53

A tale fine, dev'essere anzitutto analizzato l'intero complesso delle fonti normative e delle norme vigenti in materia. Al riguardo i decreti impugnati presuppongono, infatti, che nessun ostacolo si frapponga all'esercizio della giurisdizione contabile nei confronti dei tesorieri della Presidenza della Repubblica, della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica: salvo un "privilegio anacronistico", che soltanto di fatto li svincolerebbe dall'obbligo di rendere il conto delle loro gestioni, senza alcun fondamento suscettibile di giustificare la conseguente disapplicazione degli artt. 103 Cost. e 44 del r.d. n. 1214 del 1934. Ma i termini della questione non sono così semplici.

Occorre considerare, al contrario, che la disciplina dettata dalle norme costituzionali scritte, quanto al regime organizzativo e funzionale degli apparati serventi gli organi costituzionali, non è affatto compiuta e dettagliata. Ad integrazione di esse ed in corrispondenza alle peculiari posizioni degli organi medesimi, si sono dunque affermati principi non scritti, manifestatisi e consolidatisi attraverso la ripetizione costante di comportamenti uniformi (o comunque retti da comuni criteri, in situazioni identiche o analoghe): vale a dire, nella forma di vere e proprie consuetudini costituzionali. Tale, in particolar modo, è stato ed è il caso dei rapporti fra gli organi costituzionali in esame e la Corte dei conti quale giudice sull'attività gestoria degli agenti contabili dell'amministrazione dello Stato. Effettivamente, sotto il vigore dello Statuto albertino, per quanto risulta a questa Corte, non si è mai dubitato che i tesorieri della Real Casa e delle due Camere del Parlamento fossero esentati dalla giurisdizione contabile. Nè quell'"antica prassi", alla quale accennano esplicitamente i decreti concernenti i tesorieri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, è stata interrotta dall'instaurazione dell'ordinamento repubblicano: sia perchè i soggetti che diversamente avrebbero dovuto presentare il conto non hanno ritenuto di essere obbligati a siffatti adempimenti; sia perchè la Corte dei conti - con la sola eccezione d'una serie di note del 15 gennaio 1968, che per altro non hanno avuto alcun seguito - non ha rivolto loro alcuna intimazione, riconoscendo in sostanza di non poter esercitare in questo campo la sua giurisdizione.

D'altronde, non sarebbe fondato sostenere che si tratti di una prassi irrilevante dal punto di vista del diritto costituzionale. L'esenzione dei loro agenti contabili dai giudizi di conto rappresenta, viceversa, il diretto riflesso della spiccata autonomia di cui tuttora dispongono i tre organi costituzionali ricorrenti. Tale autonomia si esprime anzitutto sul piano normativo, nel senso che agli organi in questione compete la produzione di apposite norme giuridiche, disciplinanti l'assetto ed il funzionamento dei loro apparati serventi; ma non si esaurisce nella normazione, bensì comprende - coerentemente - il momento applicativo delle norme stesse, incluse le scelte riguardanti la concreta adozione delle misure atte ad assicurarne l'osservanza. Rispetto alla materia del presente conflitto, ciò significa da un lato che spetta alle Camere del Parlamento ed alla Presidenza della Repubblica dettare autonomamente le disposizioni regolamentari che ognuno di tali organi ritenga più opportune per garantire una corretta gestione delle somme affidate ai rispettivi tesorieri; e comporta d'altro lato che rientri nell'esclusiva disponibilità di detti organi, senza di che la loro autonomia verrebbe dimezzata, l'attivazione dei corrispondenti rimedi, amministrativi od anche giurisdizionali.

Relativamente alle assemblee parlamentari, è dunque in tal senso che va inteso il primo comma dell'art. 64 Cost., per cui "ciascuna Camera adotta il proprio regolamento"; ed è questa la chiave del problema in esame, indipendentemente dai molti altri articoli della Costituzione, su cui fanno leva i ricorsi della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Ma la conclusione non può essere diversa nei riguardi della Presidenza della Repubblica, malgrado per essa non sussista alcuna previsione costituzionale analoga a quella concernente i regolamenti parlamentari. Al di là del testo dell'ultimo comma dell'art.

54

83 Cost., che si limita a rinviare alla legge la determinazione dell'"assegno" e della "dotazione" spettanti ai Presidente della Repubblica, è infatti indiscusso in dottrina che anche quest'organo abbisogni di un proprio apparato, non solo e non tanto per amministrare i beni rientranti nella "dotazione" stessa, quanto per consentire un efficiente esercizio delle funzioni presidenziali, garantendo in tal modo la non-dipendenza del Presidente rispetto ad altri poteri dello Stato; sicchè il Segretariato generale della Presidenza della Repubblica non può essere riduttivamente configurato - come invece si legge nel relativo decreto della Sezione I giurisdizionale della Corte dei conti - quale "apparato burocratico di regime giuridico eguale a quello di ogni altro apparato dell'amministrazione dello Stato". Non a caso, il secondo comma dell'art. 3 della legge 9 agosto 1948, n. 1077, dispone che "il Segretario generale della Presidenza della Repubblica è nominato e revocato con decreto del Presidente della Repubblica", sia pur "controfirmato dal Presidente del Consiglio dei ministri, sentito il Consiglio dei ministri"; ed è il Presidente della Repubblica che approva - in virtù del terzo comma del citato articolo - il cosiddetto "regolamento interno" ed i "provvedimenti relativi al personale", sia pure su proposta del Segretario generale. Per quanto non siano completamente assimilabili ai regolamenti delle Camere, anche i regolamenti approvati a questa stregua dal Presidente della Repubblica debbono considerarsi sorretti da un implicito fondamento costituzionale (in vista del quale la legge n. 1077 del 1948 assume sul punto - come è stato chiarito già nel corso dei lavori preparatori di essa - un carattere ricognitivo piuttosto che attributivo) ; tanto più che fonti del genere, se così non fosse, non potrebbero legittimamente inserirsi nell'attuale sistema degli atti normativi dello Stato.

Da tutto questo consegue che il problema dei rapporti fra il giudice contabile, la Presidenza della Repubblica e le Camere del Parlamento non può essere risolto limitandosi a notare che la Carta costituzionale non introduce in proposito alcuna esplicita deroga, rispetto a quella norma di generalissima portata che si vorrebbe desumere dal secondo comma dell'art. 103 Cost. Vero è, viceversa, che l'esenzione dai giudizi di conto s'inserisce in un regime fondamentalmente comune a tutti gli organi costituzionali ricorrenti, rinsaldato da una lunga tradizione e radicato nell'autonomia spettante agli organi stessi.

5. - I tre ricorsi vanno pertanto accolti.

In via di principio, la giurisdizione sui conti giudiziali è retta da un impulso d'ufficio, determinante processi di tipo inquisitorio, che prescindono dalle istanze delle amministrazioni; ed anzi presenta - allo stato attuale dell'ordinamento - un carattere necessario e continuo, risolvendosi inevitabilmente in tanti giudizi quanti sono i conti che periodicamente si susseguono. Pur investendo le sole gestioni degli agenti contabili (dalle quali debbono restar distinte - a questi specifici effetti - le gestioni degli ordinatori della spesa), i predetti giudizi di conto non sono pertanto compatibili con le autonome valutazioni, costituzionalmente spettanti alla Presidenza della Repubblica, alla Camera dei deputati ed al Senato della Repubblica.

Ma da ciò non discende per nulla, circa gli agenti contabili degli organi in questione, che non venga assicurata una corretta gestione del danaro pubblico, nonchè degli altri valori e materie di proprietà dello Stato. Nell'ambito degli apparati della Presidenza della Repubblica e delle assemblee parlamentari, puntuali garanzie sono offerte fin d'ora dalle rispettive norme regolamentari (si vedano, in particolar modo, gli articoli 27, 28 e 65 del regolamento di contabilità per i servizi del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica, approvato con decreto presidenziale 11 settembre 1980, n. 42; gli artt. 9, 25 lett. g), 26, 27, 28, 32, 37 e 39 del regolamento di amministrazione e contabilità del Senato

55

della Repubblica, adottato il 23 ottobre 1940; gli artt. 9, 32, 33, 35 e 38 del corrispondente regolamento di amministrazione e contabilità della Camera dei deputati).

Nè si può dire che l'esonero dai giudizi di conto necessari valga ad escludere i rapporti in esame dalla giurisdizione in genere. Anche a non voler considerare la giurisdizione penale, che nei riguardi dei tesorieri degli organi costituzionali ricorrenti non soffre eccezioni di sorta, residuano pur sempre le azioni esercitabili dagli stessi interessati. Ma non compete alla Corte precisare in questa sede quali siano i procedimenti, utilizzabili ad iniziativa di parte, che meglio si armonizzino con le posizioni peculiari della Presidenza della Repubblica e delle assemblee parlamentari.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara che non spetta alla Sezione I giurisdizionale della Corte dei conti il potere di sottoporre a giudizio di conto i tesorieri della Presidenza della Repubblica, della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica; e, di conseguenza, annulla i decreti emessi il 30 ottobre 1979, con cui la Sezione I giurisdizionale ha prescritto ai tesorieri stessi il termine di mesi sei per la presentazione dei conti relativi alle gestioni degli anni dal 1969 al 1977, nonchè le corrispondenti note 21 marzo 1980 del direttore della segreteria presso la Procura generale della Corte dei conti.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 giugno 1981.

LEONETTO AMADEI, PRESIDENTE

LIVIO PALADIN, REDATTORE

Depositata in cancelleria il 10 luglio 1981.

56

SENTENZA N. 78 DEL 1984

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Prof. LEOPOLDO ELIA, Presidente

Prof. ANTONINO DE STEFANO

Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN

Avv. ORONZO REALE

Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI

Avv. ALBERTO MALAGUGINI

Prof. LIVIO PALADIN

Dott. ARNALDO MACCARONE

Prof. VIRGILIO ANDRIOLI

Prof. GIUSEPPE FERRARI

Dott. FRANCESCO SAJA

Prof. GIOVANNI CONSO

Prof. ETTORE GALLO

Dott. ALDO CORASANITI, Giudici,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale della legge 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e coordinamento dell'edilizia residenziale pubblica, norme sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150, 18 aprile 1962, n. 167, 29 settembre 1964, n. 847, ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell'edilizia residenziale, agevolata e convenzionala) promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa l'11 marzo 1977 dalla Corte d'Appello di Cagliari nel procedimento civile vertente tra Rau Giovanna ed altri e Comune di Tempio Pausania, iscritta al n. 268 del registro ordinanze 1977 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 198 dell'anno 1977;

57

2) ordinanza emessa il 10 giugno 1977 dalla Corte d'Appello di Cagliari nel procedimento civile vertente tra Demontis Vincenzo ed altri e Consorzio per l'area di sviluppo industriale di Cagliari, iscritta al n. 466 del registro ordinanze 1977 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 334 dell'anno 1977;

3) ordinanza emessa il 10 giugno 1977 dalla Corte d'Appello di Cagliari nel procedimento civile vertente tra Muscas Sisinnio ed altri e il Comune di Villacidro, iscritta al n. 467 del registro ordinanze 1977 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 334 dell'anno 1977 e 281 dell'anno 1983;

4) ordinanza emessa il 9 dicembre 1977 dalla Corte d'Appello di Cagliari nel procedimento civile vertente tra Arrais Emilio ed altri e Consorzio per l'area di sviluppo industriale di Cagliari, iscritta al n. 323 del registro ordinanze 1978 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 271 dell'anno 1978.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri:

udito nell'udienza pubblica del 22 novembre 1983 il Giudice relatore Giuseppe Ferrari;

udito l'Avvocato dello Stato Renato Carafa per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Con ordinanza emessa il 9 dicembre 1977 nel giudizio instaurato da Arrais Emilio ed Anselmo nei confronti del Consorzio per l'area di sviluppo industriale di Cagliari, del quale avevano chiesto la condanna al pagamento in loro favore, siccome affittuari di un terreno espropriando, della stessa somma di denaro corrisposta alla proprietaria del fondo a titolo di indennità di espropriazione, la Corte d'Appello di Cagliari ha sollevato d'ufficio questione di legittimità costituzionale dell'intera legge 22 ottobre 1971, n. 865, in riferimento agli artt. 64, terzo comma, e 72 della Costituzione.

Premesso che a norma del primo dei parametri costituzionali di riferimento "le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento non sono valide" se non sono adottate a maggioranza dei presenti" e che a norma dell'art. 72, primo comma, ult. parte, Cost., Ogni disegno di legge presentato ad una Camera deve essere approvato "articolo per articolo e con votazione finale", il giudice a quo assume che l'approvazione finale del disegno di legge in questione, recante il n. 3199, da parte della Camera dei deputati, che lo aveva esaminato nella seduta del 26 maggio 1971, sia stata irregolare: su 473 deputati presenti, invero, furono solo 198 - anziché i necessari 237 - i voti favorevoli . Il Presidente della Camera ritenne tuttavia approvato il disegno di legge poiché, in base al regolamento interno, gli astenuti - nella specie 154 - non vengono considerati presenti agli effetti della votazione.

Senonché, osserva il giudice a quo, "il regolamento interno della Camera dei deputati non può derogare all'art. 64 della Costituzione", onde il disegno di legge in questione non avrebbe potuto essere legittimamente trasmesso al Senato della Repubblica, non essendo stato validamente approvato dalla Camera alla quale era stato presentato". Né, continua la Corte d'Appello di Cagliari, può conferirsi rilievo alla circostanza che, in esito alle modifiche apportatevi dal Senato, il disegno di legge sia stato di nuovo approvato, con regolare maggioranza, dalla Camera dei deputati nella seduta del 14 ottobre 1971. Ciò in quanto in tale sede, salva la votazione finale, furono discussi e approvati articolo per articolo solo gli articoli modificati dal Senato e non anche tutti gli altri.

58

D'altro canto, continua il giudice a quo, non potrebbe fondatamente ritenersi che essi fossero stati già precedentemente approvati dalla Camera dei deputati solo perché nella seduta del 26 maggio 1971 era stata regolare l'approvazione articolo per articolo. Questa e l'approvazione finale costituiscono, infatti, "gli elementi di un atto complesso ed inscindibile" onde l'invalidità di uno di essi - nella specie, l'approvazione finale - rende invalido anche l'altro, con la conseguenza che la ritenuta irregolarità dell'approvazione finale del disegno di legge nella menzionata seduta "ha reso giuridicamente inesistente anche la precedente approvazione articolo per articolo".

In ordine alla rilevanza si osserva che la declaratoria di incostituzionalità della legge denunciata priverebbe di base normativa la pretesa attorea, influendo altresì sulla decisione dell'eccezione di incompetenza sollevata dal Consorzio convenuto; l'una fondata sull'art. 17, secondo comma, l'altra sull'art. 19, in relazione agli artt. 12 e 15 della legge n. 865 del 1971, non innovate, "agli effetti della decisione" dalla legge 28 gennaio 1977, n. 10, sull'edificabilità dei suoli.

2. - La medesima questione di legittimità costituzionale é stata altresì sollevata dalla stessa Corte d'Appello di Cagliari con ordinanza emessa in data 11 marzo 1977 nel procedimento civile di opposizione alla determinazione dell'indennità di occupazione d'urgenza promosso da Rau Giovanna, Chiarina e Sebastiano nei confronti del Comune di Tempio Pausania (r.o. n. 268/77), nonché con due ordinanze emesse il 10 giugno 1977: l'una nel giudizio di opposizione alla determinazione della indennità di espropriazione vertente tra Demontis Vincenzo ed altri e il Consorzio per l'area di sviluppo industriale di Cagliari (r.o. n. 466/77); l'altra nel giudizio promosso da Muscas Sisinnio ed altri nei confronti del Comune di Villacidro avverso la determinazione dell'indennità di occupazione temporanea (r.o. n. 467/77).

Con le tre ordinanze citate vengono peraltro denunciate, in accoglimento delle eccezioni della difesa degli attori, anche le disposizioni degli artt. 16 e 20 della legge n. 865 del 1971 in riferimento agli artt. 3, 42 e 53 della Costituzione, e dell'art. 20, ultimo comma, della stessa legge in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost..

La Corte d'Appello di Cagliari riferisce - integralmente recependolo - il contenuto delle argomentazioni svolte dagli attori a sostegno delle prospettate questioni di legittimità costituzionale, sintetizzabili nei seguenti salienti termini.

A) In ordine alla questione di legittimità costituzionale dell'intera legge n. 865 del 1971, si assume che la mancata approvazione finale del disegno di legge in questione da parte della Camera dei deputati nella seduta del 26 maggio 1971 travolse anche la precedente votazione articolo per articolo; sicché, quand'anche dovesse in ipotesi ritenersi legittima l'inversione dell'ordine di approvazione, da parte delle due Camere, di un disegno di legge, nella seduta del 14 ottobre 1971 avrebbero dovuto essere quantomeno approvati singolarmente gli articoli non modificati dal Senato. Il che, invece, non avvenne.

B) Quanto alla questione di legittimità costituzionale degli artt. 16 e 20 della legge n. 865 del 1971 rispettivamente concernenti i criteri per la determinazione dell'indennità di espropriazione e di quella per occupazione temporanea, si afferma che le norme denunciate illegittimamente impongono, per la determinazione dell'indennità, di far riferimento al valore agricolo del terreno anche se l'area abbia natura diversa e di tener conto. per gli immobili siti nel centro abitato, del valore agricolo corrispondente alla coltura di maggior pregio che copra almeno il 5 % della superficie coltivata, nella regione agraria, anziché di quello corrispondente alla coltura effettivamente praticata, omettendo altresì di prevedere qualsiasi forma di indennizzo per la diminuzione di valore dell'area residua in

59

esito ad espropriazione od occupazione parziale del fondo in violazione degli artt. 3 e 42 Cost.. La violazione del parametro di cui agli artt. 53 e 3 Cost. viene poi fondata sulla considerazione - già svolta dalla Corte d'Appello di Caltanissetta con richiamata ordinanza in data 20 febbraio 1975, pubblicata in G. U. n. 249 del 1975 - che "il proprietario di immobili che subisce l'occupazione temporanea o l'espropriazione del bene, a norma degli artt. 16 e 20 della legge n. 865 del 1971, subisce, praticamente, un trattamento tributario (imposizione di una speciale contribuzione alla spesa Occorrente per la costruzione dell'opera pubblica) differenziato rispetto alla generalità dei proprietari dei beni immobili".

C) Per quanto attiene, infine, alla questione di legittimità costituzionale dell'art. 20, ultimo comma, del medesimo testo normativo in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., si deduce che la norma, disponendo che contro la determinazione dell'indennità di occupazione temporanea si può proporre opposizione davanti alla Corte d'Appello, escluderebbe la garanzia del doppio grado di giurisdizione, così violando il diritto alla difesa in sub jecta materia (si richiama in proposito la motivazione dell'ordinanza di remissione della Corte d'Appello di Bari in data 11 dicembre 1974, pubblicata in G. U. n. 202 del 1975).

3. - Nessuna delle parti private si é costituita in giudizio innanzi a questa Corte.

É invece intervenuto in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, instando per la declaratoria di infondatezza di tutte le sollevate questioni.

Ha sostenuto in particolare l'Avvocatura, quanto alla questione di legittimità costituzionale dell'intera legge n. 865 del 1971 per addotta violazione degli artt. 64 e 72 Cost., che i giudici a quibus sono incorsi "nell'errore decisivo di calcolare la maggioranza tenendo conto degli astenuti", e che, essendo il risultato della votazione quello riportato negli atti parlamentari ("presenti e votanti 319; maggioranza 160; voti favorevoli 198; voti contrari 121; hanno dichiarato di astenersi 154 deputati"), la sollevata questione non meriterebbe "considerazione neanche con riferimento ad un ipotetico contrasto del regolamento della Camera con l'art. 64 Cost.". In ordine alla questione relativa agli artt. 16 e 20 della legge in parola, si prospetta in primo luogo l'opportunità della restituzione degli atti al giudice a quo per un riesame della rilevanza della questione alla luce delle modifiche apportate alle disposizioni impugnate dall'art. 14 della legge 28 gennaio 1977, n. 10.

Nel merito, richiamate preliminarmente le argomentazioni già svolte in occasione dell'esame di 35 analoghe questioni di legittimità costituzionale, discusse innanzi a questa Corte all'udienza del 25 febbraio 1976, cui aveva fatto seguito l'ordinanza n. 138 del 1976, l'Avvocatura nega anzitutto che sussista una lesione del principio di uguaglianza "in quanto la determinazione dell'indennità é pur sempre ancorata ad un criterio obiettivo, razionalmente scelto dal legislatore ordinario nella sua discrezionalità, con la conseguenza che il profilo della questione di legittimità costituzionale con riferimento all'art. 3 della Costituzione non é fondato". Si afferma in particolare - e l'osservazione attiene anche al profilo relativo all'addotta violazione dell'art. 42 Cost. - che é "in senso obiettivo inaccettabile ritenere simbolico (vale a dire quasi nullo) il valore di un suolo agricolo" e del tutto erroneo continuare come fanno le ordinanze in questione, a postulare "una edificabilità dei suoli quale elemento naturale dei medesimi". Il legislatore, inoltre, attribuendo ad apposite commissioni (art. 14 legge n. 10 del 1977) il potere di "determinare la stima caso per caso" e prevedendo nuovi coefficienti di moltiplicazione del valore agricolo in relazione alla popolazione dei Comuni nel cui territorio sono comprese le aree espropriande, avrebbe eliminato tutte quelle perplessità Che erano sorte in materia, "consentendo di pervenire, attraverso tale nuovo sistema di stima, al perfetto

60

adeguamento dell'indennizzo", nel senso voluto dall'art. 42 Cost. e già chiarito dalla Corte costituzionale, alla consistenza dell'immobile sottoposto a misura ablativa.

Dalle osservazioni che precedono - sostiene ancora l'Avvocatura - deriva anche l'insussistenza dell'addotto contrasto delle norme denunciate con l'art. 53 Cost., non essendo neppure ipotizzabile una lesione del principio "della capacità contributiva" laddove non sussiste, come nella specie, alcun prelievo di ricchezza.

Del pari inconsistenti sarebbero infine le censure di incostituzionalità rivolte all'art. 16 della legge n. 865 del 1971 in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., non essendo il doppio grado di giurisdizione costituzionalmente garantito né esistendo preclusioni di rango costituzionale alla attribuzione alla Corte d'Appello di una funzione diversa da quella di giudice dell'impugnazione in situazioni per le quali il legislatore abbia ritenuto opportuna una particolare disciplina.

Con ulteriore atto d'intervento in data 23 ottobre 1983 - correlato alla nuova pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 281 del 12 ottobre 1983 dell'ordinanza emessa dalla Corte d'Appello di Cagliari il 10 giugno 1977 nel procedimento civile promosso da Muscas Sisinnio ed altri nei confronti del Comune di Villacidro - l'Avvocatura dello Stato insta preliminarmente per la declaratoria di inammissibilità di tutte le sollevate questioni di legittimità costituzionale per avere il giudice a quo omesso di effettuare un autonomo controllo in ordine alla non manifesta infondatezza ed alla rilevanza della questione, che risulta invece prospettata sotto la forma di un'esposizione analitica degli assunti, delle richieste e delle conclusioni degli attori.

Ricorda poi l'Avvocatura che gli artt. 16, terzo comma, e 20 della legge n. 865 del 1971 sono stati già espunti dall'ordinamento dalla sentenza della Corte costituzionale n. 5 del 1980 onde, a parte la manifesta infondatezza delle relative questioni, potrebbe ritenersi per altro verso inammissibile la stessa questione di legittimità costituzionale che investe l'intera legge n. 865 del 1971, essendo ovvio che quest'ultima é stata pur sempre sollevata in funzione strumentale rispetto al giudizio a quo, nel quale dovrebbero applicarsi le norme specificamente impugnate e già dichiarate costituzionalmente illegittime. Si riconosce, peraltro, in atto d'intervento che a tale conclusione non potrebbe giungersi in ordine alla questione concernente l'art. 20, ultimo comma, della legge n. 865 del 1971, denunciato in riferimento all'art. 24 Cost.; anche se del tutto infondatamente alla luce del costante indirizzo della Corte circa l'insussistenza di una garanzia costituzionale relativa al doppio grado di giurisdizione.

In ordine alla questione di legittimità costituzionale dell'intera legge n. 865 del 1971 si sostiene in atto d'intervento che, pure alla luce di quanto ritenuto dalla Corte con sentenza n. 9 del 1959, non può non opinarsi che nell'ambito degli interna corporis sussista un "nucleo irriducibile" di disposizioni, quali quelle "regolamentari che disciplinano la fase della decisione parlamentare" che non può essere sottratta al Parlamento senza compromettere la sua stessa posizione nel sistema. E ciò anche nel senso che il sindacato di legittimità costituzionale sull'iter formativo della legge "non può non incontrare un confine nell'avvenuta approvazione da parte di ogni Camera - quale che sia stata l'attività esplicala per giungervi - del testo della legge inserito nell'atto promulgativo". Logico corollario di tali osservazioni continua l'Avvocatura - é l'inammissibilità della questione relativa al preteso contrasto della norma regolamentare della Camera dei deputati con l'art. 64, terzo comma, Cost..

La questione sarebbe, peraltro, comunque infondata nel merito sol che si consideri che il disposto dell'invocato parametro costituzionale di raffronto (art. 64, terzo comma, Cost.) si

61

ispira allo stesso principio maggioritario che é a fondamento degli artt. 75 e 138 Cost., in base ai quali le proposte soggette a referendum popolare non sono approvate se non é raggiunta la maggioranza "dei voti validamente espressi" o "dei voti validi". In tale contesto normativo, non potendo sicuramente negarsi che l'astensione non é un "voto espresso", ben potrebbe interpretarsi l'art. 64, terzo comma, Cost. nel senso di attribuire alla parola "presenti" il significato di "presenti che abbiano validamente votato". E d'altro canto, conclude l'Avvocatura, allo stesso criterio - derivato da quella esperienza reale che ha sorretto storicamente questa interpretazione fin dai primi momenti della Repubblica - si ispira ancora sostanzialmente il Senato, nonostante la norma codificata di cui all'art. 107 del relativo Regolamento, "secondo il quale ogni deliberazione deve essere presa a maggioranza dei senatori che partecipano alla votazione".

Considerato in diritto

1. - La legge 22 ottobre 1971, n. 865, - avente per oggetto "programmi e coordinamento dell'edilizia residenziale pubblica, norme sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150, 18 aprile 1962, n. 167, 29 settembre 1964, n. 847, ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell'edilizia residenziale, agevolata e convenzionata" - oltre che dettare i criteri per la determinazione, da parte dell'ufficio tecnico erariale, dell'indennità di espropriazione, sia per il proprietario (articolo 16), sia per il fittavolo (art. 17 in relazione all'art. 16), nonché dell'indennità di occupazione d'urgenza (art. 20, terzo comma, in relazione all'art. 16), prevede altresì l'opposizione degli interessati alla stima davanti alla Corte d'Appello competente per territorio (artt. 19 e 20, u. comma).

In attuazione della predetta legge, avendo il Presidente della regione Sardegna, nel corso degli anni 1976 e 1977, autorizzato i Comuni di Tempio Pausania e di Villacidro ad occupare d'urgenza alcuni terreni, e decretato l'espropriazione di altri a favore del "Consorzio per l'area di sviluppo industriale di Cagliari", l'ufficio tecnico erariale procedeva alle stime delle indennità dovute. A tali stime gli interessati proponevano opposizione dinanzi alla Corte d'Appello di Cagliari, denunciando l'illegittimità costituzionale, in primo luogo dell'intero testo legislativo e, comunque, dei summenzionati artt. 16 e 20. La Corte adita, facendo propri i motivi esposti dagli opponenti, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'intera legge in riferimento agli artt. 64, terzo comma, e 72 Cost. (con tutte le ordinanze in epigrafe); degli artt. 16 e 20 della stessa legge in riferimento agli artt. 3, 42 e 53 (con le ordinanze nn. 268/1977 e 467/1977) ovvero in riferimento agli artt. 3 e 42 Cost., e, sotto altro profilo, in riferimento agli artt. 3 e 53 (con l'ordinanza n. 466/1977); dell'art. 20 u. comma, in riferimento al solo art. 24 Cost. (con l'ordinanza n. 466/1977) ovvero in riferimento agli artt. 24 e 3 Cost. (con le ordinanze nn. 268/1977 e 467/1977).

Essendo comune a tutte le quattro ordinanze, emesse tutte nel corso del 1977, la questione che coinvolge tutto il testo normativo ed essendo in tutte contestate le medesime norme, i relativi giudizi vanno riuniti e decisi congiuntamente.

2. - Attraverso l'impugnativa degli artt. 16 e 20, il giudice a quo ha denunciato l'illegittimità costituzionale dei criteri per la determinazione dell'indennità nei casi, rispettivamente, di espropriazione e di occupazione d'urgenza. Senonché, con sentenza n. 5 del 1980, e perciò successivamente all'emissione delle ordinanze in epigrafe, questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittime le norme impugnate. Poiché allora ne é conseguita la caclucazione dei criteri, dei quali appunto nei giudizi d'opposizione si contesta l'applicabilità, la difesa dello Stato ha eccepito, peraltro in termini piuttosto dubitativi, l'inammissibilità (in un certo senso sopravvenuta) della questione di legittimità costituzionale dell'intera legge, in quanto era stata sollevata strumentalmente, cioé in vista

62

della perdita di efficacia proprio degli artt. 16 e 20. Ma la stessa Avvocatura riconosce che la citata sentenza non copre anche la censura di violazione dell'art. 24 Cost. - cioé dell'asserito principio del doppio grado di giurisdizione - da parte dell'art. 20, ultimo comma, della stessa legge, per cui l'eccezione di cui sopra non può essere accolta. E non rileva in contrario la constatazione che la legge 28 gennaio 1977, n. 10 (" norme per la edificabilità dei suoli") - espressa - mente modificativa dei criteri stabiliti con gli impugnati artt. 16 e 20 della legge n. 865 del 1971 -, benché entrata in vigore il 30 gennaio 1977, non risulta neppure menzionata in alcuna delle quattro ordinanze, che tuttavia sono state emesse tutte posteriormente alla suddetta data (dall'11 marzo al 9 dicembre 1977): oltre tutto, la norma dell'art. 20, che violerebbe il diritto di difesa, non ha subito altro mutamento, ad opera della legge n. 10 del 1977, che la progressione da ultimo a penultimo comma. La denuncia dell'illegittimità costituzionale dell'intera legge n. 865 del 1971, pertanto, non solo é ammissibile, ma, anzi, deve essere vagliata preliminarmente. Ed invero, a parte la considerazione che tale censura risulta formulata come unica nell'ordinanza n. 323/1978, e come principale nelle altre, é indubitabile che il suo eventuale accoglimento assorbirebbe ogni altro motivo.

3. - La legge in parola sarebbe costituzionalmente illegittima, perché in sede di approvazione finale del testo sarebbe stata approvata, alla Camera dei deputati, senza la maggioranza prescritta dalla Costituzione. A riguardo di ogni disegno di legge - si osserva nelle ordinanze - l'art. 72, primo comma, Cost. stabilisce che esso dev'essere approvato "articolo per articolo e con votazione finale"; a riguardo delle deliberazioni di "ciascuna" Camera, l'art. 64, terzo comma, Cost. recita testualmente che esse "non sono valide" se non sono adottate a maggioranza dei presenti", sempre che sia "presente la maggioranza dei "componenti". Il disegno di legge di che trattasi, invece, alla Camera dei deputati fu approvato regolarmente articolo per articolo, ma nella votazione finale raccolse solo la maggioranza dei votanti, ma non anche quella dei presenti, e tuttavia ne venne proclamata l'approvazione. Ciò, in applicazione dell'art. 48, secondo comma, del regolamento di quella Camera, a norma del quale, dovendosi considerare "presenti coloro che esprimono voto favorevole o contrario", gli astenuti non vengono computati.

Nella seduta del 26 maggio 1971, infatti - si precisa nell'ordinanza e non viene contestato dall'Avvocatura -, quando appunto ebbe luogo la votazione finale, "erano presenti 473 deputati, dei quali: 198 votarono a favore dell'approvazione del testo complessivo del disegno di legge; 191 contro e 154 si astennero", mentre il disegno di legge, a sensi dell'art. 64, terzo comma, Cost., "per essere approvato, avrebbe dovuto riportare 237 voti favorevoli (473: 2 + 1)". Vero é - si soggiunge - che successivamente, in seguito alle numerose modifiche apportate dal Senato al testo, la Camera dei deputati approvò regolarmente gli articoli emendati dall'altro ramo del Parlamento e riapprovò l'intero testo con nuova votazione finale, ma vero altresì che "il disegno di legge" non avrebbe potuto essere trasmesso al Senato".

4. - Dalla prospettazione testé compendiata emerge con tutta nettezza che la questione in sostanza é quella del valore dell'espressione "presenti"; più propriamente, del valore che essa assume nella locuzione "maggioranza dei presenti".

L'art. 64, primo comma, Cost., statuisce che "ciascuna Camera adotta il proprio regolamento". Ed é "secondo le norme del suo regolamento" che ognuna delle due Camere esamina i disegni di legge (art. 72, primo comma, Cost.); é ancora il regolamento di ognuna delle due Camere che può persino stabilire "procedimenti abbreviati" (art. 72, secondo comma, Cost.); é sempre il regolamento di ognuna delle due Camere che "può altresì stabilire", tanto i "casi", quanto le "forme", in cui i disegni di legge possono

63

addirittura essere approvati in commissione, anziché nel plenum (art. 72, terzo comma, Cost.).

Dai dati testuali, la cui fedele trascrizione ne mostra l'univocità, risultano la spettanza di autonomia normativa ad entrambi i rami del Parlamento e la peculiarità e dimensione di tale autonomia. É riconosciuta, infatti, a ciascuna Camera la potestà di disciplinare il procedimento legislativo in tutto ciò che non sia direttamente ed espressamente già disciplinato dalla Costituzione. Ne consegue che questa lascia un margine piuttosto ampio all'interpretazione ed attuazione del pensiero del costituente in materia e che l'interpretazione ed attuazione in parola sono di esclusiva spettanza di ciascuna Camera. Ciò significa che, relativamente alla disciplina del procedimento legislativo, i regolamenti di ogni Camera in quanto diretto svolgimento della Costituzione, sono esercizio di una competenza sottratta alla stessa legge ordinaria. Ma se l'autonomia normativa di ognuno dei due rami del Parlamento costituisce preclusione persino nei confronti del legislatore ordinario, si deve a maggior ragione ritenere che il regolamento di una Camera - e, quindi, l'interpretazione da questa data alla Costituzione - spiega eguale efficacia nei confronti dell'altra Camera, e viceversa.

E allora, comprendere gli astenuti tra i votanti ai fini della validità delle deliberazioni, come secondo antica e consolidata "pratica" accade in Senato - il cui art. 107.1, peraltro, recita che "ogni deliberazione" é presa a maggioranza dei Senatori che partecipano alla votazione" - ovvero escluderli, come dispone il regolamento della Camera, sono interpretazioni ed attuazioni senza dubbio diverse dell'art. 64, terzo comma, Cost., che hanno piena spiegazione appunto nella reciproca autonomia normativa testé affermata. Dal constatato divario non discende, tuttavia, necessariamente che una delle due contrasti con la Costituzione. A ben guardare, infatti, dichiarare di astenersi (alla Camera) ed assentarsi (al Senato) sono manifestazioni di volontà che si differenziano solo formalmente - come una dichiarazione espressa si differenzia da un comportamento concludente -, ma che in realtà poi si accomunano grazie all'univocità del risultato cui entrambe mirano con piena consapevolezza, che é quello di non concorrere all'adozione dell'atto collegiale. In definitiva, potrebbe anche dirsi che rientrano fra i modi di votazione. Se così é, ben può allora ognuna delle due assemblee, nella sua discrezionale valutazione, stabilire in via generale ed astratta quale sia, ai fini del computo della maggioranza e, quindi, della validità delle deliberazioni, il valore dell'un modo o dell'altro, di manifestare la volontà di non partecipare alla votazione.

5. - Gli argomenti svolti in ordine al significato della locuzione "maggioranza dei presenti", di cui all'art. 64, terzo comma, Cost. comportano la dichiarazione di non fondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'intera legge n. 865 del 1971.

6. - Deve poi dichiararsi manifestamente infondata la questione sollevata dal medesimo giudice a quo a riguardo degli artt. 16 e 20 della stessa legge, e precisamente nelle parti concernenti i criteri per la determinazione dell'indennità di espropriazione e di occupazione d'urgenza.

Non si può in proposito non rilevare nuovamente che gli articoli impugnati dalla Corte d'Appello di Cagliari erano stati già abrogati, al momento dell'emissione di tutte le quattro ordinanze in epigrafe, e sostituiti con l'art. 14 della legge 28 gennaio 1977, n. 10. A parte comunque, la denuncia di norma non più in vigore, i criteri per la determinazione dell'indennità, quali stabiliti con i denunciati artt. 16 e 20, e quali modificati dall'art. 14 della legge n. 10 del 1977, risultano già dichiarati da questa Corte costituzionalmente illegittimi con la sentenza n. 5 del 1980.

64

7. - Analoga pronuncia di infondatezza va adottata a riguardo del medesimo art. 20, ultimo comma, della legge n. 865 del 1971, cioè nella parte in cui é disposto che l'opposizione contro la determinazione delle suddette indennità é proponibile direttamente davanti alla Corte d'Appello.

In sostanza, il giudice a quo lamenta che, imponendosi agli interessati di agire direttamente dinanzi al giudice di seconda istanza, verrebbe violato il principio del doppio grado di giurisdizione. Senonché, questa Corte ha più volte negato - da ultimo, con sentenza n. 52 del corrente anno 1984 - l'esistenza nel nostro ordinamento del suddetto principio, che il legislatore ordinario non é pertanto tenuto ad osservare in ogni caso.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondate:

a) la questione di legittimità costituzionale dell'intera legge 22 ottobre 1971, n. 865 (Programmi e coordinamento dell'edilizia residenziale pubblica, norme sulla espropriazione per pubblica utilità; modifiche ed integrazioni alle leggi 17 agosto 1942, n. 1150, 18 aprile 1962, n. 167, 29 settembre 1964, n. 847, ed autorizzazione di spesa per interventi straordinari nel settore dell'edilizia residenziale, agevolata e convenzionata), sollevata dalla Corte d'Appello di Cagliari, con ordinanze emesse l'11 marzo 1977 (r.o. 268/1977), il 10 giugno 1977 (r.o. 466 e 467/77) e il 9 dicembre 1977 (r.o. 323/78), in riferimento agli artt. 64, terzo comma e 72 Cost.;

b) la questione di legittimità costituzionale dell'art. 20, quarto comma, della legge n. 865 del 1971, sollevata dalla stessa Corte d'Appello di Cagliari, con ordinanze emesse l'11 marzo 1977 (r.o. 268/1977) ed il 10 giugno 1977 (r.o. 466 e 467/1977), in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost.;

c) dichiara manifestamente infondata:

la questione di legittimità costituzionale degli artt. 16 e 20, terzo comma, della legge n. 865 del 1971, sollevata dalla stessa Corte d'Appello di Cagliari con le ordinanze indicate sub b) in riferimento agli artt. 3, 42 e 53 Cost.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 marzo 1984.

LEOPOLDO ELIA, PRESIDENTE

GIUSEPPE FERRARI, REDATTORE

Depositata in cancelleria il 29 marzo 1984.

65

SENTENZA N. 292 DEL 1984

REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo ItalianoLA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori:Prof. LEOPOLDO ELIA, Presidente Prof. GUGLIELMO ROEHRSSEN Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI Avv. ALBERTO MALAGUGINI Prof. LIVIO PALADIN Prof. ANTONIO LA PERGOLA Prof. VIRGILIO ANDRIOLI Prof. GIUSEPPE FERRARI Dott. FRANCESCO SAJA Prof. GIOVANNI CONSO Prof. ETTORE GALLO Dott. ALDO CORASANITI Prof. GIUSEPPE BORZELLINO, Giudici, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 39, primo comma, della legge 2 luglio 1952, n. 703 (Disposizioni in materia di finanza locale) promossi con le seguenti ordinanze: 1) ordinanza emessa il 13 novembre 1979 dalla Corte d'appello di Milano nel procedimento civile vertente tra SIP e Comune di Cinisello Balsamo, iscritta al n. 96 del registro ordinanze 1980 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 105 dell'anno 1980;

2) quattro ordinanze emesse il 10 novembre 1982 e 8 febbraio 1984 dal Tribunale di Lucca nei procedimenti civili vertenti tra la SIP e il Comune di Forte dei Marmi, iscritte ai nn. 201, 202 e 203 del registro ordinanze 1983 e 562 del registro ordinanze 1984 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 225 del 1983 e n. 190 del 1984.

Visti gli atti di costituzione della SIP e del Comune di Cinisello Balsamo nonché gli atti d'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 16 ottobre 1984 il Giudice relatore Giuseppe Ferrari;

uditi l'avv. Filippo Satta per la SIP e l'avvocato dello Stato Luigi Siconolfi per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Con ordinanza in data 13 novembre 1979 la Corte d'appello di Milano, nel giudizio promosso dall'appellante SIP - Società italiana per l'esercizio telefonico s.p.a. - nei confronti del Comune di Cinisello Balsamo avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Monza in data 18 dicembre 1978, esponeva che la SIP si era doluta che il Comune di

66

Cinisello Balsamo avesse applicato in misura quadrupla, per gli anni 1974, 1975 e 1976, la tassa per l'occupazione di aree e spazi pubblici benché non vi fosse stato alcun incremento nella estensione della rete dei cavi telefonici. Il Comune aveva dedotto che la misura originaria della tassa per l'occupazione del sottosuolo stradale di cui all'art. 198 del r.d. 14 settembre 1931, n. 1175 (Testo unico per la finanza locale) doveva ritenersi aumentata non già di quaranta volte - come assumeva la SIP - bensì di centosessanta volte, giacché l'art. 39 della legge 2 luglio 1952, n. 703, recante "disposizioni in materia di finanza locale", aveva disposto l'aumento di quaranta volte della tariffa prevista dall'art. 198, r.d. n. 1175 del 1931, "e successive modificazioni"; le quali erano state apportate con l'art. 32 del d. lgs. lgt. 8 marzo 1945, n. 62, che aveva appunto aumentato di quattro volte la misura originaria della tassa per l'occupazione del sottosuolo stradale.La SIP aveva a sua volta eccepito l'incostituzionalità dell'art. 39 della l. 2 luglio 1952, n. 703, assumendo che la disposizione non era stata approvata nel medesimo testo dai due rami del Parlamento, secondo quanto disposto dagli artt. 70 e 72 Cost.. La Corte d'appello di Milano, accogliendo l'eccezione della SIP, ha sollevato questione di legittimità costituzionale della norma in questione in riferimento ai citati parametri di raffronto. Premesso che é assolutamente pacifico che la disposizione denunciata fu approvata dal Senato, in assemblea, senza l'inciso "e successive modificazioni"; che tale inciso fu invece introdotto dalla Commissione incaricata del coordinamento da quel ramo del Parlamento; che il testo così integrato fu poi approvato dalla Camera dei deputati, la quale però non lo rinviò al Senato per la definitiva approvazione, e che in tale formulazione la legge fu poi promulgata e pubblicata, il giudice a quo rileva che dalla diversa dizione dei due testi consegue una diversa statuizione normativa, posto che quello pubblicato fa espresso ed insuperabile riferimento alle modifiche successivamente apportate all'art. 198 del r.d. n. 1175 del 1931, e quindi alle nuove tariffe fissate dall'art. 32 del d. lgs. lgt. n. 62 del 1945, mentre il testo approvato dal Senato, prima della integrazione apportata dalla Commissione in sede di coordinamento, si limitava inequivocamente ad aumentare di quaranta volte la tariffa originaria di cui all'art. 198 del Testo unico per la finanza locale. Né - si osserva ancora in ordinanza - l'analisi del complessivo sistema della legge nella quale é inserita la norma denunciata consente di pervenire alla conclusione che il legislatore intese comunque, a prescindere dall'inciso in questione, fare riferimento alle tariffe all'epoca vigenti, e quindi a quelle modificate dall'art. 32 del d. lgs. lgt. n. 62 del 1945, anziché a quelle originariamente previste dall'art. 198 del r.d. n. 1175 del 1931. Invero, gli altri importi tariffari modificati dalla stessa legge n. 703 del 1952 risultano, in larghissima prevalenza, superiori di quaranta (e non di centosessanta) volte rispetto ai corrispondenti importi del 1931; e, inoltre, dalla relazione della IV Commissione permanente della Camera dei deputati risulta che le maggiori entrate preventivate in base alle nuove tariffe delle tasse di occupazione del suolo e del sottosuolo ammontano a 1250 milioni, di contro ai circa 5000 milioni che avrebbero costituito il maggior gettito di tariffe aumentate di centosessanta, anziché di quaranta, volte rispetto a quelle del 1931. L'aggiunta dell'inciso "e successive modificazioni" al testo approvato dal Senato da parte della Commissione di coordinamento non costituì, dunque, un semplice coordinamento formale degli articoli approvati, ma integrò una sostanziale modifica del testo, successivamente approvato dalla Camera in una versione dunque difforme, in violazione degli artt. 70 e 72 Costituzione. 2. - La stessa questione di legittimità costituzionale é stata altresì sollevata, nei medesimi termini, dal Tribunale di Lucca con quattro identiche ordinanze, tre delle quali emesse il 10 novembre 1982 e l'altra l'8 febbraio 1984, in altrettanti procedimenti civili promossi dalla SIP nei confronti del Comune di Forte dei Marmi. 3. - Tutte le ordinanze sono state ritualmente notificate e pubblicate.

67

Nel giudizio promosso dalla Corte d'appello di Milano si é costituita sia la SIP che il Comune di Cinisello Balsamo. La SIP, premesso che l'art. 39 in parola riproduce, senza alcuna modificazione in parte de qua, parte del testo dell'originario art. 6 del disegno di legge presentato al Senato il 15 novembre 1949 dal Ministro delle finanze pro tempore, Vanoni, e che esso fu concordemente approvato da maggioranza e minoranza all'atto dell'esame da parte della Commissione finanze e tesoro in sede referente, rileva che, dopo la conforme approvazione da parte dell'Assemblea del Senato nella seduta del 22 novembre 1951, il Presidente del Senato, su richiesta del relatore, dichiarò testualmente: "Se non vi sono osservazioni resta inteso che la Commissione procederà a termini del regolamento al coordinamento del disegno di legge". In questa sede la disposizione impugnata fu modificata con l'aggiunta dell'inciso "e successive modificazioni" che ha dato luogo al giudizio di costituzionalità. Ma perché esso sia stato introdotto - continua la SIP in atto di costituzione - non é dato con sicurezza sapere, non essendo stato possibile rinvenire traccia dei lavori della Commissione di coordinamento. Non più illuminanti sono poi gli ulteriori lavori preparatori, avendo la Camera dei deputati discusso e approvato il disegno di legge prima in Commissione e poi in Assemblea senza che l'art. 39 fosse oggetto di emendamenti o discussioni specifiche. In tale contesto non pare alla SIP che l'aggiunta dell'inciso "e successive modificazioni" in sede di coordinamento abbia comportato una modificazione sostanziale del testo, come invece ritenuto dal giudice a quo. Con essa, insomma, né la commissione di coordinamento - che plus dixit quam voluit - né la Camera intesero mutare la portata della disposizione approvata in Assemblea dal Senato. Anzitutto, invero, il coordinamento "a termini di regolamento" disposto dal Presidente dell'Assemblea non può che riferirsi a correzioni di forma e non anche di sostanza, essendo per queste ultime richiesta la deliberazione dell'Assemblea ex art. 74 del regolamento del Senato all'epoca vigente. E non é fondatamente ipotizzabile che la Commissione di coordinamento abbia inteso modificare la concorde volontà del Governo e dell'Assemblea del Senato - che era quella di aumentare di quaranta volte le tariffe previste dal Testo unico del 1931 - senza avvertire il dovere di sottoporre nuovamente il testo modificato del disegno di legge all'approvazione dell'Assemblea. Se ciò non é avvenuto é segno che la Commissione non ritenne di aver apportato col suo operato alcun mutamento sostanziale all'articolo approvato dall'assemblea. E dello stesso parere fu, evidentemente, il Presidente del Senato, che senz'altro trasmise l'approvato disegno di legge al Presidente della Camera dei deputati secondo il testo coordinato dalla Commissione. Inoltre, l'assoluta assenza di interventi sul punto alla Camera dei deputati e l'elaborata relazione della Commissione testimonierebbero l'assenza di qualsiasi dubbio, anche in quella sede, sul riferimento dell'aumento alle tariffe fissate dal Testo unico del 1931. Ancora, il riferimento specifico delle nuove tariffe a quelle originarie implica, in via generale, l'abrogazione tacita delle disposizioni introdotte successivamente. Infine, abbondano nella legge n. 703 del 1952 (agli artt. 13, 14, 16, 17, 18, 19, 20, 22, 23, 28, 29, 33, 34, 36, 37, 41, 48, 49, 51, 52, 53 e 55) i riferimenti ad articoli del T. U. fi,. loc. del 1931 e alle loro "successive modificazioni" anche allorché nessuna modificazione sia stata, mai, in precedenza apportata. Il che dimostrerebbe non solo l'imperfezione tecnica della legge, ma anche che l'inciso in questione non avrebbe di per sé, isolatamente considerato, al di fuori del contesto generale della legge e degli indubbi criteri informatori del legislatore in fatto di adeguamento tariffario, alcuna rilevanza sostanziale. Il richiamo alle "successive modificazioni" può quindi intendersi solo come clausola di stile, comunque riferita al testo unico nel suo insieme e non già ai suoi singoli articoli, spesso non modificati.

68

Sulla scorta di tali considerazioni - conclude la SIP" é da ritenere che la questione di costituzionalità sollevata dalla Corte d'appello di Milano é infondata perché la semplice interpretazione dell'art. 39 rivela come esso o dica più di quanto si sia voluto, o viceversa come, esasperando il valore del generico riferimento alle "successive modificazioni", gli si faccia dire più di quanto effettivamente dice". 4. - Di segno opposto sono le argomentazioni svolte dal Comune di Cinisello Balsamo che, nel proprio atto di costituzione, sostiene invece che, essendo stato l'art. 198 del T. U. del 1931 parzialmente abrogato dall'art. 32 del d. lgs. lgt. n. 62 del 1945 (che aveva modificato, aumentandole di quattro volte, le tariffe fissate dall'art. 198 cit.), la norma denunciata, con o senza l'inciso "e successive modificazioni", avrebbe comunque comportato l'aumento di centosessanta volte delle tariffe originarie, non essendo concepibile che il legislatore abbia inteso riferirsi alle misure tariffarie fissate da una norma in parte de qua abrogata, facendola in tal modo rivivere, ma dovendo invece ritenersi che il riferimento all'art. 198 sia stato operato in relazione alla sua vigente portata normativa. La Commissione di coordinamento del Senato, pertanto, non avrebbe apportato alcuna "modifica" al testo approvato in Assemblea, ma ne avrebbe solo chiarito il significato, come era sicuramente autorizzata a fare. 5. - Analoga la conclusione cui perviene l'Avvocatura dello Stato, intervenuta in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei ministri in tutti i giudizi, escluso solo quello promosso dal Tribunale di Lucca con ordinanza in data 8 febbraio 1984. In atto d'intervento si sostiene in particolare che "la norma in genere concretizza il diritto positivo vigente in un determinato momento storico, sia che essa conservi il testo originario, sia che abbia subito medio tempore immutazioni o modifiche". Ne consegue che "eventuali ulteriori novelle operano sul tessuto preesistente nei termini in cui si é concretamente consolidato", talché la circostanza che "il legislatore richiami una specifica disposizione tout court, o la medesima disposizione con le modifiche frattanto intervenute, non vale ad identificare realtà normative difformi o dissimili, ma sottende come termine di riferimento lo stesso ed unico dato, indipendentemente dalle modalità della sua formazione, che può essersi venuta a costituire unitariamente o per apporti successivi". 6. - Alla pubblica udienza del 16 ottobre 1984, assente il difensore del Comune di Cinisello Balsamo, il difensore della SIP ed il rappresentante dell'Avvocatura dello Stato hanno entrambi insistito per la declaratoria di infondatezza della questione, pur se in base alle diverse argomentazioni più sopra riportate.

Considerato in diritto

1. - Il testo unico per la finanza locale (t.u.f.l.), approvato con il r.d. 14 settembre 1931, n. 1175 conosce, fra le altre entrate dei Comuni, la "tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche", disciplinata negli artt. 192-200. Per quanto riguarda più propriamente l'occupazione del sottosuolo mediante "condutture, cavi ed impianti in genere", tale tassa così ai sensi del dato testuale dell'art. 198, primo comma, lettera a) - "é applicata... a metro lineare", "in base alla... tariffa massima " di lire 0,50 ovvero di lire 1, secondo che le suindicate apparecchiatura abbiano un diametro inferiore o superiore a centimetri 20. La tariffa massima come sopra stabilita venne poi quadruplicata con l'art. 32, lettera a), del decreto legislativo luogotenenziale 8 marzo 1945, n. 62, che, infatti, la elevò, rispettivamente, a lire 2 e lire 4, e nuovamente "aumentata di quaranta volte", a decorrere dal 1 gennaio 1952, con gli artt. 39, primo comma, e 44 della legge 2 luglio 1952, n. 703 ("disposizioni in materia di finanza locale"). Per l'esattezza, mentre il Senato approvava la disposizione nel seguente testo: "la tariffa massima di cui all'art. 198 del testo unico 14 settembre 1931, n. 1175, e al decreto ministeriale 26 febbraio 1933, concernente le norme provvisorie aggiunte di applicazione dello stesso testo unico in materia di tassa per

69

l'occupazione di spazi ed aree pubbliche é aumentata di 40 volte", il menzionato art. 39, primo comma, così recita, viceversa, nel testo approvato dalla Camera, promulgato dal Presidente della Repubblica, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale ed inserito nella Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti della Repubblica: "La tariffa massima di cui all'art. 198 del testo unico per la finanza locale 14 settembre 1931, n. 1175, e successive modificazioni, e al decreto ministeriale 26 febbraio 1933, concernente le norme provvisorie aggiunte di applicazione dello stesso testo unico in materia di tassa per la occupazione di spazi ed aree pubbliche, é aumentata di quaranta volte". 2. - Nel corso di cinque giudizi promossi dalla SIP (Società italiana per l'esercizio telefonico) contro i Comune di Cinisello Balsamo e di Forte dei Marmi, i quali avevano applicato (l'uno per gli anni 1974, 1975 e 1976, l'altro per gli anni 1980, 1981 e 1982) entrambi gli aumenti di cui sopra alla tassa per l'occupazione, nel territorio dei rispettivi Comuni, di sottosuolo con condutture, la predetta società denunciò che, poiché l'estensione della rete dei cavi era rimasta invariata, l'aumento della tassa era illegittimo. In particolare, eccepì che il cumulo delle due maggiorazioni era stato disposto in base alla norma di cui al trascritto art. 39 e che "la detta norma non era stata approvata nella stessa versione dai due rami del Parlamento", nel senso che il richiamo alle "successive modificazioni" venne aggiunto, al Senato, in sede di coordinamento, dopo la votazione finale, sicché risulta approvato dalla sola Camera. La Corte d'appello di Milano, con ordinanza (r.o. 96/1980) emessa il 13 novembre 1979, ed il Tribunale di Lucca, con ordinanze (r.o. 201, 202, 203/1983 e 562/1984) emesse il 10 novembre 1982 e l'8 febbraio 1984, dato preliminarmente atto che non era contestato dalle parti che l'art. 39 fu approvato dal Senato senza l'inciso ("e successive modificazioni") e che tale inciso venne introdotto, dopo la votazione finale, "dalla commissione di coordinamento del Senato", la quale poi non rimise più il testo coordinato al plenum, osservano concordemente che: "i due testi approvati dal Senato e dalla Camera sono tra loro totalmente difformi"; l'inciso "non costituisce un semplice coordinamento.., ma una effettiva modifica legislativa"; "la rilevata difformità comporta una diversa statuizione normativa". Osservato altresì (anche se dal solo Tribunale di Lucca) che così "non risulta rispettata la regola fondamentale del bicameralismo", i due giudici a quibus hanno sollevato, in riferimento agli artt. 70 e 72 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'intero art. 39 della legge n. 703 del 1952. Ed in quanto alla rilevanza, afferma il Tribunale di Lucca che essa "appare evidente prima facie". L'affermazione é esatta, giacché dalla soluzione della quaestio legitimitatis dipende se la tassa in parola dev'essere pagata dai concessionari ai Comuni nelle misure massime a metro lineare, di lire 20 ovvero di lire 80, e di lire 40 ovvero di lire 160, secondo che condutture, cavi ed impianti abbiano un diametro, rispettivamente, inferiore o superiore a centimetri 20. 3. - Trattandosi di questioni identiche, i relativi giudizi possono essere riuniti e decisi con unica sentenza. Con la sentenza n. 9 del 1959, questa Corte ha affrontato per la prima volta, in tema di procedimento legislativo, la problematica cui dà vita la constatazione della difformità fra il testo approvato da una Camera e quello approvato dall'altra Camera. Con tale pronuncia, dopo avere riconosciuto la propria competenza in via generale "a controllare la legittimità costituzionale di una legge per quanto concerne il procedimento della sua formazione "e, quindi, che l'attestazione contenuta nel messaggio che accompagna la trasmissione di un testo di legge da un ramo all'altro del Parlamento non preclude il sindacato del giudice delle leggi sugli atti anteriori, essa statuì in particolare che: a) la prassi del coordinamento, autorizzato dalla Camera (o da una commissione in sede legislativa) ed operato dalla Presidenza, "in quanto risponde ad esigenze del funzionamento di organi collegiali, non può ritenersi senz'altro contraria alla Costituzione", se poi il testo del disegno di legge, una volta coordinato, "non é ripresentato alla Camera (o alla commissione competente) per

70

una nuova votazione finale"; b) tuttavia, "il testo coordinato, in tanto può non essere sottoposto ad una nuova votazione finale, in quanto abbia una formulazione che non alteri la sostanza del testo che aveva formato oggetto della votazione finale"; c) l'accertamento se la formulazione del testo coordinato "si é mantenuta (nei limiti nei quali il coordinamento é stato autorizzato), in modo che esso esprima l'effettiva volontà della Camera e sia idoneo a concorrere con una identica volontà dell'altra Camera a produrre la legge" va compiuto dalla Corte "caso per caso", ed all'uopo "é rilevante il raffronto fra il testo votato... con riserva del coordinamento ed il testo coordinato e poi promulgato"; d) "in conclusione", se non risultano "modificazioni di sostanza", "l'eccezione di legittimità costituzionale... per assunta difformità dei testi votati...", può dichiararsi non fondata. Successivamente alla ricordata pronuncia, la competenza di questa Corte a sindacare il processo formativo delle leggi non é stata più giudizialmente posta in discussione, sicché può dirsi costituire ormai uno dei principi del nostro ordinamento costituzionale, e le statuizioni di cui sopra sono state poi ribadite ed applicate in altre due sentenze - pronunciate peraltro, la prima delle due su difformità tra testo approvato e testo promulgato, ed entrambe su difformità conseguente ad errore materiale verificatosi nella trascrizione -, sicché possono dirsi costituire ormai giurisprudenza costante di questa Corte. Tali due sentenze, infatti, hanno precisato, l'una a riguardo della facoltà di coordinamento (sentenza n. 134 del 1969), che "nella nozione più restrittiva che si voglia darne" non rientra soltanto "la correzione di errori materiali", ma "anche la eventuale correzione lessicale dei testi per conformarne la dizione alla sostanza", e l'altra a riguardo dell'accertamento "caso per caso" (sentenza n. 152 del 1982), che "non si può ragionare astrattamente e meccanicamente dei vizi formali di legittimità costituzionale delle leggi", dovendosi, invece, non solo "tener conto della effettiva volontà delle Camere", ma anche "valutare il rilievo che l'errore potrebbe assumere nelle sedi interpretativa ed applicativa" della disposizione impugnata. Ma particolare risalto merita quest'ultima sentenza (n. 152 del 1982), per la statuizione del tutto nuova, che essa enuncia e che si aggiunge a quelle più sopra riportate, integrando la visione di questa Corte in tema di coordinamento delle leggi. In ordine al dilemma, infatti, se il vizio dell'iter procedimentale produca effetti limitati alla sola disposizione - o parte - viziata ovvero travolga l'intero atto, essa ha statuito che: e) "deve farsi... applicazione del principio generale di conservazione degli atti" e che perciò il "vizio formale... non comporta - per sé considerato - l'annullamento integrale della legge.., ma può solo incidere, in ipotesi, sulla parte specificamente viziata". 4. - Ritiene questa Corte che non vi sono motivi, i quali sospingano a variare il rievocato indirizzo giurisprudenziale o anche solo a discostarsene. É pertanto sulla base del principio generale della sindacabilità, in questa sede, delle leggi anche per vizi dei loro procedimenti di formazione, ed é alla luce delle statuizioni di cui sopra, che va esaminata e risolta la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte di appello di Milano e dal Tribunale di Lucca. In vista, allora, dell'applicazione alla fattispecie in oggetto delle surriportate statuizioni, giova precisare che la difformità, verificatasi alla Camera, fra il testo approvato da questa ed il testo approvato dal Senato, é la conseguenza della difformità, verificatasi anteriormente al Senato, fra il testo approvato da questo ed il testo coordinato. Si pone, quindi, un triplice interrogativo: se, avendo il testo coordinato ottenuto la approvazione della sola Camera, possa dirsi che vi é stato l'incontro delle volontà di entrambi i rami del Parlamento; se il coordinamento ha comportato, o meno, una modifica sostanziale della legge; nell'ipotesi affermativa, se esso ha viziato l'intero atto ovvero soltanto l'intera proposizione normativa ovvero ancora la sola parte coordinata. Il primo interrogativo chiama in causa l'art. 70 Cost., il quale dichiara che la funzione legislativa é esercitata "collettivamente dalle due Camere"; gli altri due chiamano in causa l'art. 72 Cost., il quale

71

detta, sì, la disciplina del procedimento legislativo, ma ne demanda l'integrazione all'autonomia normativa di ciascuna Camera. Ora, l'istituto del coordinamento é ignoto alla Costituzione, ma non anche ai regolamenti parlamentari. Il regolamento del Senato che era in vigore nel 1952, cioé al momento dell'approvazione della legge de qua, prevedeva all'art. 74, benché non nominatim, il coordinamento, stabilendo, sotto il profilo contenutistico, che esso doveva intendersi consistere, non solo "nelle correzioni di forma che siano opportune", ma anche nelle "necessarie modificazioni" "di quegli emendamenti già approvati che sembrino inconciliabili con lo scopo della legge o con alcune delle sue disposizioni" e, sotto il profilo procedurale, che doveva essere deliberato dal Senato "prima della votazione finale". L'istituto é rimasto sostanzialmente immutato nel regolamento approvato il 17 febbraio 1971, ed oggi in vigore, il quale, al contrario di quello anteriore, parla espressamente di "coordinamento", là dove facoltizza le "modificazioni di coordinamento che appaiono opportune "(art. 103.1), prevedendo altresì il conferimento dell'incarico alla "commissione di presentare le opportune proposte" (art. 103.2), "eventualmente accompagnate da una relazione" (art. 103.3), sulle quali "può intervenire non più di un oratore per ciascun gruppo parlamentare e la votazione ha luogo per alzata di mano" (art. 103.4). Insomma, é di tutta evidenza che in ogni caso - si abbia riguardo alla nuova o alla cessata disciplina regolamentare - il coordinamento é in linea di principio legittimo, se avviene "prima della votazione finale". 5. - Il coordinamento in esame é stato, viceversa, operato dopo la votazione finale, e perciò stride con la fattispecie astratta disegnata dall'art. 74 del cessato regolamento del Senato. In coerenza, tuttavia, con il costante indirizzo giurisprudenziale di questa Corte, non può dirsi che la modifica apportata in sede di coordinamento all'art. 39, primo comma, della legge n. 703 del 1952 mediante il denunciato inserto sia di per sé costituzionalmente viziata e viziante. Ed invero, l'introduzione nell'impugnato articolo dell'inciso, su cui il Senato non fu poi chiamato a pronunciarsi, se per un verso é innegabilmente avvenuta in difformità della norma regolamentare, per altro verso risulta operata in conformità di una prassi tutt'altro che recente, la quale trova osservanza anche nell'altro ramo del Parlamento. In ordine a tale prassi, questa Corte, come si é già ricordato, ha statuito (sentenza n. 9 del 1959) - ed in considerazione, non già della sua annosità, ma della necessità, in taluni casi e circostanze, del ricorso ad essa al fine di assicurare la funzionalità di organi collegiali particolarmente numerosi - non potersi ritenere "senz'altro contraria alla Costituzione". Non può non dirsi lo stesso per quanto concerne la modifica subita, ad opera dell'inciso in argomento, dalla disposizione sospettata di illegittimità costituzionale: la ricordata statuizione, infatti, vale a maggior ragione nel caso di specie, in cui il coordinamento risulta operato, non già dalla Presidenza, come nelle fattispecie di cui alle pronunce n. 9 del 1959 e n. 134 del 1969, bensì dalla commissione competente. 6. - Si deve ora sottolineare che questa Corte non ha inteso, con le sentenze più volte richiamate, riconoscere in linea di principio, e perciò in ogni caso, la legittimità della suddetta prassi del coordinamento, bensì ha inteso escluderne la illegittimità in quei soli casi, in cui la formulazione modificata "non alteri la sostanza del testo che aveva formato oggetto della votazione finale" (sentenza n. 9 del 1959). Con questa ultima precisazione, il problema diviene palesemente ermeneutico: in tanto sarà possibile, infatti, valutare se la modifica costituita dall'inserto abbia alterato la sostanza del testo, quale risulta approvato nella votazione finale dal plenum del Senato, in quanto si conosca previamente l'effettiva volontà espressa da questo, sia col voto sull'articolo, sia poi con la votazione finale. Ed a tale scopo, si richiede appunto un'indagine volta a cogliere l'esatta interpretazione dell'impugnato art. 39 nella versione approvata dal Senato (cioé, senza l'inciso) e, più

72

precisamente, a stabilire se il Senato, disponendo l'aumento di 40 volte, volle riferirsi alle tariffe originarie del 1931 ovvero a quelle quadruplicate del 1945. É questo il nodo che va preliminarmente sciolto; il nodo, cioé, formatosi nell'ambito del Senato, come del resto si é già precisato più sopra, allorché si é posto in rilievo che la difformità fra i testi approvati dalle due Camere é la conseguenza della difformità, verificatasi in Senato, fra il testo anteriormente approvato e quello successivamente coordinato. 7. - Non mancano elementi, i quali lascerebbero pensare che intenzione del Senato, pur in mancanza dell'inciso poi introdotto in sede di coordinamento era quella di aggiungere un ulteriore aumento alla quadruplicazione disposta nel 1945. Quando, infatti, la legge de qua veniva approvata, dopo una laboriosa gestazione triennale, era in vigore la tariffa del 1945, non più quella del 1931; e ciò, proprio per effetto del menzionato decreto legislativo luogotenenziale n. 62 del 1945, il cui art. 32 dispone testualmente che la misura della tassa in parola, quale stabilita nel 1931 dall'art. 198 t.u.f.l, é "modificata", e precisamente quadruplicata. Poiché questa era la situazione normativa del momento, non sembra che l'opinione secondo cui il Senato avrebbe avuto in mente, non già la tariffa in vigore, ma la tariffa abrogata, meriti maggior credito di quella inversa. Oltre tutto, se con l'ipotizzata opinione i giudici a quibus intendessero sostenere che il denunciato art. 39 della legge n. 703 del 1952 avrebbe implicitamente abrogato l'art. 32 del d.l.l. n. 62 del 1945 ed implicitamente ridato vigore all'art. 198 t.u.f.l, si porrebbe il problema, di non agevole soluzione, se possa ritenersi che l'abrogazione tacita di una norma successiva abbia di per sé, indipendentemente da un'apposita legge ripristinatoria, la virtù di far rivivere la norma anteriore espressamente abrogata - o "modificata" -, quale é appunto, nella specie, quella che nel 1931 stabiliva la tariffa della tassa in contestazione.Ed il dubbio sull'opinabilità di tale tesi apparirebbe trovare riscontro nel diritto positivo a chi osservasse che proprio la legge in parola ubi voluit dixit: l'art. 31, primo comma, infatti, dopo avere espressamente disposto che "a decorrere dal 1 gennaio 1952, l'art. 29 del d.l.l. 8 marzo 1945, n. 62 é abrogato", soggiunge altrettanto espressamente, offrendo così un chiaro esempio di legge ripristinatoria, che "i Comuni, pertanto, debbono applicare l'imposta di patente secondo le norme dell'art. 166 t.u.f.l., e la misura ivi prevista può essere aumentata fino a quaranta volte". Né può dirsi che sia priva di alcun rilievo la constatazione che é dato fare nella relazione di maggioranza e, prima ancora, in quella governativa accompagnante il disegno di legge, ove risulta scritto che, stante il "disavanzo talvolta pauroso" dei bilanci comunali ed in vista del loro risanamento, quegli "adeguamenti fiscali" venivano disposti "allo scopo di avvicinare i singoli tributi ad un livello non dissimile da quello prebellico". Questa risultando la ratio legis, non sarebbe corretto prescindere da essa, allorché si tratti di valutare se intenzione del legislatore sia stata quella di assumere come base la tariffa minima, stabilita oltre vent'anni prima, in tempo di pace e di stabilità economica, anziché quella aumentata da poco più di cinque anni, pressoché al termine della guerra (marzo 1945), e perciò in tempo di lievitazione delle spese. Inoltre: il Senato approvò all'unanimità, nella votazione finale, il testo della legge de qua, ed il coordinamento venne operato, come già si é posto in rilievo, non dalla Presidenza, bensì dalla stessa commissione (Finanze e Tesoro), la quale, stante la sua competenza in materia, aveva esaminato e dibattuto in sede referente il disegno di legge. Ed allora, benché non esistano verbali dei lavori della commissione in sede di coordinamento, appare tutt'altro che inattendibile la congettura che l'inciso di che trattasi sia stato inserito nel corpo dell'impugnato art. 39 nel convincimento che esso - cioé l'esplicito richiamo alle "successive modificazioni" - rendesse pienamente chiara la volontà che il Senato aveva inteso effettivamente esprimere. Tanto più che la commissione procedette al coordinamento subito dopo la votazione finale, esaurendolo entro una diecina di giorni -

73

dal 23 novembre 1952, data della suddetta votazione finale, al 5 dicembre successivo, data del messaggio di trasmissione all'altra Camera -, quando era più sicura e viva la memoria del dibattito e del vero orientamento dell'assemblea. 8. - Le considerazioni testé esposte sembrano avvalorare l'interpretazione secondo cui il Senato, pur approvando l'impugnato art. 39 senza l'inciso, avrebbe inteso riferirsi alla tariffa come modificata dall'art. 32 del d.l.l. n. 62 del 1945 - a quella quadruplicata, insomma, ed allora in vigore -, non già a quella del 1931, che da ben sette anni era stata esplicitamente "modificata", cioé abrogata, dallo stesso art. 32 del menzionato provvedimento legislativo. Se si accogliesse questa ricostruzione del pensiero del Senato, allora l'aggiunta dell'inciso ("e successive modificazioni") potrebbe ritenersi, come afferma l'Avvocatura dello Stato, "meramente esplicativa del significato che scaturiva dal testo iniziale". Conseguentemente, svanirebbe ogni dubbio sulla legittimità costituzionale del denunciato art. 39: il coordinamento operato secondo prassi non sarebbe censurabile, e le due Camere avrebbero espresso la medesima volontà sul punto controverso. 9. - La disposizione in esame consente tuttavia di pervenire a conclusioni del tutto opposte. La difesa della SIP sostiene nella sua elaborata memoria: che dalla relazione della commissione della Camera "risulta... senz'altro pacifico e acquisito che l'aumento si riferisce esclusivamente alle tariffe fissate dal t.u. del 1931", cioé "proprio alle misure originarie"; che il "riferimento fisso e non mobile" alle tariffe originarie "implica in via generale... l'abrogazione tacita delle disposizioni in materia introdotte successivamente", sicché "l'abrogazione espressa é stata superflua"; che "la semplice interpretazione dell'art. 39 rivela come esso o dica più di quanto si sia voluto, o viceversa... gli si faccia dire più di quanto effettivamente dice". E nella discussione orale la stessa difesa della SIP ha dedotto che, poiché il decreto ministeriale 26 febbraio 1933, richiamato nell'art. 39 in discorso, si riferisce esclusivamente al soprassuolo, ne deriverebbe la conseguenza - inaccettabile, e perciò stesso confermativa della giustezza della sua interpretazione - che l'aumento di 40 volte si applicherebbe esclusivamente all'occupazione del sottosuolo, mentre rimarrebbe invariata la tariffa per l'occupazione del soprassuolo. Dello stesso avviso sono, soprattutto, i giudici che hanno sollevato la questione in oggetto. Secondo la Corte d'appello di Milano - ma eguale ragionamento, e pressoché con le medesime parole, si rinviene nelle ordinanze del Tribunale di Lucca - si evincerebbe dal "complessivo sistema" cosa "il legislatore intese". Infatti, prosegue la suddetta Corte e riecheggia il suddetto Tribunale, "la dizione approvata dal Senato con esclusivo riferimento alle tariffe originarie non lascia dubbi sulla intenzione del legislatore e di voler cioé fare riferimento proprio a quelle tariffe", aggiungendo che "in tal senso é poi ancora la relazione della IV commissione permanente della Camera dei Deputati che prevedeva un preventivo di maggiori entrate... per 1.250 milioni", anziché per "5.000 milioni preventivabili in base alle tariffe come applicate dal convenuto". 10. - Le argomentazioni che precedono indurrebbero a concludere nel senso che il Senato, approvando l'impugnato art. 39 senza l'inciso, avrebbe inteso riferirsi alla tariffa quale stabilita originariamente dall'art. 198 del t.u.f.l. del 1931. E se questa diversa ricostruzione del pensiero del Senato fosse esatta, dovrebbe allora ritenersi che l'aggiunta, operata dalla commissione in sede di coordinamento, dell'inciso ("e successive modificazioni") abbia alterato la sostanza della disposizione, quale era stata approvata dall'assemblea. Conseguentemente acquisterebbe consistenza il dubbio sulla legittimità costituzionale del denunciato art. 39: il coordinamento avvenuto secondo prassi sarebbe illegittimo e dovrebbe registrarsi la mancanza della comune volontà legislativa sul punto controverso.

74

11. - La disposizione in esame si presta, dunque, ad interpretazioni diverse e contrastanti. La difesa del Comune di Cinisello Balsamo e, come già ricordato, l'Avvocatura dello Stato sostengono che il riferimento sia stato fatto alle tariffe quadruplicate del 1945; per l'una, questo é il solo significato dell'art. 39, "con o senza l'inciso", per l'altra, l'aggiunta dell'inciso é "meramente esplicativa". Al contrario, la difesa della SIP ed i giudici a quibus ritengono che il riferimento sia stato fatto alle tariffe originarie del 1931. Tuttavia, mentre per l'una l'aggiunta dell'inciso "può intendersi soltanto come clausola di stile", in quanto con essa "la commissione di coordinamento prima e la Camera poi plus dixit quam voluit", sicché l'art. 39 "non ha subito alcuna modificazione sostanziale", pertanto "é da ritenere che la questione di costituzionalità... é infondata", per i giudici a quibus, viceversa, il contestato inciso "non costituisce un semplice coordinamento degli articoli approvati.., ma integra una effettiva modifica legislativa", cioé "comporta una diversa statuizione normativa", sicché "l'eccezione di incostituzionalità dell'art. 39... non é manifestamente infondata". Il dissidio fra le due letture dell'art. 39 é evidente e stridente, ma spetta ai giudici delle liti di comporlo. Compito di questa Corte, che non dispone di elementi tali, da indurla a disattendere la prospettazione offerta dalle ordinanze in esame, é quello di stabilire se il coordinamento de quo sia, o meno, costituzionalmente legittimo. E poiché, la legittimità costituzionale di un testo legislativo coordinato, non già secondo il regolamento, bensì secondo la prassi parlamentare, é condizionato alla portata del coordinamento non può non riconoscersi che un siffatto coordinamento viola la Costituzione, e precisamente negli artt. 70 e 72, tutte le volte che provochi, nelle sedi interpretative ed applicative, grave incertezza sul significato del testo coordinato. Con riguardo al caso di specie, deve pertanto dirsi che il contestato inciso é costituzionalmente illegittimo per un duplice e concorrente motivo: non solo e non tanto, infatti, perché é stato inserito nell'art. 39 della legge n. 703 del 1952 mediante il coordinamento instauratosi per prassi che potrebbe così configurarsi addirittura come un emendamento aggiuntivo surrettizio, ma anche e soprattutto perché ha generato l'incertezza di cui si é detto sull'intenzione del legislatore. 12. - Dalla conclusione testé enunciata non deriva, tuttavia, doversi disconoscere che si sia verificata convergenza delle volontà dei due rami del Parlamento. Intanto, già l'antico principio, secondo cui utile per inutile non vitiatur, impone di considerare che il vizio si annida in uno solo dei 60 articoli di cui si compone la legge de qua - anzi, soltanto nel primo dei due commi, di cui si compone il denunciato art. 39 - e che la specificità dell'oggetto disciplinato in tale comma conferisce alla relativa disposizione piena autonomia rispetto all'intero testo, che, infatti, neppure le ordinanze in esame coinvolgono nella denuncia di illegittimità costituzionale. E va rilevato altresì che la censura, benché nei dispositivi delle ordinanze appaia impugnato tutto l'art. 39, investe esclusivamente il primo comma, nel quale appunto risulta illegittimamente inserito il contestato inciso. Ne consegue che, non riverberandosi il vizio sull'intera legge, e neppure sull'intero art. 39, il cui secondo ed ultimo comma non concerne più la misura della tassa, ma le convenzioni stipulate dai Comuni per il pagamento di essa, questa Corte deve pronunciarsi sulla sola disposizione di cui al primo comma dell'art. 39, la sola passibile di una sentenza caducatoria. Ma, pur circoscritta la questione nei suddetti termini, si impone ugualmente di valutare, in relazione al principio della salvezza dei valori giuridici, se la pronuncia caducatoria debba travolgere l'intera disposizione ovvero possa limitarsi a colpire soltanto la parte viziata. Risulterebbe noncurante del suddetto principio e non argomentata la scelta che venisse fatta tra le due alternative in base alla semplicistica constatazione della non piena coincidenza tra le due formulazioni - senza l'inciso e con l'inciso - approvate dalle due Camere, deducendone che, quindi, sarebbe mancata la comune volontà legislativa sulla disposizione impugnata. Al contrario, come a riguardo di qualsiasi atto, si deve tentare in

75

caso di dubbio di interpretarlo nel senso che produca qualche effetto, anziché nel senso che non ne produca alcuno, così a riguardo della disposizione de qua, una volta epurata dell'inciso, si tratta di vedere se in essa non sia individuabile un punto di convergenza tra la volontà della Camera e la volontà del Senato. E piena convergenza si verificò innegabilmente sullo scopo, che era quello di maggiorare la tassa di occupazione del sottosuolo. Supposto pure, poi, che il Senato, approvando la disposizione senza l'inciso, intendesse riferirsi alla tariffa originaria stabilita nel 1931, e che la Camera, invece, approvando la disposizione con l'inciso, intendesse riferirsi alla tariffa modificata nel 1945, può bene affermarsi che tra le due Camere e le due volontà si verificò convergenza sino all'aumento minore, sicché l'area della divergenza si riduce all'aumento maggiore. In applicazione, pertanto, del ricordato principio della conservazione dei valori giuridici, la dichiarazione di illegittimità costituzionale può essere limitata al solo inserto ("e successive modificazioni"), facendo così salva, dopo l'eliminazione della parte viziata, la disposizione di cui all'art. 39, primo comma, legge n. 703 del 1952, la cui operatività compete ai giudici del merito di stabilire.13. - Questa Corte, nel momento in cui, nell'esercizio del suo ruolo di garante della Costituzione, dichiara l'illegittimità costituzionale di una disposizione di legge per vizio procedurale, non può non segnalare l'indifferibilità di un intervento del legislatore nella materia della finanza locale. Questa é ancor oggi governata da una normazione che si caratterizza, oltre che per la vetustà della disciplina di fondo - il t.u.f.l. ha ormai superato il mezzo secolo di vita -, anche per la incessante successione di provvedimenti legislativi, peraltro occasionali e volti per lo più a disporre maggiorazioni dei tributi. Non era ancora cessata la guerra, allorché venne emanato il d.l.l. n. 62 del 1945 cui fecero seguito due provvedimenti nel 1946 (18 febbraio, n. 100 e 27 maggio n. 517), uno nel 1947 (29 marzo, n. 177), uno nel 1948 (26 marzo, n. 261), uno nel 1950 (30 luglio, n. 575), uno nel 1952 (la impugnata legge n. 703). Più di recente, poi, risultano adottati una serie di decreti legge, tra cui: uno nel 1980 (7 maggio, n. 153, convertito nella legge n. 299), due nel 1981 (28 febbraio, n. 38, convertito nella legge n. 153 e 22 dicembre, n. 786, convertito nella legge 26 febbraio 1982, n. 51), uno nel 1983 (28 febbraio, n. 55, convertito nella legge n. 131). Già solo a riguardo degli aumenti man mano disposti possono nascere, come nel caso di specie, dubbi interpretativi, che nei rapporti tra fisco e contribuenti nuocciono alla loro certezza e speditezza, risolvendosi altresì in aggravio per la già gravosa attività dei giudici di qualsiasi livello. E ciò, in conseguenza anche solo del generico richiamo ad imprecisate "successive modificazioni". Il ricorso a cosiffatto rinvio é senza dubbio tanto consolidato e frequente, da sembrare che costituisca ormai un metodo di legiferazione, ma non per questo é incensurabile, quando ne derivi ambiguità. In caso contrario, si legittimerebbe persino la degenerazione della genericità dell'abituale formula in evasività, come potrebbe dirsi accadere proprio nella legge n. 703 del 1952 (art. 7), ove il rinvio risulta fatto addirittura "ad analoghe eventuali successive modificazioni". E basterà aggiungere al riguardo che a problemi di compatibilità con la normazione anteriore potrebbero dar luogo anche i provvedimenti adottati dal 1980 al 1983, i quali - pur se nei rispettivi titoli parlino di "norme per l'attività finanziaria degli enti locali", di "provvedimenti finanziari per gli enti locali", di "disposizioni in materia di finanza locale", di "provvedimenti urgenti per le finanze locali" -, in realtà si limitano per lo più a prescrivere aumenti di tariffe, richiamando peraltro pur sempre indeterminate "successive modificazioni ed integrazioni". Ma vale rilevare altresì che in materia oggi coperta da riserva di legge é riscontrabile anche - così infatti testualmente nell'art. 39, primo comma, legge n. 703 del 1952 - il rinvio a "norme provvisorie aggiunte", che, benché disposte con decreto ministeriale, potrebbero, una volta fatte espressamente proprie da una legge, dar luogo a perplessità sulla loro collocazione nella scala dei valori normativi.

76

Non occorrono altri rilievi o altre esemplificazioni a sostegno dell'asserzione di indifferibilità di un intervento del legislatore nella materia della finanza locale, perché provveda ad una revisione globale e sistematica - la quale tenga conto della novità e complessità delle articolazioni territoriali nel novus ordo repubblicano e delle loro posizioni - o, quanto meno, perché dissolva mediante interpretazioni autentiche quei dubbi che nascono dai disorganici aggiustamenti apportati al testo unico del 1931 nel corso del successivo cinquantennio.

PER QUESTI MOTIVILA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 39, primo comma, della legge 2 luglio 1952, n. 703 ("disposizioni in materia di finanza locale"), limitatamente alle parole " e successive modificazioni".

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 dicembre 1984. LEOPOLDO ELIA, PRESIDENTE GIUSEPPE FERRARI, REDATTORE Depositata in cancelleria il 19 dicembre 1984.

77

SENTENZA N. 154 DEL 1985

REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo ItalianoLA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori:Prof. LEOPOLDO ELIA, Presidente Avv. ORONZO REALE Dott. BRUNETTO BUCCIARELLI DUCCI Avv. ALBERTO MALAGUGINI Prof. LIVIO PALADIN Prof. ANTONIO LA PERGOLA Prof. VIRGILIO ANDRIOLI Prof. GIUSEPPE FERRARI Dott. FRANCESCO SAJA Prof. GIOVANNI CONSO Prof. ETTORE GALLO Prof. GIUSEPPE BORZELLINO Dott. FRANCESCO GRECO, Giudici, ha pronunciato la seguente

SENTENZAnei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 12, n. 1, del Regolamento del Senato della Repubblica, approvato il 17 febbraio 1971, e dell'art. 12, n. 3, del Regolamento della Camera dei Deputati, approvato il 18 febbraio 1971, e comunque della norma attributiva alle Camere della autodichia sulle controversie di impiego dei propri dipendenti, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 31 marzo 1977 dalla Corte di Cassazione sul ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione proposto da Micone Enzo c/l'Amministrazione del Senato della Repubblica, iscritta al n. 408 del registro ordinanze 1977 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 299 del 1977;

2) ordinanza emessa il 10 luglio 1980 dalla Corte di Cassazione nei procedimenti civili riuniti vertenti tra la Camera dei Deputati c/Russi Luciano e Russi Luciano c/la Camera dei Deputati, iscritta al n. 315 del registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 269 del 1981;

3) ordinanza emessa il 10 luglio 1980 dalla Corte di Cassazione nel procedimento civile vertente tra la Camera dei Deputati e Muscariello Franco, iscritta al n. 316 del registro ordinanze 1981 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 269 del 1981.

Visti gli atti di costituzione dell'Amministrazione del Senato della Repubblica, di Micone Enzo, di Russi Luciano, della Camera dei Deputati e di Muscariello Franco nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 15 gennaio 1985 il Giudice relatore Giuseppe Ferrari; uditi gli avvocati Federico Sorrentino per Russi Luciano, Franco Gaetano Scoca per Muscariello Franco e l'Avvocato dello Stato Giorgio Azzariti per l'Amministrazione del Senato della Repubblica, la Camera dei Deputati e il Presidente del Consiglio dei ministri.

78

Ritenuto in fatto

1. - Le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione, adite con ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione da Enzo Micone - che aveva convenuto in giudizio davanti al Tribunale di Roma l'Amministrazione del Senato della Repubblica facendo valere pretese connesse al precorso rapporto di lavoro alle dipendenze della medesima Amministrazione, la quale aveva eccepito il difetto di giurisdizione - hanno sollevato d'ufficio, con ordinanza in data 31 marzo 1977, questione di legittimità costituzionale dell'art. 12 del regolamento del Senato della Repubblica approvato il 17 febbraio 1971, e comunque della norma attributiva al Senato medesimo dell'autodichia nei confronti del personale dipendente, in riferimento agli artt. 24, 113, 101, comma secondo, e 108, comma secondo, della Costituzione. Premesso che la resistente Amministrazione aveva dedotto che, in base al disposto di cui agli artt. 12 del citato regolamento e 13 del decreto del Presidente del Senato 9 novembre 1972, n. 4643, la definizione dei ricorsi proposti dal personale dipendente é devoluta all'Ufficio di Presidenza, correlativamente negando la giurisdizione di qualsiasi (altro) giudice, le Sezioni unite affermano anzitutto che l'esistenza dell'invocata norma, oltre che dalla citata disposizione e da quella parallela e pressoché coeva di cui all'art. 12 del regolamento della Camera dei deputati approvato il 18 febbraio 1971, é desumibile, per costante tradizione interpretativa ribadita dalle Sezioni unite della Cassazione (sentenza n. 1933 del 1963) e condivisa dalla stessa Corte costituzionale (sentenza n. 66 del 1964), dalle corrispondenti disposizioni regolamentari anteriormente vigenti e, comunque, dal sistema delle leggi in tema di tutela giurisdizionale. Ed in quanto limitativa della portata generale di tali disposizioni, siccome escludente la giurisdizione del giudice comune (ordinario e amministrativo), detta norma suscita in ogni caso seri dubbi circa la sua compatibilità con taluni fondamentali precetti della Costituzione in materia di tutela giurisdizionale, sia che si ritenga che essa neghi qualsiasi giudice nell'ordinamento generale, affidando la risoluzione delle controversie del tipo di quella in questione allo stesso organo costituzionale nell'ambito dell'ordinamento particolare di propria competenza, sia che si opini, invece - come sembra preferibile - che essa istituisca nell'ordinamento generale un giudice speciale, con competenza in causa propria. 2. - Sulla scorta di tali premesse, ritenuta evidente la rilevanza della questione di legittimità costituzionale, essendo imprescindibile l'applicazione della norma denunciata in sede di regolamento di giurisdizione, le Sezioni unite danno diffuso conto delle ragioni per le quali ritengono la questione ammissibile, prima che non manifestamente infondata. Si domandano, anzitutto, se i regolamenti parlamentari siano riconducibili o assimilabili agli atti "aventi forza di legge" che, ex art. 134 Cost., possono costituire oggetto del sindacato di legittimità costituzionale. E, sulla scorta dell'opinione in dottrina prevalente, ritengono di dover rispondere affermativamente, essendo ai regolamenti parlamentari riservata dalla Costituzione (artt. 64 e 72) la disciplina di date materie, talché essi "sono assimilabili alle leggi formali, con le quali versano, per la succennata riserva, in rapporto di distribuzione (costituzionale) di competenza normativa a pari livello". Né - si aggiunge in ordinanza - a tale conclusione può utilmente opporsi il dogma dell'insindacabilità degli interna corporis, ripudiato dalla stessa Corte costituzionale con sentenza n. 9 del 1959, la quale anzi implicitamente riconosce, con l'escludere che i regolamenti parlamentari assurgano al livello di parametri di costituzionalità, che del sindacato di legittimità costituzionale possano formare oggetto. Tanto più laddove, come nella specie, essi regolino, in connessione con la disciplina dell'organizzazione interna, i rapporti fra Camere e terzi.

79

Ove poi, come sembra si debba, la norma venisse tratta, in conformità alla richiamata, costante tradizione interpretativa, dal sistema delle disposizioni di legge in tema di tutela giurisdizionale nel senso di una limitazione delle competenze generali del giudice comune e della attribuzione di una giurisdizione speciale all'organo costituzionale, evidentemente il problema neppure si porrebbe. Ed a tal proposito - si aggiunge ancora in ordinanza - é appena il caso di precisare che il richiamo alla costante tradizione interpretativa non equivale ad affermare che la norma trovi la propria fonte in una consuetudine costituzionale, che riguarda la ripartizione e il modo di esercizio di attribuzioni costituzionali e non già di mere "prerogative" o "guarentigie", secondo quanto ritenuto dalla Corte costituzionale con la menzionata sentenza n. 66 del 1964. Inoltre, perlomeno per quanto riguarda il comportamento degli organi giurisdizionali, difetterebbe comunque il requisito dell'adeguamento all'esercizio dell'attribuzione dell'organo costituzionale da parte di altro organo costituzionale. 3. - Quanto al giudizio sulla non manifesta infondatezza, il giudice a quo ritiene preliminarmente insostenibile la tesi, talora avanzata in relazione al tenore degli artt. 26 e 29 del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, che l'autodichia sarebbe una conseguenza non già di una norma, positivamente esistente o desumibile dall'ordinamento, limitativa delle norme sulla tutela giurisdizionale, bensì di una lacuna, nel campo specifico, della normativa che quella tutela avrebbe dovuto in concreto garantire. E ciò in quanto, a parte la considerazione che in tema di diritti soggettivi deve riconoscersi la massima potenzialità applicativa ad ogni norma comunque attuativa della tutela giurisdizionale alla luce dei principi posti dagli artt. 24 e 113 Cost., la stessa Corte costituzionale, nel fare riferimento a prerogative degli organi costituzionali e, quindi, a positive garanzie di indipendenza dei medesimi nei confronti del potere giurisdizionale, ha evidentemente ritenuto che di positiva esclusione di tutela dovesse trattarsi. Tanto affermato, delle due possibili tesi sul contenuto specifico della norma denunciata (esclusione di un giudice nell'ordinamento generale ovvero istituzione di un giudice speciale costituito dalla stessa Camera o da una sua articolazione), le Sezioni unite privilegiano la seconda, la quale "sembra suscettiva di offendere (soltanto) le garanzie di serietà ed effettività di tutela che, in relazione agli artt. 24 e 113 Cost., sono sancite dagli artt. 101, comma secondo, e 108, comma secondo, Cost. sotto il profilo della indipendenza-terzietà o indipendenza-imparzialità del giudice, e di nuovo e più direttamente, dall'art. 24 Cost. sotto il profilo della difesa e del contraddittorio"; laddove la prima (che nega qualsiasi giudice nell'ordinamento generale per le controversie in argomento) lederebbe anche più gravemente gli artt. 24 e 113 Cost (l'art. 24, comma primo, anche in relazione all'art. 3 Cost.) che assicurano a tutti la tutela giurisdizionale dei propri diritti ed interessi legittimi, i quali ultimi, nel principio che risulta da entrambi i precetti costituzionali, devono intendersi con riferimento agli atti di esercizio di qualsiasi pubblico potere. Dopo aver prospettato, sulla base della tesi privilegiata, il contrasto della norma anche con l'art. 102, comma secondo, Cost. per il tempo successivo all'entrata in vigore della Costituzione (ma la censura non viene poi proposta nella parte dispositiva dell'ordinanza) il giudice a quo nega che elementi idonei ad attenuare il sospetto delle prospettate censure di costituzionalità possano rinvenirsi nelle modalità con le quali l'autodichia viene in concreto esercitata, all'uopo richiamando il contenuto dell'art. 12 del regolamento del Senato e delle disposizioni contenute nel regolamento interno del personale approvato il 31 marzo 1948 e successive modificazioni. Ed afferma che l'indagine relativa può essere comunque condotta in relazione ad entrambi gli orientamenti sopra richiamati, tanto più se si consideri che "l'area degli artt. 101 e 108 rientra in quella degli artt. 24 e 113 Cost." e che "l'indipendenza-terzietà o indipendenza-imparzialità é stata talvolta ritenuta requisito

80

talmente essenziale da incidere sull'esistenza stessa del giudice (Corte cost., sentenza n. 110 del 1967)". Indagine che sarebbe semplicistico ricondurre alle ovvie considerazioni: a) che l'esclusione delle garanzie che rendono seria ed effettiva la tutela giurisdizionale in ragione della qualità del soggetto contro il quale certe pretese vengono fatte valere per atti al medesimo imputabili é esattamente quanto gli artt. 24 e 113 mirano ad evitare; b) che non ricorre il requisito della soggezione soltanto alla legge in capo al giudice che decide in causa propria; c) che il Senato decide appunto in causa propria quando giudica su controversie promosse dai propri dipendenti, cioé su controversie concernenti atti o rapporti propri. Né sembra che al Senato si attaglino le considerazioni svolte dalle stesse Sezioni unite con sentenza n. 2979 del 1975, allorché si affermò che il personale della Presidenza della Repubblica dipende esclusivamente dal Segretario generale; pur riconoscendosi, invero, che anche il Segretario generale del Senato riveste la posizione di capo del personale, va tuttavia considerato che, a norma dell'art. 19 del citato regolamento interno, al Senato le nomine vengono fatte con decreto del Presidente previa deliberazione del Consiglio di presidenza, altresì competente per le promozioni degli impiegati di un certo livello, mentre le altre vengono deliberate dal Consiglio direttivo dell'Amministrazione, presieduto dal Presidente del Senato o, per sua delega, da un Vice presidente. Il punto essenziale - continua l'ordinanza - sta invece nell'accertare se la norma stessa non costituisca l'espressione o l'implicazione necessaria di un principio racchiuso nella Costituzione; nel qual caso ogni sospetto di illegittimità costituzionale verrebbe evidentemente fugato. Prendendo le mosse dalla considerazione che comunemente la giustificazione dell'autodichia viene ravvisata nelle esigenze di indipendenza degli organi costituzionali, nella preminenza del Parlamento e nel principio della divisione dei poteri, si osserva che, a ben vedere, il problema si risolve in definitiva nello stabilire "se e in qual senso e misura il detto principio possa ritenersi accolto nella nostra Costituzione e se, come eventualmente accolto, esso ricomprenda o implichi necessariamente la norma della cui dubbia legittimità si tratta". Alla conclusione dubitativa sul primo punto e senz'altro negativa sul secondo le Sezioni unite pervengono in esito ad un'analisi storica dell'atteggiarsi del principio della divisione dei poteri dall'epoca post-assolutistica, al secolo scorso, ai tempi più recenti, nei quali la distinzione tra la serie di atti di esercizio del potere da parte di ciascun organo ha assunto rilevanza anche sotto l'aspetto formale, "collegandone strettamente forma procedimentale e trattamento giuridico ad ulteriore garanzia ed in correlazione con la sempre maggiormente avvertita esigenza di tutela giurisdizionale del cittadino". Da tali notazioni - osservano le Sezioni unite - é agevole dedurre che già quando si addiviene ad una concezione del principio come distribuzione di competenze, costituirebbe una forzatura postulare l'indipendenza di ciascun organo anche per gli atti non rientranti concettualmente e sostanzialmente nella sua funzione primaria. Mentre addirittura in stridente contrasto con la finale evoluzione del principio della divisione dei poteri sarebbe ritenere "che debbano fruire del regime proprio della funzione primaria" (di ciascun organo) "gli atti che di questa non hanno neppure la forma procedimentale". La rigorosa applicazione del principio, invero, condurrebbe a conseguenze cui non si pervenne neppure in epoca anteriore all'entrata in vigore della Costituzione, non essendo mai stato esso inteso ed applicato nel senso dell'impenetrabilità o indifferenza assoluta tra i vari organi e le rispettive funzioni primarie, stante la consapevolezza che "l'esigenza di assicurare la reciproca indipendenza é inscindibile da quella di consentire l'equilibrio e il contemperamento sia fra gli uni che fra le altre". Nell'attuale ordinamento costituzionale, poi, dove la prevalenza di tale ultima esigenza é resa palese oltre che dal concorso, in termini di cooperazione, di più organi costituzionali alla funzione di indirizzo politico, anche dal controllo, sia pure a livello costituzionale, sulle funzioni primarie di ciascun organo, non

81

v'é ragione di ritenere giustificabile l'esclusione del sindacato giurisdizionale sull'esercizio delle funzioni accessorie. Tanto più se si consideri che la tutela giurisdizionale ha assunto il rango di un principio cardine non derogabile se non per ragioni puntualmente giustificate (Corte cost., sent. n. 44 del 1968), al punto che caratteri di garanzia giurisdizionale non possono disconoscersi allo stesso sindacato sulla legittimità costituzionale delle leggi, pur tenendo conto del livello costituzionale al quale esso opera. La conclusione che le Sezioni unite ne traggono é che, quale che sia il senso e la misura in cui il principio della divisione dei poteri (ovvero quello dell'indipendenza degli organi costituzionali) può ritenersi accolto nell'attuale assetto costituzionale, in ogni caso "esso non sembra ricomprendere o implicare necessariamente l'esclusione del sindacato giurisdizionale sugli atti delle Camere non riconducibili neppure formalmente alla loro funzione primaria". Meno ancora si giustifica l'autodichia sulle controversie concernenti i rapporti di impiego dei propri dipendenti, non sembrando affatto sostenibile che gli atti dell'organo costituzionale inerenti a tali rapporti siano riconducibili all'esercizio di un potere di autorganizzazione incidente, in definitiva, sul modo intrinseco di essere dell'organo medesimo, come invece accade quando l'organo dispone in ordine alla propria struttura o ai propri uffici. Né certamente possono trarsi argomenti in contrario dal giudizio spettante a ciascuna Camera sui titoli di ammissione e sulle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità dei propri componenti, e sul giudizio disciplinare nei confronti dei componenti medesimi. Oltre all'evidente diversità di posizione dei componenti rispetto ai dipendenti deve infatti osservarsi che, nel primo caso, l'autodichia é espressamente riconosciuta dall'art. 66 Cost. e che, nel secondo, il giudizio disciplinare - secondo quanto già affermato dalle Sez. un. con sentenza n. 255 del 1976 - riveste caratteri particolarissimi, costituendo momento di emersione della norma deontologica la cui osservanza é garantita dagli stessi appartenenti all'ordine o all'istituzione, mentre per il giudicabile rappresenta addirittura una garanzia l'essere sottoposto al giudizio dei propri pari. L'autodichia ha dunque, in tali casi, una sua autonoma giustificazione, che non può essere estesa a situazioni diverse. Maggior pregio - continua l'ordinanza - non potrebbe riconoscersi neppure all'ulteriore argomento che al nostro diritto positivo non sono estranei altri casi di autodichia in capo ad organi, ai quali la Costituzione riconosce una particolare posizione di indipendenza, attese le affermazioni contenute nella citata sentenza n. 44 del 1968 circa la necessità che, in ogni singolo caso, ricorrano puntuali giustificazioni (quali, ad es. - si ipotizza in ordinanza - "la competenza giurisdizionale generale dell'organo per date materie o funzioni", ovvero "il concorso nell'organo di una particolare posizione costituzionale e di prevalenti funzioni giurisdizionali"). Da tutto quanto esposto - conclude l'ordinanza - sembra doversi ritenere che l'autodichia in questione non costituisce un attributo compreso nella posizione propria dell'organo costituzionale o a tale posizione immediatamente connessa, "ma solo un privilegio soggettivo, il cui riconoscimento, a meno che sia ancorato a ragioni di prestigio non rilevanti nell'attuale ambiente storico culturale", risponde nella migliore delle ipotesi all'esigenza di rafforzare indirettamente l'indipendenza dell'organo costituzionale nell'esercizio della sua funzione primaria liberandolo dai condizionamenti esterni che fossero in ipotesi ravvisabili nella possibilità del sindacato sui propri atti, anche se non inerenti alla detta funzione primaria. Ma solo alla Corte costituzionale spetterà di stabilire, ove dovesse ravvisare "nell'autodichia uno strumento di attuazione del valore costituzionale dell'indipendenza dell'organo", "se tale strumento sia illegittimo in quanto leda un altro valore costituzionale da ritenere in ogni caso preminente - quello della tutela giurisdizionale - ovvero in quanto, non essendo strettamente indispensabile alla tutela di

82

uno dei due valori, induca, per eccesso a favore di questo, una rottura dell'equilibrio delle rispettive tutele". 4. - Analoga questione di legittimità costituzionale le stesse Sezioni unite civili della Corte di Cassazione hanno sollevato riguardo alla corrispondente disposizione del regolamento della Camera dei deputati. Adite in sede di regolamento preventivo di giurisdizione con ricorsi proposti nel corso di due procedimenti - rispettivamente promossi da Luciano Russi innanzi al Pretore di Roma e da Franco Muscariello innanzi al T.A.R. del Lazio - aventi ad oggetto l'impugnazione dei provvedimenti con i quali era stato posto fine al rapporto d'impiego intrattenuto con la Camera da due dipedenti, le Sezioni unite, con due identiche ordinanze emesse il 10 luglio 1980, hanno denunciato, in riferimento ai medesimi parametri costituzionali, oltre che all'art. 108, comma primo, Cost., l'art. 12, n. 3, del regolamento della Camera dei deputati e comunque della norma attributiva alla stessa dell'autodichia sulle controversie di impiego dei propri dipendenti. Premesso che i ricorrenti avevano in entrambi gli originari procedimenti sostenuto che il nostro sistema senz'altro ammette la tutela giurisidizionale innanzi al giudice comune dei dipendenti della Camera dei deputati, adombrando il contrasto con la Costituzione di ogni diversa interpretazione e addirittura sollevando questione di legittimità costituzionale della eventuale norma che l'autodichia attribuisse, le Sezioni unite richiamano la precedente ordinanza espressamente affermando che intendono riprenderne e ribadirne il contenuto "salvo a tener conto, in quanto necessario, degli apporti successivi della dottrina e ad estendere, nel senso che sarà appresso indicato, la questione di incostituzionalità". Gli argomenti ulteriori o diversi addotti con le due ordinanze del 1980 possono così sintetizzarsi. In ordine all'esistenza della norma attributiva dell'autodichia e dell'impossibilità di accedere ad un'interpretazione del sistema nel senso di ritenere la tutela giurisdizionale davanti ai giudici comuni senz'altro operante nei confronti dei dipendenti delle Camere, in ordinanza si osserva che, a parte l'inequivoco tenore dell'art. 12, n. 3, del regolamento della Camera approvato il 18 febbraio 1971 ("L'ufficio di presidenza... decide in via definitiva... etc."), é evidentemente improbabile l'interpretazione prospettata da una parte della dottrina, che ha ritenuto di poter attribuire all'espressione il senso del riferimento ad una decisione amministrativa sottoposta a ricorso giurisdizionale (attesa anche la quasi coeva soppressione, ad opera della legge n. 1034 del 1971, della definitività dell'atto amministrativo come requisito per la sperimentabilità del rimedio giurisdizionale); ovvero quello dell'esplicito "abbandono" del principio dell'autodichia mediante l'adozione di un'espressione diversa da quella contenuta nell'art. 148 del regolamento precedentemente in vigore (all'Ufficio di Presidenza "esclusivamente appartiene il giudizio sugli eventuali ricorsi"), data anche l'assoluta carenza di riscontri in tal senso nei regolamenti interni della Camera. In ordine all'ammissibilità il giudice a quo preliminarmente osserva che la soluzione del problema della sindacabilità da parte della Corte costituzionale dei regolamenti parlamentari - problema che ha formato oggetto di dibattito in dottrina dopo la prima ordinanza - sebbene assolutamente pregiudiziale, non é tuttavia decisivo, giacché la norma attributiva alle Camere dell'autodichia in materia di controversie dei propri dipendenti "é desumibile (anche) dal sistema delle disposizioni in tema di tutela giurisdizionale", anch'essa denunciata. In ogni caso - continua l'ordinanza - benché spetti ovviamente alla Corte costituzionale la decisione sull'ambito oggettivo del proprio sindacato, sembra che la risposta debba essere affermativa. Invero, alla tesi secondo la quale, ai fini di cui all'art. 134 Cost., la forza di legge andrebbe riconosciuta non già a tutti gli atti assistiti dal requisito della primarietà, ma soltanto a quelli "ammessi ad operare nello stesso spazio in cui é ammessa ad operare la legge e con la medesima efficacia" (id est, oltre ai decreti legge e ai decreti legislativi di cui agli artt. 78 e

83

79 Cost., a quelli previsti dalle regioni ad autonomia speciale per l'emanazione delle relative norme di attuazione, ai quali la Costituzione avrebbe inteso dare un giudice che prima non avevano) con esclusione degli atti soggetti al sindacato del giudice comune (quali i referendum ed i contratti collettivi di cui all'art. 39 Cost.) e di quelli non soggetti ad alcun sindacato giurisdizionale (salvo quello indiretto sui singoli atti applicativi) in quanto espressione di autonomia costituzionale, quali sarebbero appunto i regolamenti parlamentari, può contrapporsi la tesi che fa capo ad una diversa nozione di "forza di legge". Quella, cioé, secondo la quale, ormai, la forza formale della legge non risiede nella sua efficacia sostanziale (innovatività e resistenza all'abrogazione), non più omogenea neppure nell'ambito della stessa legge in relazione all'esistenza di "leggi atipiche" e di "leggi rinforzate", bensì nella "primarietà "; pertanto può parlarsi di "atti aventi forza di legge" per tutti gli atti normativi operanti a livello primario - inclusi dunque i regolamenti parlamentari - "intendendosi l'alternatività rispetto alla legge non già nel senso della loro attitudine a sostituire la legge formale nell'ambito di questa, bensì a sostituire (o meglio a giustapporre) un ambito proprio a quello residuale della legge formale". Quale che sia il giudizio su tale teoria, non può comunque disconoscersi la qualificante e soverchiante incidenza che nell'ordinamento costituzionale delle fonti normative, caratterizzato da una pluralità di fonti pariordinate, spiega il criterio della competenza, ad assicurare il rispetto del quale, inteso come criterio ordinatore della produzione normativa primaria é (anche) preordinato il sindacato sulla legittimità costituzionale. E ciò sembra sufficiente per ritenere soggetto a tale sindacato il regolamento parlamentare, che ha un ambito normativo primario e riservato ex artt. 64 e 72 Cost., tanto più che é perfettamente configurabile sia una riserva a favore del regolamento sia una riserva a favore della legge, la violazione delle quali ad opera di ciascuna delle altre fonti indubbiamente comporta la (sindacabile) violazione di precetti costituzionali e, di riflesso, della complessiva regolamentazione costituzionale nella quale il precetto si inquadra. Né può validamente opporsi che il regolamento é espressione di autonomia costituzionale, giacché ciò non toglie che si tratta di autonomia normativa che opera come fonte di produzione primaria costituzionalmente garantita, onde l'argomento varrebbe solo a riconoscere la sindacabilità delle violazioni di tale garanzia, non già per escludere quella che col regolamento si perpetri in danno di altre garanzie poste dalla Costituzione a favore di diverse fonti di produzione normativa primaria come, nella specie, la legge. Neppure potrebbe sostenersi - concludono sul punto le Sezioni unite - che l'assenza di sindacabilità costituzionale sarebbe, per il regolamento parlamentare, bilanciata dall'assoggettamento dello stesso al sindacato indiretto e incidentale (vale a dire sugli atti di osservanza) da parte del giudice ordinario. Invero, a prescindere dalle riserve sull'efficienza di siffatto sindacato, comunque limitato all'accertamento dei requisiti di esistenza, "non si vede perché (se non per le asserite ragioni riferibili all'intento dei conditores e come tali non decisive) si dovrebbe ritenere sottratto al sindacato dell'interprete più qualificato e sensibile dell'ordine costituzionale l'atto normativo primario in argomento e d'altra parte assoggettata a sindacato diretto, con effetto definitivamente caducatorio, soltanto la legge ed i procedimenti strettamente alternativi ad essa". In ordine alla non manifesta infondatezza, ribadite le conclusioni cui erano precedentemente pervenute, le Sezioni unite civili della Corte di Cassazione si preoccupano di esporre e contrastare le obiezioni a quelle conclusioni "autorevolmente opposte" dalla dottrina. Da ultimo, si domandano se la denuncia di incostituzionalità debba operarsi anche in riferimento agli artt. 3, 24, 25, comma primo, 64 e 108, comma primo, della Costituzione. E rispondono affermativamente solo in ordine all'ultimo parametro, osservando che l'invasione da parte del regolamento di un campo oggetto di specifica riserva a favore della legge posta da quel precetto costituzionale, integra una violazione diretta oltre che

84

del disposto dell'art. 108, comma primo, Cost. anche, pur se solo di riflesso, della regolamentazione complessiva del riparto della competenza normativa. 5. - Ad eccezione di Enzo Micone, che ha tardivamente depositato il proprio atto di costituzione, in ogni giudizio si sono costituite entrambe le parti ed é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri tramite l'Avvocatura generale dello Stato. In particolare, nel giudizio promosso con la prima delle tre ordinanze, l'Avvocatura dello Stato esclude anzitutto che i regolamenti parlamentari possano costituire oggetto di sindacato di legittimità costituzionale da parte della Corte, negandone il carattere di atti aventi forza di legge. Fatto cenno all'argomento letterale consistente nel rilievo che la formulazione dell'art. 134 Cost. ("leggi ed atti aventi forza di legge dello Stato") é simile a quella degli artt. 75 e 87 Cost., ed é tuttavia certo che i regolamenti parlamentari non sono soggetti ad abrogazione per referendum ne sono promulgati dal Presidente della Repubblica, nonché a quello - pur riconosciuto formalistico - che non possono ricomprendersi tra gli "atti aventi forza di legge dello Stato" perché sono atti di un organo e non dello Stato, l'Avvocatura sostiene che una riprova dell'assenza nei regolamenti parlamentari della forza di legge - intesa come attitudine ad abrogare una legge e come resistenza all'abrogazione se non ad opera di una altra legge - può storicamente trarsi dalle vicende dell'art. 18 del reg. generale della Corte costituzionale, la cui natura giuridica é sicuramente analoga a quella dei regolamenti parlamentari. La norma - si osserva - prevedeva l'istituto della prorogatio per i Giudici costituzionali quando fu emanata la legge costituzionale 22 novembre 1967, n. 2, che all'art. 1 dettò una norma incompatibile, la quale dispose che alla scadenza del termine il Giudice costituzionale cessa dalla carica e dall'esercizio delle funzioni. E dalla circostanza che la Corte costituzionale, con deliberazione del 7 luglio 1969, espressamente dispose la soppressione di detto art. 18 del reg. generale, si trae la conclusione che non si ritenne che dalla sopravvenuta norma costituzionale potesse conseguire effetto abrogativo della norma regolamentare (in virtù della sua natura). Si nega, poi, che dalla sentenza n. 9 del 1959 della Corte costituzionale possano trarsi le univoche conclusioni cui erano pervenute le Sezioni unite, osservandosi come, invece, dall'affermazione contenuta in quella sentenza che sull'interpretazione della norma regolamentare "é da ritenersi decisivo l'apprezzamento della Camera" era stato da taluno tratto il convincimento che la Corte si sarebbe implicitamente pronunziata nel senso dell'insindacabilità dei regolamenti parlamentari. Vero é - continua l'Avvocatura - che la Corte costituzionale non si é mai espressamente pronunciata sul punto, essendo stata, in altra occasione nella quale era stata impugnata una norma di regolamento parlamentare, la questione dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza (sentenza n. 148 del 1975). Tuttavia, da altre pronunce possono trarsi argomenti per escludere la sindacabilità dei regolamenti: così dalla sentenza n. 66 del 1964, che affermò la competenza degli organi giurisdizionali dello Stato in materia di impiego dei dipendenti dell'Assemblea regionale siciliana per la ragione che ad essa non può attribuirsi la stessa posizione costituzionale delle Camere, osservando altresì che al potere regolamentare conferito all'Assemblea medesima dall'art. 4 dello Statuto siciliano non può assegnarsi la stessa sfera di effetti attribuita al potere regolamentare delle Camere ex art. 64 Cost.; dalla sentenza n. 14 del 1965, che esclude che un regolamento di Consiglio regionale avesse forza di legge; dalla sentenza n. 91 del 1968, con la quale si precisò che "condizione dell'azione diretta a promuovere il giudizio costituzionale é che oggetto della denuncia sia una legge ovvero un decreto legislativo o un decreto legge"; dalle sentenze n. 183 del 1973 e n. 232 del 1975, con le quali la Corte, negando la sindacabilità dei regolamenti comunitari, osservò che "l'art. 134 Cost. riguarda soltanto il controllo di costituzionalità nei confronti delle leggi e degli atti aventi forza di legge dello Stato e delle Regioni" e che "tali non sono i regolamenti comunitari". Da tale analisi risulterebbe la insufficienza del solo elemento oggettivo e sostanziale per ritenere

85

ammissibile il sindacato di costituzionalità: non basta - si afferma - che l'atto sia assimilabile come fonte di diritto oggettivo, alla legge formale; deve sussistere anche il requisito soggettivo e formale, deve cioé trattarsi di un atto dello Stato o della Regione, e tale non é l'atto della Comunità o di un singolo ramo del Parlamento. In ogni caso - continua l'Avvocatura - se in ipotesi ammissibile, la questione sarebbe infondata, essendo l'autodichia giustificabile in funzione dell'esigenza di assicurare la autonomia e l'indipendenza degli organi (Senato, Camera, Corte costituzionale, Corte dei Conti e Consiglio di Stato) e degli ordini professionali (ai cui consigli nazionali ed alle cui decisioni sarebbe ormai pacificamente riconosciuta natura giurisdizionale) cui é attribuita. Autonomia ed indipendenza "che, per quanto riguarda Corte dei Conti e Consiglio di Stato, sono costituzionalmente garantite dall'art. 100 Cost." e che, per "il Parlamento e la Corte costituzionale, assumono il carattere della sovranità, della quale é peculiare manifestazione il potere regolamentare attribuito alle Camere dall'art. 64 Cost. ed alla Corte dagli artt. 137 Cost. e 14, legge n. 87 del 1953". Del resto, la stessa ragione giustificatrice sarebbe stata indicata dalla Corte con la citata sentenza n. 66 del 1964 e con la successiva sentenza n. 110 del 1970, con la quale si precisò che le attribuzioni di autonomia delle Camere si svolgono a livello di sovranità. L'Avvocatura contesta, inoltre, che la preoccupazione di evitare che una sentenza sfavorevole possa nuocere al prestigio dell'organo sia irrilevante, in proposito osservando che con sentenza n. 15 del 1969 la Corte costituzionale affermò che la propria posizione di assoluta indipendenza deve essere assicurata "anche nelle forme esteriori". Nega, infine, che gli atti che riguardano le situazioni dei dipendenti - al contrario di quelli incidenti sulla posizione dei componenti - siano estranei al potere di organizzazione, il quale si estende invece a tutto quanto attiene alla preparazione dell'attività ed all'esercizio delle funzioni dell'organo e, quindi, anche alla scelta ed alla predisposizione degli strumenti necessari. D'altro canto basta pensare ai poteri cautelari e di annullamento del giudice amministrativo e a quelli cautelari e di reintegrazione del giudice ordinario (artt. 700 c.p.c. e 28 dello Statuto dei lavoratori) per comprendere come le pronunce di un giudice esterno potrebbero, se non paralizzare, turbare profondamente la funzionalità dell'organo parlamentare. 6. - Negli atti di costituzione e di intervento depositati negli altri due giudizi, l'Avvocatura ribadisce le proprie conclusioni in ordine all'inammissibilità e, in subordine, alla infondatezza delle sollevate questioni, sviluppando le argomentazioni già svolte e adducendone di nuove. Premesso che la sovranità costituisce attributo che le Camere ripetono dalla Costituzione e che la riserva costituzionale in favore della fonte regolamentare mira ad escludere i controlli cui soggiace la legge (tra i quali quelli del Presidente della Repubblica e del referendum abrogativo) in funzione dell'assoluta indipendenza dell'organo parlamentare nel momento della strutturazione del proprio ordinamento, l'Avvocatura osserva che, evidentemente, il limite all'estensione di poteri diversi va rinvenuto in regole o principi di rango costituzionale (una volta che si escluda che esso direttamente discenda dalla norma regolamentare). Ma, in tale ottica, la norma attributiva dell'autodichia che il giudice a quo - al di là dell'esplicita previsione della disposizione del regolamento - indica come evincibile dal sistema delle norme in materia di tutela giurisdizionale, in quanto di livello costituzionale, renderebbe ogni questione superata in radice. Inoltre - continua l'Avvocatura - la Corte costituzionale, dopo aver fatto riferimento all'"assoluta indipendenza" dell'organo parlamentare (sentenza n. 143 del 1968), ha in particolare precisato che detta autonomia se si esprime anzitutto sul piano normativo non si esaurisce tuttavia nella normazione, ma "comprende il momento applicativo delle norme stesse, incluse le scelte riguardanti la concreta attuazione delle misure atte ad assicurarne l'osservanza" (sentenza n. 129 del 1981). Insomma, "situazioni e rapporti che nell'ambito del sistema proprio dell'organo costituzionale trovano configurazione, presupposti di

86

esistenza e rilievo (non riferibili all'ordine legislativo operante, per analoghe materie, in altro ambito), nello stesso sistema debbono trovare il loro modo e momento di definizione, ché, altrimenti, l'autonomia dell'organo ne risulterebbe dimezzata". D'altro canto, così come la Camera gestisce il proprio bilancio in piena indipendenza da altri organi statali (sentenza n. 129 del 1981) ed in modo autonomo fissa la struttura e l'organizzazione dei propri uffici (in tal modo sottraendosi all'ambito precettivo dell'art. 97 Cost., che pone una riserva di legge), in modo altrettanto autonomo regola, in tutti gli aspetti sostanziali e procedimentali, il rapporto d'impiego con i dipendenti, senza che ciò costituisca invasione del diverso e separato campo riservato alla legge dall'art. 108 Cost. (che ha riguardo al sistema magistratuale dell'ordinamento generale e non all'esplicazione dell'autonomia dell'organo costituzionale). Né viene in discussione l'art. 113 Cost., che riguarda solo gli atti della pubblica amministrazione, e rispetto al quale comunque possono svolgersi le stesse considerazioni che si attagliano all'art. 97 Cost., che pone una riserva di legge concernente specificamente gli uffici della "pubblica amministrazione (cfr. sez. II del titolo III, Cost)". Si nega, altresì, ogni violazione dell'art. 24 Cost., affermandosi, da un canto, che nell'ambito dell'ordinamento interno delle Camere i dipendenti possono esperire un'istanza di giustizia libera da condizionamenti di sorta e, dall'altro, che la Corte costituzionale, con la menzionata sentenza n. 110 del 1970, ha ammesso deroghe alla giurisdizione "nei confronti di organi immediatamente partecipi del potere sovrano dello Stato e perciò situati ai vertici dell'ordinamento in posizione di assoluta indipendenza e di reciproca parità ". Si osserva, in particolare, che l'Ufficio di Presidenza della Camera dei deputati, cui viene devoluta la definizione delle controversie in questione, é organo di vertice di creazione non regolamentare ma costituzionale (art. 63 Cost.), estraneo a funzioni di amministrazione del personale dipendente e composto da deputati al parlamento, la cui posizione istituzionale esclude la configurabilità di un interesse diretto, giuridicamente rilevante, da parte dei medesimi. In conclusione, l'autodichia costituirebbe uno strumento di attuazione dell'indipendenza di un organo superiorem non recognoscens, le cui attribuzioni si svolgono a livello di sovranità, e troverebbe la sua puntuale giustificazione nell'esigenza sostanziale di salvaguardare l'autonomia delle Camere anche nel momento dell'organizzazione e della gestione dell'apparato necessario allo svolgimento della loro funzione primaria. 7. - A conclusioni opposte perviene, nelle deduzioni di costituzione, la difesa di Luciano Russi, che pone preliminarmente in rilievo come entrambe le concezioni che si sono contrapposte alla prevalente opinione affermativa circa la sindacabilità dei regolamenti parlamentari da parte della Corte costituzionale appaiono insoddisfacenti: la prima - secondo la quale i regolamenti parlamentari, pur essendo fonti di carattere primario, non avrebbero tuttavia forza di legge e sarebbero espressione della particolare posizione che il nostro ordinamento riconosce alle Assemblee Parlamentari - in quanto finisce con l'escludere il sindacato della Corte su una eccessivamente ampia categoria di atti normativi primari sol perché operano in un campo di competenza riservata; la seconda - che ritiene il regolamento parlamentare atto fonte bensì differenziato dal punto di vista formale, ma sostanzialmente subordinato alla legge e privo della forza formale di legge - poiché, dopo talune esatte premesse, del tutto immotivatamente esclude che i regolamenti si pongano in posizione primaria allorché sia esplicitamente prevista una riserva di competenza a loro favore. Invero, se si afferma che esiste un'area nella quale é stabilita una competenza normativa riservata del regolamento, non può poi disconoscersene, per lo meno in tale ambito, il carattere primario e, quindi, la sindacabilità da parte della Corte costituzionale. Se dal sindacato della Corte dovessero escludersi gli atti normativi a competenza costituzionalmente riservata dovrebbe infatti ridiscutersi tutta la giurisprudenza - ormai pacificamente accettata - che lo riconosce in ordine ai decreti di

87

attuazione degli Statuti speciali, ai decreti di amnistia e di indulto, alle norme di esecuzione dei Patti lateranensi, agli statuti regionali ordinari, alle leggi "rinforzate" di cui agli artt. 132 e 133 Cost.. La verità, continua la difesa del Russi, é che la giustapposizione tra primarietà e forza di legge va ricollegata al problema specifico per la cui risoluzione era stata avanzata: quello dei regolamenti delegati, dei quali si afferma la primarietà, ma non la forza di legge. Ma si tratta di problema affatto diverso, giacché la primarietà di tali regolamenti sussiste fin quando nelle materie da essi disciplinate non intervenga la legge, laddove la primarietà dei regolamenti parlamentari vale specificamente nei confronti della legge e trova nella Costituzione la propria fonte legittimante: in particolare, oltre che nell'art. 72, nell'art. 64 Cost.. Tutto ciò dovrebbe essere sufficiente - ad avviso della difesa del Russi - a respingere la tesi che vede nel regolamento parlamentare una fonte subordinata alla legge, anche se la negazione della riserva di competenza a favore del regolamento parlamentare (per quanto concerne l'area di cui all'art. 64 Cost., essendo l'art. 72 Cost. esplicito in proposito) potrebbe non essere sufficiente per affermarne la natura secondaria. L'art. 64 Cost. potrebbe essere infatti interpretato "come norma attributiva di una competenza primaria alle singole Camere, non riservata, ma concorrente con la legge per ciò che attiene alla loro organizzazione interna, laddove il successivo art. 72 riserverebbe al regolamento parlamentare la disciplina di determinate materie anche nei confronti della legge ordinaria". Anche per tale via, dunque, si giungerebbe a qualificare i regolamenti parlamentari come dotati di forza di legge ed a ritenerli conseguentemente soggetti al sindacato di costituzionalità della Corte, anche in funzione dell'esigenza propria del nostro sistema costituzionale di non sottrarre al controllo giurisdizionale neppure le supreme manifestazioni del potere statuale. Nel merito, si prospetta un triplice ordine di argomentazioni a sostegno della possibilità che l'art. 12 del regolamento Camera venga interpretato dalla Corte - che potrebbe conseguentemente adottare una pronuncia interpretativa di rigetto - secundum constitutionem nel senso che esso prevede un rimedio amministrativo interno, di per sé non esclusivo degli ordinari rimedi giurisdizionali. Lo consentirebbero: a) il dato letterale della disposizione che, rimettendo all'Ufficio di Presidenza la decisione in via definitiva dei ricorsi dei dipendenti, adotta un'espressione che non può non essere posta in relazione col fatto che, sino al dicembre del 1971, la definitività costituiva presupposto necessario per l'impugnativa innanzi all'Autorità giurisdizionale dei provvedimenti dell'Amministrazione; b) gli stessi lavori preparatori della legge n. 1034 del 1971, dai quali non emerge con chiarezza la volontà di sopprimere la regola della definitività, tanto che parte della dottrina sostenne che la soppressione riguardava soltanto gli atti specificamente indicati dall'art. 20; c) la non esistenza - a parte la tradizione cui si riferisce l'ordinanza di rinvio - di elementi testuali da cui dedurre l'esclusione della tutela giurisdizionale ordinaria per i dipendenti degli organi parlamentari. Sulla scorta di tali considerazioni la difesa del Russi conclude, in via principale, per la declaratoria di infondatezza della questione in quanto il ricorso previsto dall'art. 12 reg. Camera va configurato come rimedio amministrativo contro il quale é ammessa la comune tutela giurisdizionale e, in via subordinata, per la declaratoria dell'illegittimità costituzionale della norma denunciata. 8. - Il Senato della Repubblica ha depositato due pareri pro veritate di altrettanti studiosi del diritto costituzionale nei quali si sostiene l'inammissibilità e l'infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione con l'ordinanza del 31 marzo 1977. 9. - Franco Muscariello non ha presentato deduzioni.

88

Nel giudizio promosso con la prima delle tre ordinanze delle Sezioni unite ha ritenuto di intervenire, pur non essendo parte nel giudizio a quo, Autilia Santaniello, dipendente della Camera dei deputati. 10. - Alla pubblica udienza del 15 gennaio 1985 le parti hanno ribadito le tesi già svolte insistendo per l'accoglimento delle rispettive conclusioni.

Considerato in diritto

1. - La questione sottoposta al vaglio di questa Corte nasce da tre ordinanze, emesse dalle Sezioni unite civili della Corte di Cassazione - l'una il 31 marzo 1977 (r.o. n. 408/1977), le altre due il 10 luglio 1980 (r.o. nn. 315 e 316/1981) - nel corso di giudizi per regolamento preventivo di giurisdizione, che erano stati promossi, il primo davanti al Tribunale di Roma, sezione lavoro, il secondo davanti al Pretore di Roma quale giudice del lavoro, il terzo davanti al Tribunale amministrativo regionale del Lazio. Con tali ordinanze, le Sezioni unite della Corte di Cassazione hanno denunciato l'illegittimità costituzionale dell'art. 12.1 del regolamento del Senato della Repubblica, dell'art. 12.3 del regolamento della Camera dei Deputati "e comunque della norma attributiva dell'autodichia" ad entrambi i predetti organi parlamentari, per contrasto con gli artt. 24, 113, 101, secondo comma, e 108, primo e secondo comma, Cost.. Risultando identiche le norme impugnate, identici i parametri costituzionali invocati, e pertanto identica la questione sollevata, le tre cause vanno riunite e decise con unica pronuncia. 2. - Tanto il Senato della Repubblica, quanto la Camera dei Deputati, si erano costituiti in giudizio, eccependo il difetto di giurisdizione dei giudici aditi. A tale eccezione conseguivano i ricorsi per regolamento preventivo di giurisdizione, sia di alcuni interessati, sia delle Camere. E le Sezioni unite, ritenuto di dover dubitare della legittimità costituzionale delle norme più sopra indicate, in quanto non assicurerebbero ai dipendenti di entrambi i rami del Parlamento la tutela dei loro diritti e interessi legittimi "dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa", come prescritto in linea generale nell'art. 113 Cost., hanno sollevato d'ufficio la questione in esame, rimettendo gli atti a questa Corte, dinanzi alla quale si sono costituiti, per Camera e Senato l'Avvocatura dello Stato, tramite la quale ha compiuto atto d'intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, l'avvocato Franco Gaetano Scoca, e (ma tardivamente) l'avvocato Stefano Riccio. Tutte le parti che si erano tempestivamente costituite hanno depositato memorie ed alla pubblica udienza l'avvocato dello Stato Giorgio Azzariti e gli avvocati Franco Gaetano Scoca e Federico Sorrentino hanno ulteriormente ribadito e più ampiamente illustrato le deduzioni già esposte negli scritti. 3. - La motivazione su cui viene poggiata la denunciata illegittimità costituzionale richiede, stante la sua complessità, che ne venga ripercorso l'iter argomentativo, e nella sua interezza, sia pure summatim, e nello stesso ordine espositivo seguito dalle ordinanze. 3.1. - Esse esordiscono con le affermazioni: che "la norma invocata" dalla difesa delle Camere - quella, cioé, attributiva dell'autodichia a queste - "in realtà, esiste"; che essa é desumibile, già dai regolamenti parlamentari in vigore (art. 12), ma anche dalle disposizioni regolamentari previgenti; che "é comunque desunta, per costante tradizione interpretativa... dal sistema delle disposizioni di legge in tema di tutela giurisdizionale come limitazione posta alla portata generale di tali disposizioni - nel senso dell'esclusione di qualsiasi giudice o dell'introduzione di un giudice speciale - a garanzia delle Camere in riferimento alla posizione di queste". Premesso, poi, che "dall'applicazione della norma non può prescindersi ai fini del regolamento di giurisdizione... il cui oggetto é stabilire se vi sia un giudice e, quale esso sia" e che dei due orientamenti interpretativi "é da preferire"quello che "accorda un giudice, anche se questo non sembra avere i requisiti voluti dalla Costituzione", si legge nelle ordinanze che "la norma fa nascere dubbi circa la

89

sua compatibilità con fondamentali precetti della Costituzione relativi alla tutela giurisdizionale". Viene successivamente affrontato il problema "se una norma quale quella suindicata... sia riconducibile e assimilabile agli atti aventi forza di legge, cui si riferisce l'art. 134 Cost."; ed il problema é risolto affermativamente per una triplice considerazione: in tal senso sarebbe la dottrina prevalente; l'assimilabilità sarebbe ancor più evidente per la parte in cui "i regolamenti parlamentari... regolino rapporti fra Camere e terzi"; nessun dubbio sussisterebbe sulla loro sindacabilità, "se la norma più correttamente, ed in conformità con la costante tradizione interpretativa richiamata all'inizio sia tratta dal sistema delle disposizioni di legge in tema di tutela giurisdizionale nel senso... della attribuzione di una giurisdizione speciale dell'organo costituzionale". Ed al riguardo si precisa che l'insistito "richiamo alla costante tradizione interpretativa non importa ritenere che la norma trovi la sua fonte in una consuetudine costituzionale", di cui difetterebbero i requisiti. 3.2. - Alla luce poi degli artt. 24 e 113 Cost. - argomentano ulteriormente le ordinanze - non sarebbe sostenibile che "non di limitatezza delle cennate norme si tratti, bensì di una mera lacuna della normazione attuativa di esse, con la conseguenza che la tutela giurisdizionale non sarebbe positivamente esclusa, ma solo, allo stato, in concreto non realizzabile per mancanza di adeguata strumentazione". "Va altresì ribadito" - prosegue il giudice a quo - "che delle due interpretazioni dianzi indicate come sostenibili, é preferibile la seconda" (quella che accorda un giudice) alla prima (che nega ogni giudice), giacché questa "sembra suscettiva di offendere anche più gravemente gli artt. 24 e 113 Cost.", mentre quella "sembra suscettiva di offendere (soltanto) le garanzie di serietà ed effettività di tutela" sotto i profili dell'indipendenza-terzietà, dell'indipendenza-imparzialità" e della difesa e del contraddittorio", soggiungendosi che il "modo in cui l'autodichia viene attualmente in concreto strumentata ed esercitata" - cioé, mediante il Consiglio di Presidenza, che esercita anche la potestà regolamentare ed amministrativa - non vale ad "attenuare" le sospette lesioni. E non potendosi l'indagine esaurire - così ancora il giudice a quo - nelle ovvie considerazioni: "che l'esclusione della tutela giurisdizionale... é proprio quanto gli artt. 24 e 113 sono diretti ad evitare"; che "non é soggetto soltanto alla legge il giudice che decide in causa propria"; "che il Senato decide in causa propria", allora "il punto essenziale é se la norma in argomento non trovi una giustificazione... nell'indipendenza degli organi costituzionali", cioé nel "principio così detto della divisione dei poteri", ovvero se gli atti di autodichia siano "riconducibili all'esercizio di un potere di autoorganizzazione incidente, in definitiva, sul modo intrinseco di essere dell'organo costituzionale". Ad entrambi i quesiti viene data risposta negativa. Ammesso pure - si dice nelle ordinanze che il principio della divisione dei poteri sia accolto nella nostra Costituzione, "rappresenta una forzatura postulare l'assoluta indipendenza di ciascun organo anche per gli atti non rientranti concettualmente e sostanzialmente nella sua funzione primaria". "Nell'attuale ordinamento costituzionale" si sarebbe imposta l'esigenza "di reciproco controllo proprio per quel che concerne le funzioni primarie" - come appunto nella funzione di indirizzo politico -, sicché "non vi é ragione di ritenere che l'assetto medesimo importi l'esclusione del sindacato giurisdizionale sull'esercizio delle funzioni accessorie", tanto più che, maggiormente che per il passato, "la tutela giurisdizionale (é) considerata ormai quale principio cardine", le cui eccezioni "vanno puntualmente giustificate". E deve da ultimo "negarsi che qui venga in considerazione un potere di autoorganizzazione", essendo certo che un'istituzione "non esercita tale potere quando dispone delle situazioni dei propri dipendenti, cioé di soggetti il cui destino non può toccare direttamente il modo di essere intrinseco dell'istituzione medesima". 3.3. - Ne consegue - concludono le ordinanze - che, poiché "l'autodichia in argomento non costituisce un attributo compreso nella posizione propria dell'organo costituzionale o da tale posizione immediatamente e necessariamente implicata, ma solo un privilegio

90

soggettivo", non é manifestamente infondata la questione della sua legittimità costituzionale. 4. - La particolare elaboratezza della prospettazione testé riassunta consiglia di fissare preliminarmente quei punti che sembrano maggiormente giovare all'essenzialità e chiarezza del successivo discorso. 4.1. - Per espresso dettato dell'art. 12.1 del vigente regolamento del Senato della Repubblica, "il consiglio di presidenza, presieduto dal Presidente del Senato... adotta i provvedimenti relativi al personale... nei casi... previsti" dai regolamenti interni; analogamente, per espresso dettato dell'art. 12.3 del vigente regolamento della Camera dei Deputati, "l'ufficio di presidenza... decide in via definitiva i ricorsi che attengono allo stato e alla carriera giuridica ed economica dei dipendenti della Camera". Le sopra trascritte disposizioni hanno dato motivo a contrasti interpretativi, peraltro non del tutto privi di fondamento - specie con riguardo alla formulazione del regolamento del Senato, troppo scarna, e perciò scarsamente significante nella sua genericità -, opinandosi addirittura - con riguardo, questa volta, al regolamento della Camera - che la formulazione di questo sul punto, in quanto mutata rispetto al regolamento anteriore, avrebbe comportato la caducazione del principio dell'autodichia, nel senso conseguentemente che ormai i ricorsi dei dipendenti dovrebbero ritenersi definiti con decisione amministrativa impugnabile in sede giurisdizionale. Senonché, con le ordinanze in esame, le Sezioni unite della Cassazione, dopo avere dichiarato esplicitamente, come già detto, che, "ai fini del regolamento di giurisdizione.. oggetto é stabilire se vi sia un giudice e quale esso sia", ed implicitamente che la formulazione del regolamento del Senato vale quella del regolamento della Camera, osservano che la norma attributiva dell'autodichia - e perciò le due disposizioni regolamentari in parola - può ritenersi che "esclude la giurisdizione del giudice comune", sia "in quanto nega qualsiasi giudice nell'ordinamento generale ed affida la risoluzione delle controversie ad una decisione adottata dall'organo costituzionale... e destinato ad operare unicamente all'interno dell'ordinamento particolare", sia "in quanto istituisce nell'ordinamento generale un giudice speciale - l'organo costituzionale appunto, in una sua articolazione - con competenza in causa propria". E poiché nelle ordinanze si afferma apertamente che "é da preferire,", e si riafferma che "é preferibile", per le considerazioni riportate nel paragrafo 3.2., l'orientamento interpretativo, secondo cui le controversie in tema di rapporto d'impiego dei dipendenti delle Camere sono decise da queste, sembra non dubitabile che, così esprimendosi, il giudice a quo ha inteso riconoscere in sostanza nei due menzionati articoli i portatori del principio dell'autodichia e, quindi, l'esistenza nel nostro ordinamento dell'autodichia, sia della Camera dei Deputati, sia del Senato della Repubblica. 4.2. - In tutte le tre ordinanze vengono impugnati, specificamente gli artt. 12, in parte de qua, dei regolamenti parlamentari in vigore, e genericamente "la norma attributiva dell'autodichia" ad entrambe le Camere. Stante la duplicità della denuncia, si rende necessario comprendere in quale rapporto l'una impugnativa si pone nei confronti dell'altra. Sembra doversi escludere che il giudice a quo abbia inteso riferirsi ad un unico dato normativo, giacché allora gli articoli dei regolamenti sarebbero meramente ricognitivi ed esplicativi di quella norma inespressa, da cui in effetti avrebbe tratto origine in passato e su cui troverebbe ancor oggi fondamento la giurisdizione domestica delle Camere; ciò equivarrebbe a ravvisare l'unica e vera fonte e l'unico e vero sostegno dell'autodichia nella norma inespressa, che le disposizioni dei due articoli si sarebbero limitate a recepire. L'ipotesi é inaccoglibile: basterebbe in proposito considerare anche solo che nelle ordinanze il quesito assolutamente pregiudiziale é quello relativo alla sindacabilità, da parte di questa Corte, dei regolamenti parlamentari, e che tale quesito risulterebbe proposto inutiliter - anzi, non avrebbe addirittura senso -, ove le Sezioni unite ritenessero

91

che il rapporto fra le norme espresse e la norma inespressa sia quello testé ipotizzato. Ma se, viceversa, si pone mente che in ognuna delle tre ordinanze risultano impugnati principaliter i più volte menzionati artt. 12 dei regolamenti parlamentari, e solo successivamente "la norma attributiva dell'autodichia", appare verosimile la congettura che l'impugnativa della norma inespressa sia stata proposta in via meramente subordinata e prudenziale. Se la ricostruzione del pensiero del giudice a quo sul punto é esatta, ne deriva che, a parte la questione della proponibilità della denuncia di una norma inespressa, sarebbe ultroneo ogni discorso intorno a quest'ultima, in quanto ai fini del decidere é necessario e sufficiente fare oggetto del presente giudizio solo gli artt. 12.1 del regolamento del Senato e 12.3 del regolamento della Camera. 4.3. - É appena il caso di avvertire che i regolamenti di che trattasi sono esclusivamente quelli previsti dall'art. 64, primo comma, Cost., cioé quelli adottati direttamente dall'assemblea di ognuna delle due Camere "a maggioranza assoluta dei suoi componenti". Se, infatti, si dubita che qualsiasi giudice - sia pure il giudice delle leggi - abbia il potere di sindacare i suddescritti regolamenti, non si dubita, viceversa, che a sensi dell'art. 134 Cost. é precluso a questa Corte di prendere in esame atti normativi di una singola Camera diversi da quelli di cui sopra. E nella specie i regolamenti oggetto di questo giudizio sono precisamente quelli adottati dal Senato della Repubblica il 17 febbraio 1971 e dalla Camera dei Deputati il giorno successivo ed entrambi pubblicati nella "Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana". 4.4. - Il giudice a quo si chiede: a) "se la norma in argomento non trovi una giustificazione... nell'indipendenza degli organi costituzionali", cioé nel principio così detto della divisione dei poteri, ovvero nel principio che riconosce ad ogni Camera il potere di autoorganizzazione; b) se l'istituzione dell'"organo costituzionale quale giudice in causa propria" non offenda "le garanzie di serietà ed effettività di tutela che, in relazione agli artt. 24 e 113 Cost., sono sancite dagli artt. 101, secondo comma, e 108, secondo comma, della Costituzione sotto il profilo dell'indipendenza- terzietà e indipendenza-imparzialità del giudizio, e di nuovo e più direttamente, dall'art. 24 della Costituzione sotto il profilo della difesa e del contraddittorio". Sollevando il primo interrogativo, egli sospetta che la giurisdizione domestica delle Camere - e la correlativa esclusione di un qualsivoglia giudice non possa ritenersi ancor oggi costituzionalmente legittima, ove non si rinvenga una giustificazione nel sistema instaurato dalla Costituzione repubblicana. Sollevando il secondo interrogativo, che concerne più propriamente "il modo in cui l'autodichia viene attualmente in concreto strumentata ed esercitata", egli sospetta che non ricorrano e concorrano le garanzie che rendano costituzionalmente legittimo l'esercizio della funzione giurisdizionale. I due punti appaiono di per sé meritevoli della più attenta considerazione. Le Sezioni unite della Cassazione, pur riconoscendo all'autodichia radici storiche e, a quanto pare, anche logiche, pensano tuttavia che il nuovo sistema costituzionale ne abbia operato la delegittimazione. Ed in quanto al dubbio sulla compatibilità dell'autodichia delle Camere con i principi costituzionali in tema di giurisdizione, non può non convenirsi col giudice a quo, anche sulla base di principi contenuti in convenzioni internazionali, che indipendenza ed imparzialità dell'organo che decide, garanzia di difesa, tempo ragionevole, in quanto coessenziali al concetto stesso di una effettiva tutela, sono indefettibili nella definizione di qualsiasi controversia. Senonché, il dubbio sulla sindacabilità, da parte di questa Corte, ai sensi ed ai fini dell'art. 134, primo alinea, Cost., dei regolamenti parlamentari contenenti gli impugnati artt. 12.1 e 12.3 é in ordine logico pregiudiziale rispetto ai due interrogativi di cui sopra, e perciò va esaminato per primo. 5. - Il problema dell'assoggettabilità al giudizio di questa Corte dei regolamenti parlamentari adottati a sensi dell'art. 64, primo comma, Cost., é il problema

92

dell'ammissibilità della questione. Secondo il giudice a quo, tali regolamenti sono fonti del diritto oggettivo assimilabili alle leggi ordinarie. Ed invero, la riserva del potere di organizzazione delle Camere e di integrazione della disciplina del procedimento legislativo, in quanto istituisce fra gli uni e le altre un rapporto di distribuzione di competenza normativa, se non comporta la costituzionalizzazione dei regolamenti in parola e la loro parametricità, comporterebbe certamente la loro collocazione allo stesso livello delle leggi ordinarie, specie per la parte in cui vengono regolati i rapporti con terzi e, più ancora, se si ritiene che la norma inespressa si lascia desumere dal sistema delle disposizioni di legge in tema di tutela giurisdizionale. Né varrebbe in contrario invocare il dogma dell'insindacabilità degli interna corporis degli organi costituzionali, che questa Corte ha già ripudiato con l'ormai remota sentenza del 1959, n. 9. Di opposto avviso é, viceversa, l'Avvocatura dello Stato, la quale contesta l'assimilabilità di cui sopra: i regolamenti parlamentari non sarebbero atti dello Stato, bensì di organo, cioé di un singolo ramo del Parlamento, e si sottraggono, sia alla promulgazione del Presidente della Repubblica, sia all'abrogazione per referendum, sicché non possono farsi rientrare fra gli atti di cui all'art. 134 Cost.; essi sarebbero privi, tanto della potenzialità attiva (abrogatrice) nei confronti delle leggi anteriori, quanto della potenzialità passiva (di resistenza) nei confronti delle leggi posteriori, sicché non avrebbero forza di legge; l'interpretazione della sentenza n. 9 del 1959 sarebbe tutt'altro che univoca ed, anzi, sarebbero reperibili altre sentenze (55/1964, 14/1965, 183/1973 e 232/1975), dalle quali "possono desumersi e sono stati desunti indirettamente altri argomenti per escludere quella sindacabilità". 5.1. - É opinione di questa Corte che i richiami alla giurisprudenza costituzionale non danno un apporto risolutivo allo scioglimento del nodo in parola. Ed invero, le sentenze che vengono invocate dall'Avvocatura dello Stato e dalle parti, quando non sono inconferenti, appaiono prestarsi solo a congetture, piuttosto forzate e, comunque, controvertibili e controverse, le quali talvolta risultano dedotte da qualche evidente obiter dictum. E quanto alle considerazioni di ordine concettuale, esse in definitiva si bilanciano, sicché non é possibile cogliere in alcuna di esse un argomento decisivo. Sembra, viceversa, che la soluzione possa e debba ricercarsi nell'art. 134 Cost., prima ipotesi, indagato alla stregua del sistema costituzionale. Formulando tale articolo, il costituente ha segnato rigorosamente i precisi ed invalicabili confini della competenza del giudice delle leggi nel nostro ordinamento, e poiché la formulazione ignora i regolamenti parlamentari, solo in via d'interpretazione potrebbe ritenersi che questi vi siano ugualmente compresi. Ma una simile interpretazione, oltre a non trovare appiglio nel dato testuale, urterebbe contro il sistema. La Costituzione repubblicana ha instaurato una democrazia parlamentare, intendendosi dire che, come dimostra anche la precedenza attribuita dal testo costituzionale al Parlamento nell'ordine espositivo dell'apparato statuale, ha collocato il Parlamento al centro del sistema, facendone l'istituto caratterizzante l'ordinamento. É nella logica di tale sistema che alle Camere spetti - e vada perciò riconosciuta - una indipendenza guarentigiata nei confronti di qualsiasi altro potere, cui pertanto deve ritenersi precluso ogni sindacato degli atti di autonomia normativa ex art. 64, primo comma, Cost.. Le guarentigie non vanno considerate singolarmente, bensì nel loro insieme. Ed infatti, attengano esse all'immunità dei membri delle Camere ovvero all'immunità delle rispettive sedi, é evidente la loro univocità, mirando pur sempre ad assicurare la piena indipendenza degli organi. Ne é conferma il divieto alla forza pubblica ed a qualsiasi persona estranea - sia pure il Presidente della Repubblica o il membro di una Camera diversa da quella di appartenenza - di entrare nell'aula, che discende dall'art. 64, ultimo comma, Cost., prima ancora che dagli artt. 62.2 e 64.1 del regolamento della Camera e 69.2 e 70.1 del regolamento del Senato. Il Parlamento, insomma, in quanto espressione immediata della sovranità popolare, é diretto partecipe di tale sovranità, ed i

93

regolamenti, in quanto svolgimento diretto della Costituzione, hanno una "peculiarità e dimensione" (sentenza n. 78 del 1984), che ne impedisce la sindacabilità, se non si vuole negare che la riserva costituzionale di competenza regolamentare rientra fra le guarentigie disposte dalla Costituzione per assicurare l'indipendenza dell'organo sovrano da ogni potere. Le suesposte considerazioni non consentono che nell'art. 134, primo alinea, Cost. possano ritenersi compresi i regolamenti parlamentari in oggetto, dei quali pertanto va riconosciuta l'insindacabilità, con la conseguente dichiarazione d'inammissibilità della proposta questione, cui corrisponde la preclusione dell'esame del merito.

PER QUESTI MOTIVILA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi relativi alle tre ordinanze in epigrafe (r.o. 408/1977, 315 e 316/1981), dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 12.1 e 12.3 dei regolamenti del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati - approvati rispettivamente il 17 e 18 febbraio 1971 -, sollevata, in riferimento agli artt. 24, 101, secondo comma, 108, primo e secondo comma, e 113, primo comma, Cost., con le ordinanze in epigrafe dalle Sezioni unite civili della Corte di Cassazione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 maggio 1985. LEOPOLDO ELIA, PRESIDENTE GIUSEPPE FERRARI, REDATTORE Depositata in cancelleria il 23 maggio 1985.

94

SENTENZA N. 1150 DEL 1988

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente

Prof. Francesco SAJA,

Giudici

Prof. Giovanni CONSO

Prof. Ettore GALLO

Dott. Aldo CORASANITI

Prof. Giuseppe BORZELLINO

Dott. Francesco GRECO

Prof. Renato DELL'ANDRO

Prof. Gabriele PESCATORE

Avv. Ugo SPAGNOLI

Prof. Francesco Paolo CASAVOLA

Prof. Antonio BALDASSARRE

Prof. Vincenzo CAIANIELLO

Avv. Mauro FERRI

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio promosso con ricorso della Corte d'appello di Roma-Sez. I civile-notificato il 25 febbraio 1988, pervenuto in Cancelleria a mezzo raccomandata n. 1702 del 15 marzo 1988 ed iscritto al n. 6 del registro ricorsi 1988, per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione del Senato della Repubblica, in data 5 marzo 1986, di insindacabilità ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione.

Visto l'atto di costituzione del Senato della Repubblica;

95

udito nell'udienza del 22 novembre 1988 il Giudice relatore Luigi Mengoni;

udito l'avv. Paolo Barile per il Senato della Repubblica

Ritenuto in fatto

1. - Con sentenza 3 maggio - 19 giugno 1985 il Tribunale di Roma, sezione I civile, ha condannato il sen. Michele Marchio, in solido con l'on. Giorgio Almirante e Franz Maria D'Asaro, Direttore de "Il Secolo d'Italia", al risarcimento dei danni morali sofferti dai giudici Vittorio Ragonesi, Paolo Izzo, Tommaso Figliuzzi, Alessandro de Renzis, Felice Terraciano, Giovanni Caramazza, Umberto Apice, Paolo Celotti, Giovanni Prestipino, Vittorio Palmisano e Giovanni Ferrara, componenti la sezione fallimentare del medesimo tribunale, in conseguenza di tre articoli pubblicati sul nominato giornale rispettivamente il 6 dicembre 1980, il 18 dicembre 1980 e il 16 aprile 1981, e ritenuti offensivi della loro reputazione morale e professionale, nonche', nei confronti di uno dei giudici, anche del suo decoro personale. Nei tre articoli, originati da una interrogazione presentata al Ministro di grazia e giustizia dal sen. Marchio il 9 dicembre 1980, erano riferite ulteriori dichiarazioni rese dal senatore, in risposta alle domande del giornalista, a commento dei fatti esposti nell'interrogazione.

Nel corso del giudizio di secondo grado e' pervenuto alla Corte di appello di Roma, I sezione civile, per il tramite della Presidenza del Senato e del Ministero di grazia e giustizia, il resoconto della seduta tenuta al Senato della Repubblica il 5 marzo 1986, nella quale l'Assemblea, deliberando sulla domanda di autorizzazione a procedere penalmente contro il sen. Marchio per il reato di diffamazione aggravata a mezzo stampa, proposta dal Procuratore della Repubblica di Perugia ai sensi dell'art. 68, secondo comma, Cost., aveva approvato le conclusioni adottate dalla Giunta delle elezioni e delle immunita' parlamentari, cosi' formulate: a) "i fatti per cui e' stata richiesta l'autorizzazione a procedere nei confronti del sen. Marchio ricadono nella prerogativa della insindacabilita' sancita dall'art. 68, primo comma, della Costituzione"; b) "l'effetto naturale dell'insindacabilita' sanzionata per i fatti esaminati consiste nell'irresponsabilita' assoluta (penale, civile e amministrativa), e quindi il procedimento civile pendente, nel quale il sen. Marchio e' convenuto per il risarcimento del danno, e' necessariamente assorbito nella suddetta dichiarazione di insindacabilita'".

2. - La Corte d'appello di Roma ritiene che la delibera del Senato, affermante l'insindacabilita' assoluta delle dichiarazioni del sen. Marchio ex art. 68, primo comma, Cost., abbia un effetto impeditivo dello svolgimento delle proprie funzioni, ma in pari tempo contesta la spettanza di tale potere al Parlamento. Pertanto ha sollevato conflitto di attribuzione ai sensi degli art. 134 Cost. e 37 della legge n. 87 del 1953, affinche' "la Corte costituzionale dica se il potere di decidere in ordine alla sussistenza o meno, nel caso concreto, della imperseguibilita' stabilita dal primo comma dell'art. 68 Cost. spetti al Senato della Repubblica ovvero alla Magistratura".

La ricorrente osserva che, mentre la norma processuale di cui al secondo comma dell'art. 68 "individua una specifica ed esclusiva competenza della Camera di appartenenza", il primo comma, invece, "nessuna competenza attribuisce al Parlamento" in ordine alla fattispecie sostanziale ivi prevista. Ne' si potrebbe argomentare per analogia dal secondo comma, dato il carattere eccezionale delle norme che introducono limiti alla funzione giurisdizionale istituzionalmente esercitata dalla magistratura ai sensi dell'art. 102 Cost.

96

La non spettanza alle Camere di un potere di decisione circa la questione se ricorrano o no gli estremi dell'irresponsabilita' garantita ai loro membri dell'art. 68, primo comma, Cost., e' inoltre argomentata sia dalla mancanza di una norma che disponga la sospensione del processo civile e la rimessione degli atti alla Camera di appartenenza nel caso che il parlamentare convenuto in giudizio con una azione di risarcimento dei danni eccepisca l'irresponsabilita' ai sensi del detto precetto costituzionale, sia dalla mancanza di una disciplina del procedimento davanti alle Camere che preveda un minimo di contraddittorio e di garanzie processuali a tutela dei diritti fondamentali delle persone offese.

3. - Nel giudizio preliminare di delibazione in camera di consiglio, a norma dell'art. 37, terzo e quarto comma, della legge n. 87 del 1953, la Corte costituzionale, con ordinanza 10/18 febbraio 1988, ha dichiarato ammissibile il ricorso. Con la medesima ordinanza ha rigettato, in conformita' della sua costante giurisprudenza, l'istanza di intervento in giudizio proposta dai giudici sopra nominati, in quanto soggetti diversi dagli organi tra cui e' sorto il conflitto di attribuzione.

4. - Nel giudizio davanti alla Corte si e' costituito soltanto il Senato della Repubblica, in persona del suo presidente, rappresentato e difeso dal prof. avv. Paolo Barile, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile e comunque infondato. Secondo il patrocinio del Senato, poiche' l'immunita' di cui all'art. 68, primo comma, Cost. e' diretta a garantire l'autonomia e l'indipendenza del Parlamento, non puo' essere dubbia la spettanza a ciascuna Camera del potere di interpretare l'estensione di tale prerogativa, e quindi "di valutare se l'attivita' svolta da un proprio membro costituisca espressione o meno delle funzioni parlamentari". Ma, contrariamente all'opinione della Corte romana, tale potere non implica una funzione giurisdizionale. I due poteri il potere delle Camere di determinare la portata delle immunita' parlamentari e il potere giurisdizionale dell'autorita' giudiziaria - "si svolgono su piani diversi" e possono entrare in conflitto soltanto se l'uno e l'altro si traducano in atti esprimenti valutazioni divergenti. Percio', ad avviso del resistente, il conflitto oggetto del presente giudizio e', allo stato, inammissibile, non avendo la Corte d'appello formulato alcuna valutazione, difforme da quella del Senato, circa la fondatezza della pretesa di insindacabilita' delle dichiarazioni addebitategli, fatta valere dall'appellante sen. Marchio in base all'art. 68, primo comma. La delibera del 5 marzo 1986 adottata dal Senato non impediva, ne' impedisce, sempre secondo il resistente, alla Corte d'appello di adempiere le proprie funzioni proseguendo fino alla sentenza il giudizio di secondo grado di cui e' investita. Oltre a tutto, si osserva, l'oggetto di tale giudizio "riguarda le dichiarazioni rese dal sen. Marchio in tre articoli pubblicati sul quotidiano "Il Secolo d'Italia" (6 e 18 dicembre 1980, 16 aprile 1981), mentre il Senato ebbe a pronunciarsi esclusivamente sui fatti riguardanti l'articolo del 16 aprile. La Corte d'appello avrebbe dovuto quanto meno spiegare le ragioni per le quali la delibera del Senato le impedirebbe di sindacare i fatti relativi agli articoli del 6 e 18 dicembre 1980". In conclusione si contesta "l'interesse attuale della Corte romana a ottenere la decisione del conflitto".

5. - Nel merito la difesa del Senato ritiene che "con la citata delibera del 5 marzo 1986 sia stata effettuata una legittima qualificazione dei fatti addebitati al sen. Marchio", e che, in caso di diversa valutazione dell'autorita' giudiziaria circa la concreta estensione delle prerogative di cui all'art. 68, primo comma, Cost., "debba prevalere la decisione del Parlamento, in quanto organo a tutela del quale sono state dettate le prerogative stesse".

97

Considerato in diritto

1. - L'ordinanza del 9 giugno 1987, con cui la Corte d'appello di Roma ha sollevato conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato, in riferimento alla delibera 5 marzo 1986 del Senato della Repubblica sopra riprodotta in narrativa, imposta la questione in termini che devono essere rettificati.

Nella motivazione la ricorrente contesta che il Senato abbia <il potere di esercitare, in questa materia, la funzione giurisdizionale che, istituzionalmente, spetta invece all'autorità giudiziaria ordinaria>, quasi che il Senato, nel valutare i fatti oggetto della domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro il sen. Marchio, si fosse ritenuto investito delle funzioni di foro speciale in tema di prerogative parlamentari. In realtà, come si arguisce dal seguito dell'argomentazione, dove si istituisce un confronto tra il primo e il secondo comma dell'art. 68 Cost., la Corte d'appello intende dire che, mentre il secondo comma concede a ciascuna Camera il potere di sottrarre i propri membri alla giurisdizione penale per fatti ad essi imputabili a titolo di reato, <il primo comma, invece, in ordine alla garanzia sostanziale, nessuna competenza attribuisce al Parlamento>. Ne deduce che, se la Camera di appartenenza afferma che i fatti addebitati a un proprio membro sono coperti dall'irresponsabilità ex art. 68, primo comma, e quindi ordina la restituzione degli atti al Ministro, tale delibera impedisce il proseguimento dell'azione penale in quanto implica rifiuto dell'autorizzazione a procedere, ma non può avere l'effetto preteso dal Senato di impedire anche l'accertamento dei fatti da parte del giudice civile, al quale sia stata proposta una domanda di risarcimento dei danni.

2. - Tra la premessa (esatta) che l'art. 68, primo comma, non attribuisce alle Camere un potere del tipo di quello previsto dal secondo comma e la conclusione, tratta dalla ricorrente, che in materia di irresponsabilità dei parlamentari nessuna competenza, in assoluto, spetta al Parlamento, v'e un salto logico evidente.

Le prerogative parlamentari non possono non implicare un potere dell'organo a tutela del quale sono disposte; ma la logica diversa che presiede alle due prerogative sancite dall'art. 68 Cost. si riflette in poteri di natura diversa.

La prerogativa del primo comma (c.d. insindacabilità) attribuisce alla Camera di appartenenza il potere di valutare la condotta addebitata a un proprio membro, con l'effetto, qualora sia qualificata come esercizio delle funzioni parlamentari, di inibire in ordine ad essa una difforme pronuncia giudiziale di responsabilità, sempre che, come sarà precisato appresso, il potere sia stato correttamente esercitato.

In questo significato va intesa la frase <non possono essere perseguiti>, conformemente alla ratio delle immunità parlamentari, riconducibile al principio più generale dell'indipendenza e dell'autonomia delle Camere verso gli altri organi e poteri dello Stato.

3. - In quanto è attribuito nei limiti della fattispecie indicata dall'art. 68, primo comma, e solo entro questi limiti legittimamente esercitato, il potere valutativo delle Camere non è arbitrario o soggetto soltanto a una regola interna di self-restraint. Nella nostra Costituzione, che riconosce i diritti inviolabili dell'uomo (fra cui il diritto all'onore e alla reputazione) come valori fondamentali dell'ordinamento giuridico e prevede un organo giurisdizionale di garanzia costituzionale, il detto potere è soggetto a un controllo di legittimità, operante con lo strumento del conflitto di attribuzione, a norma degli artt. 134

98

Cost: e 37 della legge n. 87 del 1953, e perciò circoscritto ai vizi che incidono, comprimendola, sulla sfera di attribuzioni dell'autorità giudiziaria.

Qualora il giudice di una causa civile di risarcimento dei danni, promossa da una persona lesa da dichiarazioni diffamatorie fatte da un deputato o senatore in sede extraparlamentare, reputi che la delibera della Camera di appartenenza, affermante l'irresponsabilità del proprio membro convenuto in giudizio, sia il risultato di un esercizio illegittimo (o, come altri si esprime, di <cattivo uso>) del potere di valutazione, può provocare il controllo della Corte costituzionale sollevando davanti a questa conflitto di attribuzione.

Il conflitto non si configura nei termini di una vindicatio potestatis (il potere di valutazione del Parlamento non e in astratto contestabile), bensì come contestazione dell'altrui potere in concreto, per vizi del procedimento oppure per omessa o erronea valutazione dei presupposti di volta in volta richiesti per il valido esercizio di esso.

In questi termini deve essere letto il dispositivo dell'ordinanza della Corte d'appello, cioè come istanza alla Corte costituzionale affinché dica se <nel caso concreto> il potere di valutazione del Senato, ai sensi dell'art. 68, primo comma, Cost. e all'effetto indicato nel secondo capo della deliberazione 5 marzo 1986, sia stato legittimamente esercitato. E in questi termini sussiste un attuale interesse al ricorso, onde deve essere disattesa l'eccezione di inammissibilità avanzata dalla difesa del resistente.

4. - Nel caso in esame non e necessario procedere al controllo della valutazione, da parte del Senato, dei presupposti di esercizio del proprio potere richiesti dall'art. 68, primo comma, essendo in limine riscontrabile nella deliberazione 5 marzo 1986 un vizio in procedendo, determinato dal divario tra i fatti esaminati dalla Giunta per le elezioni e le autorizzazioni a procedere e i fatti in relazione ai quali la Giunta ha formulato la proposta, approvata dall'Assemblea, di affermazione dell'insindacabilità ex art. 68, primo comma, e della conseguente improseguibilità del giudizio pendente davanti alla Corte d'appello. Il Senato e stato investito soltanto della cognizione dei fatti sottoposti al suo esame dalla domanda di autorizzazione a proseguire l'azione penale, cioè delle dichiarazioni del sen. Marchio pubblicate nell'articolo del 16 aprile 1981, mentre il giudizio di responsabilità civile pendente davanti alla Corte d'appello di Roma, sul quale si e spostata la valutazione conclusiva del procedimento parlamentare, concerne inscindibilmente tutti e tre gli articoli pubblicati su <Il Secolo d'Italia> tra il 6 dicembre 1980 e il 16 aprile 1981.

L'inscindibilità dei fatti dedotti come causa petendi rende insostenibile la tesi, affacciata in subordine dal patrocinio del Senato, secondo la quale niente impediva alla Corte d'appello <di sindacare i fatti relativi agli articoli del 16 (recte: 6) e 18 dicembre 1980>.

Correttamente la Corte d'appello di Roma si e sentita spogliata del potere di ius dicere in ordine a tutti i fatti dedotti in giudizio, e a ragione essa lamenta che, nei termini in cui si e svolto il procedimento parlamentare, la citata deliberazione del Senato non era giustificata, e pertanto non poteva determinare l'<assorbimento> del processo civile in corso.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara che spetta al Senato valutare le condizioni dell'insindacabilità ai sensi dell'art. 68, primo comma, Cost.; che, nella specie, il modo di esercizio di tale potere non legittimava la statuizione che <il procedimento civile pendente, nel quale il senatore Marchio è

99

convenuto per il risarcimento del danno, è necessariamente assorbito nella suddetta deliberazione di insindacabilità>.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15/12/88.

Francesco SAJA, PRESIDENTE

Luigi MENGONI, REDATTORE

Depositata in cancelleria il 29/12/88.

100

SENTENZA N. 391 DEL 1995

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente -

Prof. Antonio BALDASSARRE Giudice -

Avv. Mauro FERRI Giudice -

Prof. Luigi MENGONI Giudice -

Prof. Enzo CHELI Giudice -

Dott. Renato GRANATA Giudice -

Prof. Giuliano VASSALLI Giudice -

Prof. Francesco GUIZZI Giudice -

Prof. Cesare MIRABELLI Giudice -

Prof. Fernando SANTOSUOSSO Giudice -

Avv. Massimo VARI Giudice -

Dott. Cesare RUPERTO Giudice -

Dott. Riccardo CHIEPPA

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis della legge 8 agosto 1992, n. 359, di conversione del decreto- legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), promosso con ordinanza emessa il 9 dicembre 1994 dalla Corte d'appello di Torino nel procedimento civile vertente tra Re Gian Carlo ed altri e il Comune di Valenza, iscritta al n. 105 del registro ordinanze 1995 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell'anno 1995.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 28 giugno 1995 il Giudice relatore Enzo Cheli.

Ritenuto in fatto

1.- Nel corso del giudizio civile instaurato da Gian Carlo, Pier Giorgio e Carlo Re nei confronti del Comune di Valenza, concernente la determinazione dell'indennità di espropriazione relativa ad un'area di loro proprietà, la Corte d'appello di Torino, con ordinanza del 9 dicembre 1994, ha sollevato, in riferimento agli artt. 72 e 77 della

101

Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis della legge 8 agosto 1992, n. 359, di conversione del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, recante "Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica", dal momento che tale articolo sarebbe stato approvato secondo una procedura costituzionalmente non corretta.

Il giudice a quo premette nell'ordinanza che la norma impugnata che disciplina in via transitoria la determinazione dell'indennità di espropriazione per le aree fabbricabili - non era stata inserita nel testo articolato del decreto-legge n. 333 del 1992, ma introdotta ex novo dalla legge di conversione e, pertanto, non sottoposta alla valutazione preventiva concernente la sussistenza dei requisiti della necessità e dell'urgenza. Inoltre, sempre secondo il giudice remittente, la norma medesima non si configurerebbe come una semplice modifica delle norme contenute nel decreto-legge n. 333, dal momento che questo prevede prevalentemente disposizioni di natura tributaria.

Nell'ordinanza si espone, quindi, che nel caso di specie risulterebbe violato il procedimento di approvazione delle leggi, essendo stata introdotta, nella fase di conversione di un decreto-legge, una disposizione estranea all'oggetto del decreto e sulla cui necessità e urgenza non vi è stata alcuna valutazione da parte delle Camere.

Il giudice a quo osserva anche che il Governo aveva posto la fiducia sul testo emendato del decreto-legge n. 333, per cui le Camere hanno votato esclusivamente l'articolo unico del disegno di legge di conversione, senza avere alcuna concreta possibilità di discutere la norma introdotta dall'art. 5-bis impugnato.

Tale norma risulterebbe, pertanto, approvata in violazione degli artt. 72 e 77 della Costituzione.

2.- Nel giudizio davanti alla Corte si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, per chiedere che la questione sollevata sia dichiarata inammissibile o infondata. Preliminarmente, l'Avvocatura osserva che l'ordinanza di rimessione non contiene alcun riferimento alla natura edificatoria del terreno espropriato, e, di conseguenza, all'applicabilità nel giudizio a quo della disposizione impugnata. Sotto questo profilo si richiede che la questione sia dichiarata inammissibile.

Passando all'esame della censura riferita all'art. 77 della Costituzione, nella memoria si espone che i presupposti di necessità e urgenza richiesti da tale norma sono rivolti a condizionare l'eccezionale potere normativo del Governo, che si esprime con l'adozione dei decreti-legge, ma non riguardano le disposizioni approvate con legge dalle Camere, dal momento che la funzione legislativa può esplicarsi liberamente, senza sottostare ad uno scrutinio preliminare. Secondo l'Avvocatura, la verifica preventiva dei requisiti di necessità e urgenza non ha ragion d'essere rispetto a una norma, quale quella impugnata, non adottata dal Governo ma aggiunta in Commissione durante la fase di conversione di un decreto-legge.

Quanto alla pretesa disomogeneità dell'art. 5-bis con la materia del decreto-legge, l'Avvocatura osserva che un principio di omogeneità si trova stabilito nell'art. 15, comma 3, della legge n. 400 del 1988 e quindi in una legge ordinaria - solo in relazione al contenuto dei decreti-legge, e non anche alla legge di conversione. Inoltre, si afferma che tale principio è bilanciato dalle prassi imposte dall'ampiezza dei settori nei quali interviene la legislazione e dal loro intersecarsi, e che non esiste alcun precetto costituzionale dal quale derivi un limite oggettivo all'esercizio del potere legislativo delle Camere in sede di conversione dei decreti-legge.

102

In riferimento alla violazione dell'art. 72 della Costituzione, relativa alla mancata specifica approvazione dell'art. 5-bis impugnato, l'Avvocatura osserva che dopo la posizione della questione di fiducia da parte del Governo i lavori parlamentari sono proseguiti, secondo il disposto dell'art. 116, comma 2, del Regolamento della Camera dei deputati, con l'illustrazione degli emendamenti presentati e, pertanto, deve escludersi che ai singoli parlamentari sia stata preclusa la conoscibilità del contenuto della norma in questione.

Nella memoria si afferma poi che accanto alla norma di rango costituzionale che disciplina l'approvazione "articolo per articolo", deve valutarsi la "corrispondente regola" prevista dall'art. 94 della Costituzione, che attiene al rapporto di fiducia che deve sussistere tra le Camere e il Governo. Secondo l'Avvocatura, dai due precetti costituzionali ora richiamati deriva "la derogabilità della normale procedura di approvazione di un disegno di legge", prevista d'altro canto dallo stesso art. 72, secondo e terzo comma, della Costituzione. La disciplina dei "procedimenti abbreviati" ivi prevista, e rimessa ai regolamenti parlamentari, conferma - secondo quanto sostenuto nella memoria - che la posizione della questione di fiducia da par te del Governo possa avere conseguenze procedurali sull'iter di approvazione di un disegno di legge e che tali deroghe abbiano natura costituzionale.

Considerato in diritto

1.- La Corte di appello di Torino solleva, in relazione agli artt. 72 e 77 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis della legge 8 agosto 1992, n. 359, che ha convertito con modificazioni il decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333, recante "Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica". La disposizione impugnata - che non risultava inclusa nel testo del decreto- legge, ma che è stata introdotta per la prima volta nel contesto della legge di conversione - ha dettato una nuova disciplina transitoria dell'indennità di espropriazione delle aree edificabili.

Ad avviso del giudice remittente, tale disposizione si presenterebbe viziata, con riferimento agli artt. 72 e 77 della Costituzione, sotto tre profili diversi e cioè: a) per non essere stata sottoposta, in quanto introdotta nella legge di conversione, al vaglio preventivo della necessità e dell'urgenza; b) per avere assunto a proprio oggetto una materia (indennità di esproprio) del tutto estranea a quella (tributaria) regolata nel decreto legge; c) per essere stata approvata, a seguito della fiducia posta dal Governo sulla legge di conversione, senza una specifica discussione e votazione da parte delle Camere.

2.- L'Avvocatura dello Stato ha eccepito preliminarmente l'inammissibilità della questione per difetto di motivazione sulla rilevanza, dal momento che l'ordinanza di rimessione non contiene alcun accenno alla natura edificatoria del terreno espropriato.

Tale eccezione non può essere accolta.

Pur in assenza di una specifica indicazione, la destinazione edificatoria del terreno che ha dato luogo alla controversia nel cui ambito la questione è stata sollevata può essere, infatti, indirettamente desunta, con sufficiente certezza, dallo stesso contesto dell'ordinanza e dall'esposizione dei fatti ivi espressa. Va, di conseguenza, riconosciuta l'applicabilità nel giudizio a quo della norma contestata.

3.- Nel merito la questione non è fondata.

Occorre innanzitutto ricordare che la disposizione impugnata non compresa nel testo del decreto-legge n. 333 del 1992 - venne introdotta, come articolo "aggiuntivo" (art. 5-bis), nel corso dell'esame in sede referente del disegno di legge di conversione di tale decreto-legge da parte delle Commissioni riunite V e VI della Camera dei deputati. Tale articolo,

103

proposto da alcuni deputati, ottenne il parere favorevole del Governo e, dopo breve discussione, venne adottato senza modificazioni dalle Commissioni riunite nella seduta del 23 luglio 1992.

La norma venne poi definitivamente approvata dalla Camera il 29 luglio 1992, a seguito della fiducia posta dal Governo sull'articolo unico del disegno di legge, che riportava in allegato, tra le modificazioni apportate in sede di conversione, anche l'art. 5-bis.

Al Senato il disegno di legge di conversione venne esaminato, in sede referente, dalle Commissioni 5o e 6o riunite nella seduta del 31 luglio 1992 e approvato, senza alcuna variante, nella seduta del 7 agosto 1992, a seguito della fiducia riproposta dal Governo sull'articolo unico dello stesso disegno.

4.- Richiamati i termini del procedimento, risulta agevole rilevare l'infondatezza del primo profilo della questione sollevata, relativo alla mancata valutazione dei requisiti della necessità e dell'urgenza della norma contestata. In realtà, il fatto che tale articolo sia stato introdotto dal Parlamento nel corso dell'esame di un disegno di legge di conversione rende del tutto non pertinente il richiamo all'art. 77 della Costituzione ed ai requisiti ivi contemplati in relazione ai decreti-legge.

La valutazione preliminare dei presupposti della necessità e dell'urgenza investe, infatti, secondo il disposto costituzionale, soltanto la fase della decretazione di urgenza esercitata dal Governo, nè può estendersi alle norme che le Camere, in sede di conversione del decreto-legge, possano avere introdotto come disciplina "aggiunta" a quella dello stesso decreto: disciplina imputabile esclusivamente al Parlamento e che - a differenza di quella espressa con la decretazione d'urgenza del Governo - non dispone di una forza provvisoria, ma viene ad assumere la propria efficacia solo al momento dell'entrata in vigore della legge di conversione (v. art. 15, comma 5, della legge 23 agosto 1988, n. 400).

5.- Infondato si presenta anche il secondo profilo della censura, riferito all'asserita disomogeneità dell'oggetto regolato con la misura impugnata (indennità di esproprio) rispetto ai contenuti propri della materia disciplinata attraverso il decreto-legge n. 333 del 1992.

In proposito basti solo rilevare che un vincolo di omogeneità rispetto ai contenuti del decreto-legge è stato introdotto con l'art. 15, comma 3, della legge n. 400 del 1988, dove, a integrazione dell'art. 77 della Costituzione, si stabilisce che i decreti-legge "devono contenere misure di immediata applicazione ed il loro contenuto deve essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo". Tale previsione - indubbiamente giustificata, ma sprovvista della forza costituzionale - risulta riferita al contenuto del decreto-legge nè può essere, di conseguenza, estesa al caso in esame, dove viene in gioco il contenuto di una norma introdotta, per la prima volta, in sede di legge di conversione. A questo si aggiunga che la disciplina relativa all'indennità di esproprio, contenuta nella norma impugnata - che ha superato il controllo di ammissibilità di cui all'art. 96-bis, comma 8, del Regolamento della Camera - non si presenta dissonante con il quadro delle misure dettate, ai fini del risanamento della finanza pubblica, dal decreto-legge n. 333, misure che hanno investito il contenimento della spesa pubblica e non soltanto la materia tributaria.

6.- Va, infine, disatteso anche il terzo profilo della questione sollevata, che investe, in particolare, la violazione dell'art. 72 della Costituzione.

104

Con tale profilo viene contestato il fatto che la norma impugnata, a seguito della questione di fiducia posta dal Governo sull'articolo unico della legge di conversione, è stata approvata dalle Camere senza una specifica discussione e votazione, in particolare, senza quella approvazione "articolo per articolo" di cui parla l'art. 72, primo comma, della Costituzione.

In ordine a tale profilo va innanzitutto rilevato che l'art. 72 della Costituzione affianca al procedimento ordinario di approvazione della legge alcuni procedimenti speciali, la cui disciplina viene affidata ai regolamenti parlamentari.

Tra i procedimenti speciali non contemplati dalla costituzione, ma previsti e disciplinati in sede regolamentare, possono essere ricompresi anche quello relativo all'approvazione dei disegni di legge di conversione dei decreti-legge (art. 96-bis Reg. Camera e art. 78 Reg. Senato), nonchè quello concernente la posizione della questione di fiducia da parte del Governo sull'approvazione o reiezione di emendamenti ad articoli di progetti di legge (art. 116 Reg. Camera e art. 161, comma 4, Reg. Senato).

Nella specie - vertendosi in tema di approvazione di un disegno di legge di conversione di un decreto-legge su cui il Governo aveva posto la questione di fiducia - il punto da sottolineare è che l'approvazione delle Camere si è perfettamente adeguata al rispetto delle previsioni regolamentari concernenti sia l'uno che l'altro procedimento: con la conseguenza che la discussione e la votazione si è venuta a concentrare - ai sensi dell'art. 116, comma 2, Reg. Camera - sull'articolo unico del disegno di conversione.

Questo non significa, peraltro, che le Camere non abbiano potuto decidere con piena cognizione di tutte le modificazioni apportate, nel corso della procedura, al disegno di legge di conversione del decreto-legge n. 333 del 1992, e, in particolare, dell'art. 5-bis introdotto dalle Commissioni riunite V e VI della Camera.

Il testo dell'art. 5-bis - al pari delle altre modifiche introdotte in sede di conversione - risultava, infatti, allegato all'articolo unico del disegno di legge di conversione e poteva, di conseguenza, formare oggetto, se non di voto separato, di discussione nell'ambito di ciascuna Camera (v. in proposito anche l'art. 85, comma 6, Reg. Camera, dove si dispone che "la discussione dell'articolo del disegno di legge che converte un decreto-legge avviene sul complesso degli emendamenti, subemendamenti ed articoli aggiuntivi riferiti a ciascuno degli articoli del decreto-legge").

Il rispetto da parte delle Camere della procedura desumibile dalla disciplina regolamentare speciale relativa all'approvazione di un disegno di legge di conversione su cui il Governo abbia posto la questione di fiducia conduce, dunque, a escludere che, nel caso in esame, si sia potuta configurare la lesione delle norme procedurali fissate nell'art. 72 della Costituzione che l'ordinanza contesta.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis della legge 8 agosto 1992, n. 359, di conversione del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), sollevata, in relazione agli artt. 72 e 77 della Costituzione, dalla Corte di appello di Torino con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il .

105

SENTENZA N. 7 DEL 1996

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente :

Avv. Mauro FERRI

Giudici :

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

Avv. Massimo VARI

Dott. Cesare RUPERTO

Dott. Riccardo CHIEPPA

Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio promosso con ricorso del dott. Filippo Mancuso, nella qualità di Ministro di grazia e giustizia-Guardasigilli pro tempore, notificato il 30 ottobre 1995, depositato in Cancelleria il 2 novembre successivo ed iscritto al n. 35 del registro conflitti 1995, per conflitto di attribuzione sorto a seguito:

1) della mozione in data 4 luglio 1995, così come presentata e posta all'ordine del giorno del 18 ottobre 1995 e messa a votazione nominale dal Senato della Repubblica nella seduta del 19 ottobre 1995;

2) dell'atto con cui il Presidente del Senato, per implicito o per esplicito, ha ammesso a discussione la mozione di sfiducia;

106

3) della proclamazione dei risultati della votazione sulla mozione impugnata, di accoglimento della mozione stessa, così come dichiarata dal Presidente del Senato della Repubblica nella seduta del 19 ottobre 1995;

4) della proposta del Presidente del Consiglio dei ministri per il conferimento, a se medesimo, dell'incarico di Ministro di grazia e giustizia ad interim;

5) del decreto in data 19 ottobre 1995, del Presidente della Repubblica, con il quale è stato conferito l'incarico di Ministro di grazia e giustizia ad interim al Presidente del Consiglio dei ministri, dott. Lamberto Dini;

6) dell'atto successivo, in data 20 ottobre 1995, con il quale il Presidente del Consiglio dei ministri, dott. Lamberto Dini, ha chiesto ed ottenuto "il passaggio delle consegne" del Ministero di grazia e giustizia.

Visti gli atti di costituzione del Senato della Repubblica, della Camera dei deputati, del Presidente del Consiglio dei ministri e del Presidente della Repubblica;

udito nell'udienza pubblica del 5 dicembre 1995 il Giudice relatore Massimo Vari;

uditi gli avvocati Fabrizio Salberini, Donatella Resta e Franco G. Scoca per il dott. Filippo Mancuso; gli avvocati Giuseppe Guarino e Paolo Barile per il Senato della Repubblica; gli avvocati Giuseppe Abbamonte e Feliciano Benvenuti per la Camera dei deputati; l'Avvocato Generale dello Stato Giorgio Zagari per il Presidente del Consiglio dei ministri e per il Presidente della Repubblica.

Ritenuto in fatto

1.-- Con ricorso del 18 ottobre 1995, depositato il successivo 19, il dott. Filippo Mancuso, nella qualità di Ministro di grazia e giustizia-Guardasigilli pro tempore, quale "titolare del potere di esercizio delle funzioni amministrative della giustizia, conferite, in via specifica ed esclusiva", dagli artt. 107 e 110 della Costituzione, ha sollevato conflitto di attribuzione contro il Senato della Repubblica, quale "titolare del potere di accordare o revocare la fiducia al Governo conferito dall'art. 94 della Costituzione".

Ricordata la mozione del 18 maggio 1995, votata dal Senato in materia di attività ispettiva del Ministro di grazia e giustizia, il ricorrente impugna la successiva mozione del 4 luglio 1995 "da discutere nella seduta in data 18 ottobre 1995", con la quale il Senato avrebbe espresso "sfiducia" al Ministro di grazia e giustizia "pro tempore", quale responsabile individuale degli atti del proprio dicastero.

2.-- Quanto all'individuazione e alla legittimazione delle parti in conflitto, si osserva che "laddove entrino in conflitto con altri poteri dello Stato, quelli attribuiti dalla Costituzione al Ministro di grazia e giustizia, quale titolare del potere di esercizio delle funzioni amministrative della giustizia ex artt. 107 e 110 della Costituzione, è quel Ministro e non altri il legittimo contraddittore dell'organo investito del potere contrapposto con espressa esclusione del Presidente del Consiglio".

Relativamente all'altra parte in conflitto, è pacifico -- secondo il ricorrente -- che il Senato della Repubblica sia organo competente "a dichiarare definitivamente la volontà del potere" (art. 37 della legge n. 87 del 1953) "quanto alla formulazione delle mozioni di fiducia o sfiducia costituenti un potere tipico, istituzionale, di quell'Organo".

3.-- Il profilo oggettivo del conflitto risiederebbe nella volontà del Senato della Repubblica di sfiduciare, "personalmente e singolarmente", il Ministro di grazia e giustizia, per le

107

attività di cui agli artt. 107 e 110 della Costituzione, che si assumono esercitate con modalità "confliggenti con il recupero della serenità istituzionale necessaria ad assicurare l'indipendente esercizio della funzione giudiziaria".

Pur dando atto che il conflitto è, allo stato di proposizione del ricorso "soltanto virtuale", si assume comunque la "inammissibilità della iniziativa volta alla sfiducia de qua", sotto un triplice profilo: 1) della "inammissibilità di una personalizzazione dell'istituto della mozione parlamentare di sfiducia"; 2) della "inesistenza, nel caso di specie, di una responsabilità politica (e di qualsiasi ulteriore responsabilità) del ministro da sfiduciare"; 3) infine "della vindicatio potestatis del Guardasigilli in relazione ai poteri specifici che costituzionalmente gli competono".

Dopo aver rilevato che il rapporto fiduciario Camere-Governo "nel suo complesso" appare "insuscettibile di essere parzializzato, e parzialmente revocato, a scapito della unitarietà delle funzioni del Governo stesso (art. 95 della Costituzione e art. 2 della legge n. 400 del 1988) e della sua collegialità", si osserva che, d'altra parte, le eventuali conseguenze dell'approvazione di una mozione di sfiducia individuale "sembrano difficilmente collocabili nel presente assetto costituzionale se non ipotizzando le dimissioni dell'intero Governo, in assenza di quelle del ministro sfiduciato, non certo revocabile in mancanza di qualsiasi indizio normativo che ne consenta il ritiro dal Governo con siffatte modalità".

Sull'uso, invece, della mozione di sfiducia come "procedura surrettiziamente allusiva all'impeachement anglosassone", attraverso una chiamata di responsabilità del Ministro di grazia e giustizia per atti e fatti del suo dicastero, si ritiene -- muovendo dalla distinzione fra responsabilità "politica" e "giuridica" dei ministri -- che la responsabilità politica individuale si configuri come una responsabilità imperfetta, "giacché le Camere possono bensì chiedere conto dell'operato dei ministri mediante gli strumenti del sindacato parlamentare (interrogazioni, interpellanze, inchieste parlamentari), ma non possono attivare un provvedimento sanzionatorio a carico di un ministro se non coinvolgendovi collegialmente l'intero Governo".

Quanto alla responsabilità giuridica, "neppure la mozione ostile contro cui si ricorre ne ha potuto ipotizzare una qualsivoglia", a carico del ricorrente.

Lamentando un'"indebita interferenza" del Senato nell'attività amministrativa del Guardasigilli, si rileva che sia la mozione di sfiducia in discussione il 18 ottobre, sia quella precedente del 18 maggio, "originano e si riducono sostanzialmente ad una critica sommaria circa lo svolgimento di alcune incombenze amministrative, ed in particolare di alcune ispezioni", rappresentando siffatte valutazioni di merito come "risultato di un incondivisibile (per i presentatori) indirizzo politico proprio del ministro da sfiduciare", e suscitando il problema del "se" e "quanto" un organo parlamentare, ancorché di indiscussa autorevolezza, possa sovvertire le regole sulla responsabilità amministrativa, civile e penale dei ministri per gli atti del loro dicastero.

La mozione impugnata, dando per scontato che l'esercizio dei poteri autonomamente spettanti al Ministro di grazia e giustizia in materia ispettiva "non si sarebbe sempre ispirato agli indirizzi generali del Governo in materia di equilibrato rapporto tra i poteri dello Stato, ovvero si sarebbe svolto secondo principi di inadeguatezza e di non proporzionalità tra i comportamenti in astratto addebitabili ai magistrati e la tutela dei beni a garanzia dei quali la facoltà di azione disciplinare è attribuita al Ministro", lamenterebbe "la mancanza di indirizzi di governo in ordine alle problematiche dell'attività ispettiva del Ministro, rivolti per un verso ad evitare interferenze di tale attività sull'indipendente esercizio della funzione

108

giudiziaria, e per altro verso a prevedere che eventuali interruzioni del rapporto di collaborazione tra i magistrati ispettori e il Ministro fossero adeguatamente motivate".

Ad avviso del ricorrente, dette doglianze, "del tutto infondate nel merito", costituirebbero "una indebita intromissione di un organo legislativo nella attività dell'esecutivo, anche per la ulteriore pretesa di voler dettare regole di buona amministrazione con un mezzo, quello della mozione di sfiducia, assolutamente non preordinato dal Costituente a tale scopo".

Del resto, contro le attività amministrative che si assumano illegittime, o addirittura illegali, "l'ordinamento appronta più di un mezzo per la loro rimozione dal mondo giuridico", senza necessità di chiamare in causa "la credibilità politica del Ministro competente".

4.-- Con atto del 21 ottobre 1995, depositato il 23 successivo, "il Ministro dott. Filippo Mancuso, quale titolare del potere di esercizio delle funzioni amministrative della giustizia, conferite, in via specifica ed esclusiva", dagli artt. 107 e 110 della Costituzione, ha proposto un ulteriore ricorso per conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato contro: a) il Senato della Repubblica, quale "titolare del potere di accordare o revocare la fiducia al Governo conferito dall'art. 94 della Costituzione"; b) il Presidente del Consiglio dei ministri, "quale titolare del potere di proporre al Presidente della Repubblica il suo nome per assumere ad interim le funzioni di Ministro Guardasigilli, ai sensi dell'art. 92 della Costituzione"; c) il Presidente della Repubblica, "quale titolare del potere di affidare al Presidente del Consiglio l'incarico ad interim di Ministro di Grazia e Giustizia, ai sensi dell'art. 92 della Costituzione".

5.-- Il ricorrente ha chiesto l'annullamento dei seguenti atti:

1) della mozione in data 4 luglio 1995, così come presentata e posta all'ordine del giorno del 18 ottobre 1995 e messa a votazione nominale dal Senato della Repubblica nella seduta del 19 ottobre 1995;

2) dell'atto con cui il Presidente del Senato, per implicito o per esplicito, ha ammesso a discussione la mozione di sfiducia de qua;

3) della proclamazione dei risultati della votazione sulla mozione impugnata, di accoglimento della mozione stessa, così come dichiarata dal Presidente del Senato della Repubblica nella seduta del 19 ottobre 1995;

4) della proposta del Presidente del Consiglio dei ministri per il conferimento, a se medesimo, ad interim, dell'incarico di Ministro di grazia e giustizia;

5) del decreto in data 19 ottobre 1995, del Presidente della Repubblica, con il quale è stato decretato il conferimento dell'incarico di Ministro di grazia e giustizia ad interim al Presidente del Consiglio dei ministri, dott. Lamberto Dini;

6) dell'atto successivo, in data 20 ottobre 1995, con il quale il Presidente del Consiglio dei ministri, dott. Lamberto Dini, ha chiesto ed ottenuto dal Ministro Mancuso, che ne contestava la legittimità, "il passaggio delle consegne" del Ministero di grazia e giustizia.

6.-- Il ricorrente ribadisce, anzitutto, la propria legittimazione soggettiva "quale titolare del potere di esercizio delle funzioni amministrative della giustizia ex artt. 107 e 110 della Costituzione"; osserva, poi, relativamente alle altre parti in conflitto, che appare pacifico che esse siano organi competenti "a dichiarare definitivamente la volontà dei poteri" (art. 37 della legge n. 87 del 1953): il Senato "quanto alla formulazione delle mozioni di fiducia o sfiducia"; il Presidente del Consiglio dei ministri e il Presidente della Repubblica quanto

109

alla nomina dei ministri. Questi poteri risultano ora "degenerati in conflitto", perché: a) il primo "non indirizzato, come stabilito dalla Costituzione, al Governo nel suo complesso, ma al solo Ministro Guardasigilli" e comunque volto a sindacare una funzione propria di questo; b) gli altri due carenti dei necessari presupposti e comunque al di là dei poteri istituzionali (ove il decreto del Presidente della Repubblica voglia intendersi come atto di destituzione implicita del Ministro dalla carica).

7.-- Quanto, poi, al profilo oggettivo del conflitto, esso risiederebbe: 1) nella volontà del Senato della Repubblica di sfiduciare il Ministro di grazia e giustizia, per l'esercizio delle attività di cui agli artt. 107 e 110 della Costituzione; 2) nella volontà del Presidente della Repubblica di nominare, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, un altro Ministro Guardasigilli (senza peraltro aver assunto alcuna determinazione riguardo al primo).

Premesso il carattere "attuale" del conflitto, si ribadisce, conformemente a quanto già assunto con il primo ricorso, la inammissibilità della iniziativa volta alla sfiducia verso un singolo ministro, sotto il triplice profilo già prospettato nella prima impugnativa.

Nel ribadire le considerazioni già svolte nel primo ricorso sul fatto che il rapporto fiduciario Camere-Governo "nel suo complesso" appare insuscettibile di essere "parzializzato, e parzialmente revocato", si soggiunge che la fattispecie non potrebbe essere "giustificata con il ricorso alle non consolidate figure della convenzione parlamentare". Infatti, premesso che "il regolamento del Senato non contempla le mozioni di sfiducia al singolo Ministro", si potrebbe supporre "una ipotesi convenzionale", ove non fosse intervenuto il dissenso di taluni gruppi parlamentari, come è invece accaduto.

Tanto rilevato, il ricorso riprende sostanzialmente le argomentazioni già svolte nel primo, segnatamente per quanto attiene alla mozione di sfiducia individuale.

8.-- Quanto poi all'atto di proposta del Presidente del Consiglio dei ministri al Presidente della Repubblica per il conferimento ad interim dell'incarico di Ministro di grazia e giustizia, se ne sostiene il "contrasto con il dettato costituzionale", per le ragioni di seguito esposte.

Premesso che "i conflitti tra ministri devono essere risolti nell'ambito del Consiglio dei ministri", si rileva che la vicenda de qua denuncia invece l'esistenza di una "frattura verificatasi in seno al Governo" e che "tale situazione sarebbe inconcepibile se avesse riguardato un conflitto di carattere politico", da risolvere comunque nel Consiglio dei ministri, "in quanto una scelta politica assume sempre carattere globale ed è imputabile all'intero Governo". Si ritiene che la vicenda in questione sia "stata invece resa possibile per il fatto che non si è mai contraddetto un atto politico del Ministro, ma piuttosto la decisione di adottare, ovvero l'aver adottato uno o più atti amministrativi rientranti nelle funzioni specifiche costituzionalmente proprie del Guardasigilli".

Osservato che dal decreto presidenziale risulta che il Presidente della Repubblica ha "preso atto" che con l'approvazione di una mozione di sfiducia individuale è venuta meno la condizione essenziale e indefettibile della permanenza del ricorrente nella carica di ministro, si rileva l'anomalia del conferimento dell'incarico di Guardasigilli ad interim "senza però nulla disporre riguardo al Ministro Mancuso in carica e senza decretarne esplicitamente la revoca", non senza osservare che "la pronuncia di sfiducia obbliga il Governo alle dimissioni", che costituiscono comunque un atto spontaneo ed una autonoma manifestazione di volontà da parte dell'organo sfiduciato.

110

Ricordato che la dottrina si è a lungo interrogata sul punto se "il rifiuto di dimissioni da parte del Presidente del Consiglio dei ministri, il cui Governo sia stato colpito da sfiducia, consenta al Presidente della Repubblica di intervenire autoritativamente per il ripristino dell'ordine costituzionale con un atto di revoca dell'incarico (rectius, di destituzione)", si rileva che "tanto meno sarebbe ipotizzabile un atto di revoca nei confronti del singolo ministro".

Peraltro, non essendo, nel caso presente, intervenuta "alcuna proposta né alcun decreto di revoca dall'incarico", l'unica indicazione al riguardo risulterebbe costituita dalla premessa formulata nel preambolo del decreto, "come 'presa d'atto' di una circostanza che, come tale, è insuscettibile di produrre l'effetto giuridico della decadenza dall'incarico".

Se ne ricaverebbe che, affidato l'incarico di Ministro Guardasigilli al Presidente del Consiglio dei ministri, il Ministro Mancuso sia stato "sospeso" dalle funzioni di Guardasigilli, mantenendo la carica di Ministro, "rimanendo così nella compagine governativa in posizione assimilabile a quella del ministro senza portafoglio".

Affermando, in conclusione, che la revoca dalla carica di ministro, non prevista in Costituzione, non è "né legittima, né possibile" e che essa "comunque non è stata pronunciata", si chiede l'annullamento degli atti impugnati.

9.-- In data 23 ottobre 1995 il ricorrente ha presentato, in riferimento al ricorso per conflitto di attribuzione contro il Senato della Repubblica proposto a questa Corte in data 18 ottobre 1995, una "memoria illustrativa" contenente "motivi aggiunti".

Si precisa in detta memoria che, a seguito della votazione nominale della mozione approvata dal Senato nella seduta del 19 ottobre 1995, il ricorrente reputa "necessario" impugnare, "oltre alla mozione in data 4 luglio 1995 così come presentata e messa all'ordine del giorno del 18 ottobre 1995" una serie di atti puntualmente indicati corrispondenti a quelli già oggetto del secondo ricorso.

Nel merito, si deduce che la mozione di sfiducia inizialmente impugnata, costituita da una "proposta" e da un provvedimento di "messa in discussione" della proposta medesima, avrebbe attivato "un meccanismo confittuale la cui virtualità, nel caso di specie, è da riferire agli effetti ulteriori, eventuali e concreti della sfiducia richiesta con la mozione".

Ne conseguirebbe che "la mozione di sfiducia de qua, e l'atto che ne autorizzò la discussione, certamente condussero ad una ipotesi, per così dire, iniziale, di conflitto di attribuzioni", "suscettibile o di esaurirsi, o di condurre ad ulteriori effetti".

Riprendendo le argomentazioni già svolte, soprattutto nel secondo ricorso, si osserva tra l'altro che:

a) la mozione di sfiducia de qua -- la cui "praticabilità" si definisce "scarsissima" -- ha portato alla revoca, ancorché implicita, al Ministro Mancuso della sola attribuzione del dicastero della giustizia;

b) il Ministro Guardasigilli viene chiamato "a responsabilità inesistenti e comunque inammissibili sul piano della fiducia governativa", posto che l'ordinamento "prevede più di un mezzo a tutela di quanti siano interessati dai provvedimenti ministeriali".

Anche in ordine al conferimento dell'incarico ad interim si ripetono sostanzialmente le argomentazioni già svolte nel secondo ricorso, chiedendo conclusivamente l'annullamento degli atti impugnati.

111

10.-- Con ordinanza n. 470 del 27 ottobre 1995, la Corte, premesso che ai fini della determinazione del thema decidendum il primo ricorso può ritenersi contenuto e ricompreso nel secondo; e premesso altresí che l'oggetto del conflitto riguarda essenzialmente la mozione di sfiducia votata il 19 ottobre 1995, nonché il decreto in pari data con il quale il Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, ha conferito a quest'ultimo l'incarico ad interim di Ministro della giustizia, ha dichiarato ammissibile il conflitto sollevato nei confronti del Senato della Repubblica, del Presidente del Consiglio dei ministri e del Presidente della Repubblica; ha disposto, a cura del ricorrente, la notifica del ricorso e dell'ordinanza al Senato della Repubblica, al Presidente del Consiglio dei ministri, al Presidente della Repubblica, nonché alla Camera dei deputati, ritenendo anche quest'ultima interessata al conflitto.

11.-- In data 17 novembre 1995 si è costituito in giudizio il Senato della Repubblica, chiedendo di dichiarare inammissibile e comunque infondato il ricorso.

Dopo aver eccepito che il primo ricorso, depositato il 19 ottobre 1995, non essendo stato notificato al Senato, dovrebbe essere giudicato inammissibile od irricevibile, si deduce, quanto al secondo ricorso e cioè quello recante la data 21 ottobre 1995, notificato al Senato della Repubblica in data 30 ottobre 1995, che alla data del ricorso il dottor Filippo Mancuso era privo di qualsiasi legittimazione a ricorrere nella qualità di Ministro della giustizia, in quanto tale qualità era venuta meno sin dal 19 ottobre 1995 per effetto della nomina del nuovo Ministro. Né il conflitto può ritenersi sollevato dal dott. Filippo Mancuso in proprio, giacché, in questo caso, egli avrebbe dovuto rivolgersi specificamente contro il Ministero della giustizia.

Nel merito il ricorso sarebbe infondato. La mozione, infatti, ivi compresa quella di sfiducia, è un atto politico e come tale insindacabile nel merito, anzi, irrilevante sotto qualsiasi profilo che non sia quello politico.

L'atto del Senato appare conforme alla Costituzione, né rileva il fatto che la mozione sia o meno prevista dal regolamento delle singole Camere. Gli effetti derivanti dalla approvazione di una mozione siffatta sono esterni al Senato: in primis, l'obbligo del titolare dell'organo colpito da sfiducia di dimettersi. Qualora questo obbligo non sia rispettato, il Presidente della Repubblica può nominare il nuovo titolare dell'ufficio, con sostituzione del titolare sfiduciato.

12.-- Nella medesima data si è costituita, altresí, in giudizio la Camera dei deputati, la quale evidenzia che essa, a norma dell'art. 115 del suo regolamento, può votare la sfiducia ad un singolo ministro, affermando, nel contempo, che le Camere possono sempre verificare la persistenza del rapporto di fiducia, anche per quel che riguarda gli atti di competenza dei singoli ministri.

Con una successiva memoria depositata in data 21 novembre 1995, la difesa della Camera dei deputati, eccepito che il primo ricorso dovrebbe essere dichiarato improcedibile, per mancata notifica, deduce, altresí, l'inammissibilità del secondo ricorso in quanto proposto dal dott. Filippo Mancuso in una qualità, quella di Ministro della giustizia, che aveva perduto fin dal 19 ottobre 1995.

Nel merito, si riafferma il potere della Camera di sfiduciare un singolo ministro, ai sensi dell'art. 115 del proprio regolamento.

Ricordato, altresí, che non è ammesso il controllo della Corte costituzionale né sui regolamenti parlamentari, né sulla loro applicazione, si deduce, quanto alla sfiducia votata

112

dal Senato al singolo ministro, che si tratta di attività di controllo che non può non spettare all'uno e all'altro ramo del Parlamento, anche in assenza di una previsione regolamentare espressa.

Ricordate le altre disposizioni costituzionali che, in aggiunta all'art. 95 della Costituzione, fondano la responsabilità dei singoli ministri, per le competenze individualmente esercitate (in primis l'art. 89 della Costituzione), si sostiene che è la stessa posizione costituzionale rivendicata dal ricorrente, di autonomia nell'esercizio delle funzioni ex artt. 107 e 110 della Costituzione, che, in regime parlamentare, lo rende individualmente responsabile verso il Parlamento.

A seguito del voto di sfiducia, la correttezza costituzionale e lo stesso tenore degli artt. 94 e 95 della Costituzione avrebbero imposto le dimissioni. Il Ministro ha risposto elevando conflitto ed il Capo dello Stato ha garantito la continuità della funzione conferendo l'interim al Presidente del Consiglio dei ministri.

13.-- In data 18 novembre 1995 si sono costituiti in giudizio anche il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentati e difesi dall'Avvocato generale dello Stato, per chiedere che il ricorso venga dichiarato inammissibile o comunque infondato.

Premesso che il ricorso ha sollevato "due diversi e distinti conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato" -- uno contro il Senato della Repubblica, l'altro contro il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio dei ministri -- si chiede, quanto al secondo, "una nuova valutazione della ricorrenza di tutti i requisiti soggettivi e oggettivi del conflitto sollevato", osservando che "il potere di nomina dei ministri non esprime un potere proprio del Presidente della Repubblica": con la controfirma è il Presidente del Consiglio dei ministri che assume ogni responsabilità, non solo politica, ma anche giuridica, del provvedimento.

Atteso che il ricorrente lamenta la lesione delle attribuzioni garantite al Ministro di grazia e giustizia dagli artt. 107 e 110 della Costituzione, si osserva che il provvedimento impugnato "realizza ed esaurisce i suoi effetti in termini puramente soggettivi", senza provocare "alcuna menomazione delle attribuzioni dell'organo", per cui non può formare oggetto di conflitto.

Quanto ai presupposti soggettivi, all'atto della proposizione del secondo ricorso il ricorrente non rivestiva più la carica di Ministro di grazia e giustizia e non aveva pertanto legittimazione a sollevare conflitto né a "proporre alcunché a nome e nell'interesse di quel potere dello Stato".

"Né il ricorrente potrebbe sostenere che, tuttavia, egli rivestiva la carica di Ministro di grazia e giustizia quando ha presentato il primo ricorso": questo, infatti, diretto soltanto nei confronti del Senato della Repubblica, è stato "correttamente ed opportunamente ritenuto" dalla Corte compreso nel secondo, i cui effetti è da escludere che "possano, in qualche modo, retroagire alla presentazione del primo ricorso", almeno per quanto riguarda il conflitto elevato a seguito del decreto del Presidente della Repubblica.

"Del tutto destituita di fondamento in fatto e in diritto" è infine la tesi del ricorrente secondo cui egli "conserverebbe comunque la carica di ministro, pur senza le funzioni proprie di titolare del Ministero di grazia e giustizia". E comunque, in ogni caso, "atteso che la denunciata menomazione delle attribuzioni costituzionali riguarda in modo esclusivo proprio quelle del Ministro di grazia e giustizia", "nessun altro ministro può ritenersi

113

legittimato a sollevare conflitto" per la tutela delle medesime. Ne consegue che al ricorrente "manca altresì titolo per proseguire il giudizio".

Nel merito, si osserva che la questione riguarda due diversi profili: a) l'ammissibilità della sfiducia individuale; b) l'ammissibilità della medesima nei confronti del Ministro di grazia e giustizia, in relazione alle attribuzioni a lui specificamente attribuite dalla Costituzione.

Quanto al primo profilo si osserva che il Costituente, pur introducendo la forma di governo parlamentare, "ha poi lasciato tale forma aperta a diverse opzioni e a possibili diverse soluzioni", per consentire "una adattabilità nel tempo alle concrete esigenze del naturale sviluppo della società civile e politica". In tale contesto, il costante rapporto fiduciario tra Governo e Parlamento "non può che valere tanto per il Governo nel suo insieme, quanto per i singoli ministri".

Quanto alla circostanza che il regolamento del Senato, a differenza di quello della Camera dei deputati, non prevede la mozione di sfiducia individuale, si rammenta che il Senato ne ha tuttavia riconosciuto l'ammissibilità sin dal 1984.

Osservato, in fatto, che "non risponde al vero che la mozione approvata dal Senato riguardi esclusivamente" le attribuzioni del Ministro di grazia e giustizia e, in diritto, che le medesime non possono risultare insindacabili, si osserva che "le funzioni attribuite dalla Carta costituzionale al Ministro di grazia e giustizia non sono diverse, per natura e finalità, da quelle che le norme ordinarie attribuiscono ad ogni ministro nel settore di competenza": la ragione della specifica previsione costituzionale consiste nell'obiettivo di delimitare la sfera di competenza del Governo rispetto a quella del Consiglio superiore della magistratura.

Rilevato, poi, che, in sede di conflitto tra poteri, non sono sindacabili "le ragioni per le quali l'altro potere sia stato esercitato", si deduce, in ordine al provvedimento di conferimento dell'incarico ad interim ed ai connessi atti, che: 1) è "assurda" la tesi secondo la quale un ministro, privato dell'incarico a suo tempo attribuito, resti tuttavia ministro, pur senza il conferimento di un altro incarico; 2) la pronuncia di sfiducia comporta l'obbligo delle dimissioni; 3) la necessità dell'intervento del Presidente della Repubblica o del Presidente del Consiglio dei ministri può ben presentarsi di fronte ad inerzie o mancati adempimenti di obblighi costituzionali, come nel caso di mancate dimissioni; 4) il decreto impugnato contiene "quel provvedimento di accertamento che è divenuta contro legge la permanenza nell'incarico e quel conseguente provvedimento di sostituzione" dei quali il ricorrente nega la sussistenza.

14.-- In data 28 novembre 1995 la difesa del Senato della Repubblica ha depositato una ulteriore memoria, nella quale si sostiene che, ferma la responsabilità collegiale dei ministri nei confronti delle Camere, il principio della responsabilità politica solidale non può valere nel caso in cui un ministro operi in contrasto con il Governo.

Affermato che il fondamento del voto di sfiducia individuale, con il conseguente obbligo del ministro sfiduciato di presentare le dimissioni, deriva dal "principio che contraddistingue il regime parlamentare, quello cioè della responsabilità politica del Governo e dei singoli ministri nei confronti del Parlamento", si rileva che "in Senato si è formata una ormai non contestabile prassi nel senso dell'ammissibilità della sfiducia al singolo ministro", che si configura come interpretazione della disciplina costituzionale. Si osserva, tra l'altro, che, mentre la fiducia al Governo non può che essere unica, poiché investe il programma, la sfiducia individuale può essere necessaria proprio per garantire il rispetto del programma governativo.

114

Rammentato che il principio espresso dall'art. 95 della Costituzione "non limita in alcun modo la responsabilità del singolo Ministro alla responsabilità giuridica", si rileva che, con la mozione di sfiducia individuale, il Senato ha espresso un giudizio politico sull'operato del ricorrente. D'altronde "è impensabile che l'attribuzione di specifiche competenze costituzionali al Ministro di grazia e giustizia valga a renderlo irresponsabile politicamente del suo operato".

Le censure del ricorrente sarebbero inammissibili anche "per la parte in cui tendono a censurare il contenuto di un atto politico espresso da un organo parlamentare".

Nel contempo si ribadiscono le considerazioni, già presenti nell'atto di costituzione, secondo le quali il dott. Mancuso ha sollevato conflitto in una qualità -- e cioè quella di ministro -- che alla data della proposizione del ricorso non aveva più.

Si insiste, infine, sulla legittimità della proposta del Presidente del Consiglio dei ministri e dell'atto del Presidente della Repubblica di nomina del nuovo Ministro della giustizia, a fronte del mancato adempimento dell'obbligo di dimissioni dell'organo colpito dalla sfiducia.

15.-- Sempre in data 28 novembre 1995 anche la difesa del ricorrente ha presentato una memoria per insistere nelle richieste già formulate.

Premesso, in fatto, un resoconto dettagliato dell'attività relativa alle iniziative legislative assunte dal dott. Mancuso come titolare del Ministero di grazia e giustizia, si ribadisce, in diritto, che "nessun dubbio può residuare in ordine alla legitimatio ad processum e alla legitimatio ad causam del Ministro di grazia e giustizia", in considerazione della sua peculiare posizione costituzionale, ex artt. 107 e 110 della Costituzione.

Precisato che "il conflitto involge la falsa applicazione degli artt. 94 e 95 della Costituzione da cui discende la lesione delle attribuzioni di cui agli artt. 107 e 110 della Costituzione" si osserva -- quanto alle eccezioni di inammissibilità, irricevibilità ed improcedibilità sollevate dalla Camera e dal Senato -- che "così argomentando le Camere finiscono con il confondere due fasi distinte delle procedure in esame", quella della verifica dei requisiti soggettivi e oggettivi e quella della ammissibilità, confondendo "il possesso dei requisiti con la legittimazione al conflitto".

Ad avviso del ricorrente, il giudizio sui requisiti circa l'ammissibilità del conflitto va considerato nel contesto della presentazione di due ricorsi, uno precedente e uno successivo al voto sulla mozione di sfiducia, e nei quali la continuità stessa della procedura e l'identità di motivi eliminavano ogni dubbio sul possesso dei requisiti oggettivi e soggettivi richiesti per accedere a questo tipo di procedure.

D'altra parte, l'assunto della difesa del Senato "secondo il quale l'atto costituzionale lesivo delle competenze o delle attribuzioni di un altro organo costituzionale, non potrebbe, salvo ipotesi limite, considerarsi inesistente ma solo illegittimo", "conduce a conseguenze inaccettabili proprio nelle fattispecie più gravi (cioè quando un potere viene spogliato sostanzialmente e formalmente delle attribuzioni costituzionali)".

Quanto alla tesi, sostenuta dall'Avvocatura generale, secondo la quale la lamentata menomazione sarebbe solo conseguenziale alla sostituzione nella titolarità dell'organo, si osserva che, stando al tenore dell'ordinanza di ammissibilità, "il conflitto non è fondato sulla incidenza soggettiva (nella persona del Ministro dott. Mancuso) degli atti impugnati (in particolare del decreto del Presidente della Repubblica), ma è stato sollevato in

115

relazione ad atti e comportamenti che invadono nella sostanza e nella forma le attribuzioni costituzionali che spettano al Ministro Guardasigilli".

Circa la sfiducia individuale, se ne ribadisce l'inammissibilità, anche alla luce dei lavori preparatori della Costituzione, anche perché "la formalizzazione di un rapporto fiduciario Parlamento-ministro, incidendo sulla distribuzione della sovranità, modificherebbe la forma di governo", ponendo in dubbio "non soltanto la supremazia del Presidente del Consiglio dei ministri, ma anche quella del Consiglio dei Ministri".

D'altro canto, se il Parlamento non ha votato alcuna fiducia al singolo ministro, non si vede come si possa poi procedere a troncare un rapporto che non si è mai formato.

Comunque, anche se si potesse ipotizzare l'ammissibilità dell'istituto, "la mozione di sfiducia ha come sua funzione tipica quella di censurare soltanto le deviazioni dall'indirizzo politico su cui il rapporto fiduciario si era instaurato".

Nella specie, invece, "tale istituto è stato impiegato per censurare la legittimità di atti che il Ministro ha posto in essere nell'esercizio di una funzione amministrativa a lui attribuita dalla Carta costituzionale" non in quanto componente del Governo, quanto, piuttosto, come organo monocratico posto al vertice del dicastero della giustizia, con manifesto sviamento nell'esercizio del potere.

Invero, piuttosto che trattarsi di una mozione di sfiducia individuale, si sarebbe trattato di una "mozione di censura" che "non determina alcun obbligo di dimissioni".

Rilevato poi che una eventuale incompatibilità tra l'indirizzo politico dell'intero Governo e l'azione di un singolo componente del Consiglio dei ministri va risolta all'interno di quest'ultimo, specialmente attraverso iniziative e poteri del Presidente del Consiglio, si contesta, in punto di fatto, che "sia sorto un effettivo conflitto tra l'indirizzo politico del Governo e quello perseguito dal Ministro Guardasigilli", stante la consapevole approvazione delle iniziative da parte del Presidente del Consiglio e stante il fatto che egli non avrebbe "mai portato tale (eventuale e solo ipotetico) conflitto all'attenzione della collegialità del Governo".

Ricordato che "la legittimità dei provvedimenti assunti dal Ministro Mancuso è stata ampiamente confermata dai Giudici del TAR di Milano", si nega, sempre in punto di fatto, con un dettagliato resoconto, la fondatezza del rilievo secondo cui il Ministro non avrebbe "assunto immediate iniziative per il recupero della funzionalità del servizio giustizia", dirigendosi esclusivamente verso "iniziative che hanno determinato condizioni di conflittualità".

Quanto agli effetti della mozione di sfiducia votata dal Senato, si ribadisce che la stessa non comporta l'obbligo di dimettersi. Comunque il ministro non si è dimesso; né può ipotizzarsi una sua automatica decadenza.

In conclusione, secondo la memoria, il decreto del Presidente della Repubblica, nel disporre la sostituzione del Ministro di grazia e giustizia, si basa su di un presupposto erroneamente dato per certo, il cui mancato verificarsi determina la nullità del dispositivo, producendo "l'anomalo effetto della presenza contemporanea di due Ministri nello stesso dicastero", e comunque l'effetto che "il Ministro Mancuso, pur spogliato delle funzioni di Guardasigilli, in conseguenza del decreto e dell'assunzione delle stesse funzioni da parte del Presidente Dini, ha mantenuto la qualifica di Ministro, che non gli è stata tolta e non ha volontariamente rimesso nelle mani del Presidente della Repubblica", e che gli dà "piena legittimazione ad agire in questa sede".

116

Considerato in diritto

1.-- Come risulta dalla narrativa di fatto, sono stati portati all'esame della Corte due ricorsi per conflitto di attribuzione. Con il primo, depositato il 19 ottobre 1995, il dott. Filippo Mancuso, nella qualità di Ministro di grazia e giustizia-Guardasigilli pro tempore, ha proposto censure nei confronti del Senato della Repubblica, in relazione alla mozione presentata il 4 luglio 1995, da discutere nella seduta del 18 ottobre 1995, con la quale il Senato stesso "esprimeva sfiducia" nei suoi confronti, "ai sensi dell'art. 95 della Costituzione, quale responsabile individuale degli atti del proprio dicastero".

Con il secondo, depositato il successivo 23 ottobre 1995, lo stesso ricorrente ha chiesto -- nei confronti del medesimo Senato della Repubblica, nonché del Presidente del Consiglio dei ministri e del Presidente della Repubblica -- l'annullamento dei seguenti atti "in quanto invasivi della sfera di attribuzioni conferita al Ministro di grazia e giustizia sia dall'art. 95, che, e soprattutto, dagli artt. 107 e 110 della Costituzione":

1) la mozione presentata in data 4 luglio 1995 al Senato della Repubblica, posta all'ordine del giorno della seduta del 18 ottobre 1995 e messa a votazione nominale nella seduta del 19 ottobre 1995;

2) l'atto con cui il Presidente del Senato, "per implicito o per esplicito", ha ammesso a discussione la mozione di sfiducia;

3) la proclamazione dei risultati della votazione sulla mozione impugnata, di accoglimento della mozione stessa, così come dichiarata dal Presidente del Senato della Repubblica nella seduta del 19 ottobre 1995;

4) la proposta del Presidente del Consiglio dei ministri per il conferimento, a sé medesimo, dell'incarico di Ministro di grazia e giustizia ad interim;

5) il decreto in data 19 ottobre 1995 del Presidente della Repubblica, con il quale è stato conferito l'incarico di Ministro di grazia e giustizia ad interim al Presidente del Consiglio dei ministri dott. Lamberto Dini;

6) l'atto successivo in data 20 ottobre 1995 con il quale il Presidente del Consiglio dei ministri, dott. Lamberto Dini, ha chiesto ed ottenuto "il passaggio delle consegne" del Ministero di grazia e giustizia.

2.-- Vanno, preliminarmente, esaminate le eccezioni sollevate da taluna delle parti in causa nel sostenere che il primo ricorso sarebbe da dichiarare improcedibile (secondo la difesa della Camera dei deputati), irricevibile o inammissibile (secondo la difesa del Senato della Repubblica) in ragione della mancata notifica alle parti stesse. Anche allo scopo di precisare l'ambito del presente giudizio, è da rammentare che la Corte, nella fase delibativa dell'ammissibilità dei conflitti, con l'ordinanza n. 470 del 27 ottobre 1995, "individuando" il thema decidendum e identificando l'interesse del ricorrente, ha considerato il primo ricorso, in ragione dei termini in cui risultava proposto, contenuto e ricompreso nel secondo.

Difatti, il ricorrente, sia con il primo che con il secondo ricorso, lamenta una lesione delle sue attribuzioni da ascrivere ad una unica sequenza di atti, imputabili, rispettivamente, al Senato della Repubblica, al Presidente del Consiglio dei ministri e al Presidente della Repubblica.

117

I due ricorsi sono sostanzialmente sovrapponibili, pur nella prospettazione di censure che tengono conto della diversa fase temporale alla quale lo svolgimento della vicenda era pervenuto, nel momento della proposizione di ciascuno di essi. La mozione di sfiducia che all'atto del primo ricorso risultava solo iscritta all'ordine del giorno dell'assemblea, una volta discussa e votata è divenuta oggetto del secondo ricorso, che viene così naturalmente ad assorbire e a ricomprendere anche l'oggetto del primo.

Le eccezioni sono, pertanto, infondate.

3.-- Sempre in via preliminare, va esaminata la questione della legittimazione a sollevare conflitto che il ricorrente, negli atti introduttivi del giudizio, ritiene di far discendere dalle sue peculiari attribuzioni, quale Ministro di grazia e giustizia, e dalla specifica considerazione di cui esse godono a livello costituzionale, segnatamente negli artt. 107 e 110, tali da collocarlo in una posizione che egli reputa differenziata rispetto a quella degli altri componenti del Governo, richiamando a tal fine un precedente della giurisprudenza costituzionale che riguarda la legittimazione passiva del medesimo in un conflitto con il Consiglio superiore della magistratura (sentenza n. 379 del 1992).

Nel caso in esame non sono quelle sopra accennate le ragioni che possono essere poste a base della legittimazione a ricorrere da parte del Ministro di grazia e giustizia, la cui posizione infatti non si differenzia, ai fini qui considerati, da quella degli altri ministri, dovendosi ricondurre anch'essa in quella prospettiva generale che ha indotto la giurisprudenza costituzionale ad escludere che la posizione del singolo ministro possa assumere specifico rilievo costituzionale in ordine ai conflitti di attribuzione e che, pertanto, lo stesso si qualifichi come potere dello Stato agli effetti dell'art. 37 della legge n. 87 del 1953.

E questo in quanto il potere esecutivo, come la Corte ha avuto già occasione di affermare più volte, non costituisce un potere "diffuso", ma si risolve, sotto il profilo che qui interessa, nell'intero Governo, abilitato a prendere parte ai conflitti tra i poteri dello Stato in base alla configurazione dell'organo stabilita nella Costituzione (v., da ultimo, in tal senso, la sentenza n. 420 del 1995).

La logica del governo parlamentare, proprio perché volta a privilegiare l'unità di indirizzo, fa sì che l'individualità dei singoli ministri resti di norma assorbita nella collegialità dell'organo di cui essi fanno parte. Pertanto, il contrasto che eventualmente insorga fra un potere dello Stato ed il singolo ministro si profila come conflitto che interessa e coinvolge l'intero Governo.

Diverso discorso va, invece, fatto quando la posizione del singolo ministro sia messa in discussione da una mozione di sfiducia individuale che, investendone l'operato, lo distingua e lo isoli dalla responsabilità correlata all'azione politica del Governo nella sua collegialità, dando luogo non solo ad una sua specifica legittimazione sul piano del conflitto con le Camere, ma comportando anche peculiari implicazioni, come si vedrà più avanti, sul piano della responsabilità individuale.

4.-- Sempre in ordine alla legittimazione del ricorrente, sotto il profilo dei necessari requisiti soggettivi, il Senato della Repubblica e la Camera dei deputati eccepiscono inoltre che i provvedimenti impugnati realizzerebbero ed esaurirebbero i loro effetti in termini puramente soggettivi e cioè esclusivamente riferiti alla persona del ricorrente, senza provocare alcuna menomazione delle attribuzioni dell'organo; e che il ricorrente, al momento della proposizione del secondo ricorso, avrebbe perso il titolo a ricorrere, perché ormai spogliato della carica. In ordine a tali eccezioni, va osservato che il ricorrente

118

lamenta, nel caso di specie, che, a causa di un'illegittima interferenza esercitata sulle sue attribuzioni da altri poteri, si è verificata, come effetto finale e conclusivo, la sua estromissione dall'ufficio. E tanto basta, dal punto di vista oggettivo, per rinvenire, nella prospettazione del ricorso, la configurazione del petitum proprio dei giudizi su conflitti, nei quali la Corte è chiamata a stabilire l'ambito delle competenze di ciascuno dei poteri in causa. Al tempo stesso è evidente la sussistenza dei requisiti soggettivi di legittimazione, per l'impossibilità di opporre al ricorrente il venir meno della carica, dal momento che nella prospettazione dell'interessato è proprio l'illegittimità degli atti e della spoliazione subita a costituire la ragione delle doglianze e quindi il fondamento della causa petendi.

Le eccezioni sollevate vanno, perciò, respinte.

5.-- Per quanto concerne la legittimazione a resistere, è sufficiente ribadire quanto già affermato nella citata ordinanza relativa all'ammissibilità del conflitto, e cioè che essa va indubbiamente riconosciuta sia al Senato della Repubblica, quale titolare del potere di accordare e revocare la fiducia ai sensi dell'art. 94 della Costituzione, sia al Presidente del Consiglio dei ministri e al Presidente della Repubblica, quali titolari rispettivamente del potere di proposta e del potere di nomina di cui all'art. 92 della Costituzione.

Va, inoltre, confermato che, poiché il conflitto investe, in generale, come si dirà in seguito, il problema dell'ammissibilità nel nostro ordinamento costituzionale dell'istituto della mozione di sfiducia nei confronti di un singolo ministro, tra gli organi interessati al conflitto medesimo, la cui individuazione spetta a questa Corte (v. sentenza n. 420 del 1995), deve essere compresa anche la Camera dei deputati.

6.-- Nel merito il ricorso deve essere respinto.

Come già rilevato nell'ordinanza adottata in sede di giudizio sull'ammissibilità del conflitto, gli atti che il ricorrente assume lesivi delle sue attribuzioni sono da individuare essenzialmente nella mozione di sfiducia votata dal Senato della Repubblica nella seduta del 19 ottobre 1995, nonché nel decreto, in pari data, con il quale il Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, ha conferito a quest'ultimo l'incarico di Ministro di grazia e giustizia ad interim.

Nei confronti degli stessi, il ricorso prospetta tre ordini di censura generali:

a) l'inammissibilità della personalizzazione dell'istituto della mozione parlamentare di sfiducia;

b) l'inesistenza di una responsabilità politica (e di qualsiasi ulteriore responsabilità) del Ministro da sfiduciare;

c) la lesione degli specifici poteri che costituzionalmente competono al Guardasigilli e che vengono perciò fatti valere sotto il profilo della vindicatio potestatis.

7.-- Con la prima delle richiamate censure, il ricorrente sostiene che "il rapporto fiduciario Camere-Governo nel suo complesso non sarebbe suscettibile di essere parzializzato, e parzialmente revocato", a scapito della unitarietà e della collegialità delle funzioni del Governo.

Si solleva, in tal modo, il problema dell'ammissibilità, nell'ordinamento costituzionale italiano, dell'istituto della sfiducia individuale, quale conseguenza della responsabilità politica dei singoli ministri.

119

Pur nel silenzio della Costituzione, il dibattito in argomento è risalente, tanto che se ne trova traccia nei lavori preparatori della Costituzione stessa, soprattutto negli aspetti della responsabilità politica del singolo componente del Governo e dell'obbligo di dimissioni eventualmente sul medesimo incombente. Già nella Commissione Forti, istituita nell'ambito del Ministero per la Costituente, si discusse ampiamente della possibilità di far valere la responsabilità politica dei singoli ministri, pervenendo, però, alla conclusione della inopportunità di "enunciare esplicitamente che la responsabilità politica, oltre che dell'intero Gabinetto, possa essere anche individuale, preferendo lasciare la questione a principi non scritti".

Che l'argomento, sia pure nella sua problematicità, fosse presente nel dibattito allora in corso, si evince anche dal progetto che venne sottoposto dalla "Commissione dei settantacinque" all'Assemblea costituente; progetto che prevedeva, in quello che poi sarebbe divenuto l'art. 94 della Costituzione, che la fiducia del Parlamento dovesse investire "primo ministro e ministri", mentre solo in seguito il destinatario divenne, con formula più sintetica, "il Governo". Aggiungasi che vari emendamenti presentati, in tema di conseguenze di un voto contrario ad una proposta governativa, prevedevano che esso non avrebbe comportato "come conseguenza le dimissioni del Governo o del ministro interessato".

D'altro canto, il fatto che l'istituto della sfiducia individuale non sia stato tradotto in una espressa previsione non porta a farlo ritenere fuori dal quadro costituzionale. Non avendo l'Assemblea costituente preso esplicita posizione sul tema, è da ritenere che essa non abbia inteso pregiudicare le modalità attuative che la forma di governo, così come definita, avrebbe consentito. Nella interpretazione della Costituzione, occorre privilegiare l'argomento logico-sistematico: si tratta, allora, di accertare se la sfiducia individuale, benché non contemplata espressamente, possa, tuttavia, reputarsi elemento intrinseco al disegno tracciato negli artt. 92, 94 e 95 della Costituzione, suscettibile di essere esplicitato in relazione alle esigenze poste dallo sviluppo storico del governo parlamentare.

8.-- La Costituzione, nel prevedere, all'art. 95, secondo comma, la responsabilità collegiale e la responsabilità individuale, conferisce sostanza alla responsabilità politica dei ministri, nella duplice veste di componenti della compagine governativa da un canto e di vertici dei rispettivi dicasteri dall'altro. Risulta dai lavori preparatori che, nella discussione relativa alla responsabilità del singolo ministro, la stessa, qualificata in un primo momento come "personale", diventò nel testo definitivo "individuale", con una modifica alla quale sarebbe ingiustificato attribuire solo rilievo lessicale, ignorando cosí il ben più sostanziale intento, che è invece dato cogliere, di stabilire una correlazione fra le due forme di responsabilità -- collegiale ed individuale -- nel comune quadro della responsabilità politica.

Nella forma di governo parlamentare, la relazione tra Parlamento e Governo si snoda secondo uno schema nel quale là dove esiste indirizzo politico esiste responsabilità, nelle due accennate varianti, e là dove esiste responsabilità non può non esistere rapporto fiduciario.

L'indirizzo politico che si colloca al centro di una siffatta articolazione di rapporti è assicurato, dunque, nella sua attuazione, dalla responsabilità collegiale e dalla responsabilità individuale contemplate dall'art. 95 della Costituzione; responsabilità che fanno capo ai soggetti specificamente indicati dall'art. 92 della Costituzione, vale a dire il Presidente del Consiglio dei ministri ed i ministri, nella duplice veste di componenti del Governo e di vertici dei dicasteri; e responsabilità, infine, definite, giusta l'art. 94 della Costituzione, nei loro termini anche temporali di riferimento, dall'instaurazione, da un canto, e dal venir meno, dall'altro, del rapporto fiduciario.

120

L'attività collegiale del Governo e l'attività individuale del singolo ministro -- svolgendosi in armonica correlazione -- si raccordano all'unitario obiettivo della realizzazione dell'indirizzo politico a determinare il quale concorrono Parlamento e Governo. Al venir meno di tale raccordo, l'ordinamento prevede strumenti di risoluzione politica del conflitto a disposizione tanto dell'esecutivo, attraverso le dimissioni dell'intero Governo ovvero del singolo ministro; quanto del Parlamento, attraverso la sfiducia, atta ad investire, a seconda dei casi, il Governo nella sua collegialità ovvero il singolo ministro, per la responsabilità politica che deriva dall'esercizio dei poteri spettantigli.

Né a smentire tali conclusioni può valere il rapporto di simmetria che il ricorrente tende a delineare fra mozione di fiducia e mozione di sfiducia. Ad escludere, infatti, che la sfiducia si configuri come atto eguale e contrario alla fiducia, donde una identica conseguente finalizzazione all'organo nella sua collegialità, è sufficiente considerare che la fiducia è la necessaria valutazione globale sulla composizione e sul programma politico del Governo al momento della sua presentazione alle Camere (art. 94), mentre la sfiducia è giudizio eventuale e successivo su comportamenti e, quindi, è valutazione non necessariamente rivolta al Governo nella sua collegialità, bensí suscettibile di essere indirizzata anche al singolo ministro.

Il vizio di fondo che inficia il ragionamento del ricorrente sta non certo nella convinzione che l'attività di governo debba ispirarsi al criterio della collegialità, quale mezzo necessario per assicurarne l'unitarietà dell'indirizzo, quanto piuttosto nella tesi che il principio della collegialità debba astringere tutti i componenti del Governo ad una comune sorte nella simultanea permanenza in carica ovvero nella cessazione dalla medesima, senza considerare che la collegialità stessa è metodo dell'azione dell'esecutivo che può essere infranto proprio dal comportamento dissonante del singolo, e che il recupero dell'unitarietà di indirizzo può essere favorito proprio dal ricorso, quando una delle Camere lo ritenga opportuno, all'istituto della sfiducia individuale.

Se una corrispondenza sul piano logico è dato istituire, essa attiene, invece, al rapporto fra responsabilità e sfiducia, giacché la Costituzione -- in particolare nell'art. 95, secondo comma -- configura una responsabilità politica individuale che non può non avere correlate implicazioni per quanto attiene alle conseguenze. Né v'è da temere che dall'ammissibilità dell'istituto della sfiducia individuale derivi, nel rapporto fra Parlamento e Governo, il rischio di una preminenza dell'organo parlamentare tale da amplificarne il ruolo e tale da esporre individualmente i singoli componenti dell'esecutivo ai mutevoli e contingenti orientamenti di maggioranze parlamentari, anche occasionali. Di fronte a mozioni di sfiducia presentate nei confronti dei singoli ministri, il Presidente del Consiglio che ne condivida l'operato può sempre, come del resto già accaduto in passato, trasferire la questione della fiducia sull'intero Governo.

9.-- A disegnare il modello di rapporti sopra indicato concorrono anche le fonti integrative del testo costituzionale. A questo proposito non vengono qui in considerazione tanto le convenzioni parlamentari, che il ricorrente definisce figure non consolidate, quanto piuttosto i regolamenti parlamentari e le prassi applicative, che, nel caso in esame, rappresentano l'inveramento storico di principi contenuti nello schema definito dagli artt. 92, 94 e 95 della Costituzione.

In tal senso, e al fine di assicurare alla sfiducia individuale le stesse garanzie procedimentali previste dalla Costituzione in via generale per la mozione di sfiducia, va considerata la modifica apportata, nel 1986, dalla Camera dei deputati al proprio regolamento (art. 115), con la quale si è disposto che "alle mozioni con le quali si richiedono le dimissioni di un ministro", si applica la stessa disciplina della mozione di

121

sfiducia al Governo. Quanto al Senato della Repubblica, non si rinviene analoga disposizione nel relativo regolamento, ma gli atti parlamentari testimoniano, nella prassi, il tutt'altro che isolato ricorso al medesimo istituto, con il supporto di conformi pareri della Giunta per il regolamento.

A questi elementi -- quando siano in armonia con il sistema costituzionale, come nel caso di specie -- non può non essere riconosciuto grande significato, perché contribuiscono ad integrare le norme costituzionali scritte e a definire la posizione degli organi costituzionali, alla stregua di principi e regole non scritti, manifestatisi e consolidatisi attraverso la ripetizione costante di comportamenti uniformi (o comunque retti da comuni criteri, in situazioni identiche o analoghe): vale a dire, nella forma di vere e proprie consuetudini costituzionali.

10.-- Sotto altro profilo, il ricorrente, dopo aver negato che, nei suoi comportamenti, possano ravvisarsi gli estremi di una responsabilità sia politica che di qualsiasi altro tipo, lamenta che si sia fatto un uso dello strumento della sfiducia individuale in vista di un fine diverso da quello proprio di tale mezzo, con lo scopo di censurare iniziative rientranti nell'ambito delle competenze amministrative del Guardasigilli.

La Corte osserva che la sfiducia -- quali che ne possano essere le varianti, di atto indirizzato al Governo ovvero al singolo ministro -- comporta un giudizio soltanto politico; e, in ogni caso, che la doglianza con la quale il ricorrente deduce che si sarebbe fatto ricorso all'istituto della mozione di sfiducia in vista di un risultato improprio -- indipendentemente dal fondamento o meno delle ipotesi avanzate in ordine ai motivi ispiratori della mozione stessa -- si risolve in una prospettazione di per sé inammissibile, perché presuppone la sindacabilità nelle ragioni e nel fine dell'iniziativa assunta dal Senato. L'atto oggetto del ricorso contiene valutazioni del Senato che, proprio perché espressione della politicità dei giudizi a quest'ultimo spettanti, si sottraggono, in questa sede, a qualsiasi controllo attinente al profilo teleologico. Nel caso della mozione di sfiducia, si tratta di un atto che va annoverato fra gli strumenti funzionali al ruolo proprio delle Camere di verificare la consonanza con il Governo rispetto all'indirizzo politico, il cui svolgimento spetta a quest'ultimo; ruolo che muove dall'approvazione del programma governativo e che, attraverso successive specificazioni, integrazioni ed anche modifiche degli orientamenti dettati, si traduce in un apprezzamento continuo e costante dell'attività svolta.

11.-- Per motivi analoghi sono da disattendere le censure con le quali il ricorrente sostiene che l'iniziativa del Senato avrebbe il fine di dettare regole di buona amministrazione utilizzando un mezzo assolutamente non preordinato dal Costituente a tale scopo. Peraltro, poiché il ricorrente stesso si dà carico di precisare di agire in chiave di vindicatio potestatis "in relazione ai poteri specifici che costituzionalmente gli competono", sembra opportuno chiarire che la previsione in Costituzione delle funzioni del Ministro di grazia e giustizia, specie per quanto attiene all'art. 110 e ai poteri di organizzazione ivi contemplati, fu introdotta, a suo tempo, essenzialmente con l'intento, nel momento in cui si prevedeva l'istituzione del Consiglio superiore della magistratura, di definire anche le competenze del Ministro della giustizia.

Se, pertanto, la ratio delle disposizioni costituzionali in parola è di delimitare il campo di intervento del Ministro rispetto a quello riservato al Consiglio superiore della magistratura, il sindacato del Parlamento, nei confronti degli atti del Guardasigilli, è identico a quello che si esercita nei confronti di qualsiasi componente del Governo, salva la particolare garanzia che circonda le relative competenze che, discendendo direttamente dalla Costituzione, non potrebbero essere caducate con una legge ordinaria.

122

Il controllo del Parlamento, proprio perché politico, non incontra dunque limiti, investendo l'esercizio di tutte le competenze del ministro, considerato che lo stesso è, ad un tempo, organo politico e vertice del dicastero, e che il suo compito è quello di raccordare l'ambito delle scelte politiche con i tempi e i modi di attuazione delle stesse da parte dell'amministrazione.

A mutare una siffatta conclusione non possono valere le osservazioni del ricorrente, secondo le quali l'intervento parlamentare troverebbe ostacolo nell'incidenza sulla sfera di funzioni tipicamente amministrative, giacché non v'è incompatibilità fra natura amministrativa delle funzioni e controllo del Parlamento, nella prospettiva propria di quest'ultimo.

Né può valere l'ulteriore considerazione del ricorrente secondo cui un'eventuale incompatibilità tra l'indirizzo del Governo e l'azione del singolo ministro avrebbe dovuto trovare soluzione nell'ambito del Consiglio dei ministri, attraverso iniziative del Presidente. Ed invero, anche se detta via appare in astratto coerente con i poteri e le responsabilità del Presidente del Consiglio dei ministri, quale garante dell'unità di indirizzo del Governo, non è questa la sede per indagare sulle ragioni che non hanno consentito, nel caso di specie, una soluzione siffatta, essendo, invece, compito della Corte accertare solo se il potere di controllo del Parlamento sia stato legittimamente esercitato, nel rispetto dei limiti derivanti dalle competenze spettanti ad altri poteri dello Stato.

12.-- Restano da esaminare, a questo punto, le doglianze che riguardano in modo specifico il provvedimento assunto dal Presidente della Repubblica, nel conferire al Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta di quest'ultimo, l'incarico ad interim di Ministro di grazia e giustizia.

Il provvedimento viene censurato sotto un duplice profilo: sia perché adottato senza nulla disporre riguardo al Ministro in carica e senza decretarne esplicitamente la revoca, sia perché le dimissioni, ancorché obbligatorie per effetto della pronuncia di sfiducia, costituirebbero -- ad avviso del ricorrente -- pur sempre un atto spontaneo ed una autonoma manifestazione di volontà da parte del titolare dell'organo.

Anche queste doglianze non sono fondate.

Muovendo dal secondo profilo che, per la sua portata di principio, precede, dal punto di vista logico, l'altro, la Corte rammenta che, per pacifica e comune opinione in materia, la fiducia del Parlamento è il presupposto indefettibile per la permanenza in carica del Governo e dei ministri, sicché, quando essa viene meno, le dimissioni si configurano come atto dovuto in base ad una regola fondamentale del regime parlamentare. In questo senso, l'obbligo di dimissioni del Governo, in caso di sfiducia, ancorché non espressamente previsto, può farsi discendere -- oltre che dal principio sancito nel primo comma dell'art. 94 -- dall'argomento desumibile a contrario dal quarto comma di tale disposizione, secondo la quale "il voto contrario di una o d'entrambe le Camere su una proposta del Governo non importa obbligo di dimissioni". Se la fiducia vale a creare il raccordo politico tra Parlamento e Governo, la volontarietà delle dimissioni, dopo un voto di sfiducia, non significa, contrariamente a quanto sembra ritenere il ricorrente, libertà di valutazione in ordine al se ed al quando.

Poiché la revoca della fiducia esaurisce i suoi effetti nell'ambito del rapporto Parlamento-Governo, ma non comporta la caducazione dell'atto di nomina, la presentazione delle dimissioni è il normale tramite per consentire al Presidente della Repubblica di procedere alla nomina del nuovo Governo, ovvero del nuovo ministro. Il Presidente della Repubblica,

123

in tale fase, è chiamato, dunque, ad un ruolo attivo che, in mancanza di dimissioni, richiede l'esercizio di poteri che attengono alla garanzia costituzionale, in vista del ripristino del corretto funzionamento delle istituzioni. Nel caso qui in esame, sulla base di una presa d'atto della volontà del Senato che ha espresso sfiducia nei confronti del Ministro della giustizia, si è posto in essere un procedimento complesso, nell'ambito del quale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, con l'atto di iniziativa inteso a tener conto della volontà parlamentare, cioè con la proposta di sostituzione, nonché il Presidente della Repubblica che, una volta investito della proposta medesima, ha adempiuto il ruolo suo proprio di garante della Costituzione, sollevando il Ministro dall'incarico, e provvedendo alla sua sostituzione in conformità.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara che:

a) spetta a ciascuna Camera approvare una mozione di sfiducia anche nei confronti di un singolo ministro e, pertanto, spettava al Senato approvare la mozione di sfiducia nei confronti del Ministro di grazia e giustizia votata il 19 ottobre 1995;

b) spetta al Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, sostituire il ministro nei cui confronti una Camera abbia approvato una mozione di sfiducia, quando questi non si sia dimesso e, pertanto, spettava al Presidente della Repubblica adottare, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, il decreto del 19 ottobre 1995, col quale è stata conferita al medesimo Presidente del Consiglio dei ministri la titolarità ad interim del Ministero di grazia e giustizia in sostituzione del ministro nei cui confronti il Senato aveva approvato la mozione di sfiducia.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il

124

SENTENZA N. 379 DEL 1996

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente

Avv. Mauro FERRI

Giudici

Prof. Luigi MENGONI

Prof. Enzo CHELI

Dott. Renato GRANATA

Prof. Giuliano VASSALLI

Prof. Francesco GUIZZI

Prof. Cesare MIRABELLI

Prof. Fernando SANTOSUOSSO

Avv. Massimo VARI

Dott. Cesare RUPERTO

Dott. Riccardo CHIEPPA

Prof. Gustavo ZAGREBELSKY

Prof. Valerio ONIDA

Prof. Carlo MEZZANOTTE

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio promosso con ricorso della Camera dei deputati, notificato il 24 luglio 1996 e depositato in cancelleria il 1° agosto 1996, per conflitto di attribuzione sorto a seguito del provvedimento in data 23 maggio 1996 del Tribunale di Roma, sezione Giudice per le indagini preliminari, ufficio 15°, con cui e' stata dichiarata la non applicabilità dell'art. 68, primo comma, della Costituzione e la trasmissione alla Presidenza della Camera dei deputati degli atti del procedimento a carico degli ex deputati Bonafini Flavio e Tagini Paolo, indagati in ordine ai reati di cui agli artt. 479 e 494 del codice penale, perchè in concorso con deputati assenti si attribuivano falsamente la qualifica e l'identità di altri parlamentari nella partecipazione alla seduta della Camera dei deputati del 16 febbraio

125

1995 e, successivamente, partecipavano alle operazioni di voto attestando falsamente la presenza e l'espressione del voto da parte di due deputati non presenti in aula, ed iscritto al n. 21 del registro conflitti 1996.

Visti gli atti di costituzione della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma e del Senato della Repubblica;

udito nell'udienza pubblica del 1° ottobre 1996 il Giudice relatore Carlo Mezzanotte;

uditi l'avvocato Giuseppe Abbamonte per la Camera dei deputati e gli avvocati Federico Sorrentino e Salvatore Mileto per la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma e l'avvocato Paolo Barile per il Senato della Repubblica.

Ritenuto in fatto

1.-- Con informativa dell'11 aprile 1995 i Carabinieri di Milano trasmettevano al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma un esposto-denuncia relativo alla votazione effettuata nella seduta della Camera dei deputati del 16 febbraio 1995, nel corso della quale l'on. Paolo Emilio Taddei aveva pubblicamente denunciato di aver assistito personalmente all'espressione di quattro voti da parte di due soli deputati.

Il Procuratore della Repubblica, con nota del 31 ottobre 1995, chiedeva alla presidenza della Camera elementi informativi circa l'erogazione dell'indennità giornaliera di presenza spettante ai deputati, l'oggetto e il risultato della votazione ed altri profili utili allo svolgimento delle indagini in ordine ai reati in quel momento a suo avviso ipotizzabili (truffa e falso per induzione).

Con nota del 29 novembre 1995, diretta al Procuratore della Repubblica, il Segretario generale della Camera invitava il pubblico ministero inquirente a riconsiderare la questione nell'ambito del principio di insindacabilità degli atti normativi delle Camere e sottolineava l'esclusiva competenza del Presidente della Camera dei deputati a decidere sulla regolarità delle votazioni. Concludeva affermando che la investigazione in merito alla stessa regolarità delle votazioni e ai presupposti per l'erogazione delle indennità parlamentari avrebbe comportato una violazione della sfera di attribuzioni del Parlamento.

Il pubblico ministero proseguiva nella sua azione e, ipotizzando i reati di cui agli artt. 479 e 494 del codice penale (falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici e sostituzione di persona), in data 3 maggio 1996 chiedeva al Giudice per le indagini preliminari di dichiarare, nei confronti degli onorevoli Bonafini Flavio e Tagini Paolo, la non applicabilità dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, secondo il quale i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni.

Il Giudice per le indagini preliminari, con ordinanza del 23 maggio 1996, accedeva alla richiesta del pubblico ministero e disponeva la trasmissione degli atti del procedimento alla presidenza della Camera dei deputati, secondo quanto stabilito dal decreto-legge n. 253 del 10 maggio 1996 (Disposizioni urgenti per l'attuazione dell'art. 68 della Costituzione).

A seguito di tale provvedimento, la Camera dei deputati elevava conflitto di attribuzione con ricorso depositato in data 11 luglio 1996, chiedendo a questa Corte di dichiarare: che spetta esclusivamente alla Camera dei deputati, ai sensi degli artt. 64 e 68 Cost., esercitare insindacabilmente l'attività legislativa anche per quanto concerne la valutazione del comportamento dei parlamentari nel corso delle votazioni; che, in particolare, sono sottratte ad ogni sindacato dell'autorità giudiziaria le attività disciplinate dai regolamenti

126

parlamentari e le vicende in cui si concretano lo svolgimento delle votazioni e l'accertamento e la proclamazione dei relativi risultati; e, conseguentemente, di annullare, perchè viziata per incompetenza assoluta, l'ordinanza del Giudice per le indagini preliminari, ufficio 15°, del 23 maggio 1996, nonché, per quanto possa occorrere, le richieste del pubblico ministero in ordine alla pretesa inapplicabilità dell'art. 68, riaffermando la competenza esclusiva della Camera a pronunciarsi in proposito.

Ad avviso della Camera dei deputati, gli atti impugnati sarebbero lesivi dell'autonomia delle Assemblee parlamentari nell'esercizio delle proprie funzioni normative ed operative, garantita dall'art. 64, e non solo dall'art. 68 della Costituzione, in quanto la regolarità della votazione nella quale si sarebbero verificati gli asseriti illeciti sarebbe stata attestata, nell'esercizio di una competenza esclusiva, dal Presidente della Camera.

L'accertamento della responsabilità per falso comporterebbe un inammissibile controllo esterno sulla applicazione dei regolamenti parlamentari e si risolverebbe in una dichiarazione di falsità del verbale della seduta del 16 febbraio 1995, ai sensi dell'art. 537 del codice di procedura penale secondo il quale la falsità di un atto o di un documento, accertata con sentenza di condanna, e' dichiarata nel dispositivo.

La competenza in materia della autorità giudiziaria ordinaria andrebbe perciò esclusa anche in considerazione dei distruttivi inconvenienti che altrimenti si verificherebbero col ricorso in Parlamento alla pratica del doppio voto, che potrebbe addirittura divenire strumento di invalidazione di leggi da parte di parlamentari che artatamente volessero inquinarne il procedimento di approvazione. Ciò tanto più in quanto nella competenza riservata in maniera esclusiva ai regolamenti parlamentari rientrerebbe, quale mezzo al fine della tutela dell'autonomia del Parlamento, la disciplina del modus operandi del parlamentare e la relativa previsione di sanzioni disciplinari.

In sostanza, a giudizio della Camera, l'art. 68 della Costituzione non potrebbe essere invocato, come invece sembra fare il Giudice per le indagini preliminari, ignorando l'art. 64, che tutela l'organo nel suo complesso e la funzione legislativa ad esso affidata dagli art. 70 e 72; solo una visione coordinata delle norme costituzionali permetterebbe di cogliere il pieno significato dell'autonomia del Parlamento: il richiamo isolato ad una norma (l'art. 68 Cost.), per desumerne il limite alla insindacabilità dei comportamenti di parlamentari incidenti sul procedimento legislativo, risulterebbe asistematico e antistorico.

2.-- Questa Corte, con ordinanza n. 269 del 1996, ha dichiarato ammissibile il predetto conflitto di attribuzione proposto dalla Camera dei deputati nei confronti del Tribunale di Roma, sezione Giudici per le indagini preliminari, ufficio 15°, estendendo la notifica del ricorso, oltre che alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, di un cui atto era stato chiesto l'annullamento, anche al Senato della Repubblica, apparendo opportuno acquisirne il punto di vista, stante l'identità della posizione costituzionale dei due rami del Parlamento in relazione alle questioni di principio da trattare.

3.-- Degli organi ai quali, secondo quanto disposto nell'anzidetta ordinanza, il ricorso per conflitto e' stato notificato a cura della Camera, si sono costituiti innanzi a questa Corte la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma e il Senato della Repubblica.

La Procura della Repubblica eccepisce in primo luogo la inammissibilità del ricorso della Camera dei deputati sotto diversi profili. Innanzi tutto, esso sarebbe motivato anche sulla base dell'asserita violazione dell'art. 68 Cost., mentre nella delibera assembleare con la quale si e' deciso di proporre conflitto sarebbe ipotizzata la sola violazione dell'art. 64 Cost. In secondo luogo, la stessa Camera avrebbe omesso di pronunciarsi circa

127

l'insindacabilità, ai sensi dell'art. 68, primo comma, Cost., dei comportamenti oggetto di indagine, dopo la trasmissione degli atti del procedimento da parte del Giudice per le indagini preliminari.

Infine, la Procura eccepisce l'inammissibilità del conflitto per difetto di attualità della lesione, sotto il profilo delle conseguenze che una sentenza di condanna in sede penale, già meramente eventuale, avrebbe sugli atti della Camera. Una simile pronuncia, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso introduttivo, non comporterebbe nella specie l'applicabilità all'atto votato dell'art. 537 cod. proc. pen., e non avrebbe alcuna incidenza sull'attestazione dell'esito della votazione e sul regime giuridico degli atti risultanti, anche in considerazione dell'amplissima maggioranza che si era espressa, nel caso di specie, a favore dell'approvazione dell'atto stesso. D'altra parte, in via generale, la proclamazione del risultato effettuata dal Presidente dell'Assemblea attesterebbe, ad avviso della Procura, solo l'esito favorevole o sfavorevole della votazione e non la sua regolarità, e, ancora, l'accertamento di un falso perpetrato nel corso dell'iter parlamentare di una legge verrebbe a costituire solo un presupposto della eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale di essa; e ciò anche nel caso in cui il reato fosse compiuto proprio al fine dell'invalidazione successiva.

Quanto al merito del conflitto, la Procura della Repubblica rileva che i fatti oggetto di indagine comporterebbero una violazione del principio costituzionale della personalità e indelegabilità del voto parlamentare; principio, questo, desumibile -- in correlazione a quanto stabilito espressamente nell'art. 48, secondo comma, per il voto politico -- dall'art. 64, terzo comma, della Costituzione che richiede, per l'approvazione delle deliberazioni, la maggioranza dei "presenti".

Apparirebbero, di conseguenza, indubitabili sia l'invalidità del voto espresso in Parlamento da parte di un soggetto diverso dal parlamentare al quale il voto stesso e' destinato ad imputarsi, sia l'assoluta estraneità dell'attività di sostituzione, ove svolta da altro parlamentare, all'esercizio delle funzioni, tutelato dall'art. 68, primo comma, Cost.

Per ciò che riguarda la violazione dell'art. 64, primo comma, Cost., la Procura osserva che il regolamento parlamentare non disciplinerebbe atti e comportamenti penalmente rilevanti, che possono verificarsi in sede parlamentare e che sarebbe errato ritenere insindacabili, essendo commessi al di fuori dell'esercizio delle funzioni. In ordine a tali fatti, la responsabilità dei parlamentari dovrebbe essere piena e non solo politica o disciplinare, dal momento che comunque il regolamento non basterebbe a sanzionare efficacemente condotte che potrebbero giungere fino alla coartazione fisica o morale di altri parlamentari impegnati nel voto. Del resto, secondo la Procura, il vigente regolamento della Camera non conterrebbe norme disciplinari, se non a tutela dell'"ordine delle sedute" ed in relazione a comportamenti che rientrerebbero tutti nella sfera dell'insindacabilità, garantita dall'art. 68, primo comma, della Costituzione.

4.-- Il Senato della Repubblica nel suo atto di costituzione chiede l'accoglimento del ricorso della Camera, ritenendo infondati gli argomenti addotti dal Giudice per le indagini preliminari e dal pubblico ministero per affermare la non applicabilità del principio di insindacabilità degli atti parlamentari.

A giudizio del Senato, l'esercizio dell'azione penale nel caso in esame finirebbe con l'investire necessariamente gli atti della Camera relativi alle operazioni di voto. Il giudice penale dovrebbe infatti valutare la correttezza e la legittimità non solo dei voti registrati nel processo verbale della Camera, ma anche della proclamazione dell'esito della votazione e della determinazione circa la definitività di tale proclamazione che nella specie e' stata

128

effettuata dal Presidente a seguito di contestazione di altro deputato; lo stesso giudice, infine, dovrebbe valutare la legittimità della intervenuta decisione del Presidente di non annullare e non disporre, a termini di regolamento, l'immediata rinnovazione della votazione effettuata.

Tutto ciò, ad avviso del Senato, andrebbe ritenuto insindacabile ai sensi del primo comma dell'art. 68 della Costituzione, che sancirebbe una deroga alla punibilità dei comportamenti dei parlamentari al fine di tutelare l'autonomia e l'indipendenza del processo di formazione della volontà delle Camere.

Errata sarebbe anche l'affermazione, contenuta nella richiesta del pubblico ministero al Giudice per le indagini preliminari, di estraneità dei comportamenti dei deputati sottoposti a indagine all'esercizio delle funzioni parlamentari. Il pubblico ministero perseguirebbe infatti un reato di falso configurabile solo nell'esercizio di funzioni pubbliche e, d'altra parte, il comportamento dei deputati non potrebbe dirsi semplicemente occasionato dall'esercizio delle funzioni di voto, bensì sarebbe stato strettamente connesso e correlato con tale esercizio. Ne' sarebbe possibile distinguere tra attività di voto regolare ed attività irregolare senza sindacare le modalità di espressione del voto.

5.-- In prossimità dell'udienza tutte le parti costituite hanno depositato memorie.

La Camera dei deputati confuta le deduzioni della Procura di Roma, sostenendo innanzitutto l'infondatezza delle eccezioni di inammissibilità. Quanto alla prima, relativa al contenuto della deliberazione di sollevare il conflitto, la Camera rileva che, in generale, là dove e' ammessa la difesa tecnica, non sarebbe logico considerare preclusa la deduzione in giudizio di ogni motivo ritenuto giuridicamente idoneo a provare il fondamento dell'iniziativa e, nella specie, gli artt.64 e 68 della Costituzione si troverebbero in un rilevante rapporto di coerenza sistematica.

Quanto alla seconda eccezione, riguardante l'omessa pronuncia della Camera circa l'insindacabilità dei comportamenti dei deputati indagati, la memoria sottolinea che la Camera stessa avrebbe in tutti i suoi atti contestato in radice il potere dell'autorità giudiziaria ordinaria di interferire nel procedimento legislativo, censurando anche l'erronea individuazione da questa effettuata dell'art. 68 Cost., quale unica norma costituzionale rilevante nella fattispecie.

Per ciò che concerne infine la terza eccezione di inammissibilità, la difesa della Camera sostiene che la mera eventualità della condanna penale e delle sue conseguenze sugli atti della Camera non renderebbe privo il conflitto del requisito dell'attualità, poichè, a questo fine, sarebbe sufficiente la sola turbativa dell'esercizio delle attribuzioni, potendo anche mancare del tutto un atto che dia occasione al conflitto: e' proprio in questo senso che si dovrebbe interpretare, secondo la ricorrente, l'art. 38 della legge n. 87 del 1953 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale). Il problema all'esame della Corte riguarderebbe immediatamente il funzionamento dell'Assemblea per la parte disciplinata dal regolamento della Camera, trattandosi di una contestazione che investirebbe le modalità di espressione di due voti, e cioé una materia procedimentale riservata al regolamento stesso dall'art.72 della Costituzione.

In replica alle deduzioni della Procura sul merito del conflitto, la Camera afferma la non pertinenza del richiamo all'art. 64, terzo comma, Cost., che riguarderebbe materia, quale la determinazione dei quorum di validità delle deliberazioni della Camera, diversa dal voto dei cittadini elettori previsto dall'art. 48.

129

La Costituzione poi non prevederebbe alcuna deroga alle norme che garantiscono piena autonomia al Parlamento e competenza esclusiva sulle leggi alla Corte costituzionale, non potendosi certo interpretare in tal senso l'obbligo imposto al pubblico ministero di esercitare l'azione penale (art. 112 Cost.). L'invasione della sfera di autonomia del Parlamento e dei suoi componenti nell'esercizio delle funzioni, si consumerebbe, d'altra parte, con qualsiasi tipo di atto o di comportamento che determini dall'esterno impedimenti, controlli o turbative perchè il Parlamento sarebbe, anche secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, una istituzione che si autodisciplina, risultando incondizionata l'attribuzione ad esso delle sue competenze, della loro regolamentazione, degli strumenti di vigilanza e di sanzione, dell'interpretazione e dell'applicazione del regolamento, almeno per quanto non previsto direttamente dalla Costituzione.

La difesa della Camera ricorda infine che le sezioni unite penali della Corte di cassazione, con sentenza del 12 marzo 1983, avrebbero negato la giurisdizione di qualsiasi autorità giudiziaria sugli atti delle Commissioni parlamentari di inchiesta, affermando, tra l'altro, che non sarebbe ipotizzabile alcun illecito dei membri del Parlamento nell'esercizio delle funzioni proprie del loro mandato.

6.-- Il Senato della Repubblica espone nella memoria difensiva il proprio convincimento -- in merito alla prima eccezione di inammissibilità sollevata dalla Procura di Roma -- circa la correttezza del richiamo effettuato dal ricorso della Camera non solo all'art. 64 Cost., ma anche all'art. 68, primo comma, Cost.: le due norme sarebbero, infatti, in un rapporto di inscindibile connessione funzionale e l'ambito oggettivo del conflitto verrebbe definito solo dall'atto introduttivo. Quanto alla seconda eccezione di inammissibilità, la decisione di sollevare conflitto implicherebbe, secondo il Senato, di per se', l'affermazione nel caso concreto della insindacabilità stabilita dall'art. 68, primo comma, Cost., ne' sarebbe possibile escludere nella specie l'esercizio delle funzioni parlamentari, in quanto lo stesso art.68 garantirebbe ogni attività compiuta dal parlamentare all'interno e all'esterno delle Camere, comunque connessa con le funzioni derivanti dalla carica.

Anche l'eccezione relativa al difetto di attualità della lesione e alla conseguente inammissibilità del ricorso, sarebbe, ad avviso del Senato, infondata, essendo sufficiente a provocare indebite interferenze il semplice svolgimento di attività di indagine da parte dell'autorità giudiziaria ordinaria sull'attività legislativa della Camera dei deputati.

Nel merito, secondo la difesa del Senato, sussisterebbe la lamentata violazione dell'art. 64 Cost. da parte dell'autorità giudiziaria: la peculiare collocazione dei regolamenti parlamentari nel sistema delle fonti comporterebbe la potestà di disciplinare i procedimenti di formazione della volontà parlamentare, con il solo limite delle norme costituzionali, ma con la sottrazione di tale competenza alla stessa legge ordinaria e con la conseguente possibilità per le sole Camere di individuare sia le corrette modalità di svolgimento delle funzioni parlamentari, sia le conseguenze giuridiche dei comportamenti difformi da quanto stabilito nei regolamenti. La materia del presente conflitto riguarderebbe la sfera più tipica dell'autonomia parlamentare: il procedimento di deliberazione e di votazione, la cui regolamentazione non può che essere riservata a ciascun ramo del Parlamento. Ne' mancherebbero nel regolamento della Camera le sanzioni per il caso concreto, riconducibile ad una grave irregolarità nell'espressione di un voto.

7.-- Nella memoria della Procura della Repubblica si deduce un nuovo motivo di parziale inammissibilità del ricorso della Camera: poichè in esso si lamenterebbe la violazione di competenze (quali la proclamazione dei risultati della votazione e la verifica della regolarità di questa) attribuite in via esclusiva al Presidente dell'Assemblea in materia di

130

procedimento legislativo, il conflitto avrebbe dovuto essere sollevato, sotto tale profilo, dallo stesso Presidente della Camera.

La Procura della Repubblica ribadisce poi che, avendo la Camera dei deputati lamentato la lesione ad opera della autorità giudiziaria della propria potestà normativa ed "operativa", garantita dall'art. 64 della Costituzione, non vi sarebbe necessità di soffermarsi sui profili attinenti all'immunità parlamentare di cui all'art. 68, primo comma, Cost., se non per confutare la tesi della difesa del Senato, secondo cui il voto espresso da un deputato in luogo di un altro costituirebbe non già un mero ed illecito comportamento materiale, bensì un vero e proprio "voto", espresso nell'esercizio delle funzioni e pertanto insindacabile, ancorchè "irregolare". Sul punto la difesa della Procura sottolinea che l'esercizio di "funzioni pubbliche", che sarebbe stato affermato dall'autorità giudiziaria con riferimento all'attività posta in essere dai due indagati, si ricollegherebbe esclusivamente al loro status di parlamentari e alla attività di voto da questi esercitata, nell'occasione, in nome proprio; tale qualificazione non potrebbe estendersi però alla concomitante attività di "sostituzione" dei colleghi assenti.

La Procura sostiene ancora che l'iniziativa giudiziaria, riguardante illeciti ascritti a parlamentari fuori dall'esercizio delle loro funzioni, non lederebbe in alcun modo l'autonomia legislativa del Parlamento: infatti, la funzione legislativa nella specie sarebbe già stata esercitata e avrebbe avuto modo di svolgersi senza interferenze, esaurendosi con l'approvazione dell'atto in discussione. Ne' l'autonomia delle Camere potrebbe ritenersi lesa per il fatto che l'eventuale sentenza di condanna di parlamentari potrebbe incidere sull'attestazione di approvazione della votazione effettuata dal Presidente: oggetto dell'indagine sarebbe infatti soltanto il comportamento illecito ascritto ai due deputati, mentre le eventuali conseguenze in ordine alla attività svolta dal Presidente non rileverebbero.

Le Assemblee parlamentari, d'altra parte, non potrebbero dettare norme interne o esercitare una giurisdizione domestica in sostituzione rispettivamente delle norme e della giurisdizione dell'ordinamento penale generale; ne' potrebbero essere considerate surrogatorie di quelle penali le norme disciplinari contenute nei regolamenti parlamentari, finalizzate al buon funzionamento e alla organizzazione delle Camere. Ad avviso della difesa della Procura, le immunità parlamentari e l'autonomia regolamentare ed organizzativa delle Camere costituirebbero eccezioni, costituzionalmente previste, al principio della rilevanza per l'ordinamento generale degli atti e dei comportamenti dei parlamentari: in particolare, l'art. 68, primo comma, Cost., costituendo deroga al principio di eguaglianza e ad altri fondamentali principi costituzionali, sarebbe di stretta interpretazione e comporterebbe di conseguenza la piena responsabilità del parlamentare secondo le norme generali, per tutto quanto egli compia fuori dall'esercizio delle sue funzioni, ancorchè nelle aule del Parlamento. Nella specie, la Camera, sollevando il conflitto, avrebbe implicitamente escluso che le indagini intraprese dall'autorità giudiziaria incidessero sull'art. 68, primo comma, della Costituzione: conseguentemente, non potrebbe, attraverso il richiamo dell'art. 64, far valere un'irresponsabilità che sarebbe del tutto estranea alla previsione costituzionale.

Considerato in diritto

1.-- Il conflitto di attribuzione promosso dalla Camera dei deputati, sul quale questa Corte e' chiamata a decidere, trae origine dalle indagini avviate dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma nei confronti di due deputati inquisiti in relazione alle ipotesi di reato previste dagli artt. 479 e 494 del codice penale (falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici e, rispettivamente, sostituzione di persona), nonché dal

131

provvedimento del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma con il quale e' stata esclusa l'applicabilità alla specie dell'art. 68, primo comma, della Costituzione e disposta la trasmissione degli atti del procedimento in corso alla Camera dei deputati. Nell'ipotesi accusatoria che ha dato luogo all'anzidetto procedimento penale tali deputati si sarebbero falsamente attribuiti, nella seduta della Camera del 16 febbraio 1995, la qualifica e l'identità di altri parlamentari assenti, votando in luogo di questi. Nella prospettazione della ricorrente l'attività della autorità giudiziaria avrebbe leso le attribuzioni garantite alla Camera dagli artt. 64, 72 e 68 della Costituzione, dai quali si desumerebbe il principio di assoluta insindacabilità delle attività poste in essere dai singoli deputati nell'esercizio di funzioni parlamentari.

2.-- Con l'ordinanza n. 269 del 1996, questa Corte ha dichiarato ammissibile il conflitto, ai sensi dell'art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, "restando impregiudicata, atteso il carattere meramente delibatorio della presente pronuncia, ogni ulteriore decisione anche in punto di ammissibilità". L'esito di quella delibazione deve essere confermato in questa fase di cognizione piena, sia sotto il profilo soggettivo del conflitto, sia sotto il profilo oggettivo.

Quanto al primo profilo, deve ribadirsi, in conformità alla giurisprudenza ormai consolidata, la legittimazione di ciascuna Camera a promuovere, attraverso il suo Presidente e sulla base di una conforme delibera dell'Assemblea, conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato.

Entrambe le Camere sono infatti da ritenere competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono, ai sensi dell'art. 37, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, allorché vengano in considerazione "attribuzioni rivendicate in nome dell'indipendenza e dell'autonomia di ciascun ramo del Parlamento" (sentenza n. 129 del 1981). Del pari indubitabile e' la legittimazione -- in questo caso passiva -- del Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Roma, essendo insegnamento costante di questa Corte che i singoli organi giurisdizionali svolgono le loro funzioni in posizione di piena indipendenza, costituzionalmente garantita (sentenze n. 1150 del 1988 e n. 231 del 1975 e ordinanze n. 6 del 1996 e n. 68 del 1993). La legittimazione a resistere al conflitto deve essere inoltre riconosciuta alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, poichè il pubblico ministero, ai sensi dell'art. 112 della Costituzione, e' titolare dell'attività di indagine finalizzata all'esercizio obbligatorio dell'azione penale (sentenze n. 420 del 1995, n. 462, n. 463 e n. 464 del 1993).

Sotto il profilo oggettivo, la Camera, negando che il comportamento di due suoi membri, ai quali viene rivolto l'addebito di aver fatto figurare la presenza di deputati assenti e di aver espresso il voto in luogo di questi, possa essere sottoposto ad indagine ed accertamento da parte dell'autorità giudiziaria ordinaria, lamenta la violazione della posizione di autonomia e di indipendenza che la Costituzione le garantisce. Sussiste pertanto, indubbiamente, la materia di un conflitto per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali, che questa Corte e' chiamata a risolvere.

Legittimato ad intervenire nel presente conflitto deve essere, infine, ritenuto il Senato della Repubblica al quale la notifica del ricorso e' stata estesa in forza dell'ordinanza n. 269 del 1996; l'identica posizione costituzionale delle due Camere in merito alle questioni delle quali si controverte rende opportuno accordare anche all'altra Camera la facoltà di interloquire.

132

3.-- Prima di passare allo scrutinio di merito, devono essere esaminate alcune eccezioni di carattere processuale avanzate dalla difesa della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma.

Secondo una prima eccezione farebbe difetto, nella specie, il requisito della attualità della lesione delle attribuzioni della Camera, che potrebbero essere, in ipotesi, compromesse solo da una sentenza di condanna dei parlamentari.

Questa prima eccezione, con la quale in sostanza si nega, seppure implicitamente, anche la qualità di potere dello Stato del Procuratore della Repubblica, non può essere accolta. Solo se questa Corte fosse stata adìta a scopo meramente consultivo, per pronunciarsi, cioé, su ipotesi astratte, l'eccezione avrebbe avuto fondamento, ma e' pacifico che, ai fini dell'ammissibilità dei conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, e' richiesto solo l'interesse ad agire, "la cui sussistenza e' necessaria e sufficiente a conferire al conflitto gli indispensabili caratteri della concretezza e dell'attualità" (sentenza n. 420 del 1995). E non può negarsi, nel caso di specie, che il requisito dell'interesse sia già pienamente presente a seguito dell'attività di indagine promossa dalla Procura della Repubblica nei confronti di due ex deputati e della ordinanza adottata il 23 maggio 1996 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, su conforme richiesta della Procura della Repubblica, con la quale si dichiara di voler procedere. Il conflitto in cui si versa, pertanto, non e' meramente ipotetico, ma reale e concreto e scaturisce dall'attività posta in essere, in relazione ad un caso specifico, da organi della autorità giudiziaria requirente e, rispettivamente, giudicante.

Infondata, inoltre, e' l'eccezione secondo la quale la legittimazione a proporre il conflitto spetterebbe non alla Camera dei deputati, bensì al suo Presidente. Vi é in primo luogo la difficoltà di ricostruire, sulla base delle norme costituzionali, una sfera di attribuzioni propria del Presidente di Assemblea parlamentare così ampia da comprendere la tutela dell'indipendenza della Camera di appartenenza. La Costituzione, infatti, gli attribuisce esplicitamente, oltre alla presidenza dell'Assemblea (art. 63, primo comma), il potere di convocazione straordinaria (art. 62, secondo comma), quello di essere ascoltato dal Presidente della Repubblica nell'ipotesi di scioglimento (art. 88, primo comma), e, quanto al Presidente della Camera, la convocazione e la presidenza del Parlamento in seduta comune (art. 63, secondo comma), quanto al Presidente del Senato, la supplenza del Capo dello Stato (art. 86, primo comma).

Ogni altro compito del Presidente di Assemblea e' rimesso alla disciplina dei regolamenti parlamentari. Poiché in questo caso il ricorso introduttivo del presente giudizio mira a tutelare la complessiva posizione di autonomia costituzionalmente riconosciuta alla Camera dei deputati e non già una specifica attribuzione del suo Presidente, legittimata a proporre il conflitto e' la medesima Camera.

Deve essere del pari disattesa l'eccezione di inammissibilità che muove da una presunta divergenza tra la delibera con la quale la Camera ha deciso di proporre il conflitto, in cui risulta indicata solo la violazione dell'art. 64 della Costituzione, e il ricorso proposto dinanzi a questa Corte, nel quale si lamenta anche l'asserita violazione dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, concernente l'insindacabilità dei voti dati e delle opinioni espresse dai membri delle Camere. Va rilevato che la corrispondenza tra il contenuto del ricorso e quello della deliberazione propositiva deve essere valutata in relazione ai profili essenziali del conflitto, dovendosi riconoscere alla difesa tecnica piena autonomia nello svolgimento della tesi affermata dalla parte (sentenza n. 302 del 1995). Nella specie, la difesa della Camera si e' limitata, appunto, ad un apporto tecnico poiché ha argomentato la lesione della attribuzione e, in definitiva, della prerogativa dell'insindacabilità degli atti delle

133

Camere, non solo dall'art. 64, ma anche dall'art. 68 della Costituzione, considerando entrambe le disposizioni concorrenti, insieme all'art. 72, a definire un ambito di attività parlamentare sottratto alla interferenza dell'autorità giudiziaria ordinaria.

Infondata e' infine l'ulteriore eccezione di inammissibilità del ricorso, svolta dalla difesa della Procura sul presupposto che, spettando alla Camera pretendere dall'autorità giudiziaria l'applicazione dell'immunità di cui all'art. 68, primo comma, della Costituzione, la contraria affermazione contenuta nell'ordinanza 23 maggio 1996 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma avrebbe richiesto alla Camera stessa una pronuncia sul merito, anziché una deliberazione di sollevare conflitto di attribuzione, essendo semmai rimessa all'autorità giudiziaria la facoltà di proporre ricorso avverso la deliberazione parlamentare. Va però osservato che il conflitto promosso dalla Camera dei deputati non fa leva esclusivamente sull'art. 68, primo comma, della Costituzione, che' anzi questa disposizione e' invocata per argomentare l'esistenza e la latitudine dell'autonomia garantita alle Camere. L'invasione della sfera di autonomia della Camera dei deputati e' dedotta dalla ricorrente sull'espresso rilievo che l'autorità giudiziaria, avendo affermato la sindacabilità del comportamento dei due ex deputati alla luce del solo art. 68, primo comma, abbia sottaciuto dell'art. 64 della Costituzione, che detta sfera di autonomia direttamente tutela. In questo caso, lo schema procedimentale delineato da questa Corte a partire dalla sentenza n. 1150 del 1988, che postula il previo apprezzamento della Camera di appartenenza in ordine alla sindacabilità delle espressioni o dichiarazioni del parlamentare che si assumano eccedenti la sua funzione -- apprezzamento sul quale soltanto si esercita il controllo di questa Corte in sede di conflitto -- non può operare automaticamente, per le ragioni di cui tra breve si dirà.

4.-- Con il progressivo dissolversi della loro originaria giustificazione storica, che era di preservazione del ruolo della rappresentanza politica in un contesto nel quale anche l'amministrazione della giustizia era condizionata dal potere esecutivo, l'inquadramento delle immunità parlamentari nell'attuale sistema costituzionale ha assunto una oggettiva e sempre più evidente problematicità. Con lo statuto di indipendenza dal quale e' assistito l'ordine giudiziario, la questione della funzione di quelle immunità -- che la nostra Costituzione, come altre costituzioni dell'Occidente, perpetuando una delle più salde tradizioni del parlamentarismo, ha riconosciuto -- si e' venuta delineando in maniera in parte diversa. Il disegno costituzionale e' suscettibile di alimentare aspettative virtualmente antagonistiche, che si richiamano sia ai valori dell'indipendenza e terzietà del giudice, sia al valore della libertà politica del Parlamento. E' quindi comprensibile che il rapporto tra giudice e membri del Parlamento possa manifestarsi in termini di conflitto proprio con riguardo alla consistenza e ai limiti delle immunità parlamentari ovvero, simmetricamente, con riguardo ai limiti dell'attività giudiziaria nei confronti delle Camere.

In effetti, sul tema delle immunità parlamentari si registrano due opposte tendenze, che si rispecchiano in parte nel presente conflitto. Da un lato, una rilevante accentuazione del principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge conduce a ritenere, in linea di principio, inammissibile la sottrazione dei membri del Parlamento alle regole del diritto comune e a postulare la sottoposizione alla giurisdizione di ogni loro comportamento.

In questa chiave, le disposizioni costituzionali dalle quali si e' storicamente argomentata l'esistenza di una sfera più o meno estesa di autonomia parlamentare -- intesa come area protetta dall'interferenza del potere giurisdizionale -- sono lette in senso fortemente restrittivo, così da renderle più rispondenti alle istanze di una moderna democrazia parlamentare che rifiuta posizioni di privilegio.

134

Sull'opposto versante, una configurazione della autonomia delle Assemblee rappresentative in termini di assolutezza vorrebbe sottratti a qualsiasi forma di sindacato esterno, in primo luogo al sindacato del giudice penale, tutti i comportamenti dei membri delle Camere dovunque tenuti e in qualunque modo collegati all'esercizio delle loro funzioni, ritenendosi tale prerogativa coessenziale alla sovranità del Parlamento.

Ne' l'una ne' l'altra visione trova rispondenza nei principii costituzionali che definiscono la posizione delle Camere nei confronti del potere giurisdizionale. Da tali principii risulta un equilibrio razionale e misurato tra le istanze dello Stato di diritto, che tendono ad esaltare i valori connessi all'esercizio della giurisdizione (universalità della legge, legalità, rimozione di ogni privilegio, obbligatorietà dell'azione penale, diritto di difesa in giudizio, ecc.) e la salvaguardia di ambiti di autonomia parlamentare sottratti al diritto comune, che valgono a conservare alla rappresentanza politica un suo indefettibile spazio di libertà. Sono infatti coperti da immunità non tutti i comportamenti dei membri delle Camere, ma solo quelli strettamente funzionali all'esercizio indipendente delle attribuzioni proprie del potere legislativo, mentre ricadono sotto il dominio delle regole del diritto comune i comportamenti estranei alla ratio giustificativa dell'autonomia costituzionale delle Camere, nel senso di cui ora si dirà.

5.-- Il principio di eguaglianza non si spinge fino al punto di postulare l'attitudine della legge penale a penetrare in ogni ambito della vita parlamentare. Ad una visione onnipervasiva del diritto penale si oppone il principio della autonomia delle Camere e la correlativa garanzia della non interferenza della giurisdizione nell'attività delle istituzioni rappresentative. Lo statuto di garanzia delle Assemblee parlamentari risulta infatti definito, e al tempo stesso delimitato quanto alla sua operatività, da un unitario e sistematico insieme di disposizioni costituzionali, fra le quali campeggiano gli artt.64 e 72. Essi riservano ai regolamenti parlamentari, votati a maggioranza assoluta da ciascuna Camera, l'organizzazione interna e, rispettivamente, la disciplina del procedimento legislativo per la parte non direttamente regolata dalla Costituzione. In particolare, la formula di cui al primo comma dell'art. 64 della Costituzione -- come questa Corte ha già osservato -- non riguarda soltanto l'autonomia normativa, ma si estende al momento applicativo delle norme regolamentari, include la scelta delle misure atte ad assicurarne l'osservanza e comporta, di necessità, la sottrazione a qualsiasi giurisdizione degli strumenti intesi a garantire il rispetto del diritto parlamentare (sentenza n. 129 del 1981).

E', in ultima analisi, l'autonomia delle funzioni delle Camere il bene protetto, come dimostra del resto il regime dell'insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle funzioni parlamentari (art. 68, primo comma, della Costituzione). Nella giurisprudenza della Corte questa sfera di libertà non si atteggia come privilegio di un ceto politico, ne' solo come garanzia individuale dei membri delle Camere, ma anche come tutela della autonomia delle istituzioni parlamentari, orientata a sua volta alla protezione di un'area di libertà della rappresentanza politica. Non a caso la difesa di questa prerogativa parlamentare non e' rimessa al solo interessato, ma appartiene alle Camere come attribuzione propria (sentenza n. 1150 del 1988).

6.-- In base agli artt. 64, 72 e 68 della Costituzione si può dunque affermare l'esistenza di una sfera di autonomia garantita alle Camere; si tratta ora di definirne i contorni e di tracciare la linea di confine tra i comportamenti dei membri delle Camere posti sotto il presidio di tale garanzia e quelli che non possono sfuggire al diritto comune.

E' in primo luogo dalla considerazione del regime costituzionale dei beni coinvolti nelle singole fattispecie che deve essere desunta e identificata la linea di confine. Quando tali comportamenti ledano beni di cui siano portatori singoli parlamentari, soccorre la

135

distinzione tra diritti che agli stessi parlamentari spettano come persone e diritti che appartengono loro quali membri delle Camere e sono perciò immediatamente connessi al loro specifico status; di questo costituendo anzi la puntualizzazione in termini di posizioni soggettive. I primi possiedono lo statuto costituzionale proprio dei diritti, dal quale traggono una naturale vocazione giurisdizionale (art. 24 della Costituzione), che non può essere sacrificata alla autonomia delle Camere, poiché e' certo che questa non comporta l'alienazione totale di ciascuna persona, con tutti i propri diritti, alla comunità parlamentare della quale fa parte. Sono pertanto da ritenere del tutto estranei al peculiare regime di insindacabilità degli atti o dei comportamenti "interni" le attività poste in essere in violazione dei diritti della persona, le quali conservano integro il loro regime e postulano il sindacato del giudice civile, o anche penale quando la loro tutela sia rafforzata dalla legge con norme incriminatrici.

I diritti la cui titolarità ed il cui esercizio abbiano come presupposto lo status di parlamentare e ne connotino la funzione possiedono, invece, uno statuto fondato sulla Costituzione e plasmato dal principio di autonomia delle Camere. E' in relazione a tali diritti che la non interferenza dell'autorità giudiziaria civile o penale si afferma con la massima cogenza, in quanto essa e' finalizzata al soddisfacimento del bene protetto dagli artt. 64, 72 e 68 della Costituzione: la garanzia del libero agire del Parlamento nell'ambito suo proprio e l'esclusiva competenza di ciascuna Camera a prevedere ed attuare i rimedi contro gli atti ed i comportamenti che incidano negativamente sulle funzioni dei singoli parlamentari e che pregiudichino il corretto svolgimento dei lavori. Tra questi comportamenti, aventi una natura squisitamente funzionale, e' certamente da includersi l'esercizio del voto in Parlamento, alla pari -- del resto -- con l'esercizio di ogni altra funzione derivante dalla disciplina dei procedimenti parlamentari o dalle norme di organizzazione che ciascuna Camera si sia data autonomamente.

Quando i comportamenti dei membri delle Camere trovino nel diritto parlamentare la loro esaustiva qualificazione, nel senso che non esista alcun elemento del fatto che si sottragga alla capacità qualificatoria del regolamento, non possono venire in considerazione qualificazioni legislative diverse, interferenti o concorrenti, anche se da queste possa risultare il rafforzamento di un giudizio di disvalore già desumibile dalla stessa disciplina regolamentare; non può pertanto essere ammesso, in simili casi, un sindacato esterno da parte dell'autorità giudiziaria. Proprio in ciò consiste, infatti, la riserva normativa -- che include il momento applicativo -- posta dagli artt. 64 e 72 della Costituzione a favore di ciascuna Camera. Si può anzi dire che l'essenza della garanzia contro l'interferenza di altri poteri che la Costituzione riconosce alle Camere e' data proprio dalla esclusività della capacità qualificatoria che il regolamento parlamentare possiede allorché la disciplina da esso posta sia circoscritta all'organizzazione interna di ciascuna Camera, ai procedimenti parlamentari e allo svolgimento dei lavori.

7.-- Nel sistema costituzionale, in conclusione, si delinea in maniera immediata e certa -- salve le ipotesi di cui si dirà -- il confine tra l'autonomia del Parlamento e il principio di legalità. Allorché il comportamento di un componente di una Camera sia sussumibile, interamente e senza residui, sotto le norme del diritto parlamentare e si risolva in una violazione di queste, il principio di legalità ed i molteplici valori ad esso connessi, quali che siano le concorrenti qualificazioni che nell'ordinamento generale quello stesso comportamento riceva (illegittimità, illiceità, ecc.), sono destinati a cedere di fronte al principio di autonomia delle Camere e al preminente valore di libertà del Parlamento che quel principio sottende e che rivendica la piena autodeterminazione in ordine all'organizzazione interna e allo svolgimento dei lavori.

136

Se viceversa un qualche aspetto di tale comportamento esuli dalla capacità classificatoria del regolamento parlamentare e non sia per intero sussumibile sotto la disciplina di questo (perchè coinvolga beni personali di altri membri delle Camere o beni che comunque appartengano a terzi), deve prevalere la "grande regola" dello Stato di diritto ed il conseguente regime giurisdizionale al quale sono normalmente sottoposti, nel nostro sistema costituzionale, tutti i beni giuridici e tutti i diritti (artt. 24, 112 e 113 della Costituzione).

Il confine tra i due distinti valori (autonomia della Camere, da un lato, e legalità-giurisdizione, dall'altro) e' posto sotto la tutela di questa Corte, che può essere investita, in sede di conflitto di attribuzione, dal potere che si ritenga leso o menomato dall'attività dell'altro.

I soli casi in cui l'identificazione della linea di confine e' più problematica sono quelli nei quali alcuni beni morali della persona, che e' la Costituzione stessa a qualificare inviolabili (onore, reputazione, pari dignità), vengono a collidere con l'insindacabilità dell'opinione espressa dal parlamentare, che e' momento insopprimibile (e, ben può dirsi, anch'esso inviolabile), della libertà della funzione.

La fisiologica interferenza tra due situazioni di libertà genera in tal caso un conflitto tra valori dotati entrambi di cogenza costituzionale, in relazione al quale questa Corte ha già delineato il modello procedimentale di composizione che si e' poc'anzi ricordato (sentenze n. 129 del 1996 e n. 1150 del 1988).

8.-- Nel caso sottoposto all'esame di questa Corte i comportamenti dei membri della Camera che il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma e il Giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale ritengono penalmente rilevanti e sottoponibili all'attività di indagine e di accertamento della autorità giudiziaria ordinaria sono tutti esaustivamente qualificabili alla luce del diritto parlamentare, e si sottraggono pertanto ad ogni rimedio diverso dai mezzi di tutela del corretto svolgimento dei lavori previsti dal regolamento parlamentare.

I reati di falso ideologico e di sostituzione di persona (artt. 479 e 494 del codice penale), per i quali l'autorità giudiziaria sta procedendo, riguardano beni la cui esigenza di tutela non trascende l'esclusiva competenza della Camera a deliberare ed applicare il regolamento parlamentare, a pretenderne la puntuale osservanza da parte di tutti i suoi membri e ad irrogare le sanzioni interne per l'ipotesi di inosservanza. I fatti sottostanti al reato di falso ideologico, dai quali muove l'ipotesi accusatoria, consisterebbero nell'aver fatto risultare presenti e votanti parlamentari assenti. I beni lesi in questa ipotesi riguardano le modalità del procedimento di votazione, la regolarità della seduta, la correttezza del computo dei parlamentari presenti, la regolarità dei verbali, i poteri presidenziali di accertamento del voto e di proclamazione dei risultati (artt. da 46 a 62 del regolamento della Camera; artt. da 66 a 72 e da 107 a 120 del regolamento del Senato).

Quanto poi alla tutela del bene della fede pubblica sottostante alla norma incriminatrice, la lesione del quale l'autorità giudiziaria intenderebbe accertare al fine della applicazione di una sanzione penale, essa e', in questo caso, interamente assorbita dalla valutazione circa il corretto svolgimento dei lavori parlamentari, che solo la Camera e' competente a compiere.

Considerazioni analoghe valgono per l'ipotesi del reato di sostituzione di persona, che, nella prospettazione della difesa della Procura della Repubblica resistente, proteggerebbe, nella specie, il deputato sostituito contro l'usurpazione, da parte di altri componenti della

137

Camera, del suo diritto di voto. Si tratta invero di un diritto del quale i parlamentari non sono titolari come singole persone, ma come componenti del Parlamento. E' da escludersi che la tutela di tale diritto spetti all'autorità giudiziaria: la garanzia che il voto sia esercitato personalmente deve essere apprestata dai regolamenti parlamentari, l'applicazione dei quali e' insindacabilmente riservata alle Camere.

E' vero che, in simili casi, possono venire in considerazione beni costituzionali fondamentali per la democrazia, in relazione ai quali una troppo rigida accezione dell'autonomia parlamentare potrebbe essere ritenuta inappagante. Vi sono del resto ordinamenti, che appartengono ad esperienze costituzionali non discoste dalla nostra, nei quali lo statuto costituzionale dei parlamentari e' tutelabile innanzi agli organi di giustizia costituzionale. Una simile prospettiva non si e' ancora concretizzata nella esperienza del nostro ordinamento, anche se la giurisprudenza di questa Corte si e' mostrata da sempre sensibile alle vicende che comportino la compressione di diritti politici.

L'insuscettibilità del diritto di voto in Parlamento e, più in generale, dei diritti connessi allo status di parlamentare di esser sottoposti alla tutela della autorità giudiziaria ordinaria, civile o penale, e' in ogni caso momento essenziale dell'equilibrio tra i poteri dello Stato voluto dalla Costituzione.

Non e', in conclusione, rinvenibile, nei fatti per i quali l'autorità giudiziaria sta procedendo, alcun elemento o frammento della concreta fattispecie che coinvolga beni o diritti che si sottraggano all'esaustiva capacità classificatoria del regolamento parlamentare (come invece accadrebbe, ad esempio, in presenza di episodi di lesioni, minacce, furti ai danni di parlamentari, corruzione, ecc.), sicché l'attività posta in essere dai membri delle Camere in questione non può formare oggetto di attività inquisitiva del pubblico ministero, ne' di accertamento da parte del giudice.

9.-- La soluzione del presente conflitto e' dunque favorevole alla Camera dei deputati alla luce del principio di legalità costituzionale al quale devono conformarsi i rapporti tra poteri e, nella specie, tra autorità giudiziaria e Parlamento. Tuttavia questa Corte non può esimersi dall'osservare che, nello Stato costituzionale nel quale viviamo, la congruità delle procedure di controllo, l'adeguatezza delle sanzioni regolamentari e la loro pronta applicazione nei casi più gravi di violazione del diritto parlamentare si impongono al Parlamento come problema, se non di legalità, certamente di conservazione della legittimazione degli istituti della autonomia che presidiano la sua libertà.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara che non spetta al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, ne' al Giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale procedere nei confronti degli ex deputati Bonafini Flavio e Tagini Paolo per i reati di cui agli artt. 479 e 494 del codice penale (Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici e, rispettivamente, sostituzione di persona), in relazione alla attività posta in essere dalle suddette persone, in qualità di deputati, nel corso della votazione svoltasi nella seduta della Camera dei deputati del 16 febbraio 1995;

annulla, conseguentemente, l'ordinanza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma del 23 maggio 1996, nonchè la richiesta della Procura della Repubblica presso lo stesso Tribunale del 3 maggio 1996, accolta con la suddetta ordinanza.

 

138

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17/10/96.

Mauro FERRI, Presidente

Carlo MEZZANOTTE, Giudice relatore

Depositata in cancelleria il 02/11/96.

139

SENTENZA N. 10 DEL 2000

REPUBBLICA ITALIANAIn nome del Popolo ItalianoLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori:- Prof. Giuliano VASSALLI Presidente- Prof. Francesco GUIZZI Giudice- Prof. Cesare MIRABELLI "- Prof. Fernando SANTOSUOSSO "- Avv. Massimo VARI "- Dott. Cesare RUPERTO "- Dott. Riccardo CHIEPPA "- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY "- Prof. Valerio ONIDA "- Prof. Carlo MEZZANOTTE "- Avv. Fernanda CONTRI "- Prof. Guido NEPPI MODONA "- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI "- Prof. Annibale MARINI "- Dott. Franco BILE "ha pronunciato la seguenteSENTENZAnel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della delibera del 16 settembre 1998 della Camera dei deputati relativa alla insindacabilità delle opinioni espresse dall’on. Vittorio Sgarbi nei confronti del dott. Giancarlo Caselli, promosso con atto del Tribunale di Roma – sez. X penale, notificato il 16 giugno 1999, depositato in cancelleria il 22 successivo ed iscritto al n. 20 del registro conflitti 1999. Visto l’atto di costituzione della Camera dei deputati; udito nell’udienza pubblica del 9 novembre 1999 il Giudice relatore Valerio Onida; udito l’avvocato Massimo Luciani per la Camera dei deputati.Ritenuto in fatto1.— Il Tribunale di Roma, davanti al quale pende un procedimento penale a carico del deputato Vittorio Sgarbi, ha promosso, con ordinanza emessa il 18 gennaio 1999, trasmessa a questa Corte il 22 giugno 1999, conflitto di attribuzioni nei confronti della Camera dei deputati in relazione alla deliberazione di detta Camera, adottata il 16 settembre 1998, su conforme proposta della Giunta per le autorizzazioni a procedere, con la quale si è dichiarato che i fatti per i quali è in corso il predetto procedimento penale concernono opinioni espresse dal deputato nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione.Il Tribunale premette che l’on. Sgarbi è imputato di diffamazione col mezzo della stampa a danno del magistrato Giancarlo Caselli, all’epoca Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, per averne offeso la reputazione, anche con l’attribuzione di fatto determinato, affermando, in dichiarazioni rese alle agenzie giornalistiche ANSA ed AGI rese pubbliche il 27 aprile 1994, in relazione al procedimento penale nei confronti del sen. Giulio Andreotti, indagato da quella Procura, di aver dato mandato ai suoi legali di denunciare il magistrato; che “il processo Andreotti è un processo politico”; ed ancora che avrebbe denunciato il Caselli per “truffa aggravata e abuso d’ufficio per aver utilizzato il proprio ruolo per un’azione politica”.

140

Premette inoltre che la relazione della Giunta, nel motivare la proposta poi accolta dalla Camera, aveva rilevato anzitutto che “la questione oggetto delle dichiarazioni dell’on. Sgarbi ha costituito anche l’argomento di alcune interrogazioni parlamentari”; aveva richiamato la tesi, sostenuta dal parlamentare in sede di audizione, secondo cui “le sue affermazioni avevano un contenuto eminentemente politico e non erano intese a diffamare la persona del Procuratore della Repubblica di Palermo”, osservando che tale era stata anche l’opinione della giunta stessa, la quale aveva rilevato “che i suddetti temi sono stati a lungo – e permangono tali anche al momento attuale – al centro del dibattito politico e parlamentare, dibattito in ordine al quale ogni partito, ogni gruppo e anche, in definitiva, ogni singolo parlamentare ha legittimamente maturato le proprie opinioni”.Ciò premesso, il Tribunale osserva che “la dichiarazione con la quale si attribuisce ad una persona la commissione di delitti – accompagnata dal preannuncio dell’esercizio di un diritto-dovere (quello di denuncia) riconosciuto dall’ordinamento a tutti i soggetti” - sarebbe condotta esulante dall’esercizio delle funzioni di parlamentare.Né, secondo il Tribunale, varrebbero in contrario le considerazioni svolte dalla Giunta della Camera: perché il lancio di agenzia non sarebbe avvenuto sulla base del recepimento di una interrogazione parlamentare, bensì sulla scorta di una mera dichiarazione resa, non in veste di parlamentare, dall’on. Sgarbi; e perché “su uno stesso argomento – benché oggetto centrale di lungo, attuale e diffuso dibattito parlamentare e politico – possono esser espresse, accanto o in contrapposizione a legittime opinioni, dichiarazioni astrattamente o potenzialmente lesive dell’altrui reputazione”.Quanto all’affermazione del deputato di non aver inteso diffamare la persona del magistrato, il Tribunale osserva che essa non riuscirebbe a scalfire la convinzione, secondo cui una critica politica non potrebbe impunemente “consistere nell’attribuzione, ad una persona nominativamente indicata, della perpetrazione di delitti, attribuzione avvenuta in assenza, secondo l’ipotesi accusatoria, dei canoni della verità e della continenza, in grado di scriminare la condotta diffamatoria”.2.— Il conflitto è stato dichiarato ammissibile, in sede di delibazione ai sensi dell’art. 37, terzo e quarto comma, della legge n. 87 del 1953, con ordinanza di questa Corte n. 238 del 1999; l’atto introduttivo e l’ordinanza sono stati successivamente, nei termini assegnati, notificati alla Camera dei deputati e depositati con la prova dell’avvenuta notifica.3.— Si è costituita la Camera dei deputati, chiedendo in via principale che il conflitto sia dichiarato irricevibile per inidoneità dell’atto – l’ordinanza emessa dal Tribunale – con cui è stato promosso; in subordine, che sia dichiarato che spettava alla Camera affermare l’insindacabilità delle opinioni espresse dall’on. Sgarbi.La difesa della Camera dà atto della risalente giurisprudenza di questa Corte che ha considerato ammissibile il conflitto sollevato da autorità giudiziaria mediante ordinanza e non già mediante ricorso, ma prospetta articolate argomentazioni intese a dimostrare l’infondatezza di tale assunto, invitando la Corte a rivedere il proprio indirizzo sul punto.Pur ammettendo che l’ordinanza del Tribunale di Roma presenta un duplice contenuto, disponendo da una parte la sospensione del processo e la trasmissione degli atti a questa Corte, chiedendo dall’altra di dichiarare che non spetta alla Camera dei deputati ritenere coperte da insindacabilità le opinioni espresse dall’on. Sgarbi, la difesa della parte sostiene la infungibilità del ricorso e dell’ordinanza. Quest’ultima sarebbe un provvedimento giurisdizionale, compiuto, ai sensi dell’art. 101, primo comma, della Costituzione, “in nome del popolo italiano”, e soggetto all’obbligo di motivazione di cui all’art. 111, primo comma, della Costituzione. Il ricorso invece è atto di parte, che non deve essere motivato ma deve contenere l’esposizione sommaria delle ragioni di conflitto e l’indicazione delle norme costituzionali che regolano la materia, ai sensi dell’art. 26 delle norme integrative. Inoltre la forma dell’ordinanza, che è provvedimento giurisdizionale, renderebbe difficile applicare la normativa sulla rinuncia al ricorso e la sua accettazione; e

141

sarebbe inidonea a formalizzare il rapporto fra l’organo collegiale e il suo Presidente, cui spetterebbe la legittimazione processuale. Il Tribunale avrebbe sovrapposto la logica del giudizio costituzionale incidentale a quella del conflitto di attribuzioni, come sarebbe dimostrato anche dalla trasmissione alla Corte degli atti del processo, che invece, essendo documenti del ricorrente, dovrebbero essere depositati presso la Corte, nel numero di copie prescritto dall’art. 6 delle norme integrative. Tale norma verrebbe invece, secondo la prassi attuale, aggirata dall’autorità giurisdizionale, con violazione del principio di parità fra le parti del giudizio.D’altra parte, secondo la difesa della Camera, se fosse possibile scindere le due parti dell’ordinanza, allora dovrebbe distinguersi fra ordinanza, relativa al giudizio pendente, e ricorso; e verrebbe meno l’argomento, addotto a giustificazione dell’impiego dell’ordinanza, della tipicità dei provvedimenti dei giudici; l’atto di promozione del conflitto sarebbe esercizio del diritto di difesa in giudizio, e dunque sarebbe tipico, ma non in quanto atto del giudice, bensì come atto di parte. Non sarebbe costituzionalmente giustificata la diversità di trattamento dei conflitti promossi dall’autorità giudiziaria rispetto a quelli promossi da altri poteri.Né potrebbe farsi leva sul principio di economia processuale, perché il ricorso non è un atto del processo, ma atto di impulso del diverso giudizio davanti alla Corte; e quanto a quest’ultimo, le esigenze di economia processuale non dovrebbero far aggio sul doveroso rispetto delle norme di procedura, così come è avvenuto quando la Corte ha dichiarato improcedibili ricorsi per conflitto depositati tardivamente, nonostante la possibilità di riproposizione dei conflitti medesimi.4.— Nel merito, la difesa della Camera muove dalla tesi, che qualifica intermedia, secondo cui la insindacabilità coprirebbe non tutta l’attività politica svolta dal parlamentare, ma, oltre agli atti tipici, le opinioni collegate da nesso funzionale con il mandato parlamentare; e sottolinea il carattere politico della rappresentanza della nazione, nel senso che essa attiene alla generalità degli interessi della polis, non predeterminabili a priori, e che devono essere apprezzati in concreto sulla base di una valutazione schiettamente politica: l’attività parlamentare, in quanto “libera nel fine”, non avrebbe contorni definibili in astratto. Pur non dovendosi confondere fra la funzione parlamentare e l’attività del singolo parlamentare, pur tuttavia la vastità dell’ambito funzionale coperto dal mandato imporrebbe di negare la riconducibilità ad esso delle sole attività del singolo membro delle Camere che siano manifestamente estranee alla funzione. Questa Corte, il cui controllo in questo caso confinerebbe con apprezzamenti di tipo essenzialmente politico, non potrebbe che limitarsi ad un controllo “esterno”, attinente alla manifesta inattendibilità degli apprezzamenti compiuti dall’organo autore dell’atto controllato. Nella specie, ad avviso della Camera, sussisterebbe quella specifica connessione con atti tipici della funzione che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, sarebbe condizione necessaria e sufficiente perché l’opinione espressa si debba considerare coperta dalla garanzia di cui all’art. 68, primo comma, della Costituzione. Infatti, in primo luogo, l’on. Sgarbi avrebbe già manifestato il proprio dissenso nei confronti del procedimento penale instaurato a carico del sen. Andreotti, prima dei fatti oggi a lui contestati, in occasione del dibattito al Senato sulla richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dello stesso sen. Andreotti, cui lo Sgarbi assisteva dalla tribuna riservata ai deputati: nel corso di quel dibattito il suo dissenso era stato manifestato così fermamente e vivacemente, che il Presidente del Senato aveva disposto il suo allontanamento dall’aula, informandone il Presidente della Camera, il quale, a sua volta, espresse rammarico per l’impossibilità, allo stato dei regolamenti parlamentari, di infliggere all’on. Sgarbi una sanzione disciplinare, così implicitamente statuendo che la vicenda atteneva esclusivamente alla vita interna delle Camere.

142

In secondo luogo, sussisterebbe una stretta connessione fra le dichiarazioni contestate e l’esercizio, da parte dell’on. Sgarbi, del potere di sindacato ispettivo parlamentare, esplicatosi anzitutto con la presentazione, un anno prima dei fatti di cui è giudizio, e cioè il 28 aprile 1993, di un’interrogazione in merito all’uso “politico” dei “pentiti”; e poi con la presentazione, in data 29 aprile 1994, di due interrogazioni al Ministro della giustizia (di cui la prima presentata in realtà il giorno 28, ancorché registrata il 29), coincidenti nella sostanza con le dichiarazioni contestate, risolvendosi nella imputazione al dott. Caselli dell’accusa di avere esercitato l’azione penale nei confronti del sen. Andreotti “per motivi inesistenti e infondati”, tali da imporre l’esercizio dell’azione disciplinare nei confronti del magistrato. La difesa osserva che, trattandosi di interrogazione rivolta al Ministro della giustizia, l’on. Sgarbi faceva riferimento alla sola responsabilità disciplinare, che il Ministro può attivare, e non parlava della responsabilità penale, evocata invece nelle dichiarazioni contestate, ma che la sostanza delle critiche e delle loro conseguenze era identica.Non varrebbe obiettare che le predette interrogazioni sono successive rispetto alle dichiarazioni, poiché in realtà esse sarebbero contemporanee, e nelle dichiarazioni si afferma di avere già predisposto le interrogazioni, mentre il ritardo nel deposito delle stesse sarebbe meramente accidentale.La vicenda in discussione andrebbe inoltre inquadrata nel contesto del dibattito politico-parlamentare sul “caso Andreotti”, concernente un processo di portata storica: dibattito nel cui ambito si sono registrati interventi volti a censurare l’operato dei magistrati e a sottolineare la natura politica del processo: questo sarebbe anche l’addebito formulato dall’on. Sgarbi.La parte rileva infine che la deliberazione della Camera è intervenuta nel rispetto delle regole procedurali, dopo che la Giunta aveva proceduto in contraddittorio con l’on. Sgarbi, e sulla base di una puntuale illustrazione del deputato che faceva funzione di relatore: onde la Camera avrebbe puntualmente e precisamente apprezzato la consistenza politica delle dichiarazioni dell’on. Sgarbi, indicando con precisione le ragioni del nesso funzionale che le legavano all’esercizio del mandato parlamentare, e dunque riscontrando esattamente l’esistenza dei presupposti dell’insindacabilità.5.— In una successiva memoria depositata in vista dell’udienza, la difesa della Camera ribadisce anzitutto, richiamando la più recente giurisprudenza di questa Corte, la tesi per cui le opinioni espresse dal parlamentare extra moenia sarebbero assistite dalla garanzia costituzionale dell’insindacabilità ove ricorra il nesso funzionale con il mandato parlamentare, e ricorda un orientamento espresso dalla Corte di cassazione, secondo cui il controllo, in sede di conflitto, sulle deliberazioni parlamentari sarebbe assimilabile a quello sull’eccesso di potere, e le opinioni espresse da un parlamentare sarebbero insindacabili anche solo quando siano “plausibilmente ricollegabili” alla sua funzione.La stessa Camera, nella specie, avrebbe motivato la propria deliberazione non in ragione di una presunta “copertura” generale di qualunque attività politica, ma proprio in ragione del nesso funzionale che impone il riconoscimento della garanzia dell’insindacabilità. Non potrebbe dunque riscontrasi alcun vizio di procedimento, né alcun sintomo di “eccesso di potere”. In particolare, la difesa ribadisce che non vi sarebbe stato da parte della Camera un erroneo apprezzamento dei presupposti dell’insindacabilità, posto che le dichiarazioni contestate non erano altro che la prosecuzione extra moenia dell’attività di parlamentare. Quanto alle due più recenti interrogazioni presentate dall’on. Sgarbi, solo formalmente posteriori rispetto alle dichiarazioni, sarebbe da escludere la possibilità che esse siano state presentate per legittimare artificiosamente a posteriori dichiarazioni altrimenti non coperte da insindacabilità. Le dichiarazioni dell’on. Sgarbi sarebbero in realtà unite in inscindibile nesso logico, e quindi funzionale, con i suoi atti di sindacato ispettivo.

143

Considerato in diritto1. — Il conflitto di attribuzioni promosso dal Tribunale di Roma nei confronti della Camera dei deputati – dichiarato ammissibile in sede di delibazione con la ordinanza n. 238 del 1999 – investe la deliberazione del 16 settembre 1998 con la quale l’assemblea , su conforme proposta della Giunta per le autorizzazioni a procedere, ha dichiarato che i fatti per i quali è in corso, davanti al Tribunale ricorrente, un procedimento penale a carico del deputato Vittorio Sgarbi, per il reato di diffamazione col mezzo della stampa a danno del magistrato Giancarlo Caselli, all’epoca Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, concernono opinioni espresse da quel parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi del primo comma dell’articolo 68 della Costituzione.Con dichiarazioni rese a due agenzie giornalistiche, che le diffondevano il 27 aprile 1994, il deputato Sgarbi, secondo l’accusa, avrebbe offeso, anche con l’attribuzione di un fatto determinato, la reputazione del magistrato affermando, in relazione al procedimento penale nei confronti del sen. Andreotti indagato dalla Procura della Repubblica di Palermo, che “il processo Andreotti è un processo politico” ; e annunciando di aver dato mandato ai suoi legali di denunciare il magistrato, capo di detta Procura, per “truffa aggravata e abuso di ufficio per aver utilizzato il proprio ruolo per una azione politica”.La Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera dei deputati, nella relazione che accompagnava la proposta accolta dall’assemblea, rilevava che “la questione oggetto delle dichiarazioni dell’onorevole Sgarbi ha costituito anche l’argomento di alcune interrogazioni parlamentari”; esprimeva l’opinione che, come fatto presente dal deputato, le sue affermazioni avevano un contenuto eminentemente politico e non erano intese a diffamare la persona del Procuratore della Repubblica di Palermo; rilevava che “i suddetti temi sono stati a lungo – e permangono tali anche al momento attuale – al centro del dibattito politico e parlamentare, dibattito in ordine al quale ogni partito, ogni gruppo e anche, in definitiva, ogni singolo parlamentare ha legittimamente maturato le proprie opinioni”.Il Tribunale ricorrente ritiene che la Camera, con la dichiarazione di insindacabilità, abbia illegittimamente esercitato il proprio potere, perché avrebbe arbitrariamente valutato il presupposto del collegamento delle opinioni espresse con la funzione parlamentare: infatti, ad avviso del ricorrente, la dichiarazione con la quale si attribuisce ad una persona la commissione di delitti, accompagnata dal preannuncio dell’esercizio del diritto-dovere di denuncia, riconosciuto dall’ordinamento a tutti i soggetti, sarebbe condotta esulante dall’esercizio della funzione di parlamentare. 2. — L’eccezione di irricevibilità del conflitto per inidoneità dell’atto introduttivo, sollevata dalla difesa della Camera dei deputati, non può essere accolta.E’ ben vero che nel conflitto di attribuzioni – a differenza che nella questione di legittimità costituzionale sollevata in via incidentale – il giudice, quale titolare della funzione giurisdizionale, si fa promotore del giudizio come parte ricorrente, in vista della tutela di un interesse potenzialmente fornito di protezione costituzionale; e dunque l’atto introduttivo è un atto del giudizio costituzionale, ne assume i contenuti e le forme e ne segue le regole procedurali. Ma da ciò non si può trarre la conclusione della irricevibilità del presente conflitto in quanto promosso con ordinanza. Quella del Tribunale di Roma, infatti, al di là del nomen juris, possiede i requisiti necessari di un valido ricorso, come definiti dall’art. 37 della legge n. 87 del 1953 e dall’art. 26 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale: vi è l’identificazione del soggetto ricorrente (l’organo giudiziario procedente) e dell’atto da cui si afferma discendere la lamentata lesione di attribuzioni ad esso spettanti (la deliberazione della Camera dei deputati); vi è l’espressione della volontà di promuovere il conflitto e la richiesta di una pronuncia della Corte che dichiari non spettare alla Camera la valutazione contenuta nella deliberazione impugnata, e che annulli quest’ultima; vi è l’indicazione delle “ragioni del conflitto” e delle “norme costituzionali che

144

regolano la materia”, nonché la sottoscrizione del soggetto ricorrente, nella persona del Presidente e dei membri del collegio giudicante. L’atto è pervenuto alla cancelleria di questa Corte in forma che può assimilarsi al “deposito” di cui al citato art. 26 delle norme integrative, ed è stato, dopo l’ordinanza di ammissibilità, regolarmente notificato a cura del ricorrente e depositato con la prova dell’avvenuta notifica.Tanto basta perché si debba procedere all’esame del merito.3. — Il ricorso merita accoglimento nei limiti di seguito precisati. Questa Corte, ai fini della risoluzione del conflitto, è chiamata a decidere se le dichiarazioni dell’on. Sgarbi possano dirsi, ed eventualmente in quali limiti, rese nell’esercizio delle funzioni parlamentari. Esula quindi dal compito della Corte, la risposta al quesito se le dichiarazioni in questione integrino gli estremi del reato ascritto al deputato, o non concretino piuttosto la manifestazione del diritto di critica politica, di cui egli, al pari di qualsiasi altro soggetto, fruisce, e che certamente comprende il diritto di critica anche nei confronti della magistratura e dell’operato di suoi membri: diritto a sua volta tutelato dall’art. 21 della Costituzione. A questa domanda è chiamato a rispondere il giudice del processo penale, al quale spetta pronunciarsi in concreto sul rapporto fra diritto di libera manifestazione del pensiero, in particolare in campo politico, e diritto all’onore e alla reputazione del soggetto che si ritenga leso dall’opinione espressa. Il giudizio della Corte verte, invece, sulla tutela delle rispettive sfere di attribuzioni, ed investe la controversia sull’applicazione dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, originata dal contrasto tra la valutazione della Camera e quella dell’autorità giurisdizionale procedente. A tal fine, la Corte non può limitarsi a verificare la validità o la congruità delle motivazioni – ove siano espresse – con le quali la Camera di appartenenza del parlamentare abbia dichiarato insindacabile una determinata opinione. Il giudizio in sede di conflitto fra poteri non si atteggia a giudizio sindacatorio (assimilabile a quello del giudice amministrativo chiamato a valutare un atto cui si imputi il vizio di eccesso di potere) su di una determinazione discrezionale dell’assemblea politica. In questo senso va precisato e in parte corretto quanto affermato nella pregressa giurisprudenza, circa i caratteri del controllo di questa Corte sulle deliberazioni di insindacabilità adottate dalle Camere (cfr. sentenza n. 265 del 1997): la Corte, chiamata a svolgere, in posizione di terzietà, una funzione di garanzia, da un lato dell’autonomia della Camera di appartenenza del parlamentare, dall’altro della sfera di attribuzione dell’autorità giurisdizionale, non può verificare la correttezza, sul piano costituzionale, di una pronuncia di insindacabilità senza verificare se, nella specie, l’insindacabilità sussista, cioè se l’opinione di cui si discute sia stata espressa nell’esercizio delle funzioni parlamentari, alla luce della nozione di tale esercizio che si desume dalla Costituzione (cfr. sentenza in pari data, n. 11 del 2000).4. — Questa Corte ha già più volte sottolineato che la prerogativa di cui all’art. 68, primo comma, della Costituzione non copre tutte le opinioni espresse dal parlamentare nello svolgimento della sua attività politica, ma solo quelle legate da “nesso funzionale” con le attività svolte “nella qualità” di membro delle Camere (sentenze n. 375 del 1997, n. 289 del 1998, n. 329 e n. 417 del 1999). Si tratta ora di precisare, rispetto alla precedente giurisprudenza della Corte ed anche in vista di esigenze di certezza, quando ricorra tale nesso funzionale.E’ pacifico che costituiscono opinioni espresse nell’esercizio della funzione quelle manifestate nel corso dei lavori della Camera e dei suoi vari organi, in occasione dello svolgimento di una qualsiasi fra le funzioni svolte dalla Camera medesima, ovvero manifestate in atti, anche individuali, costituenti estrinsecazione delle facoltà proprie del parlamentare in quanto membro dell’assemblea.

145

Invece l’attività politica svolta dal parlamentare al di fuori di questo ambito non può dirsi di per sé esplicazione della funzione parlamentare nel senso preciso cui si riferisce l’art. 68, primo comma, della Costituzione. Nel normale svolgimento della vita democratica e del dibattito politico, le opinioni che il parlamentare esprima fuori dai compiti e dalle attività propri delle assemblee rappresentano piuttosto esercizio della libertà di espressione comune a tutti i consociati: ad esse dunque non può estendersi, senza snaturarla, una immunità che la Costituzione ha voluto, in deroga al generale principio di legalità e di giustiziabilità dei diritti, riservare alle opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni.La linea di confine fra la tutela dell’autonomia e della libertà delle Camere, e, a tal fine, della libertà di espressione dei loro membri, da un lato, e la tutela dei diritti e degli interessi, costituzionalmente protetti, suscettibili di essere lesi dall’espressione di opinioni, dall’altro lato, è fissata dalla Costituzione attraverso la delimitazione funzionale dell’ambito della prerogativa. Senza questa delimitazione, l’applicazione della prerogativa la trasformerebbe in un privilegio personale (cfr. sentenza n. 375 del 1997), finendo per conferire ai parlamentari una sorta di statuto personale di favore quanto all’ambito e ai limiti della loro libertà di manifestazione del pensiero: con possibili distorsioni anche del principio di eguaglianza e di parità di opportunità fra cittadini nella dialettica politica. Né si può accettare, senza vanificare tale delimitazione, una definizione della “funzione” del parlamentare così generica da ricomprendervi l’attività politica che egli svolga in qualsiasi sede, e nella quale la sua qualità di membro delle Camere sia irrilevante. Nel linguaggio e nel sistema della Costituzione, le “funzioni” riferite agli organi non indicano generiche finalità, ma riguardano ambiti e modi giuridicamente definiti: e questo vale anche per la funzione parlamentare, ancorché essa si connoti per il suo carattere non “specializzato” (cfr. sentenze n. 148 del 1983; n. 375 del 1997). 5. — Discende da quanto osservato che la semplice comunanza di argomento fra la dichiarazione che si pretende lesiva e le opinioni espresse dal deputato o dal senatore in sede parlamentare non può bastare a fondare l’estensione alla prima della immunità che copre le seconde. Tanto meno può bastare a tal fine la ricorrenza di un contesto genericamente politico in cui la dichiarazione si inserisca. Siffatto tipo di collegamenti non può valere di per sé a conferire carattere di attività parlamentare a manifestazioni di opinioni che siano oggettivamente ad essa estranee. Sarebbe, oltre tutto, contraddittorio da un lato negare – come è inevitabile negare – che di per sé l’espressione di opinioni nelle più diverse sedi pubbliche costituisca esercizio di funzione parlamentare, e dall’altro lato ammettere che essa invece acquisti tale carattere e valore in forza di generici collegamenti contenutistici con attività parlamentari svolte dallo stesso membro delle Camere. In questo senso va precisato il significato del “nesso funzionale” che deve riscontrarsi, per poter ritenere l’insindacabilità, tra la dichiarazione e l’attività parlamentare. Non cioè come semplice collegamento di argomento o di contesto fra attività parlamentare e dichiarazione, ma come identificabilità della dichiarazione stessa quale espressione di attività parlamentare (cfr. sentenza, in pari data, n. 11 del 2000). 6. — Nella specie qui in esame si tratta di dichiarazioni rese dal deputato a due agenzie giornalistiche, evidentemente al di fuori dell’esercizio di funzioni parlamentari. La considerazione dell’intento politico e non diffamatorio delle dichiarazioni, e della collocazione del tema trattato al centro del dibattito politico e parlamentare – cioè di due degli argomenti addotti dalla Giunta della Camera a fondamento della dichiarazione di insindacabilità – resta estranea all’oggetto del presente giudizio, attenendo piuttosto alla verifica della compatibilità della opinione espressa con i limiti del diritto di critica politica. Vero è invece, come pure ricordato dalla Giunta, che “la questione oggetto delle dichiarazioni dell’onorevole Sgarbi ha costituito anche l’argomento di alcune interrogazioni

146

parlamentari”. Ma, per quanto si è detto sopra, non basta il mero collegamento di argomento con atti di sindacato ispettivo; tanto meno basta il richiamo, effettuato dalla difesa della Camera, alla manifestazione di dissenso del deputato, espressa in Senato dove egli assisteva alla seduta, circa il processo intentato a carico del sen. Andreotti e la relativa richiesta di autorizzazione a procedere della Procura di Palermo, sottoposta in quella circostanza al Senato. Le dichiarazioni potrebbero dunque essere coperte dalla immunità solo in quanto risultassero sostanzialmente riproduttive di un’opinione espressa in sede parlamentare. Infatti l’opinione espressa nell’esercizio della funzione non è protetta da immunità solo nell’occasione specifica in cui viene manifestata nell’ambito parlamentare, ricadendo al di fuori della sfera della prerogativa se venga riprodotta in sede diversa. L’immunità riguarda non già solo l’occasione specifica in cui le opinioni sono manifestate nell’ambito parlamentare, ma il contenuto storico di esse, anche quando ne sia realizzata la diffusione pubblica, in ogni sede e con ogni mezzo. La pubblicità, infatti, e anzi la naturale destinazione, per così dire, alla collettività dei rappresentati, che caratterizza normalmente le attività e gli atti del Parlamento, proprio per assicurarne la funzione di sede massima della libera dialettica politica, comporta che l’immunità si estenda a tutte le altre sedi ed occasioni in cui l’opinione venga riprodotta al di fuori dell’ambito parlamentare. Ma l’immunità è limitata a quel contenuto storico: e dunque, nel caso di riproduzione all’esterno della sede parlamentare, è necessario, per ritenere che sussista l’insindacabilità, che si riscontri la identità sostanziale di contenuto fra l’opinione espressa in sede parlamentare e quella manifestata nella sede “esterna”.Ciò che si richiede, ovviamente, non è una puntuale coincidenza testuale, ma una sostanziale corrispondenza di contenuti.7. — Nella specie, non può aver rilievo il richiamo – pure fatto dalla difesa della Camera – alla interrogazione n. 3/00937 presentata dall’on. Sgarbi il 28 aprile 1993, cioè un anno prima delle dichiarazioni contestate, in quanto tale interrogazione verteva solo sul cosiddetto “uso politico dei pentiti” e sul “pericolo di inchieste giudiziarie pilotate attraverso i pentiti”, essendo volta a conoscere le iniziative del Governo per far sì che il fenomeno del “pentitismo” “non si presti ad essere gestito e politicamente utilizzato in modo disinvolto per interessi di parte”. L’oggetto e il contenuto di tale atto ispettivo (ove non compare alcun riferimento all’attuale querelante dott. Caselli) non hanno dunque più che un generico collegamento tematico con il contenuto delle dichiarazioni in questione.Restano le due interrogazioni n. 3/00009 e n. 3/00010, presentate dall’on. Sgarbi rispettivamente il 28 e il 29 aprile 1994 (ancorché registrate entrambe in data 29 aprile), cioè nei giorni immediatamente successivi alle dichiarazioni, nelle quali ci si riferiva appunto ad una interrogazione. Può convenirsi con la difesa della Camera che, in questo caso, vi è sostanziale contestualità fra le une e le altre.Egualmente però le dichiarazioni non possono considerarsi come divulgazione del contenuto delle interrogazioni, in quanto la sostanziale corrispondenza di contenuto fra le une e le altre è solo parziale.La prima delle due interrogazioni si riferisce alle presunte dichiarazioni di un testimone, che avrebbe smentito un assunto della Procura di Palermo, e chiede al Ministro della giustizia “se non ritenga di disporre accertamenti ispettivi circa la correttezza delle procedure giudiziarie in questione ed eventualmente promuovere l’azione disciplinare davanti al CSM nei confronti del dottor Caselli, che, se quanto esposto in premessa risultasse vero, avrebbe chiesto l’autorizzazione a procedere contro il senatore Andreotti per motivi inesistenti e infondati”. Nella seconda interrogazione si riferisce il contenuto di un articolo pubblicato dal settimanale Epoca, da cui sarebbe risultato fra l’altro che nell’indagine di Palermo non erano emerse prove concrete a carico del sen. Andreotti, si chiede se risulti al Governo che quanto riportato dal settimanale risponda al vero, e si

147

chiede al Ministro “se non ritenga, in caso affermativo, di disporre accertamenti ispettivi ai fini di un’eventuale promozione di un procedimento disciplinare davanti al CSM”.Anche nelle dichiarazioni alle agenzie il deputato faceva riferimento all’articolo pubblicato da Epoca e alla mancanza di prove nel processo Andreotti; nelle interrogazioni non si trova invece né la testuale affermazione, contenuta nelle dichiarazioni, secondo cui “il processo Andreotti è un processo politico”, né alcun accenno alla preannunciata denuncia nei confronti del dott. Caselli per truffa e abuso d’ufficio, per avere utilizzato il proprio ruolo per una azione politica: cioè non si trovano le due affermazioni sulle quali si basa l’ipotesi accusatoria relativa al reato di diffamazione contestato al deputato. E se la prima di esse, relativa al carattere “politico” del processo di Palermo, potrebbe trovare una certa sostanziale corrispondenza nell’addebito, peraltro solo ipotizzato, nella prima interrogazione, di aver chiesto l’autorizzazione a procedere contro il senatore Andreotti “per motivi inesistenti e infondati”, la seconda, cioè l’annuncio di una denuncia per reati determinati, in relazione all’addebito di strumentalizzazione politica del ruolo del Procuratore, non trova alcuna corrispondenza sostanziale negli atti ispettivi. Né può equivalere ad essa il riferimento ad eventuali azioni disciplinari, una volta (nella prima interrogazione) in relazione alla “correttezza delle procedure giudiziarie in questione”, e un’altra volta (nella seconda interrogazione) in via del tutto generica. Non vale osservare che al Ministro, per la sua competenza, non si poteva che prospettare la sola ipotesi di responsabilità disciplinare, e non quella di una responsabilità penale. Proprio questo rilievo sulla competenza ministeriale, evocabile ed evocata nell’interrogazione, non fa che sottolineare la differenza di contenuto fra gli atti ispettivi, esercizio della funzione parlamentare, e le dichiarazioni alle agenzie, ove si muove un addebito determinato di (affermata) rilevanza penale: elemento, quest’ultimo, specificamente posto a base dell’imputazione mossa al deputato.8. — Si deve dunque concludere che le dichiarazioni dell’on. Sgarbi, per la parte priva di sostanziale corrispondenza con il contenuto degli atti ispettivi citati, non possono ritenersi rese nell’esercizio delle funzioni parlamentari, e dunque coperte dall’immunità ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione; in relazione a tale parte, dunque, va annullata la deliberazione di insindacabilità adottata dalla Camera dei deputati.

per questi motiviLA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara che non spetta alla Camera dei deputati dichiarare che i fatti per i quali è in corso presso il Tribunale di Roma il procedimento penale a carico del deputato Vittorio Sgarbi, per diffamazione a danno dell’allora Procuratore della Repubblica di Palermo Giancarlo Caselli, limitatamente al contenuto delle dichiarazioni del medesimo deputato non corrispondente sostanzialmente a quello delle interrogazioni da lui presentate al Ministro della giustizia il 29 aprile 1994, concernono opinioni espresse dal deputato Sgarbi nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’articolo 68, primo comma, della Costituzione; di conseguenza annulla, nella parte in cui si riferisce al predetto contenuto delle dichiarazioni, la deliberazione in tal senso adottata dalla Camera dei deputati nella seduta del 16 settembre 1998.Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 gennaio 2000.F.to Giuliano VASSALLI, PresidenteValerio ONIDA, RedattoreGiuseppe DI PAOLA, CancelliereDepositata in cancelleria il 17 gennaio 2000.Il Direttore della CancelleriaF.to: DI PAOLA

148

SENTENZA N. 11 DEL 2000

REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori:- Prof. Giuliano VASSALLI Presidente- Prof. Francesco GUIZZI Giudice- Prof. Cesare MIRABELLI "- Prof. Fernando SANTOSUOSSO "- Avv. Massimo VARI "- Dott. Cesare RUPERTO "- Dott. Riccardo CHIEPPA "- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY "- Prof. Valerio ONIDA "- Prof. Carlo MEZZANOTTE "- Avv. Fernanda CONTRI "- Prof. Guido NEPPI MODONA "- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI "- Prof. Annibale MARINI "- Dott. Franco BILE "ha pronunciato la seguenteSENTENZAnel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della delibera della Camera dei deputati in data 17 giugno 1998 relativa alla insindacabilità delle opinioni espresse dall’on. Vittorio Sgarbi nei confronti del dott. Antonio Di Pietro, promosso con atto del Tribunale di Bergamo, notificato il 3 maggio 1999, depositato in Cancelleria il 19 successivo ed iscritta al n. 17 del registro conflitti 1999.Visto l’atto di costituzione della Camera dei deputati;udito nell’udienza pubblica del 9 novembre 1999 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti;udito l’avv. Giuseppe Abbamonte per la Camera dei deputati.

Ritenuto in fatto1. Il Tribunale di Bergamo, II sezione penale, ha proposto - con ordinanza in data 8 ottobre 1998, nel corso di un giudizio nei confronti del deputato Vittorio Sgarbi, per il reato di diffamazione aggravata in danno del dr. Antonio Di Pietro - conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati, chiedendo l'annullamento della deliberazione, adottata dall'Assemblea nella seduta del 17 giugno 1998, con la quale è stata dichiarata l'insindacabilità delle dichiarazioni rese dal parlamentare.

1.1. Il Tribunale di Bergamo premette che si procede in sede penale nei confronti del deputato Vittorio Sgarbi per le dichiarazioni da lui rese nel corso del programma "Sgarbi quotidiani", trasmesso dall’emittente televisiva Canale 5, concernenti la locazione da parte del dr. Antonio Di Pietro di un appartamento in Milano ad un canone ritenuto esiguo.Ad avviso del Tribunale non esisterebbe nessuna connessione tra dette dichiarazioni e l’attività parlamentare del deputato Vittorio Sgarbi e, quindi, mancherebbe il nesso funzionale tra le prime e la seconda che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, costituisce condizione dell'insindacabilità delle opinioni ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione. Il Collegio deduce l'erroneità della motivazione con la quale la Giunta

149

per le autorizzazioni a procedere ha sostenuto una differente conclusione, valorizzando tre profili: il contesto in cui le dichiarazioni sono state rese; la circostanza che il deputato avrebbe indirizzato la sua azione politica dentro e fuori del Parlamento proprio sul tema oggetto delle dichiarazioni; il contenuto delle frasi incriminate. L’ordinanza espone che la Giunta, relativamente al primo profilo, ha premesso che il deputato ha criticato la condotta tenuta da un magistrato del pubblico ministero nel corso di un processo penale ripreso dalla televisione, per sottolineare che essa configurava una <<caduta di stile>>. In ordine al secondo, ha osservato che il tema affrontato nella trasmissione televisiva era uno di quelli verso i quali il deputato <<ha, quasi quotidianamente, indirizzato la sua azione politica sia all’interno sia all’esterno del parlamento>>; quanto al terzo, ha sottolineato che il parlamentare avrebbe preso <<in esame alcune notizie di stampa relative al dottor Di Pietro esprimendo il proprio convincimento circa la irrisorietà del canone di locazione pagato dallo stesso per l’affitto di un appartamento>>. Da siffatte premesse la Giunta ha quindi derivato che le opinioni, <<collocabili certamente in un contesto politico>>, presenterebbero <<il carattere di "attività divulgativa connessa" all’esercizio della funzione parlamentare>>, dato che, sempre secondo la Giunta, l’articolo 68, primo comma, della Costituzione sarebbe applicabile a tutti i comportamenti del parlamentare riconducibili all’attività politica intesa in senso lato, pure se svolti fuori dalla sede parlamentare ed anche in caso di giudizi oggettivamente pesanti e tali, quindi, da costituire in astratto una condotta illecita, purché non costituiscano insulti gratuiti e personali che nulla hanno a che vedere con la funzione parlamentare.

1.2. Il Tribunale sostiene l'erroneità della motivazione della delibera della Giunta, non integrata nel corso del dibattito in aula, deducendo che la prerogativa dell'insindacabilità non riguarderebbe l’attività politica del parlamentare intesa in senso lato e che le opinioni in esame costituirebbero meri apprezzamenti personali espressi dal deputato alla stregua di un qualunque privato cittadino. A suo avviso, la circostanza che esse riguardano un argomento di rilevanza politica non permetterebbe di affermare l'esistenza del nesso di funzione con l'attività parlamentare, dato che quest'ultimo sarebbe ravvisabile solo qualora l'attività divulgativa sia correlata ad uno specifico atto parlamentare. Inoltre, secondo il Tribunale di Bergamo, anche ritenendo che l’insindacabilità possa concernere opinioni espresse al di fuori delle Camere, la partecipazione del deputato alla trasmissione televisiva non potrebbe comunque configurare un’attività riconducibile all’esercizio delle funzioni parlamentari, in quanto egli sarebbe intervenuto alla trasmissione quale <<conduttore/entertainer di un programma televisivo denominato "Sgarbi quotidiani", nel corso del quale egli aveva l’obbligo - sulla base di uno specifico contratto stipulato con la Reti Televisive Italiane S.p.a. cui fa capo "Canale 5" - di commentare ed esprimere le proprie opinioni su argomenti di attualità e su quanto riportato dalla stampa in generale>>, sicché, osservano ancora testualmente i giudici, <<poiché per tali prestazioni era, altresì, contrattualmente prevista una determinata retribuzione>>, dovrebbe ritenersi che egli ha partecipato alla trasmissione quale privato cittadino.

2. Nel giudizio preliminare di delibazione in camera di consiglio, il conflitto è stato dichiarato ammissibile (ordinanza n. 129 del 16 aprile 1999).Dopo l'avvenuta notifica alla Camera dei deputati, il 3 maggio 1999, ed il deposito in cancelleria, il 19 maggio 1999, l'ordinanza è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 33, prima serie speciale, del 18 agosto 1999.

3. La Camera dei deputati si è ritualmente costituita in giudizio, chiedendo che il conflitto sia dichiarato infondato.

150

La difesa della Camera premette che la stessa formulazione del capo di imputazione dimostrerebbe che nel caso in esame le dichiarazioni non costituiscono critiche riguardanti vicende private, ma configurano una <<denuncia da parte di un parlamentare di un fatto che riguarda un titolare di funzioni pubbliche: fatto sul quale il controllo parlamentare non può, pertanto, ritenersi interdetto>>. In tal senso, a suo avviso, avrebbe pregnante importanza la considerazione che la fattispecie è stata ampiamente esaminata sia da parte della Giunta per le autorizzazioni a procedere, sia dall'Assemblea, avendo in particolare un deputato sottolineato che le dichiarazioni, sia pure rese extra moenia, sarebbero riconducibili all’attività parlamentare, in quanto riguardano la vicenda che <<va sotto il nome di "affittopoli">>, che ha interessato, tra l'altro, il Parlamento <<in iniziative parlamentari tipiche (Interrogazioni, interpellanze e mozioni) ed anche in richieste di Commissioni parlamentari di inchiesta>>.

3.1. La difesa della Camera osserva che la proposta della Giunta è stata approvata senza voti contrari e che la relativa relazione si è soffermata sui seguenti punti: a) il parlamentare conduceva da tempo una personale battaglia nei confronti di alcuni magistrati che egli riteneva responsabili di comportamenti poco ortodossi; b) le opinioni riguardavano una vicenda, "affittopoli", che aveva coinvolto l’opinione pubblica ed interessato anche il Parlamento; c) i fatti si inserivano in detta vicenda; d) il contesto nel quale le opinioni erano state rese era particolarmente significativo per farle ricondurre all’esercizio del mandato parlamentare. Dunque, secondo la resistente, si sarebbe trattato <<di un’attività di denuncia di un comportamento più che discutibile e che l’opinione pubblica aveva interesse non solo a conoscere, ma anche a vedere dibattuto>>, ossia dell’esercizio <<della funzione ispettiva del parlamentare su comportamenti di persone investite di funzioni giudiziarie>>.Ad avviso della Camera, la giurisprudenza costituzionale avrebbe affermato che, qualora sia stata deliberata l'insindacabilità, la Corte può soltanto verificare se sia stato seguito un procedimento corretto ovvero se manchino i presupposti di detta dichiarazione - tra i quali è essenziale quello del collegamento delle opinioni espresse con la funzione parlamentare - o se tali presupposti siano stati arbitrariamente valutati, tenendo conto che, con la sentenza n. 375 del 1997, la Corte ha sottolineato che <<la funzione parlamentare ha natura generale ed è libera nel fine>> e ciò determinerebbe <<conseguenze significative in ordine alle garanzie accordate per le opinioni espresse e i voti dati>>.Secondo la resistente, nel caso in esame si verserebbe <<nell’esercizio della funzione ispettiva, tipica dell’attività parlamentare>>, anche perché il deputato Vittorio Sgarbi aveva indirizzato la sua azione politica dentro e fuori il Parlamento nell’ordine di interessi affrontato nella trasmissione incriminata.

3.2. In prossimità dell'udienza pubblica, la difesa della Camera dei deputati, ha depositato memoria con la quale insiste per il rigetto del conflitto.Secondo la resistente, l'atto con il quale è stato sollevato il conflitto mancherebbe del dovuto approfondimento dei fatti e delle motivazioni esposte negli atti parlamentari, le quali danno invece conto della rilevanza politica della vicenda oggetto delle dichiarazioni. Inoltre, nonostante l'ordinanza riconosca che l'argomento trattato dal deputato Vittorio Sgarbi aveva rilevanza politica, erroneamente esclude l'insindacabilità delle dichiarazioni, in quanto ritenute non riconducibili ad atti tipici della funzione parlamentare. A suo avviso, siffatta ricostruzione sarebbe però inesatta e da essa deriverebbe che la politica non potrebbe avvalersi dei mezzi di comunicazione di massa e dovrebbe essere relegata al di fuori di quella che è definita la moderna società della comunicazione e della partecipazione.

151

La difesa della resistente ha infine concluso deducendo che gli apprezzamenti sull’insindacabilità ex art. 68, primo comma, Cost., sono riservati alla Camera di appartenenza del parlamentare anche perché essi richiedono <<motivazioni assai complesse, difficilmente percepibili in altre sedi>> ed ha chiesto che la Corte dichiari che il potere di deliberare l'insindacabilità delle opinioni è stato correttamente esercitato e, conseguentemente, annulli l’ordinanza con la quale è stato sollevato il conflitto, dichiarando che l’azione penale non può essere proseguita.

Considerato in diritto1. Il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato ha ad oggetto la deliberazione con la quale la Camera dei deputati, nella seduta del 17 giugno 1998, ha dichiarato che i fatti per i quali era in corso innanzi al Tribunale di Bergamo, II sezione penale, il giudizio per diffamazione aggravata nei confronti del deputato Vittorio Sgarbi riguardano opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni parlamentari e, conseguentemente, sarebbero insindacabili ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione.Il Tribunale di Bergamo sostiene che detta deliberazione violerebbe la propria sfera di attribuzioni, costituzionalmente garantita, in quanto la Camera dei deputati avrebbe erroneamente esercitato il potere ad essa spettante, di dichiarare l'insindacabilità delle dichiarazioni rese dall'on. Sgarbi. A suo avviso, la Camera avrebbe arbitrariamente ritenuto insindacabili le dichiarazioni, omettendo di considerare che esse costituirebbero meri apprezzamenti personali e che non sarebbe <<riscontrabile alcuna connessione con atti tipici della funzione parlamentare>> e neppure <<un qualche intento divulgativo di una scelta o di un'attività politico-parlamentare>>. La circostanza che esse riguardavano materia di rilevanza politica non permetterebbe infatti di ritenere esistente il nesso di funzione, identificabile soltanto qualora l'attività di divulgazione sia comunque correlata ad un atto parlamentare tipico. Il Tribunale di Bergamo, conseguentemente, chiede che la Corte annulli la predetta deliberazione.

2. In linea preliminare deve essere confermata l'ammissibilità del conflitto di attribuzione in esame, già dichiarata da questa Corte in sede di sommaria delibazione con l'ordinanza n. 129 del 1999.Sotto il profilo dei requisiti soggettivi, devono ritenersi legittimati ad essere parti del presente conflitto sia il Tribunale di Bergamo, in quanto organo giurisdizionale competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartiene, in posizione di piena indipendenza garantita dalla Costituzione, sia la Camera dei deputati, dato che essa è competente a dichiarare in modo definitivo la propria volontà in ordine all'applicabilità ai suoi componenti dell'art. 68, primo comma, della Costituzione (tra le più recenti, sentenze nn. 417, 329 del 1999 e 289 del 1998). Sotto il profilo oggettivo, avendo il Tribunale denunciato la lesione della propria sfera di attribuzioni costituzionalmente garantita, parimenti sussiste la materia del conflitto (ex plurimis, sentenza n. 289 del 1998).La forma dell'ordinanza utilizzata dalla seconda sezione penale del Tribunale di Bergamo nel caso in esame, di per sé sola non può, infine, comportare la irricevibilità del conflitto.Dagli artt. 37 della legge n. 87 del 1953 e 26 delle norme integrative per i giudizi davanti a questa Corte si ricava infatti che l’organo legittimato a sollevare conflitto di attribuzione deve manifestare la propria volontà di promuoverlo mediante ricorso, che deve avere i requisiti puntualmente stabiliti da dette norme. La giurisprudenza costituzionale, con orientamento assolutamente costante e consolidato, ha però già più volte affermato e chiarito che, qualora il conflitto venga sollevato dall’autorità giudiziaria, il principio della tipicità dei provvedimenti del giudice (tra le molte, ordinanze n. 37 del 1998; nn. 469, 442, 325, 251 del 1997; n. 339 del 1996; n. 68 del 1993; nn. 228 e 229 del 1975) non esclude che anche la forma dell’ordinanza sia idonea alla valida instaurazione del giudizio, sempre

152

che l’atto contenga tutti i requisiti specificamente prescritti. Questo orientamento va confermato, precisando che, in ogni caso, in applicazione del principio processuale di strumentalità delle forme, la proposizione del conflitto mediante un atto avente forma diversa da quella del ricorso non potrebbe essere sanzionata con l’irricevibilità, qualora si accerti, come appunto nella fattispecie in esame, che esso possiede tutti i requisiti stabiliti dalle norme da ultimo richiamate ed è quindi idoneo a conseguire lo scopo cui è preordinato e a consentire la valida instaurazione del contraddittorio innanzi a questa Corte.

3. Nel merito il ricorso è fondato.Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, il conflitto di attribuzione tra autorità giudiziaria e Assemblee parlamentari relativamente all'applicabilità dell'art. 68, primo comma, della Costituzione postula che il confine tra i due distinti valori confliggenti -autonomia delle Camere e legalità-giurisdizione- sia posto sotto il controllo di questa Corte, che può essere adìta dal potere che si ritenga leso o menomato dall'attività dell'altro (sentenza n. 379 del 1996). In questa sede non spetta invero alla Corte di accertare la sussistenza o meno delle responsabilità dedotte in giudizio, ma piuttosto di accertare, trattandosi di un conflitto per menomazione, se vi sia stata una illegittima interferenza nella sfera del potere ricorrente, verificando l'eventuale sussistenza di vizi del procedimento, ovvero l'omessa o erronea valutazione delle condizioni e dei presupposti richiesti dall'art. 68, primo comma, della Costituzione (sentenze n. 329 del 1999, n. 289 del 1998, nn. 375 e 265 del 1997, n. 129 del 1996, n. 443 del 1993, n. 1150 del 1988).A questa ricognizione della propria competenza la Corte è pervenuta sulla base dei principi costituzionali che definiscono la posizione delle Camere nei confronti della giurisdizione, dai quali appunto emerge "un equilibrio razionale e misurato tra le istanze dello Stato di diritto, che tendono ad esaltare i valori connessi all'esercizio della giurisdizione (...) e la salvaguardia di ambiti di autonomia parlamentare sottratti al diritto comune che valgono a conservare alla rappresentanza politica un suo indefettibile spazio di libertà"; in questo senso si debbono pertanto ritenere "coperti da immunità non tutti i comportamenti dei membri delle Camere, ma solo quelli strettamente funzionali all'esercizio indipendente delle attribuzioni proprie del potere legislativo" (sentenza n. 379 del 1996). Ma se appare costante nella giurisprudenza costituzionale il criterio della necessità di un collegamento, affinché l'immunità non si trasformi da esenzione di responsabilità legata alla funzione in privilegio personale, tra la manifestazione dell'opinione e la funzione parlamentare stessa (cfr. da ultimo sentenza n. 417 del 1999), non sempre agevole risulta l'individuazione in concreto dei criteri identificativi dei comportamenti "strettamente funzionali all'esercizio indipendente delle attribuzioni proprie del potere legislativo".E' pacifico che la funzione della Corte costituzionale in ordine all'art. 68, primo comma, della Costituzione sia quella di accertare -come giudice dei conflitti- se dall'esercizio illegittimo da parte di uno dei poteri confliggenti risulti lesa o menomata una competenza costituzionalmente spettante all'altro; e cioè, in particolare, se l'esercizio della potestà spettante alla Camera di appartenenza in base all'art. 68, primo comma, abbia determinato, per vizi del procedimento o in ragione dell'insussistenza o dell'arbitrarietà della valutazione dei presupposti richiesti per esercitare tale potere, la lamentata, illegittima interferenza nelle attribuzioni dell'autorità giudiziaria (sentenza n. 289 del 1998). La Corte non può peraltro limitarsi ad esaminare la valutazione o la congruità delle motivazioni -talvolta neppure espresse- adottate dalla Camera di appartenenza, ma deve necessariamente, dovendo giudicare sul rapporto tra le rispettive sfere di attribuzione dei poteri confliggenti, accertare se, in concreto, l'espressione dell'opinione in questione possa

153

o meno ricondursi a quell'"esercizio delle funzioni" parlamentari, il cui ambito, trattandosi di norma costituzionale, spetta alla Corte definire.Il controllo della Corte quindi investe direttamente il merito della controversia costituzionale sulla portata e l'applicazione dell'art. 68, primo comma. E’ infatti vero che il controllo si esplica sull'apprezzamento della Camera di appartenenza in ordine alla sindacabilità delle dichiarazioni del parlamentare (sentenza n. 379 del 1996), ma risulta pur sempre attuato in posizione di terzietà e di garanzia dell'equilibrio costituzionale fra salvaguardia della potestà autonoma della Camera di appartenenza e tutela della sfera di attribuzione dell'autorità giudiziaria (cfr. sentenza in pari data n. 10 del 2000).

4. Superata ormai, in ragione dei fattori di trasformazione della comunicazione politica nella società contemporanea, la tradizionale interpretazione che considerava compiuti nell'esercizio delle funzioni parlamentari -e quindi coperti dall'immunità che appunto garantisce l'autonomia delle Camere- i soli atti svolti all'interno dei vari organi parlamentari o anche paraparlamentari (quali, ad esempio, i "gruppi" o le "deputazioni"), è tuttavia evidente che l'estensione del regime di insindacabilità anche agli atti compiuti al di fuori dell’ambito dei lavori dei predetti organi non può essere automatica, ma è necessario, essendo questa forma di insindacabilità significativamente circoscritta, nella previsione costituzionale, all'esercizio di funzioni parlamentari, verificare, in base a specifici criteri, più complessi rispetto a quello della mera "localizzazione" dell'atto, l'esistenza di un "nesso funzionale" stretto tra espressione di "opinioni" e di "voti" ed "esercizio" delle funzioni parlamentari. Il nesso funzionale deve cioè qualificarsi non come "semplice collegamento di argomento o di contesto fra attività parlamentare e dichiarazione, ma come identificabilità della dichiarazione stessa quale espressione di attività parlamentare" (sentenza in pari data n. 10 del 2000).L'interpretazione del primo comma dell'art. 68 porta infatti ad escludere, per non trasformare la prerogativa in un privilegio personale (cfr. da ultimo sentenze n. 329 del 1999 e n. 289 del 1998), che sia compresa nella insindacabilità tutta la complessiva attività politica che il singolo membro del Parlamento pone in essere, rientrandovi invece soltanto quella che si manifesta attraverso l'"esercizio" delle funzioni parlamentari. Ed invero la giurisprudenza di questa Corte è costante nella riaffermazione di questo criterio distintivo, statuendo che "il discrimine tra i giudizi e le critiche che anche il parlamentare manifesta nel più esteso ambito dell'attività politica, per le quali non vale l'immunità, e le opinioni coperte da tale garanzia, è dunque costituito dalla inerenza delle opinioni all'esercizio delle funzioni parlamentari" (da ultimo sentenza n. 417 del 1999).Nei casi in cui non è riscontrabile esercizio di funzioni parlamentari, il valore della legalità-giurisdizione non collide certo con quello dell'autonomia delle Camere e così si spiega che la giurisprudenza costituzionale abbia appunto stabilito che l'immunità non vale per tutte quelle opinioni che "il parlamentare manifesta nel più esteso ambito della politica". Alla luce di tale interpretazione si debbono pertanto ritenere, in linea di principio, sindacabili tutte quelle dichiarazioni, che fuoriescono dal campo applicativo del "diritto parlamentare" e che non siano immediatamente collegabili con specifiche forme di esercizio di funzioni parlamentari, anche se siano caratterizzate da un asserito "contesto politico" o ritenute, per il contenuto delle espressioni o per il destinatario o la sede in cui sono state rese, manifestazione di sindacato ispettivo. Questa forma di controllo politico rimessa al singolo parlamentare può infatti aver rilievo, nei giudizi in oggetto, soltanto se si esplica come funzione parlamentare, attraverso atti e procedure specificamente previsti dai regolamenti parlamentari.Se dunque l'immunità copre il membro del Parlamento per il contenuto delle proprie dichiarazioni soltanto se concorre il contesto funzionale, il problema specifico, che non appare irrilevante in questo conflitto, della riproduzione all'esterno degli organi

154

parlamentari di dichiarazioni già rese nell'esercizio di funzioni parlamentari si può risolvere nel senso dell'insindacabilità solo ove sia riscontrabile corrispondenza sostanziale di contenuti con l’atto parlamentare, non essendo sufficiente a questo riguardo una mera comunanza di tematiche.

5. In questa ottica va dunque considerata la vicenda in esame, il cui oggetto riguarda dichiarazioni rese dal deputato Sgarbi nel corso di un programma televisivo e ritenute di contenuto diffamatorio.A questa Corte, come già rilevato in precedenza, non compete certo di entrare nel merito del processo penale, ma solo di verificare, come giudice dei conflitti, se il "cattivo" uso del potere esercitato dalla Camera di appartenenza in base all'art.68, primo comma, abbia determinato o meno la lamentata, illegittima interferenza nelle attribuzioni dell'autorità giudiziaria ricorrente. Trattandosi di dichiarazioni che fuoriescono dal campo applicativo del "diritto parlamentare", la Corte, ai fini dell'insindacabilità del primo comma dell'art. 68, deve dunque accertare la corrispondenza di contenuti con un atto parlamentare precedente o sostanzialmente contestuale.Incentrandosi le posizioni delle parti del conflitto sulla interpretazione delle deliberazioni parlamentari adottate nella vicenda in esame, va ricordato che la Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera dei deputati si era limitata a ritenere applicabile l'art. 68, primo comma, in quanto tale disposizione appare riferibile a "tutti i comportamenti riconducibili all'attività politica intesa in senso lato, anche se svolti fuori dalla sede parlamentare". A sua volta, l'Assemblea aveva confermato tale criterio interpretativo stabilendo, nella seduta del 17 giugno 1998, che le opinioni espresse dall'on. Sgarbi, nel corso di una trasmissione televisiva da lui stesso condotta, "sia pure pronunciate extra moenia, cioè al di fuori della Camera dei deputati e non nel contesto di iniziative parlamentari tipiche, erano comunque riconducibili all'attività... di parlamentare dell'on. Sgarbi" e pertanto non potevano essere sindacate.Da queste deliberazioni risulta dunque che le dichiarazioni del deputato Sgarbi erano state pronunciate fuori del Parlamento e non "nel contesto di iniziative parlamentari tipiche". Le stesse dichiarazioni non si possono neppure considerare connesse con alcuna forma di esercizio di funzioni parlamentari, giacché non è individuabile quale specifico atto parlamentare adottato dal medesimo deputato esse riproducessero, essendo invece soltanto genericamente ricollegabili alla sua "attività politica intesa in senso lato", che però, come già rilevato, non può, per questa Corte, costituire valido oggetto dell'immunità parlamentare.In questo giudizio non emerge quindi e non è riscontrabile in alcun modo la sussistenza del requisito della connessione tra le opinioni espresse dal parlamentare e l'esercizio delle relative funzioni; "requisito che, come più volte affermato da questa Corte, costituisce l'indefettibile presupposto di legittimità della deliberazione parlamentare di insindacabilità" (sentenza n. 329 del 1999).Le dichiarazioni in oggetto dell'on. Sgarbi non possono pertanto, per carenza del nesso funzionale, ritenersi rese nell'esercizio delle funzioni parlamentari e quindi per esse non è invocabile l'immunità, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione. La Camera dei deputati, adottando la deliberazione di insindacabilità in oggetto, ha perciò interferito, in modo illegittimo, nella sfera di attribuzione dell'autorità giudiziaria ricorrente e di conseguenza deve essere disposto l'annullamento della predetta deliberazione.

PER QUESTI MOTIVILA CORTE COSTITUZIONALE

155

dichiara che non spetta alla Camera dei deputati dichiarare l'insindacabilità, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dal deputato Vittorio Sgarbi, in ordine alle quali è stato promosso davanti al Tribunale di Bergamo il giudizio penale indicato in epigrafe; conseguentemente annulla la deliberazione adottata dalla Camera dei deputati nella seduta del 17 giugno 1998.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 gennaio 2000.

Giuliano VASSALLI, PresidentePiero Alberto CAPOTOSTI, Redattore

Depositata in cancelleria il 17 gennaio 2000.

156

SENTENZA N. 225 DEL 2001

REPUBBLICA ITALIANA

In nome del Popolo Italiano

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Cesare RUPERTO Presidente

- Fernando SANTOSUOSSO Giudice

- Massimo VARI ”

- Riccardo CHIEPPA ”

- Gustavo ZAGREBELSKY ”

- Valerio ONIDA ”

- Carlo MEZZANOTTE ”

- Fernanda CONTRI ”

- Guido NEPPI MODONA ”

- Piero Alberto CAPOTOSTI ”

- Annibale MARINI ”

- Franco BILE ”

- Giovanni Maria FLICK ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito delle ordinanze emesse dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano il 17 e 20 settembre 1999, in due procedimenti penali a carico dell’on. Cesare Previti, e delle successive ordinanze (in particolare di quelle adottate nelle udienze del 22 settembre 1999, 5 ottobre 1999 e 6 ottobre 1999), in quanto non considerano assoluto impedimento il diritto-dovere del deputato di assolvere il mandato parlamentare attraverso la partecipazione a votazioni in assemblea, promosso con ricorso della Camera dei deputati, notificato il 10 maggio 2000, depositato in cancelleria il 17 successivo ed iscritto al n. 21 del registro conflitti 2000.

157

Visto l’atto di costituzione del Senato della Repubblica nonché l’atto di intervento dell’on. Cesare Previti;

udito nell’udienza pubblica del 20 febbraio 2001 il Giudice relatore Valerio Onida;

uditi gli avvocati Massimo Luciani per la Camera dei deputati, Stefano Grassi per il Senato della Repubblica e Claudio Chiola per l’on. Cesare Previti.

Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso depositato il 19 novembre 1999, la Camera dei deputati ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, in funzione di giudice dell’udienza preliminare, in ragione e per l’annullamento delle ordinanze in data 17 settembre 1999 (nel procedimento n. 3384/98 R.G. GIP), 20 settembre 1999 (nel procedimento n. 5634/97 R.G. GIP), nonché di tutti gli atti consequenziali – impugnati “anche in quanto autonomamente viziati” – e in particolare delle conformi decisioni di rigetto di richieste di rinvio avanzate dalla difesa dell’on. Previti adottate nelle udienze del 22 settembre 1999, 5 ottobre 1999 e 6 ottobre 1999 e di tutte le altre decisioni di eguale contenuto che eventualmente nelle more siano state adottate, chiedendo che la Corte statuisca che non spetta all’autorità giudiziaria non considerare assoluto impedimento alla partecipazione del deputato alle udienze penali il diritto-dovere di assolvere il mandato parlamentare attraverso la partecipazione a votazioni in assemblea.

Nelle menzionate ordinanze, il Giudice, dopo aver preso atto dei numerosi rinvii dell’udienza preliminare dovuti (anche) all’impedimento a comparire dell’imputato on. Previti per impegni parlamentari, aveva osservato che la quotidianità dei lavori parlamentari impediva il sollecito svolgimento dell’udienza e, quindi, l’effettività della giurisdizione. Sul rilievo che l’attività parlamentare e quella giurisdizionale hanno pari valore costituzionale (ai sensi dell’art. 67 della Costituzione per la prima e degli artt. 68, 101, 102, 104 e 112 della Costituzione per la seconda), il Giudice, dovendo fare applicazione degli artt. 420, 485 e 486 cod. proc. pen., nel riconoscere che la “assoluta impossibilità a comparire” non ricorre solo quando vi sia un “impedimento materiale superiore a qualsiasi sforzo umano o l’impossibilità oggettiva”, ma anche quando vi siano norme che identifichino una “priorità di impegni” nei cui confronti l’esercizio della funzione giurisdizionale risulti soccombente, aveva ritenuto, da un lato, che non era possibile distinguere tra i diversi impegni parlamentari per discriminare quelli prevalenti e quelli subvalenti rispetto all’esigenza di celebrare il processo e, dall’altro, che gli impegni parlamentari invocati nella specie non costituivano un impedimento assoluto a comparire in udienza, non integrando una priorità tale da rendere soccombente il principio dell’indefettibilità e dell’effettività della giurisdizione.

La difesa della Camera osserva che, attraverso le ordinanze impugnate, si sarebbe affermato un univoco indirizzo in tema di rilevanza dell’impedimento parlamentare nel procedimento penale, che risulterebbe lesivo delle attribuzioni costituzionali della Camera stessa.

In particolare la Camera – affermata la propria legittimazione attiva al ricorso e quella passiva del Giudice per le indagini preliminari in funzione di giudice dell’udienza preliminare – motiva la sussistenza dell’interesse a ricorrere in relazione alle affermazioni

158

delle ordinanze, le quali negherebbero che l’esigenza di partecipazione alle attività parlamentari, pur in presenza di votazioni in assemblea, giustifichi un rinvio delle udienze, e con ciò determinerebbero il completo sacrificio di uno dei valori costituzionali in campo.

Sull’interesse a ricorrere non inciderebbe il fatto che, nonostante le decisioni di rigetto delle richieste di rinvio, l’on. Previti abbia preso comunque parte alle votazioni. Si tratterebbe difatti di determinazione strettamente personale ed estrinseca del deputato – e quindi di un soggetto estraneo al rapporto tra gli organi in conflitto –, che ha sacrificato il proprio diritto di difesa al diritto-dovere di partecipazione ai lavori parlamentari.

Nel merito, la ricorrente Camera dei deputati chiede che venga considerato, per i suoi componenti, impedimento assoluto a comparire in udienza non già la necessità di partecipare a qualsivoglia attività parlamentare, ma solo la necessità di partecipare a votazioni in assemblea, per le quali non sussisterebbe alcuna possibilità di delega né di spostamento o altro rimedio all’assenza del parlamentare, a differenza di ciò che accadrebbe per altre attività parlamentari.

Ad avviso della ricorrente, il mancato riconoscimento giudiziale dell’assoluto impedimento a comparire all’udienza penale del deputato impegnato in una votazione assembleare, determinando un grave ostacolo alla partecipazione ad essa del deputato, comprimerebbe in primo luogo l’indipendenza e l’autonomia della Camera, violando gli artt. 64, 68 e 72 della Costituzione, i quali garantiscono quell’indipendenza e quell’autonomia sia sotto il profilo del potere della Camera di disciplinare con autonomo regolamento la propria organizzazione e il funzionamento dei propri lavori, con particolare riferimento alla funzione legislativa, sia per quanto attiene alla posizione di indipendenza dei singoli membri della Camera, riconosciuta dalla Costituzione quale strumento di garanzia dell’indipendenza e dell’autonomia dell’istituzione di appartenenza.

Gli atti impugnati porrebbero inoltre a rischio la funzionalità dell’assemblea, compromettendo la formazione dei quorum strutturali e funzionali richiesti per la validità delle deliberazioni. La ricorrente denuncia, al riguardo, la violazione dell'art. 64, terzo comma, della Costituzione, che stabilisce il quorum strutturale e quello funzionale per la validità delle deliberazioni della Camera, nonché delle altre norme della Costituzione e di leggi costituzionali (artt. 64, primo comma, 73, secondo comma, 79, primo comma, 83, terzo comma, 90, secondo comma, 138, primo e terzo comma, della Costituzione; artt. 12 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, 3 della legge costituzionale 22 novembre 1967, n. 2, 9, comma 3, e 10, comma 3, della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1) che richiedono per talune deliberazioni o votazioni maggioranze speciali, assolute o qualificate. Essendo la partecipazione dei parlamentari alle sedute parlamentari preordinate alle votazioni, nonché alle votazioni medesime, indispensabile, nei termini quantitativi imposti dalla Costituzione, per la validità degli atti deliberativi, ogni impedimento a tale partecipazione si risolverebbe in impedimento alla funzionalità del Parlamento, e dunque nella (pur potenziale) compromissione delle attribuzioni del potere legislativo.

La Camera lamenta inoltre la coartazione (ab extrinseco) della libertà di espletamento del mandato parlamentare, denunciando la violazione degli artt. 67 e 68 della Costituzione, anche in riferimento ai parametri sopra invocati. Sulla premessa che le prerogative che la Costituzione riconosce ai singoli deputati non sono loro guarentigie personali ma strumenti funzionali all’integrità della posizione costituzionale delle istituzioni di appartenenza, la ricorrente sostiene che, ogni volta che viene leso il libero esercizio del mandato

159

parlamentare, garantito dall'art. 67 della Costituzione in una con l'art. 68, si ledono perciò l'autonomia e l'indipendenza della Camera di appartenenza, che in tanto possono sussistere, in quanto i singoli componenti siano tutelati nella loro libertà di esercitare il mandato parlamentare senza impedimenti. Nella specie, con atti giurisdizionali sarebbe stata incisa la libertà di esercizio del mandato parlamentare del singolo deputato, giacché questi sarebbe stato pesantemente condizionato nella sua scelta di adempiere o meno i doveri (e di esercitare i diritti) del suo ufficio, in presenza della contrapposta esigenza (essa pure costituzionalmente protetta) di esercitare il diritto di difesa. La violazione della libertà del mandato (imputabile alla volontà di un potere esterno a quello legislativo) avrebbe per conseguenza la lesione delle prerogative della Camera dei deputati, alla cui tutela quella libertà è strettamente funzionale, anche considerando che il condizionamento del libero mandato determina un'alterazione profonda del libero giuoco delle maggioranze e delle opposizioni, che si fonda sull'altrettanto libero rapporto delle forze.

Infine, la Camera lamenta l’assenza, negli atti impugnati, di un bilanciamento fra le esigenze di efficienza del processo e quelle dell’autonomia, indipendenza e funzionalità delle istituzioni parlamentari, con violazione altresì dell’art. 3 della Costituzione e del principio di leale collaborazione fra i poteri dello Stato. Le ordinanze impugnate, pur movendo dall’esatta premessa di un contrasto tra valori costituzionali – la speditezza del processo, da un lato, e la libera esplicazione del mandato parlamentare e la funzionalità delle assemblee rappresentative, dall’altro – avrebbero provveduto in realtà alla salvaguardia d'uno solo di essi, sacrificando integralmente l'altro, mentre il modello disegnato dalla giurisprudenza costituzionale sarebbe diverso, occorrendo, come è stato precisato dalla sentenza n. 379 del 1996 di questa Corte, un “equilibrio razionale e misurato tra le istanze dello Stato di diritto, che tendono ad esaltare i valori connessi all'esercizio della giurisdizione ... e la salvaguardia di ambiti di autonomia parlamentare ...”. Secondo la ricorrente il bilanciamento sarebbe possibile, assegnando all'impedimento parlamentare una funzione giustificativa della modificazione dei tempi della funzione giurisdizionale solo quando è in giuoco la superiore esigenza della validità delle deliberazioni della Camera, che può essere assicurata esclusivamente dal raggiungimento dei quorum prescritti dalla Costituzione. Gli atti impugnati, invece, risponderebbero ad una logica opposta, quella del sacrificio integrale dell'autonomia parlamentare e dei valori connessi alla rappresentanza, a totale beneficio di quelli connessi alla giurisdizione.

In senso contrario non potrebbe invocarsi la giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 353 del 1996 e n. 10 del 1997) con cui sono state dichiarate costituzionalmente illegittime, in nome del principio della funzionalità del processo, norme che consentivano atti che, pur essendo esercizio del diritto di difesa, diventavano in realtà abusivi ed ingiustificati perché miranti al solo scopo di rinviare nel tempo il completamento dell'iter processuale; e ciò in quanto nella vicenda da cui è sorto il conflitto il parlamentare non sarebbe dominus delle cause di impedimento, che derivano invece dall'oggettiva esistenza di un calendario dei lavori parlamentari ch’egli è tenuto a rispettare e che non ha certo deciso da sé.

Né sarebbe possibile argomentare la superiorità delle esigenze del processo su quelle della funzione parlamentare dall'intervenuta modifica dell'art. 68 della Costituzione: l’eliminazione dell'autorizzazione a procedere, nel determinare il venir meno di un ostacolo al pieno dispiegarsi della funzione giurisdizionale, significa che la mera sottoposizione a procedimento penale non è, di per sé, fonte di alcun impedimento o pregiudizio per il parlamentare e per il rigoroso rispetto dei suoi doveri, ma non proverebbe che si sia voluto tutelare la funzione giurisdizionale a totale scapito di quella rappresentativa.

160

In conclusione, tra l'ipotesi del sacrificio integrale della giurisdizione e l'ipotesi del sacrificio integrale della rappresentanza vi sarebbe quella intermedia del bilanciamento-contemperamento. La tutela dell'essenza stessa del sistema parlamentare (che sta nella validità delle deliberazioni delle Camere) è possibile senza che per questo si rinunci all'esercizio della giurisdizione, che può (anche sollecitamente) proseguire, con il solo limite (tutt'altro che gravoso) del rispetto dell'attività di votazione in assemblea programmata dalla Camera.

La soluzione di considerare l’impedimento parlamentare assoluto ed insuperabile solo nel caso in cui attenga alla partecipazione a votazioni dell’assemblea, e non anche quando attenga a diverse attività dei deputati, viene fatta derivare dalla ricorrente anche dalla applicazione del principio di leale collaborazione nei rapporti fra poteri dello Stato (sentenze n. 379 del 1992 e n. 403 del 1994). Non tutte le sedute dell’assemblea – ricorda la ricorrente – sono dedicate a votazioni, poiché molte sono destinate ad altre attività (discussione di progetti di legge; dibattiti di vario contenuto; svolgimento dl interrogazioni ed interpellanze, ecc.). La previsione dell'assolutezza dell'impedimento parlamentare in riferimento alle sedute destinate a votazioni non comprometterebbe dunque la funzionalità del processo né lederebbe le prerogative dell'autorità giudiziaria; inoltre rappresenterebbe una soluzione certa, fondata su un criterio automatico ed oggettivo. La soluzione opposta, lasciando al giudice penale il potere discrezionale di valutare, di volta in volta, l'assolutezza dell'impedimento del parlamentare, offrirebbe invece minori garanzie per la certezza non solo della situazione soggettiva del singolo deputato, ma della funzionalità e dell'autonomia della Camera.

2.– Questa Corte, con ordinanza n. 102 del 2000, ha dichiarato ammissibile il predetto conflitto di attribuzione proposto dalla Camera dei deputati, estendendo la notifica del ricorso, oltre che al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, con funzioni di giudice dell’udienza preliminare, anche al Senato della Repubblica, stante l’identità della posizione costituzionale dei due rami del Parlamento in relazione alle questioni di principio da trattare.

3.– Il ricorso è stato successivamente notificato e regolarmente depositato con la prova delle avvenute notifiche.

4.– Degli organi ai quali, secondo quanto disposto nell’anzidetta ordinanza, il ricorso per conflitto è stato notificato a cura della Camera, si è costituito innanzi a questa Corte il Senato della Repubblica.

Il Senato, con riserva di illustrazione in successiva memoria, ha concluso chiedendo che la Corte riconosca la fondatezza dei principi affermati nel ricorso della Camera dei deputati in relazione alla considerazione come assoluto impedimento, alla partecipazione di un parlamentare alle udienze penali, del diritto-dovere dello stesso parlamentare di assolvere al proprio mandato partecipando alle sedute dell’organo parlamentare di cui è membro.

5.– Nel giudizio dinanzi alla Corte è intervenuto l’on. Cesare Previti, chiedendo che vengano annullate “le impugnate ordinanze del G.U.P. dott. Rossato nelle quali si è apoditticamente imposta la regola della prevalenza delle esigenze processuali sull’esigenza di esercitare le funzioni parlamentari, dettando altresì quale criterio di risoluzione del conflitto quello della cooperazione tra Giudice e parlamentare al quale ultimo potrebbe fare carico l’esibizione del calendario dei lavori parlamentari, quale base

161

per il Giudice per fissare la scansione temporale delle udienze”; ed in subordine sollecitando la Corte a sollevare dinanzi a se stessa questione di legittimità costituzionale dell’art. 3-bis, comma 1, del decreto-legge 24 maggio 1999, n. 145, inserito dalla legge di conversione 22 luglio 1999, n. 234.

6.– In prossimità dell’udienza, la Camera dei deputati ricorrente ha depositato una memoria illustrativa.

Il conflitto sollevato sarebbe attuale e concreto, non ipotetico e astratto. Il fatto che, nella specie, il deputato interessato abbia preso parte alle votazioni fissate in concomitanza con l’udienza, non avrebbe alcun rilievo, perché non eliminerebbe l’oggettiva incertezza circa le condizioni in presenza delle quali gli impegni parlamentari giustificano l’allegazione di un impedimento. Il conflitto – si osserva – serve a ristabilire il corretto ordine delle attribuzioni, al di là della sorte dei singoli atti che lo hanno pregiudicato.

La Camera esclude che con la proposizione del conflitto sia stato censurato un semplice errore in iudicando, perché quello che la ricorrente – priva di strumenti processuali ordinari per tutelare le proprie attribuzioni – contesta è la titolarità, in capo al giudice, del potere di negare che l’impegno in votazioni in assemblea sia valida causa di giustificazione dell’assenza, all’udienza penale, del parlamentare interessato, ossia la spettanza, non solo a quel giudice, ma a qualunque giudice, del potere di condizionare il libero esercizio del mandato parlamentare negando che l’impegno in votazioni in assemblea costituisca impedimento assoluto alla partecipazione all’udienza penale.

Nel merito, la Camera ribadisce che, ferma la pariordinazione qualitativa di tutte le attività parlamentari, sarebbe necessario considerare assoluto e insuperabile solo l’impedimento derivante dalla partecipazione a votazioni in assemblea, attività tipizzata e specificamente qualificata.

7.– Nella memoria depositata in prossimità dell’udienza, il Senato della Repubblica articola la propria posizione, aderendo in linea di principio alle censure mosse dalla Camera ai provvedimenti del Giudice dell’udienza preliminare di Milano, in particolare insistendo sull’esigenza di coordinamento fra corretto e indipendente esercizio della funzione giurisdizionale e corretto e indipendente esercizio delle funzioni parlamentari, e sul principio di leale collaborazione.

Nel merito, il Senato osserva che la lamentata interferenza con la sfera di autonomia parlamentare garantita dalla Costituzione sussiste ove la statuizione del Giudice dell’udienza preliminare si risolva nella perentoria affermazione che il coordinamento tra i valori costituzionali confliggenti non è né necessario né possibile, e quindi nella negazione di ogni possibile esigenza di coordinamento fra i poteri che debbono organizzare l’esercizio delle rispettive funzioni. Premesso che l’autonomia del Parlamento si esprime in modo unitario, rendendo indispensabile la garanzia per i parlamentari di poter essere presenti non solo alle sedute nelle quali siano previste votazioni dell’assemblea, ma anche a tutte le altre attività nelle quali il parlamentare può svolgere il proprio mandato, il Senato ritiene che il non considerare le esigenze di fissazione del calendario delle sedute parlamentari come espressione della posizione di autonomia costituzionale delle Camere abbia inciso sul funzionamento interno degli organi parlamentari, abbia condizionato il libero svolgimento del mandato parlamentare, impedendo all’imputato qualunque possibilità di contemperare l’esercizio del proprio diritto di difesa con l’esercizio delle

162

proprie funzioni parlamentari, e così ostacolato la Camera di cui fa parte l’indagato in relazione alla formazione dei quorum strutturali e funzionali dei suoi organi.

Le attribuzioni costituzionali del Parlamento non sono estranee rispetto alle funzioni che il giudice è chiamato a svolgere. Il principio di leale collaborazione – afferma la difesa del Senato richiamando i principi affermati dalla giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 231 del 1975, n. 379 del 1992 e n. 403 del 1994) – impone a tutti i poteri dello Stato di svolgere le proprie funzioni valorizzando anche interessi che la Costituzione affida ad altri poteri, nell’esercizio delle autonomie costituzionali loro riconosciute. Il dovere di collaborare lealmente si pone come principio generale cui necessariamente deve ispirarsi l’esercizio di funzioni costituzionalmente riconosciute, tanto più che la flessibilità che discende dall’applicazione del metodo collaborativo non potrebbe certamente condurre a deroghe o impedimenti dell’esercizio di una delle funzioni interferenti e, in specie, della funzione giurisdizionale. Nel caso di specie, è la stessa disciplina del processo penale che, nel consentire di valutare l’assolutezza o meno dell’impedimento a comparire dell’indagato, costituirebbe indicazione positiva nel senso del necessario coordinamento tra l’organo giurisdizionale e l’organo la cui attività può giustificare l’impedimento in questione.

Il Giudice aveva la possibilità di utilizzare l’art. 486 cod. proc. pen. come strumento capace di stabilire un coordinamento con le autonomie parlamentari. Invece non ha ritenuto possibile tale coordinamento, basandosi su una semplice valutazione quantitativa del numero dei casi in cui il rinvio dell’attività processuale era già stato accordato. Ciò che viene contestato nel presente conflitto è proprio l’affermazione secondo cui la norma processuale non avrebbe consentito di attivare una forma di collaborazione per evitare la lesione della posizione di autonomia dell’organo parlamentare. Solo in questa parte le ordinanze impugnate sarebbero illegittime sul piano costituzionale; mentre non spetterebbe al Senato sostenere la correttezza o meno della valutazione che in concreto è stata fatta delle istanze di rinvio.

Il ricorso della Camera non mirerebbe alla correzione di un’erronea applicazione da parte del giudice ordinario della norma processuale. In esso infatti non è richiesto un mero controllo sul contenuto dell’attività giurisdizionale, bensì l’accertamento dell’interferenza nelle attribuzioni costituzionali del potere ricorrente.

Né – conclude il Senato – ci sarebbe in tal modo una sovrapposizione con le ulteriori istanze del giudizio comune, sia perché l’organo ricorrente ha a disposizione il solo rimedio del conflitto, sia perché l’atto giurisdizionale è suscettibile di sindacato solo in relazione alle concrete potenzialità lesive di attribuzioni altrui, la lesione operata dal giudice ordinario ben potendo essere sanzionata non necessariamente con l’annullamento dei dispositivi delle ordinanze impugnate dalla Camera dei deputati, ma anche e soltanto con la cancellazione delle argomentazioni e delle affermazioni lesive dell’autonomia degli organi parlamentari.

8.– In prossimità dell’udienza ha depositato una memoria illustrativa anche l’interveniente on. Previti.

Considerato in diritto

163

1.- Il ricorso per conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato è proposto dalla Camera dei deputati in riferimento ad alcune ordinanze del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Milano, adottate in due diversi procedimenti, che hanno respinto istanze di rinvio dell’udienza motivate da impegni parlamentari di un imputato, membro della Camera stessa. Da tali atti, secondo la ricorrente, emergerebbe un “unitario indirizzo” in tema di rilevanza dell’impedimento parlamentare nel procedimento penale, che sarebbe lesivo delle attribuzioni costituzionali della medesima Camera dei deputati. Lesiva, in particolare, sarebbe l’affermazione secondo cui, pur muovendosi dall’esatta premessa del pari rango costituzionale rivestito dalle esigenze di sollecito svolgimento del giudizio e da quelle del libero e corretto assolvimento delle funzioni delle Camere, si negherebbe poi che le esigenze di partecipazione alle attività parlamentari giustifichino il rinvio dell’udienza, con ciò determinando il completo sacrificio di uno degli interessi costituzionali in campo.

L’accennato indirizzo emergente dalle ordinanze del Giudice dell’udienza preliminare, secondo la ricorrente, contrasterebbe in particolare, in primo luogo, con le norme costituzionali (artt. 64, 68 e 72 Cost.) le quali garantirebbero l'indipendenza e l'autonomia della Camera sia sotto il profilo del potere di disciplinare la propria organizzazione ed il funzionamento dei propri lavori, sia sotto il profilo della posizione di indipendenza dei singoli membri della Camera. In secondo luogo, essendo la partecipazione dei deputati alle votazioni, nei limiti dei quorum strutturali e funzionali stabiliti, requisito per la validità delle deliberazioni parlamentari, gli atti impugnati, ponendo un impedimento a tale partecipazione, comporterebbero un potenziale impedimento alla funzionalità della Camera, in violazione delle norme costituzionali che stabiliscono detto requisito. In terzo luogo essi, condizionando la scelta del deputato, che sarebbe costretto a sacrificare, alternativamente, il suo diritto-dovere di partecipazione all'attività parlamentare o il suo diritto di difesa nel giudizio, violerebbero la libertà del mandato parlamentare (art. 67 della Costituzione), a sua volta funzionale alla tutela delle prerogative della stessa Camera. Infine, gli atti impugnati ometterebbero di realizzare un bilanciamento fra le esigenze di efficienza del processo e quelle di indipendenza, autonomia e funzionalità delle istituzioni parlamentari, con conseguente violazione dell'art. 3 della Costituzione e del principio di leale collaborazione.

Il corretto bilanciamento fra le opposte esigenze, con maggiori garanzie anche per la certezza giuridica, si avrebbe invece considerando, per gli imputati membri del Parlamento, impedimento assoluto a comparire in udienza non già la necessità di partecipare a qualsiasi attività parlamentare, bensì solo la necessità di prendere parte a votazioni in assemblea, attività per la quale non sussisterebbe alcuna possibilità di delega né di spostamento, o altro rimedio all'assenza del parlamentare. Ed è questo, appunto, che chiede la ricorrente nelle sue conclusioni: che questa Corte dichiari che non spetta al giudice "stabilire che non costituisce impedimento assoluto della partecipazione del deputato alle udienze penali il diritto-dovere del deputato di assolvere il mandato parlamentare attraverso la partecipazione a votazioni in assemblea".

2.- Deve preliminarmente essere dichiarato inammissibile, sciogliendo in tal senso la riserva formulata dalla Corte nell'udienza pubblica del 20 febbraio 2001, l'intervento spiegato in giudizio dal deputato Previti.

Le posizioni giuridiche protette dell'interveniente nella sua qualità di imputato nei procedimenti penali sopra ricordati e di destinatario delle ordinanze impugnate, e i correlati diritti di impugnazione e di difesa, restano sempre suscettibili di essere fatti valere con gli ordinari strumenti processuali: né su di essi potrebbero fondarsi domande proposte con lo

164

strumento del conflitto di attribuzioni, come ritenuto da questa Corte allorché dichiarò in limine inammissibili, per questa ragione, due ricorsi per conflitto promossi dallo stesso on. Previti nei confronti del Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Milano, in relazione ad asseriti abusi di potere di cui egli si riteneva vittima (ordinanza n. 101 del 2000). In ogni caso, tali diritti inerenti alla qualità di imputato non sono direttamente coinvolti, né sono suscettibili di essere pregiudicati, nel presente giudizio per conflitto, nel quale la Corte è chiamata esclusivamente a decidere in ordine alle denunciate lesioni delle attribuzioni costituzionali della Camera dei deputati ad opera delle ordinanze medesime. Pertanto non sussistono le ragioni di salvaguardia del diritto di agire in giudizio che hanno condotto la Corte, in un caso recente, ad ammettere l'intervento, in un conflitto fra Regione e Stato, sorto in relazione ad un atto dell'autorità giudiziaria penale, della parte civile costituita nel relativo procedimento, in quanto l'esito del conflitto era suscettibile di condizionare la stessa possibilità che il giudizio comune avesse luogo (sentenza n. 76 del 2001).

Nemmeno può ammettersi l'intervento sotto il diverso profilo, ora prospettato dall'on. Previti, che esso sarebbe volto a difendere "l'esercizio delle attribuzioni del singolo parlamentare", attribuzioni le quali fonderebbero un'autonoma legittimazione al conflitto, parallela a quella della Camera, e sarebbero a loro volta pregiudicate dagli atti impugnati. Infatti, anche a volere accedere, in astratto, a tale prospettazione, una domanda rivolta a difendere le attribuzioni rivendicate, avrebbe comunque dovuto essere introdotta – questa sì – attraverso un autonomo ricorso per conflitto fra poteri, non potendosi ammettere la proposizione di un conflitto attraverso la via dell'intervento volontario in altro giudizio, promosso dalla Camera dei deputati per la lamentata lesione delle attribuzioni costituzionali di quest'ultima.

3.- Il ricorso è fondato nei termini e nei limiti di cui appresso.

Si deve premettere che, nella specie, non viene in rilievo una prerogativa o una immunità dei membri del Parlamento, il cui riconoscimento da parte della Costituzione comporti un limite od una deroga rispetto al normale svolgimento della attività giurisdizionale e all'applicazione delle comuni regole sostanziali e processuali che concernono la posizione dell'imputato nel processo penale; né è in discussione quel confine fra area della legalità ordinaria e della giustiziabilità dei diritti, da un lato, e area dell'autonomia dell'ordinamento parlamentare come garanzia dell'autonomia e dell'indipendenza del Parlamento, dall'altro lato, che in altra occasione ha condotto la Corte ad affermare l'esistenza di limiti all'intervento del potere giudiziario riguardo ad attività e a procedure interamente riconducibili a quell'ordinamento (sentenza n. 379 del 1996).

La posizione dell'imputato, che sia membro del Parlamento, di fronte alla giurisdizione penale – dopo l'abrogazione dell'originario secondo comma dell'art. 68 della Costituzione, ad opera della legge costituzionale n. 3 del 1993 – non è assistita da speciali garanzie costituzionali diverse da quelle stabilite, sul piano sostanziale, dall'art. 68, primo comma, Cost., attraverso la insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle funzioni parlamentari, e, sul piano procedimentale, dal secondo e dal terzo comma del medesimo art. 68, che condiziona all'autorizzazione della Camera di appartenenza l'adozione di misure restrittive della libertà personale (nell'accezione di cui all'art. 13, primo e secondo comma, della Costituzione) o della libertà e della segretezza della corrispondenza e delle comunicazioni (nell'area cioè garantita dall'art. 15 della Costituzione).

165

Al di fuori di queste tassative ipotesi, trovano applicazione, nei confronti dell'imputato parlamentare, le generali regole del processo, assistite dalle correlative sanzioni, e soggette nella loro applicazione agli ordinari rimedi processuali. Fra queste, le regole che sanciscono il diritto dell'imputato di partecipare alle udienze, e la correlativa previsione del rinvio dell'udienza in caso di impossibilità assoluta per l'imputato di essere presente per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento (art. 486, commi 1 e 2, cui si richiama a sua volta l'art. 420, comma 4, del codice di procedura penale; e vedi, ora, art. 420-ter e art. 484 del codice di procedura penale).

4.- Non è compito di questa Corte, ma dei competenti organi della giurisdizione, stabilire i corretti criteri interpretativi e applicativi delle regole processuali: nemmeno, quindi, stabilire se e in che limiti gli impedimenti legittimi derivanti non già da materiale impossibilità, ma dalla sussistenza di doveri funzionali relativi ad attività di cui sia titolare l'imputato, rivestano tale carattere di assolutezza da dover essere equiparati, secondo il dettato dell'art. 486 del codice di procedura penale, a cause di forza maggiore.

Nella specie, è peraltro lo stesso giudice autore delle ordinanze impugnate ad affermare espressamente (nell'ordinanza del 17 settembre 1999) che l'impedimento suscettibile di dare luogo ad assoluta impossibilità di comparire può derivare anche "da norme che delineino una priorità di impegni tale da far ritenere soccombente quello derivante dall'esercizio della funzione giurisdizionale". Egli ammette bensì che "all'attività parlamentare sia attribuita speciale rilevanza e il suo esercizio non debba trovare ostacoli"; ma, invocando la "non minore rilevanza" attribuita dalla Costituzione alla attività giurisdizionale, conclude che "la soluzione giuridica" non dovrebbe essere "quella di dare prevalenza all'attività parlamentare a scapito delle esigenze di celebrazione del processo", bensì, al contrario, quella di considerare "prioritario" – s'intende, anche rispetto alle esigenze dell'attività parlamentare – il valore dell'effettività della giurisdizione, e pertanto di negare il carattere di assolutezza dell'impedimento dedotto. Ciò dopo che, come ricordano le stesse ordinanze, più volte era stato disposto il rinvio dell'udienza chiesto per impedimento parlamentare dell'imputato, impedimento che dunque era stato, implicitamente, riconosciuto come non solo legittimo, ma assoluto.

E' dunque la stessa impostazione data dal giudice alle ordinanze impugnate, anche in relazione ai precedenti, che pone in essere le condizioni da cui origina il presente conflitto, mettendo in rapporto le esigenze costituzionali, rispettivamente, dell'attività parlamentare e di quella giurisdizionale, confliggenti fra di loro. Di ciò, appunto, si duole la ricorrente Camera dei deputati: che il giudice, mettendo a raffronto i due ordini di esigenze, abbia omesso di contemperarle e abbia dato invece, in concreto, esclusiva prevalenza a quelle del giudizio, sacrificando quelle (pur, in linea di principio, non disconosciute) dell'attività parlamentare. Di qui l'odierno conflitto, nella forma tipica del conflitto da menomazione o da interferenza.

5.- Il quesito cui questa Corte è chiamata a rispondere è dunque se il giudice, nell'esercizio delle attribuzioni che gli sono proprie ai fini della conduzione del procedimento attraverso l'applicazione delle comuni regole processuali, abbia tuttavia leso le attribuzioni costituzionali della Camera ricorrente.

Per risolvere il conflitto, non v'è luogo ad individuare regole speciali, derogatorie del diritto comune: nemmeno, quindi, la regola che la ricorrente vorrebbe invece vedere affermata da questa Corte, secondo cui il solo impedimento derivante dalla necessità per l'imputato membro della Camera di prendere parte a votazioni in assemblea dovrebbe essere

166

riconosciuto senz'altro come assoluto. Regola che, peraltro, pur non essendo priva in sé di una certa razionalità, date le caratteristiche delle votazioni assembleari nel quadro delle attività delle Camere, non solo acquisterebbe pur sempre una impropria valenza derogatoria del diritto comune, ma potrebbe d'altra parte, a sua volta, manifestarsi inadeguata a garantire l'interesse del Parlamento: sia per la netta (e quanto meno discutibile) distinzione che verrebbe così introdotta fra diversi aspetti dell'attività del parlamentare, tutti riconducibili egualmente ai suoi diritti e doveri funzionali; sia per la impossibilità di escludere che l'esigenza di indire votazioni insorga in ogni momento nel corso delle attività delle assemblee parlamentari, indipendentemente dalla preventiva programmazione dei lavori (punto, questo, su cui ha insistito particolarmente la difesa dell'interveniente Senato della Repubblica).

In concreto, nell'applicare, com'era suo compito, le comuni regole processuali sugli impedimenti a comparire, il giudice non poteva però, contraddicendo le proprie stesse premesse circa la parità di rango costituzionale degli interessi confliggenti, e mutando radicalmente indirizzo rispetto alla sua stessa condotta precedente, disconoscere in senso assoluto la rilevanza dell'impedimento in questione, per invocare esclusivamente l'interesse del procedimento giudiziario.

Tale è invece, in sostanza, il contenuto delle ordinanze impugnate. Così facendo, il giudice ha leso le attribuzioni dell'istituzione parlamentare, il cui rispetto esige che ogni altro potere, allorquando agisce nel campo suo proprio e nell'esercizio delle sue competenze, tenga conto non solo delle esigenze della attività di propria pertinenza, ma anche degli interessi, costituzionalmente tutelati, di altri poteri, che vengano in considerazione ai fini dell'applicazione delle regole comuni: così, come nella specie, ai fini dell’apprezzamento degli impedimenti invocati per chiedere il rinvio dell'udienza.

Il vizio dei provvedimenti in questione, sotto questo riguardo, è dimostrato, in particolare, dalla circostanza che il Giudice dell'udienza preliminare, dopo avere emanato le due motivate ordinanze (relative a due diversi procedimenti) in data 17 e 20 settembre 1999, ha ripetutamente confermato lo stesso deliberato, senza nuova autonoma motivazione, in occasione di udienze e di istanze di rinvio successive, così mostrando che le sue decisioni non si sono sostanziate in un apprezzamento specifico della situazione, in relazione alle istanze via via presentate, ma sono piuttosto il frutto di una presa di posizione generale, fondata sull'affermata prevalenza delle esigenze del giudizio su quelle dell'attività parlamentare.

6.- Né, d'altra parte, potrebbe dirsi che tale prevalenza dovesse necessariamente discendere, nella specie, dalla necessità di condurre a compimento, in tempi ragionevoli, i procedimenti giudiziari. La ricorrente Camera dei deputati, e per parte sua l'interveniente Senato della Repubblica, sia pure riferendosi alla disciplina, parzialmente differenziata, dei rispettivi regolamenti e alle rispettive prassi, pur esse parzialmente difformi, hanno ampiamente dimostrato che – come d'altronde è noto ed è facilmente accertabile, data la pubblicità degli atti e dei lavori parlamentari – l'attività delle Camere si svolge con ritmi bensì intensi, ma non tali, di per sé, da risultare a priori incompatibili con altri impegni dei componenti delle Camere.

E' pur vero che, a loro volta, procedimenti giudiziari lunghi e complessi, come quelli da cui trae origine il presente giudizio, debbono – anche in relazione all'interesse, costituzionalmente tutelato, alla durata ragionevole del processo (art. 111, secondo comma, Cost.) – rispettare esigenze temporali stringenti, specie quando molte siano le

167

parti e molti i possibili impedimenti delle stesse. E' anche in relazione a tali esigenze che il legislatore del codice di rito, nell'esercizio della sua discrezionalità, ha configurato le norme sugli impedimenti dell'imputato.

Ma è altrettanto evidente che, in linea di principio, non sarebbe impossibile adattare i calendari delle udienze, preventivamente stabiliti e discussi con le parti, in modo da tener conto di prospettati impegni parlamentari concomitanti dell’imputato. E’ ben noto infatti che vi sono giorni della settimana (di massima, almeno il lunedì e il sabato, oltre naturalmente la domenica) e periodi dell'anno in cui non vengono programmate riunioni degli organi parlamentari. Così che udienze preliminari svoltesi (come nella specie) in uno dei procedimenti nel corso di quasi un anno e, nell’altro, nel corso di oltre un anno, con un totale, per ciascuno, di una ventina di convocazioni, sarebbero suscettibili di una organizzazione dei tempi, anche attraverso la consultazione dei calendari parlamentari, tale da evitare, almeno di norma, la concomitanza con i lavori della Camera, e quindi l'insorgere di quelli che lo stesso giudice procedente ha per lungo tempo considerato come impedimenti assoluti alla presenza dell'imputato in udienza, e da ultimo invece ha negato essere tali. Né il giudice ha dimostrato che altra via non vi fosse, per evitare la temuta "situazione di sostanziale stallo" dei procedimenti, se non quella di ignorare sistematicamente, da un certo momento in poi, gli impedimenti parlamentari dell'imputato.

Alla constatazione dell'avvenuta lesione delle attribuzioni della ricorrente, e alla correlativa dichiarazione in ordine a ciò che non spettava al Giudice dell'udienza preliminare, consegue necessariamente l'annullamento dei provvedimenti impugnati.

per questi motiviLA CORTE COSTITUZIONALEa) dichiara, in accoglimento del ricorso in epigrafe, proposto dalla Camera dei deputati, che non spettava al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, in funzione di giudice dell'udienza preliminare, nell'apprezzare i caratteri e la rilevanza degli impedimenti addotti dalla difesa dell'imputato per chiedere il rinvio dell'udienza, affermare che l'interesse della Camera dei deputati allo svolgimento delle attività parlamentari, e quindi all'esercizio dei diritti-doveri inerenti alla funzione parlamentare, dovesse essere sacrificato all'interesse relativo alla speditezza del procedimento giudiziario; e conseguentementeb) annulla le impugnate ordinanze in data 17 settembre, 20 settembre, 22 settembre, 5 ottobre e 6 ottobre 1999 del predetto Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 luglio 2001.

Cesare RUPERTO, Presidente

Valerio ONIDA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 6 luglio 2001.

168

SENTENZA N. 219 DEL 2003

REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori:- Riccardo CHIEPPA Presidente- Gustavo ZAGREBELSKY Giudice - Valerio ONIDA " - Carlo MEZZANOTTE " - Fernanda CONTRI " - Guido NEPPI MODONA "- Piero Alberto CAPOTOSTI " - Annibale MARINI " - Franco BILE " - Giovanni Maria FLICK " - Ugo DE SIERVO " - Romano VACCARELLA "- Alfio FINOCCHIARO " ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della delibera del 27 gennaio 2000 del Senato della Repubblica relativa alla insindacabilità delle opinioni espresse dal sen. Roberto Centaro nei confronti del dott. Giancarlo Caselli, promosso con ricorso del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma – Ufficio 16, notificato il 20 novembre 2000, depositato in Cancelleria il 6 dicembre successivo ed iscritto al n. 58 del registro conflitti 2000.

Visto l'atto di costituzione del Senato della Repubblica;

udito nell'udienza pubblica del 25 febbraio 2003 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso del 2 giugno 2000, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Senato della Repubblica, in relazione alla deliberazione assunta dalla Assemblea nella seduta del 27 gennaio 2000, con la quale - approvando la proposta formulata dalla Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari (Doc. IV-quater, n. 50) – è stato affermato che i fatti per i quali pende procedimento penale a carico del senatore Roberto Centaro, concernono opinioni espresse dal medesimo parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni.Il ricorrente premette che – a seguito della querela proposta il 17 luglio 1998 dal dott. Giancarlo Caselli – era stato richiesto il rinvio a giudizio del senatore Centaro per il reato di diffamazione aggravata a mezzo stampa, in relazione alle dichiarazioni rese da quest’ultimo nel corso di una conferenza stampa tenutasi a Roma il precedente 9 luglio, unitamente agli onorevoli Filippo Mancuso, Tiziana Maiolo e Gianfranco Micciché;

169

dichiarazioni che, successivamente diffuse da varie agenzie giornalistiche, avevano tratto origine dal rifiuto dei parlamentari del gruppo di “Forza Italia” di partecipare ad un convegno sul riciclaggio, organizzato a Palermo per i giorni immediatamente successivi dalla Commissione parlamentare “antimafia”, della quale il senatore Centaro era componente. Illustrando alla stampa le ragioni di tale rifiuto, esso aveva stigmatizzato l’«intollerabile metodo di indagine con cui la Procura siciliana e di Milano operano nei confronti di Silvio Berlusconi, con una strategia di delegittimazione e di epurazione politica attraverso lo strumento giudiziario...e le indagini di Palermo proprio sul riciclaggio che si fondano su dichiarazioni de relato dimostrano un settarismo di stampo ideologico» (Adnkronos); così offendendo, secondo l’accusa, la reputazione del dott. Giancarlo Caselli, titolare, all’epoca, della Procura della Repubblica di Palermo.Il ricorrente sottolinea in particolare come la Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari avesse motivato la proposta di insindacabilità rilevando che il convegno in questione era stato promosso proprio dalla Commissione parlamentare “antimafia” e costituiva, pertanto, una attività inerente i compiti propri di tale organo; con la conseguenza che la partecipazione ad esso «concretava innegabilmente un’attività parlamentare, e, reciprocamente, la non partecipazione dell’intero gruppo (di “Forza Italia”) esprimeva a sua volta un comportamento rilevante sul piano parlamentare». Tanto più che – aveva pure sottolineato la Giunta – il senatore Centaro, in qualità di responsabile del gruppo di “Forza Italia” in seno alla medesima Commissione parlamentare, aveva precedentemente inviato al Presidente di quest’ultima una lettera, in cui aveva spiegato le ragioni per le quali il gruppo aveva deciso di non partecipare al convegno. Pertanto, concludeva la Giunta, «il comunicare questa decisione al Presidente della Commissione, da parte del responsabile del gruppo che la aveva adottata, integrava un atto di conseguente rilievo istituzionale, compiuto dal soggetto qualificato a realizzarlo»; con la conseguenza che la diffusione di tali ragioni attraverso la conferenza stampa immediatamente successiva, a sua volta, integrava «quella divulgazione della attività parlamentare che, pur non potendo costituire funzione parlamentare in senso tecnico, è a questa legata dal “nesso funzionale” richiesto» dalla giurisprudenza di questa Corte, per ritenere siffatta condotta attratta nell’alveo della garanzia sancita dall’art. 68, primo comma, della Costituzione.Tali conclusioni sono state però contestate dal ricorrente. Esso - facendo leva sulla giurisprudenza, tanto costituzionale che di legittimità - ritiene, contrariamente all’assunto della Giunta, che «la missiva inviata dal senatore Centaro al Presidente della Commissione Antimafia per comunicare la decisione di Forza Italia di non prendere parte al Convegno di Palermo», non possa ritenersi «atto tipico di funzione parlamentare, né presupposto o consequenziale ad un atto tipico». Si tratterebbe, infatti, di un «atto non previsto dai regolamenti parlamentari, che fuoriesce dal campo applicativo del diritto parlamentare per assumere una connotazione ed un contenuto squisitamente politici», al punto che la stessa Giunta lo aveva definito come atto di «rilievo istituzionale», e non come atto funzionale. Conseguentemente – deduce il ricorrente – la riproduzione, in sede di conferenza stampa, del contenuto di tale comunicazione, da parte del senatore Centaro, non costituirebbe «divulgazione di opinione espressa in sede parlamentare»:con l’ovvio corollario di non godere, quindi, della relativa immunità, difettando il presupposto dell’originario esercizio di funzioni parlamentari. Da ciò la proposizione del conflitto in relazione alla deliberazione di insindacabilità, adottata dalla Assemblea del Senato; con la conseguente richiesta di dichiarare la non spettanza del corrispondente potere esercitato da quel ramo del Parlamento, e di annullare l’atto di cui si assume la illegittima adozione.

2. – Il conflitto è stato dichiarato ammissibile da questa Corte con ordinanza n. 493 del 2000, ritualmente notificata al Senato della Repubblica, unitamente all’atto introduttivo del

170

ricorso, e successivamente depositata, nei termini, con la prova delle avvenute notificazioni, nella cancelleria di questa Corte.

3. – Nel giudizio si è costituito il Senato della Repubblica – con atto di costituzione, peraltro, depositato fuori termine e deduzioni – concludendo per la reiezione del ricorso proposto.

4. – Nella trattazione del conflitto, questa Corte rilevava che, nell’atto introduttivo, l’autorità giudiziaria aveva espressamente fatto riferimento ad una lettera, con la quale il senatore Centaro aveva comunicato al Presidente della Commissione parlamentare “antimafia” la decisione del gruppo di “Forza Italia” di non partecipare al convegno di Palermo; lettera, la cui controversa natura di atto di esercizio di funzioni parlamentari aveva appunto costituito la premessa giuridica posta a base del conflitto. D’altra parte, di tale documento v’era traccia univoca anche nella relazione che aveva accompagnato il parere espresso dalla Giunta, posto che ad esso l’organo parlamentare aveva fatto espresso riferimento, segnalandone l’avvenuta acquisizione per iniziativa dello stesso parlamentare; quest’ultimo – come puntualizza la relazione – aveva, dopo la sua audizione, «trasmesso alla Giunta la missiva inviata al senatore Del Turco, unitamente ad altri documenti, quali alcune interrogazioni da lui presentate sul tema dei rapporti del mondo politico con l’operato di alcuni uffici giudiziari». Stante, quindi, l’evidente opportunità di acquisire agli atti del presente giudizio copia della lettera in questione, la Corte, con ordinanza istruttoria del 24 aprile 2002, invitava il Senato della Repubblica a trasmettere l’anzidetta documentazione.

5. – A seguito della notificazione della richiamata ordinanza istruttoria, il Presidente della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato, con nota pervenuta l’11 maggio 2002, trasmetteva copia della lettera - inviata l’8 luglio 1998 (come da protocollo di ricezione in pari data) dal senatore Centaro al Presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia e delle altre associazioni criminali similari - segnalando che detto documento risultava agli atti della medesima Giunta, in quanto trasmesso dallo stesso senatore Centaro con lettera del 13 ottobre 1999.

Considerato in diritto

1.– Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma solleva conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato, in relazione alla deliberazione adottata dal Senato della Repubblica nella seduta del 27 gennaio 2000: deliberazione con la quale l’Assemblea ha approvato la proposta della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari (doc. IV-quater, n. 50), di dichiarare che il fatto per il quale pende procedimento penale nei confronti del senatore Roberto Centaro davanti al medesimo Giudice, concerne opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni e ricade, pertanto, nell’ipotesi di cui all’art. 68, primo comma, della Costituzione.

Il Giudice ricorrente ha premesso, in fatto, che nei confronti del sen. Centaro era stata formulata richiesta di rinvio a giudizio quale imputato del delitto di diffamazione aggravata a mezzo della stampa, per avere - nel corso di una conferenza stampa tenutasi a Roma il 9 luglio 1998, a seguito della mancata partecipazione del gruppo di “Forza Italia” al convegno sul riciclaggio, organizzato a Palermo dalla Commissione parlamentare “antimafia” - rilasciato dichiarazioni, poi diffuse da varie agenzie di stampa, nelle quali si censurava «l’intollerabile metodo di indagine con cui la Procura siciliana e di Milano operano nei confronti di Silvio Berlusconi con una strategia di delegittimazione e di

171

epurazione politica attraverso lo strumento giudiziario...e le indagini di Palermo proprio sul riciclaggio che si fondano su dichiarazioni de relato dimostrano un settarismo di stampo ideologico»; dichiarazioni – puntualizzava l’accusa – con le quali il parlamentare offendeva la reputazione del dott. Giancarlo Caselli, all’epoca Procuratore della Repubblica di Palermo.Nel merito, la Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari – secondo quanto dedotto dal Giudice ricorrente - aveva motivato la proposta di insindacabilità delle opinioni espresse dal senatore Centaro, rilevando che il convegno di Palermo era stato indetto dalla Commissione parlamentare “antimafia” e, quindi, costituiva una attività inerente i compiti della Commissione stessa; che il senatore Centaro aveva inviato al Presidente della Commissione una lettera, con la quale spiegava le motivazioni della decisione di non prendere parte al convegno, in qualità di responsabile del gruppo di “Forza Italia” in seno alla stessa Commissione; che tale comunicazione era, dunque, un atto di «rilievo istituzionale compiuto dal soggetto qualificato a realizzarlo»; che la comunicazione alla stampa di tale decisione integrava un momento divulgativo, legato da nesso funzionale ad attività parlamentare; che, infine, le dichiarazioni rese dal senatore Centaro, pur se connotate da «asprezza di toni e perentorietà di conclusioni», non travalicavano «i limiti ricostruiti dall’elaborazione giurisprudenziale per il concetto di opinione». Invece, ad avviso del Giudice ricorrente, la lettera in questione non assumerebbe le caratteristiche di «atto tipico di funzione parlamentare, né presupposto o conseguenziale ad un atto tipico». A parere del ricorrente, infatti, si tratterebbe di un atto «non previsto dai regolamenti parlamentari, che fuoriesce dal campo applicativo del diritto parlamentare per assumere una connotazione ed un contenuto squisitamente politico»; tant’è che la stessa Giunta lo ha definito atto di «rilievo istituzionale», e non atto funzionale. L’avere, quindi, il senatore Centaro esternato agli organi di stampa il contenuto di quella lettera non rappresenterebbe, secondo il Giudice ricorrente, divulgazione di opinione espressa in sede parlamentare, e non godrebbe, pertanto, della relativa immunità: con l’ovvia conseguenza di rendere illegittima la contraria deliberazione adottata dal Senato.

2. – I rilievi svolti dal ricorrente non possono essere condivisi.In primo luogo, l’attività svolta in seno ad organi parlamentari, quali certamente sono le Commissioni parlamentari di inchiesta, ha l’identica natura di quella svolta nelle altre articolazioni in cui i membri della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica sono chiamati a svolgere le proprie attribuzioni: la definizione di attività parlamentare – soprattutto agli effetti della garanzia della insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati, a norma dell’art. 68 della Costituzione – non può, infatti, ammettere arbitrarie limitazioni a seconda della “struttura” all’interno della quale le funzioni anzidette vengono ad essere in concreto esercitate. D’altra parte – e proprio con riferimento ad un conflitto promosso dalla autorità giudiziaria, a seguito della mancata trasmissione di atti da parte della Commissione parlamentare “antimafia” – questa Corte non ha mancato di sottolineare che è «compito delle Commissioni parlamentari di inchiesta … raccogliere notizie e dati necessari per l’esercizio delle funzioni delle Camere; esse … hanno semplicemente lo scopo di mettere a disposizione delle Assemblee tutti gli elementi utili affinché queste possano, con piena cognizione delle situazioni di fatto, deliberare la propria linea di condotta, sia promuovendo misure legislative, sia invitando il Governo ad adottare, per quanto di sua competenza, i provvedimenti del caso. L’attività di inchiesta rientra, insomma, nella più lata nozione della funzione ispettiva delle Camere…» (v. sentenza n. 231 del 1975).

In secondo luogo, rileva non già la configurazione nominalistica degli atti che il singolo parlamentare compia quale componente di una determinata Commissione, ma la

172

riconducibilità di essi allo svolgimento dei relativi lavori: così da esprimere l’esercizio in concreto delle attribuzioni inerenti la qualità rivestita nell’ambito di quell’organo. In tale prospettiva, erra il Giudice ricorrente laddove postula una sorta di automatica equivalenza tra l’atto non previsto dai regolamenti parlamentari e l’atto estraneo alla funzione parlamentare, giacché la “tipizzazione”, che rileva agli effetti della garanzia di insindacabilità, non è quella che scaturisce dal nomen (valido solo sul piano meramente ricognitivo); ma è quella che, secondo un paradigma di effettività, deriva dalla riconducibilità degli atti all’esercizio delle attribuzioni proprie – anche se attuate in forma “innominata”, sul piano regolamentare – dei componenti i due rami del Parlamento. È l’atto del parlamentare, in sé e per sé considerato – e non necessariamente la sua riconducibilità agli schemi del regolamento parlamentare – a dover presentare quegli indici di riconoscimento della partecipazione ai lavori delle assemblee, delle commissioni e degli altri organi della Camera o del Senato, che valgano a qualificarlo come opinione manifestata nell’esercizio delle funzioni di membro del Parlamento. Solo in questa dimensione l’opinione potrà ritenersi insindacabile, giacché – alla stregua dell’equilibrato sistema di valori tracciato dalla Costituzione – garanzia e funzione sono inscindibilmente legate fra loro da un nesso che, reciprocamente, le definisce e giustifica: soltanto l’effettivo e concreto esercizio delle attribuzioni parlamentari ammette un’area di insindacabilità, a salvaguardia delle prerogative del Parlamento; così come, all’inverso, è solo e nei limiti di tale fondamentale esigenza che opera l’ambito della guarentigia costituzionale.

3. – Emerge, allora, con evidenza, che la lettera inviata dal senatore Centaro al Presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia – ed acquisita agli atti del presente giudizio a seguito della ordinanza istruttoria di questa Corte – presenta le caratteristiche necessarie per poter essere inquadrata nel novero degli atti di esercizio della funzione parlamentare.È anzitutto da escludere, infatti, che si trattasse di una comunicazione “privata”, giacché essa è stata indirizzata al presidente dell’organismo parlamentare da un componente dello stesso, nella qualità di rappresentante – e quindi di “portavoce” – del gruppo di “Forza Italia” in seno alla Commissione. Un atto, dunque, del tutto “ufficiale”, protocollato alla ricezione e, come tale, destinato a confluire nella documentazione della attività di quell’organismo, senza che rilevi – come pure sembra implicitamente adombrare il Giudice ricorrente – il carattere asseritamente “interno” che il contenuto di quell’atto eventualmente rivestiva, agli effetti delle relazioni o delle comunicazioni “esterne” che potevano promanare dalla stessa Commissione parlamentare.Accanto a ciò, la natura dell’atto è confermata dal relativo contenuto, tutto concentrato nell’esprimere le ragioni politiche in forza delle quali il gruppo, nel cui nome il senatore Centaro si esprimeva, aveva deliberato di non partecipare al convegno di Palermo organizzato dalla stessa Commissione parlamentare: una comunicazione, dunque, inerente ai lavori “istituzionali” di quell’organo, inserita in un preciso contesto cronologico unitario (fra l’invio della lettera, la divulgazione nel giorno successivo, lo svolgimento del convegno in quest’ultima data); rispetto ad essa, il contenuto “politico” rappresentava null’altro che l’aspetto argomentativo sul quale era articolata “l’opinione” in forza della quale un gruppo di parlamentari, appartenenti alla Commissione, aveva reputato di astenersi dal partecipare ad una attività d’istituto.Contrariamente all’assunto del ricorrente, non necessariamente l’atto «che assume una connotazione ed un contenuto squisitamente politico» perde per ciò stesso la natura parlamentare, giacché ciò che rileva è l’ambito funzionale entro cui l’atto si iscrive: se esso promana da una “fonte” parlamentare e si manifesta come esercizio delle attribuzioni proprie di quella funzione, è evidente che il suo contenuto comunicativo – abbia o meno risalto politico, tecnico o di altra natura – non presenta in sé aspetti significativi o dirimenti

173

agli effetti dello scrutinio relativo alla applicabilità della garanzia sancita dall’art. 68, primo comma, della Costituzione. Ne deriva che, pur tenendo conto delle peculiarità che caratterizzano la comunicazione rivolta dal senatore Centaro al Presidente della Commissione parlamentare “antimafia” – peculiarità essenzialmente riconducibili allo specifico contesto da cui quella comunicazione ha tratto causa ed origine - non è dubitabile che essa rivesta i caratteri dell’atto compiuto nell’esercizio delle funzioni parlamentari; sono pertanto insindacabili le successive dichiarazioni rese alla stampa, posto che in tale occasione il senatore Centaro si è nella sostanza limitato a riprodurre subito dopo – e, quindi, legittimamente a divulgare – il contenuto della più volte citata comunicazione. Il conflitto proposto nei confronti del Senato della Repubblica deve, dunque, risolversi in favore di quest’ultimo.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara che spetta al Senato della Repubblica affermare l’insindacabilità, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, delle dichiarazioni espresse dal senatore Roberto Centaro, secondo quanto deliberato dalla Assemblea del Senato in data 27 gennaio 2000.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 giugno 2003.

Riccardo CHIEPPA, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in Cancelleria il 24 giugno 2003.

174

SENTENZA N. 379 DEL 2003

REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori:- Riccardo CHIEPPA Presidente- Gustavo ZAGREBELSKY Giudice- Valerio ONIDA "- Carlo MEZZANOTTE "- Fernanda CONTRI "- Guido NEPPI MODONA "- Piero Alberto CAPOTOSTI "- Annibale MARINI "- Franco BILE "- Giovanni Maria FLICK "- Francesco AMIRANTE "- Ugo DE SIERVO "- Romano VACCARELLA "- Paolo MADDALENA "- Alfio FINOCCHIARO "ha pronunciato la seguenteSENTENZA nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della delibera della Camera dei deputati del 25 marzo 1999 relativa alla insindacabilità delle opinioni espresse dall'on. Domenico Gramazio nei confronti del dott. Stefano Balassone ed altra, promosso con ricorso del Tribunale di Roma – sez. I civile, notificato il 23 agosto 2001, depositato in cancelleria il 10 settembre 2001 ed iscritto al n. 32 del registro conflitti 2001. Visto l'atto di costituzione della Camera dei deputati; udito nell'udienza pubblica del 30 settembre 2003 il Giudice relatore Valerio Onida; udito l'avvocato Roberto Nania per la Camera dei deputati.Ritenuto in fatto 1.– Con ricorso notificato il 30 gennaio 2001 e depositato il successivo 12 febbraio, nell'ambito di un procedimento civile per risarcimento del danno da diffamazione promosso dal dott. Stefano Balassone e dalla signora Annamaria Grignola nei confronti del deputato Domenico Gramazio, il Tribunale di Roma ha sollevato conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati a seguito della delibera adottata dall'assemblea nella seduta del 25 marzo 1999 (doc. IV - quater, n. 67), secondo cui le dichiarazioni per le quali è in corso il procedimento concernono opinioni espresse dal membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni, con conseguente insindacabilità a norma dell'art. 68, primo comma, della Costituzione. Il 10 novembre 1998, si legge nel ricorso, l'onorevole Gramazio aveva presentato alla Presidenza della Camera dei deputati un'interrogazione a risposta scritta del seguente tenore rivolta ai Ministri delle comunicazioni e del tesoro: "Per sapere se risponde a verità che la società Extra, che fornisce servizi alla TV di Stato, abbia alle sue dipendenze la signora Annamaria Grignola, attuale moglie del dott. Stefano Balassone, consigliere di amministrazione della RAI-TV, o se la signora Annamaria Grignola intrattenga ad altro titolo un rapporto di lavoro o di consulenza con la TV di Stato; (...) perplessità di natura deontologica sorgono in merito alla consulenza tra la società Extra e la RAI, in quanto il dott. Balassone è membro del consiglio di amministrazione della RAI-TV. Se infine

175

risponde a verità che alcune strutture della RAI siano state sollecitate ad accendere collaborazioni o consulenze con la società Extra. L'interrogante chiede di sapere se sponsorizzare direttamente o indirettamente società collegate al gruppo familiare rientra nei compiti istituzionali di un membro del consiglio di amministrazione della TV di Stato: se i contratti stipulati dalla società Extra con la RAI sono stati esaminati dal consiglio di amministrazione della TV di Stato e quali osservazioni siano state eventualmente formulate dal collegio dei sindaci". Nel giudizio civile gli attori si dolevano che nella medesima data, prima che vi fosse stata la pronuncia sull'ammissibilità dell'interrogazione, l'onorevole Gramazio avesse disposto la diffusione di un comunicato stampa nel quale dava notizia della sua iniziativa, caricata di affermazioni diffamatorie, quali "Consulenze a familiari, concubine e amici" ; "silenzio su un caso sospetto di consulenze RAI a familiari di manager della TV di Stato"; "la moglie del consigliere Balassone sarebbe alle dipendenze o consulente della soc. Extra che collabora con la TV di Stato"; "malignità, ma anche circostanze quantomeno sospette"; "ecco la RAI dell'Ulivo sempre pronta a gratificare parenti ed amici. Dell'Ulivo s'intende". Malgrado la smentita diffusa dal dott. Balassone nella giornata del 10 novembre (con la precisazione che la signora Grignola aveva interrotto ogni rapporto con la soc. Extra prima ancora che il marito assumesse la carica di consigliere), il giorno successivo il quotidiano Roma aveva riportato la notizia dell'interrogazione parlamentare, riferendo anche delle accuse mosse al dott. Balassone. Il Tribunale, dopo aver ricordato che l'interrogazione dell'onorevole Gramazio veniva dichiarata non ammissibile ex articolo 139-bis del regolamento della Camera, esulando la materia da quelle affidate alla competenza e alle responsabilità proprie del Governo nei confronti del Parlamento, osserva che l'Assemblea, nella seduta del 25 marzo 1999, ha affermato, in ordine ai fatti oggetto del giudizio civile, la sussistenza della prerogativa parlamentare di cui all'articolo 68, primo comma, della Costituzione, su conforme proposta della Giunta per le autorizzazioni a procedere. Ciò sul rilievo, come si legge nella relazione della Giunta, che le affermazioni dell'onorevole Gramazio costituirebbero esse stesse, indipendentemente dalla pregressa presentazione di un atto ispettivo, un'attività di critica, di ispezione e di denuncia che di per sé può ricomprendersi tra quelle proprie del parlamentare, mentre sulla particolare gravità dell'offesa sarebbe prevalente la considerazione del fatto che le dichiarazioni del deputato "si inseriscono in un contesto prettamente politico ed hanno per contenuto notizie e valutazioni di preminente interesse politico". Ad avviso del Tribunale, la Camera avrebbe esercitato illegittimamente il proprio potere, giacché la prerogativa dell'insindacabilità non copre tutte le opinioni espresse dal parlamentare nello svolgimento della sua attività politica, ma soltanto quelle legate da nesso funzionale con le attività svolte nella sua qualità di membro della Camera. In proposito il ricorrente, ricostruiti la finalità ed il contenuto della prerogativa dell'insindacabilità, richiama la giurisprudenza di questa Corte, per affermare che la garanzia costituzionale non si estenderebbe a tutti i comportamenti di chi sia membro delle Camere, ma solo a quelli funzionali all'esercizio delle attribuzioni proprie del Parlamento. Oggetto di protezione non sarebbe l'attività politica in genere del parlamentare ampiamente considerata, né il contesto politico, ma l'esercizio della funzione parlamentare e delle attività consequenziali e presupposte, funzioni che devono esprimersi in ambito e modi giuridicamente definiti. Non basterebbe, secondo il Tribunale, il semplice collegamento di argomento o di contesto tra attività parlamentare e dichiarazione, ma occorrerebbe l'identificabilità della dichiarazione stessa quale espressione di attività parlamentare.

176

La delibera dell'Assemblea da cui è sorto il conflitto, ad avviso del ricorrente, si collocherebbe, per la sua stessa motivazione, in insanabile contrasto con tali principi, il cui rispetto è condizione per il valido esercizio del potere parlamentare di dichiarare l'insindacabilità. La non pertinenza della domanda di interrogazione alla funzione ispettiva parlamentare e l'indebita diffusione del testo collocherebbero l'iniziativa dell'onorevole Gramazio in un ambito improprio, «in quanto viziata sotto il profilo funzionale». Pertanto, le opinioni espresse dal deputato nella presente vicenda sarebbero manifestazione di pensiero riconducibile solo all'esercizio di attività politica in genere, come tale non protetta. 2.– Il conflitto è stato dichiarato ammissibile da questa Corte con ordinanza n. 312 del 2001, ritualmente notificata con l'atto introduttivo alla Camera dei deputati, e il ricorso è stato successivamente depositato, nei termini assegnati, con la prova dell'avvenuta notifica. 3.– Si è costituita la Camera dei deputati, chiedendo che la Corte dichiari il conflitto irricevibile ovvero inammissibile e, in subordine, dichiari spettante alla Camera dei deputati il potere di affermare l'insindacabilità delle opinioni espresse dall'onorevole Gramazio per le quali pende il giudizio civile da cui è sorto il conflitto. Dopo aver ricostruito i fatti dai quali prende origine il giudizio, la difesa della Camera eccepisce, in via preliminare, l'inammissibilità del ricorso, per la omessa "indicazione delle norme costituzionali che regolano la materia", così come prescritto dall'art. 26 delle Norme integrative. A giudizio della resistente, infatti, nel caso di specie sarebbe mancante anche la più circoscritta prospettazione della violazione dell'art. 68 della Costituzione. L'eccezione non potrebbe essere superata neanche osservando che una citazione dell'art. 68, primo comma, della Costituzione compare comunque nel corpo dell'atto introduttivo, là dove il giudice riporta le motivazioni che sorreggono la delibera dell'organo parlamentare, poiché non sarebbe sostenibile "che l'atto introduttivo del giudizio per conflitto sia persino sollevato dall'onere di fornire una autonoma e specifica indicazione del (solo) art. 68, primo comma, della Costituzione, e che una simile presa di posizione non potrebbe essere surrogata nemmeno da un tentativo di indicazione per relationem, ma dalla assolutamente casuale comparsa di tale disposizione costituzionale in qualunque modo ed a qualunque scopo essa avvenga". Nel merito, i rilievi mossi dal Tribunale ricorrente nei confronti della delibera di insindacabilità sarebbero infondati. Anzitutto, secondo la difesa della resistente, per implicita ma inequivoca ammissione dello stesso ricorrente, guardando al contenuto sostanziale delle dichiarazioni esterne risulterebbe incontestabile che tra esse e la pregressa interrogazione parlamentare intercorra un rapporto di pressoché perfetta identità, il che esimerebbe da ogni ulteriore onere probatorio sul punto. La garanzia parlamentare sarebbe dunque applicabile al caso di specie. Un così stringente nesso di collegamento tra la dichiarazione esterna e l'atto ispettivo non potrebbe essere infranto, e addirittura cancellato, dalla pronunzia di inammissibilità intervenuta (solo successivamente alla effettuazione del comunicato stampa) a carico dell'atto ispettivo ai sensi dell'art. 139-bis del regolamento della Camera. Antecedentemente alla pronunzia di inammissibilità, infatti, il nesso di funzionalità tra la dichiarazione esterna e l'attività parlamentare si sarebbe già instaurato, e, ciò che più conta, avrebbe conosciuto nella concretezza dei rapporti tra rappresentanti ed opinione pubblica la sua piena e definitiva realizzazione. Si sarebbe dunque già determinata l'attivazione della garanzia della insindacabilità, e le vicende interne all'ordinamento parlamentare che abbiano interessato ex post l'atto ispettivo non potrebbero essere assunte dal giudice allo scopo di disconoscere un effetto qualificatorio già determinatosi nella dimensione squisitamente costituzionale e con riferimento ad opinioni situate all'esterno dei confini parlamentari. La questione generale riguardante l'opportunità che i parlamentari procedano alla divulgazione del contenuto degli atti ispettivi presentati prima

177

della certezza sul punto della loro ammissibilità resterebbe comunque circoscritta all'interno dell'ordinamento parlamentare, ed alle misure eventualmente da esso previste all'uopo. In ogni caso, secondo la difesa della Camera, sarebbe fuori misura la tesi secondo cui l'operatività della garanzia costituzionale della insindacabilità delle opinioni esterne, sotto il profilo della loro correlazione con l'attività parlamentare, sia postulabile esclusivamente in presenza di atti che abbiano superato positivamente il vaglio di ammissibilità. La funzione precipua della valutazione prevista dall'art. 139-bis del regolamento della Camera andrebbe infatti inquadrata alla luce della ricostruzione prevalente che considera tutte le attività ispettive quali attribuzioni dell'organo collegiale, ma subordinate, nel caso delle interrogazioni e delle interpellanze, all'iniziativa del singolo membro del collegio medesimo. Così inquadrata, detta funzione risulterebbe volta a verificare l'idoneità della iniziativa ispettiva assunta dal singolo parlamentare a sollecitare l'esercizio della attribuzione collegiale, convertendosi dunque da manifestazione tipica della esigenza individuale di conoscenza in attività rogatoria dell'organo complessivamente inteso. Ne risulterebbe che in un caso come quello di specie, di controllo negativo per la estraneità della materia all'ambito del rapporto fiduciario con il Governo, non verrebbe negata la identificabilità dell'atto di iniziativa come tale e come esercizio di funzione spettante al singolo parlamentare, nonostante che l'atto sia inidoneo a guadagnare la visibilità collegiale a cui aspirava. La resistente conclude ricordando come l'attenzione critica nei confronti dell'attività gestionale della RAI espressa nell'atto di cui si tratta non rappresenterebbe un accadimento isolato, come è comprovato dall'impegno complessivo posto in essere dallo stesso deputato Gramazio su tali temi. A dimostrazione di ciò, vengono richiamati alcuni interventi sul punto svolti dal parlamentare e contenuti in diversi atti ispettivi situati fra il 1996 e il 2000, prodotti nel giudizio davanti alla Corte. Osserva quindi che non potrebbe assumere alcun rilievo ostativo alla operatività della garanzia della insindacabilità il fatto che la Camera non abbia valorizzato la valenza probatoria di tali atti ovvero non li abbia riferiti in termini circostanziati allo scopo di asseverare il rapporto di collegamento tra impegno politico esterno ed attività interne alla sede parlamentare. Nei recenti sviluppi della giurisprudenza costituzionale, infatti, il giudizio sul conflitto tra poteri si configurerebbe quale scrutinio sulla effettiva sussistenza dei presupposti di operatività dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, e non già sulla mera esistenza o sufficienza della motivazione della Camera. 4.– All'esito della discussione del conflitto, questa Corte, con ordinanza istruttoria del 10 luglio 2002, rilevato che l'interrogazione dalla quale, secondo le parti, traggono origine le dichiarazioni per le quali si procede ed il provvedimento del Presidente della Camera che l'aveva dichiarata inammissibile non risultavano agli atti del giudizio, non essendo stati prodotti, invitava la Camera a produrre tanto l'interrogazione presentata il 10 novembre 1998 che il provvedimento della Presidenza che ne aveva valutato la non ammissibilità. Con comunicazione del 26 settembre 2002 il Presidente della Camera riteneva di non poter accedere all'invito formulato da questa Corte, sul rilievo che l'atto ispettivo in discorso, essendo stato dichiarato non ammissibile e non essendo quindi stato pubblicato negli "Atti parlamentari", non era qualificabile come interrogazione, bensì come una manifestazione di opinione del deputato interessato nell'esercizio di una facoltà prevista dall'ordinamento parlamentare. Precisava comunque che il contenuto dei documenti richiesti era correttamente riportato nella relazione della Giunta per le autorizzazioni che aveva costituito l'atto parlamentare con il quale era stata introdotta la discussione in Assemblea che aveva condotto alla deliberazione di insindacabilità in questione. 5.– In prossimità dell'udienza ha depositato memoria la Camera dei deputati, insistendo perché il ricorso sia respinto in quanto inammissibile, improcedibile o comunque infondato.

178

Dopo aver precisato che il contenuto dell'interrogazione dell'onorevole Gramazio, divulgata dal parlamentare prima che fosse dichiarata inammissibile, e richiesta alla Camera con ordinanza di questa Corte, era "correttamente riportato nella relazione della Giunta per le autorizzazioni che ha costituito l'atto parlamentare con il quale è stata introdotta la discussione in Assemblea che ha condotto alla deliberazione di insindacabilità in questione", la memoria si sofferma sull'idoneità della dichiarazione del Presidente dell'organo parlamentare ad attestare che il contenuto dell'interrogazione inammissibile è esattamente quello di cui alla relazione della Giunta. Osserva in proposito che, secondo i principi dell'ordinamento processuale, ai documenti scritti con i quali la pubblica amministrazione fornisce all'organo giudicante le informazioni "relative agli atti o documenti dell'amministrazione stessa" viene riconosciuta una piena valenza certificatoria, valendo dette informazioni a surrogare la "acquisizione al processo" dei medesimi atti e documenti cui esse si riferiscono, sicché, anche in virtù del principio di leale cooperazione tra poteri, le informazioni scritte intercorrenti fra organi costituzionali avrebbero piena valenza probatoria, tanto più quando attengano, come nella specie, agli interna corporis delle Camere e provengano dal Presidente che presieda allo svolgimento dell'attività di una di esse (viene citata, in proposito, la sentenza n. 9 del 1959 di questa Corte, in tema di difformità fra il testo di legge approvato da una Camera e quello trasmesso all'altra). La difesa della resistente osserva poi come il Giudice ricorrente, che non muove contestazioni in ordine al contenuto dell'interrogazione del parlamentare, ha riprodotto l'atto nel ricorso, assegnando a tale trascrizione il compito di individuare, attraverso un rinvio per relationem, il nucleo centrale delle opinioni esterne espresse nel comunicato stampa mediante il quale l'on. Gramazio "dava notizia della sua iniziativa" parlamentare. Nell'ipotesi in cui questa Corte ritenesse inutilizzabile tale atto interno della Camera come riprodotto nel ricorso – non essendo stato esso prodotto in originale dalla resistente –, "verrebbe in evidenza un vizio di inammissibilità del ricorso", perché "privo dell'enunciazione, oltre che dell'opinione espressa intra moenia, anche della dichiarazione esterna riproduttiva che, per ammissione dello stesso Tribunale, con la prima coincide pressoché perfettamente" (vengono richiamate, sul punto della necessaria esposizione nel ricorso delle "specifiche dichiarazioni contestate", le sentenze n. 264 del 2000 e n. 87 del 2002). La sussistenza, nella specie, dei presupposti di operatività della garanzia costituzionale dell'insindacabilità, prosegue la resistente, troverebbe conferma nel fatto che lo stesso Tribunale ricorrente afferma la pressoché perfetta identità fra l'interrogazione presentata ed il comunicato stampa, esentando da ogni ulteriore onere probatorio sul punto; né, d'altronde, potrebbe escludersi la garanzia costituzionale anche là dove le dichiarazioni esterne contengano, come tutt'al più sarebbe avvenuto nel caso di specie, "l'indicazione, accanto al contenuto principale, di circostanze di contorno, di per sé prive di autonomo significato" (così la sentenza n. 320 del 2000). Nella memoria si contesta, poi, che il nesso di collegamento fra dichiarazione interna ed esterna possa essere spezzato dalla inammissibilità dell'atto ispettivo – dichiarata successivamente alla sua divulgazione da parte del presentatore –, in quanto, nondimeno, l'interrogazione non ammissibile deve considerarsi manifestazione d'opinione del deputato nell'esercizio di una facoltà prevista dall'ordinamento parlamentare, non potendo l'esito del vaglio di cui all'art. 139-bis del regolamento "negare l'identificabilità dell'atto di iniziativa come tale, ossia come esercizio di funzione spettante al singolo parlamentare". Ciò sarebbe vieppiù avvalorato dalla legge 20 giugno 2003, n. 140, che all'art. 3, comma 1, fra gli atti suscettibili di avvalersi della garanzia costituzionale, espressamente indicherebbe la

179

semplice "presentazione" degli atti di carattere ispettivo, indipendentemente dagli esiti cui essa può mettere capo. La garanzia prevista dall'art. 68, primo comma, della Costituzione, d'altra parte, secondo la sentenza n. 219 del 2003, si attiverebbe anche nei confronti di atti del tutto innominati, di ogni atto non previsto dai regolamenti parlamentari, ma, ciò nonostante, espressivo della partecipazione del parlamentare alla Camera di appartenenza. L'attivazione della garanzia costituzionale, conclude la difesa della resistente, si era quindi determinata prima della pronuncia di inammissibilità dell'interrogazione, ricevendo medio tempore la dichiarazione data alla stampa una qualificazione costituzionale, di atto divulgativo di attività parlamentare, ormai definitiva ed irretrattabile.

Considerato in diritto 1.– Il Tribunale civile di Roma, investito di un giudizio per risarcimento di danni che sarebbero stati ingiustamente prodotti, a carico del dott. Stefano Balassone e dalla signora Annamaria Grignola, da alcune dichiarazioni del deputato Domenico Gramazio, ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti della Camera dei deputati in relazione alla deliberazione di questa in data 25 marzo 1999, con la quale l'Assemblea ha dichiarato che le dichiarazioni contestate sono state espresse nell'esercizio delle funzioni parlamentari, e sono dunque coperte dalla insindacabilità prevista dall'art. 68, primo comma, della Costituzione. Si trattava di un comunicato stampa diffuso dall'on. Gramazio, e ripreso dal quotidiano Roma, in cui si dava notizia di una interrogazione presentata dal medesimo alla Camera, e ci si riferiva a presunti rapporti contrattuali fra una società, a cui sarebbe stata collegata la signora Grignola, e la RAI-TV, del cui consiglio di amministrazione faceva parte il dott. Balassone, coniuge della medesima. Come risulta in modo non controverso dagli atti di causa, ed è stato confermato anche all'esito dell'istruttoria disposta dalla Corte con ordinanza del 10 luglio 2002, l'on. Gramazio aveva effettivamente presentato l'interrogazione – il cui testo è riportato integralmente nella relazione della Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera dei deputati, sulla base della quale è stata adottata la delibera impugnata, e quasi integralmente nel ricorso introduttivo del presente giudizio – alla Presidenza della Camera lo stesso giorno della divulgazione del comunicato stampa; ma essa era stata dichiarata inammissibile dalla Presidenza in quanto la materia su cui verteva (l'amministrazione della radiotelevisione pubblica) sarebbe stata estranea a quelle attribuite alla competenza e alla responsabilità del Governo nei confronti del Parlamento. La Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera, nella sua relazione del 23 marzo 1999, aveva ritenuto che le dichiarazioni dell'on. Gramazio fossero coperte dalla insindacabilità non in quanto divulgative di un'interrogazione (atto che, secondo la Giunta, dovrebbe considerarsi "tamquam non esset", stante la sua mancata ammissione da parte della Presidenza della Camera), ma in quanto esse costituirebbero, indipendentemente dalla pregressa presentazione di un atto ispettivo, "un'attività di critica, di ispezione e di denuncia che di per sé può ricomprendersi tra quelle proprie del parlamentare". Il Tribunale ricorrente contesta tale tesi, ritenendola in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte in tema di limiti della insindacabilità, e sostenendo che, "stante la dichiarata non pertinenza della domanda di interrogazione alla funzione ispettiva, essa stessa e l'indebita diffusione del testo collocano l'iniziativa dell'on. Gramazio in un ambito improprio, in quanto viziata sotto il profilo funzionale, e riduce la sua esternazione a manifestazione di pensiero riconducibile solo all'esercizio di attività politica in genere, come tale non protetta". Chiede pertanto l'annullamento della delibera della Camera.

180

2.– Il ricorso – da ritenersi ammissibile in quanto da esso è ricavabile in modo univoco l'indicazione delle attribuzioni costituzionali di cui si lamenta la lesione – è infondato nei termini di seguito precisati. Non può condividersi l'assunto della Giunta per le autorizzazioni a procedere, secondo cui la insindacabilità delle dichiarazioni dell'on. Gramazio andrebbe ricondotta non già al loro carattere sostanzialmente divulgativo della interrogazione presentata, ma – prescindendo del tutto da quest'ultima – alla circostanza che esse sono espressione di un'attività di critica e di denuncia politica. La possibilità di riconoscere il nesso, che condiziona l'insindacabilità dell'opinione espressa, fra la dichiarazione per cui è giudizio e l'esercizio delle funzioni parlamentari dipende nella specie, alla stregua della giurisprudenza di questa Corte, dal fatto che la "richiesta di interrogazione", presentata dall'on. Gramazio alla Presidenza della Camera, debba o meno considerarsi atto di esercizio delle funzioni del parlamentare. Infatti il Tribunale ricorrente non contesta la sostanziale corrispondenza di contenuto fra la dichiarazione esterna – il comunicato stampa diffuso dall'on. Gramazio – e il testo della richiesta di interrogazione (che in effetti si riferiva agli stessi fatti e conteneva sostanzialmente le stesse valutazioni critiche presenti nel comunicato, ancorché espresse con parole diverse): ma contesta che possa ricondursi alle funzioni parlamentari la interrogazione presentata dal deputato, a causa della dichiarata inammissibilità della medesima. E' questa la sostanza della controversia oggetto del presente giudizio: ritiene, infatti, il Tribunale ricorrente che, stante la mancata ammissione dell'interrogazione, la sua presentazione, e quindi la sua diffusione, risulti estranea alla funzione parlamentare; ritiene invece la difesa della Camera che l'interrogazione presentata costituisca pur sempre esercizio di funzione parlamentare, e che dunque ne consegua la insindacabilità della stessa, indipendentemente dal successivo provvedimento presidenziale di non ammissione, motivato del resto, si sottolinea, da ragioni attinenti non alla formulazione in sé dell'atto, ma alla estraneità del suo oggetto all'ambito della responsabilità del Governo verso il Parlamento. 3.– Il potere di presentare interrogazioni, rivolte al Governo, domandando "se un fatto sia vero, se alcuna informazione sia giunta al Governo, o sia esatta, se il Governo intenda comunicare alla Camera documenti o notizie o abbia preso o stia per prendere alcun provvedimento su un oggetto determinato" (così l'art. 128 del regolamento della Camera dei deputati: ma in termini analoghi l'art. 145 del regolamento del Senato), ancorché non previsto espressamente dalla Costituzione, fa parte tradizionalmente delle attribuzioni del singolo membro delle Camere, nell'ambito dell'attività e della funzione ispettivo-politica ad esse spettante. Tale potere è espressamente previsto e disciplinato dai regolamenti che le Camere si sono date, in attuazione dell'art. 64 della Costituzione, per disciplinare la propria organizzazione e attività. Si esplica attraverso la presentazione di un testo scritto al Presidente della Camera di appartenenza del parlamentare. Successivamente, compiutosi positivamente il vaglio di ammissibilità attribuito al Presidente, l'interrogazione viene annunciata all'assemblea e pubblicata nel resoconto della seduta in cui è stata annunciata; seguono la risposta del Governo, con le diverse procedure previste, e l'eventuale replica dell'interrogante. Sul fondamento e sulla ratio del potere ispettivo, e quindi anche sull'ambito e sui limiti sostanziali in cui esso può essere esercitato, molto si è discusso e si discute, e anche la prassi parlamentare non è univoca: sta di fatto che non di rado lo strumento è utilizzato, nella sua potenzialità di acquisizione e diffusione di conoscenza e di espressione generica di valutazioni critiche di interesse pubblico, ben al di là dei confini delle sole funzioni ed attività spettanti al Governo e rientranti nell'ambito del suo rapporto fiduciario con il Parlamento.

181

Un vaglio del Presidente dell'assemblea sulla "ammissibilità" o sulla "proponibilità" dell'interrogazione è da tempo previsto dai regolamenti, con riguardo alla verifica della corrispondenza del testo presentato rispetto alla sua funzione, nonché alla sua formulazione, che non deve contenere espressioni "sconvenienti" (cfr. l'art. 146 del regolamento del Senato). Di recente il regolamento della Camera dei deputati è stato integrato con la specifica previsione non solo di una verifica da parte del Presidente sulla riconducibilità del contenuto dell'atto "al tipo di strumento presentato", ma altresì di una valutazione presidenziale sulla ammissibilità dell'atto "con riguardo alla coerenza fra le varie parti dei documenti, alla competenza e alla connessa responsabilità propria del Governo nei confronti del Parlamento, nonché alla tutela della sfera personale e dell'onorabilità dei singoli e del prestigio delle istituzioni", fermo restando che non sono pubblicati "gli atti che contengano espressioni sconvenienti" (art. 139-bis reg. Camera, aggiunto con delibera del 24 settembre 1997, e applicabile a interrogazioni, interpellanze, mozioni nonché, in quanto compatibile, agli altri atti di iniziativa parlamentare). Si tratta della verifica che, nella specie, ha condotto alla dichiarazione di inammissibilità dell'interrogazione presentata dall'on. Gramazio, per l'estraneità della materia trattata all'ambito della responsabilità governativa. Proprio l'ampiezza dei criteri del controllo preventivo del Presidente sul contenuto degli atti di iniziativa dei singoli deputati impedisce di considerare di per sé estranea all'esercizio delle funzioni del parlamentare una interrogazione presentata, per il solo fatto che essa sia stata dichiarata inammissibile dalla Presidenza, per uno qualsiasi dei motivi previsti dalla norma regolamentare: alcuni dei quali – e fra questi quello legato alla "competenza" e alla "connessa responsabilità propria del Governo nei confronti del Parlamento" – comportano valutazioni non ancorate a criteri rigorosamente predeterminati. E se il controllo inteso alla "tutela della sfera personale e dell'onorabilità dei singoli" può apparire uno strumento idoneo a equilibrare, con la protezione di questi valori nell'ambito dell'ordinamento parlamentare, la potenzialità lesiva di essi insita nella esenzione del parlamentare (prevista dall'art. 68, primo comma, della Costituzione) da ogni responsabilità giuridica per le opinioni espresse nello svolgimento del mandato, non altrettanto può dirsi di criteri come quello che restringe la sfera del potere ispettivo nei confini propri della responsabilità del Governo nei confronti del Parlamento, in cui si realizza piuttosto una regolamentazione dell'istituto in chiave funzionale, a tutela dei rapporti fra Camere ed esecutivo, che poco ha a che fare con la libertà di espressione del parlamentare nell'esercizio delle sue funzioni, che l'insindacabilità tende a proteggere al massimo grado. Se si tiene poi conto che contro la decisione presidenziale non è previsto, almeno esplicitamente, né viene praticato alcun rimedio, nemmeno in forma di appello all'assemblea, ben si comprende come legare indissolubilmente al vaglio positivo di ammissibilità la caratterizzazione dell'atto come esercizio di funzione parlamentare, e viceversa, significherebbe attribuire al Presidente della Camera un potere assoluto incidente su una prerogativa – quella della insindacabilità – che, benché indirizzata a rafforzare lo statuto dell'organo parlamentare, si riferisce pur sempre alla libertà di espressione di ogni singolo membro delle Camere. 4.– Ciò non significa, però, che qualunque testo scritto, in ipotesi presentato da un parlamentare come interrogazione, ma non ammesso dalla Presidenza, quale che ne sia il contenuto, costituisca sempre di per sé opinione da ritenersi espressa nell'esercizio delle funzioni parlamentari, come tale automaticamente coperta dalla insindacabilità. Il vaglio negativo di ammissibilità potrebbe, in fatto, anche corrispondere alla verifica di una non riconducibilità "assoluta" dello scritto presentato all'esercizio di funzioni parlamentari, e quindi della sua estraneità alla sfera della prerogativa di cui all'art. 68, primo comma, della Costituzione. Occorre dunque, caso per caso, valutare il contenuto dell'atto e le ragioni della sua mancata ammissione.

182

Nella specie, l'uno e le altre risultano dagli atti e non sono oggetto di controversia. Lo scritto presentato dall'on. Gramazio alla Presidenza della Camera era formulato nei termini tipici dell'interrogazione parlamentare, diretta a sapere se certi fatti fossero veri, e come essi potessero qualificarsi e fossero stati considerati sotto il profilo della correttezza amministrativa, e conteneva altresì – come frequentemente avviene – valutazioni critiche ("perplessità di natura deontologica") espresse dallo stesso parlamentare. Il suo contenuto dunque non si discostava da quello proprio di un atto di ispezione parlamentare. Esso è stato dichiarato inammissibile sol perché ritenuto afferente a materia esulante "da quelle affidate alla competenza ed alla connessa responsabilità propria del Governo nei confronti del Parlamento", in quanto la RAI non era considerata "un'azienda in relazione alla quale può essere impegnata la responsabilità del Governo dinanzi al Parlamento" (così la relazione della Giunta della Camera): e ciò benché la stessa Giunta affermi, non senza ragione, non potersi negare "che il controllo sulla RAI e sulla sua corretta gestione costituisca uno dei più importanti compiti propri del Parlamento e, all'interno di esso, di ciascun parlamentare". In questo caso, dunque, deve ritenersi che l'atto compiuto dal deputato, ancorché risultato di fatto non idoneo ad avviare il procedimento ispettivo, in quanto giudicato, per le ragioni viste, non ammissibile, contenesse opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni parlamentari. E una volta che si riconosca la riconducibilità, in concreto, all'esercizio delle funzioni parlamentari dell'atto di iniziativa compiuto, la sua divulgazione, pur avvenuta prima del vaglio di ammissibilità del Presidente dell'assemblea, non fa venir meno la insindacabilità dell'opinione espressa, irrilevanti essendo, in questa sede, i problemi di correttezza nei rapporti interni al Parlamento, che hanno indotto talora la Presidenza della Camera a valutare negativamente la prassi della comunicazione al pubblico del contenuto di una interrogazione non ancora vagliata nella sua ammissibilità.

per questi motiviLA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara che spettava alla Camera dei deputati deliberare che le dichiarazioni contestate al deputato Gramazio, oggetto del giudizio civile pendente davanti al ricorrente Tribunale di Roma, costituivano opinioni espresse dal deputato medesimo nell'esercizio di funzioni parlamentari, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 dicembre 2003. Riccardo CHIEPPA, Presidente Valerio ONIDA, Redattore Depositata in Cancelleria il 30 dicembre 2003.

183

SENTENZA N. 24 DEL 2004

REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori:

- Riccardo CHIEPPA Presidente - Gustavo ZAGREBELSKY Giudice- Valerio ONIDA "- Carlo MEZZANOTTE "- Fernanda CONTRI "- Guido NEPPI MODONA "- Piero Alberto CAPOTOSTI "- Annibale MARINI "- Franco BILE "- Giovanni Maria FLICK "- Francesco AMIRANTE "- Ugo DE SIERVO "- Romano VACCARELLA "- Paolo MADDALENA "- Alfio FINOCCHIARO "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, in relazione al comma 1, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), promosso con ordinanza del 30 giugno 2003 dal Tribunale di Milano nel procedimento penale a carico di Silvio Berlusconi iscritta al n. 633 del registro ordinanze 2003 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell’anno 2003.

Visti gli atti di costituzione di Silvio Berlusconi e della CIR spa nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 9 dicembre 2003 il Giudice relatore Francesco Amirante;

uditi gli avvocati Gaetano Pecorella e Niccolò Ghedini per Silvio Berlusconi, Giuliano Pisapia, Alessandro Pace e Roberto Mastroianni per la CIR spa e l’avvocato dello Stato Oscar Fiumara per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.— Nel corso di un processo penale in cui è imputato l’on. Silvio Berlusconi, attuale Presidente del Consiglio dei ministri, il Tribunale di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 101, 112, 68, 90, 96, 24, 111 e 117 della Costituzione, dell’art. 1, comma 2, in relazione al comma 1, della legge 20 giugno 2003, n.

184

140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato).

Osserva innanzitutto il giudice a quo che la questione è rilevante perché, imponendo la norma impugnata la sospensione del processo penale in corso a carico del Presidente del Consiglio, il Tribunale è tenuto ad applicare tale norma e, in caso di dubbio sulla legittimità costituzionale della medesima, a sollevare questione davanti a questa Corte.

Ciò posto, il Tribunale rileva che occorre occuparsi sia della previsione generale del comma 1 sia di quella specifica del comma 2, allo scopo di valutare la natura della norma impugnata. A tal proposito, il Collegio afferma che la sospensione in esame non ha nulla a che vedere con le altre ipotesi di sospensione del processo penale previste nel nostro ordinamento (normalmente riferibili a situazioni oggettive di carattere endoprocessuale) che, anche nel caso in cui implichino qualità personali dell’imputato (art. 71 cod.proc.pen.), hanno riguardo ad una situazione obiettiva di incapacità del medesimo a stare in giudizio tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento. Né, d’altra parte, possono ravvisarsi analogie tra la norma impugnata e il regime derogatorio dell’assunzione della prova testimoniale dettato dall’art. 205 cod.proc.pen a favore dei soggetti cui si riferisce l’art. 1 della legge n. 140 del 2003, poiché la suddetta norma del codice di rito si limita a stabilire un contemperamento degli interessi in gioco, ma non sottrae i soggetti da essa contemplati ai doveri comuni a tutti gli altri cittadini rispetto all’esercizio della funzione giurisdizionale. La disposizione impugnata, invece, collegando la non sottoposizione a processo penale e la connessa sospensione dei processi penali in corso all’assunzione ed alla durata della carica o della funzione, configura una ipotesi di non processabilità che non ha nulla a che vedere con cause e motivazioni endoprocessuali e che si atteggia, quindi, come una prerogativa in favore dei soggetti chiamati a ricoprire le cinque più alte cariche dello Stato. Poiché tale beneficio incide sull’esercizio dell’azione penale – che è da intendere non solo come esplicazione di attività di indagine o formulazione di un’accusa, bensì anche come possibilità di vagliare nel contraddittorio processuale la fondatezza dell’ipotesi accusatoria davanti ad un giudice terzo ed imparziale – il giudice remittente ravvisa innanzitutto una violazione del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. e dell’art. 112 della Costituzione.

Né va omesso di considerare che il principio di eguaglianza rientra tra i principi fondanti della Carta costituzionale, derogabile solo dalla stessa Costituzione o con modifiche costituzionali adottate ai sensi dell’art. 138 Cost., come risulta confermato dal fatto che tutte le prerogative riguardanti cariche o funzioni costituzionali sono regolate da fonti di tale rango (artt. 90, 96 e 68 Cost. ed art. 3 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, che ha esteso ai giudici costituzionali le immunità accordate ai parlamentari dall’art. 68, secondo comma, Cost., nel testo allora vigente). Conseguentemente, da questo punto di vista, l’impugnato art. 1, comma 2, della legge n. 140 del 2003, in riferimento al comma 1 della stessa disposizione, si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost. in relazione agli artt. 101 e 112 Cost. Né, ad avviso del Tribunale di Milano, è utilmente richiamabile, sotto il profilo della non necessità di una legge costituzionale per introdurre la prerogativa in questione, l’art. 5 della legge 3 gennaio 1981, n. 1, riguardante i componenti del Consiglio superiore della magistratura. Tale norma infatti, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa dell’imputato, non ha creato alcuna forma di immunità, ma – come precisato da questa Corte nella sentenza n. 148 del 1983 – ha solo previsto una speciale causa di non punibilità, rigorosamente circoscritta «alle manifestazioni di pensiero funzionali all’esercizio dei poteri-doveri costituzionalmente spettanti ai componenti il Consiglio superiore», la quale, da un lato, non è assimilabile alle immunità e prerogative previste dalla Costituzione

185

e, dall’altro, ha un ambito di operatività che è diverso rispetto a quello delle scriminanti di diritto penale comune e che risulta «frutto di un ragionevole bilanciamento dei valori costituzionali in gioco». La norma impugnata, invece, non ha creato una scriminante speciale (di per sé compatibile con l’esercizio della giurisdizione), ma una causa di “non processabilità” o di sospensione dei processi in corso che, inevitabilmente, si pone in conflitto col carattere di obbligatorietà dell’azione penale.

Prosegue poi il Tribunale ravvisando un palese contrasto tra la norma impugnata e gli artt. 3, 68, 90 e 96 della Costituzione.

L’art. 1 della legge n. 140 del 2003, infatti, fa salva l’applicazione degli artt. 90 e 96 della Costituzione, con ciò indirettamente confermando di voler istituire una prerogativa ulteriore rispetto a quelle ivi previste, per di più priva di ogni collegamento funzionale con la carica rivestita e senza un limite temporale preciso e determinato. Nel disegno fissato dagli artt. 68, 90 e 96 Cost., invece, le speciali forme di immunità e le particolari condizioni di procedibilità ivi regolate risultano strettamente connesse con l’esercizio delle funzioni di parlamentare, di Presidente del Consiglio, di Ministro e di Presidente della Repubblica, mentre la norma in questione non ha alcun collegamento con la funzione, imponendo, come si è detto, la sospensione di tutti i processi penali, per qualsiasi tipo di reato ed anche in riferimento a fatti antecedenti l’assunzione della carica. D’altra parte pare in sé irragionevole, oltre che lesivo del diritto di difesa dell’imputato e dell’art. 111 Cost., che, in particolare, il Presidente del Consiglio dei ministri possa essere sottoposto a giudizio, previa autorizzazione della Camera di appartenenza, per i reati funzionali e non possa – a tempo indeterminato e irrinunciabilmente – esserlo per i reati comuni.

Il giudice remittente, poi, passa ad analizzare – con riguardo alla tutela dei diritti della parte offesa costituitasi parte civile nel procedimento penale sospeso – ulteriori motivi di censura in riferimento agli artt. 24, 111 e 117 Cost., quest’ultimo in rapporto con l’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848. Da tale ultimo parametro, in particolare, si evince, alla luce della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che la possibilità concreta di accedere agli organi di giustizia è da considerare fondamentale per l’effettiva tutela dei diritti, sicché «uno Stato non può, senza riserve o senza il controllo degli organi della Convenzione, sottrarre dalla competenza dei tribunali tutta una serie di azioni civili o esonerare da responsabilità delle categorie di persone», ancorché possano giustificarsi prerogative nei confronti dei parlamentari.

Ma la più evidente violazione dei diritti della parte civile costituita deriva dal fatto che, in contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost., la norma impugnata viene a creare un «impedimento indeterminato dell’esercizio dell’azione civile per effetto della disposizione di cui all’art. 75, comma 3, cod.proc.pen.». Tale ultima disposizione stabilisce che «se l’azione è proposta in sede civile contro l’imputato dopo la costituzione di parte civile nel processo penale … il processo civile è sospeso fino alla pronunzia della sentenza penale non più soggetta a impugnazione, salve le eccezioni previste dalla legge». Poiché la norma impugnata non prevede alcuna eccezione alla suddetta regola, è palese che la parte civile si trova nell’impossibilità di trasferire la propria pretesa risarcitoria in sede civile. Né potrebbe ipotizzarsi una revoca della costituzione di parte civile (art. 82 cod.proc.pen.), in quanto la sospensione del processo imposta dall’art. 1 della legge n. 140 del 2003 non consente lo svolgimento di alcuna attività processuale, ivi compresa la suddetta revoca.

186

Un ulteriore profilo di violazione degli artt. 24 e 111 Cost. sarebbe ravvisabile, infine, per effetto della mancata previsione, da parte della norma impugnata, di una clausola che faccia salvo il compimento degli atti urgenti di natura processuale – come, ad esempio, l’assunzione urgente di una prova in sede di incidente probatorio – non potendosi certamente fare ricorso all’art. 512 cod.proc.pen. che disciplina l’ipotesi di acquisizione in dibattimento di atti assunti in sede di indagine nel caso in cui, «per fatti o circostanze imprevedibili, ne è divenuta impossibile la ripetizione». La disciplina dell’incidente probatorio riguarda, invece, il caso in cui vi sia, per vari motivi, fondato timore di non poter più acquisire nella sede propria dibattimentale la prova necessaria. Sicché è del tutto evidente la diversità delle due situazioni.

Il giudice a quo solleva poi un’altra questione di legittimità costituzionale riguardante l’art. 110, quinto comma, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, che forma oggetto di separato procedimento.

2.— Si è costituito in giudizio l’on. Silvio Berlusconi che, con ampia ed articolata memoria, ha chiesto che tutte le proposte questioni vengano dichiarate non fondate.

In riferimento alla questione relativa all’art. 1, comma 2, della legge n. 140 del 2003 la parte costituita sottolinea, preliminarmente, che il Presidente della quinta sezione penale della Corte di cassazione, chiamato ad esaminarne la posizione di imputato in altro procedimento (nel quale era stato prosciolto insieme ad altri coimputati, con provvedimento impugnato in Cassazione), in data 30 giugno 2003 ha disposto la separazione di tale posizione con conseguente sospensione del relativo processo e creazione di un separato fascicolo, «così dando atto dell’immediata applicabilità delle disposizioni della legge n. 140 del 2003», senza prospettare alcun dubbio di costituzionalità in merito alla norma oggi impugnata.

Ciò posto, l’on. Berlusconi rileva che la ratio della norma stessa è quella di salvaguardare le più alte cariche dello Stato, durante lo svolgimento del mandato, dagli inevitabili turbamenti conseguenti all’esercizio di ogni azione penale. Nel sistema costituzionale non è affatto necessario che tutto ciò che riguarda tali cariche sia regolato con legge costituzionale, né a tale ricostruzione ostano gli artt. 90 e 96 della Costituzione: l’irresponsabilità del Presidente della Repubblica per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni (tranne che in caso di alto tradimento o attentato alla Costituzione) e la valutazione politica circa l’opportunità che il Presidente del Consiglio ed i Ministri vengano sottoposti a processo penale per i c.d. reati ministeriali non confliggono con la sospensione dei processi per i reati comuni. Per questi ultimi, infatti, la Carta costituzionale nulla prevede, e ciò implica che al legislatore ordinario non è inibito di provvedere autonomamente al riguardo, tanto più che, nei casi in cui la Costituzione ha preteso che si provvedesse con legge costituzionale, lo ha espressamente stabilito (v., ad esempio, artt. 116 e 132 Cost.).

La memoria passa poi ad occuparsi direttamente del contenuto precettivo della norma impugnata per valutare in particolare se nel nostro ordinamento esista o meno l’istituto della sospensione del processo penale e se vi sia un collegamento (nel senso di una possibile violazione) tra detta sospensione ed il principio di obbligatorietà dell’azione penale richiamato dal Tribunale di Milano. A tal fine si osserva che il sistema conosce la sospensione del processo penale, finalizzata a vari obiettivi; è richiamata in proposito un’ampia serie di norme contenute nel codice di procedura penale del 1930 (artt. 18, 19 e 20), nel vigente codice di procedura penale (artt. 3, 37, 41, 47, 71, 344, 477 e 479), nel

187

codice penale (artt. 159 e 371-bis) e in numerose altre leggi particolari, come quelle in materia di condono tributario o di rimessione di una questione di legittimità costituzionale a questa Corte o di questione pregiudiziale interpretativa alla Corte di giustizia delle Comunità europee. In tutti questi casi non c’è un termine preciso per la ripresa dell’attività processuale dopo la sospensione e, qualora vi sia sospensione anche della prescrizione, non sussistono particolari problemi per il protrarsi dei tempi del processo.

Si tratta di norme che disciplinano situazioni di «varia natura» che, tuttavia, in alcuni casi attribuiscono rilevanza determinante a scelte politiche prevalenti rispetto alla giurisdizione (art. 243 cod.pen.mil.guerra) e in altri casi a caratteristiche peculiari dei soggetti che si giovano della sospensione (v. decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e art. 71 cod.proc.pen.). Tra quest’ultimo tipo di norme la parte privata si sofferma, in particolare, sull’ipotesi di sospensione del processo disciplinata dall’art. 71 cod.proc.pen., richiamando le pronunce di questa Corte n. 281 del 1995, n. 354 del 1996, n. 19 del 1999 e n. 33 del 2003, desumendone, da un lato, che la sospensione del processo non costituisce violazione dell’art. 112 Cost. in quanto comporta una semplice sospensione dell’azione penale e, dall’altro, che neppure è configurabile il contrasto con il principio della ragionevole durata del processo in quanto «si verte in tema di ius singulare che comporta una eccezione» e, comunque, la sospensione della prescrizione garantisce l’esercizio della giurisdizione. Questi argomenti ben si attagliano al caso di specie, sicché anche per esso deve escludersi la contrarietà con gli indicati parametri costituzionali.

D’altra parte, il sistema processuale vigente prevede, oltre ai casi di sospensione, anche quelli nei quali il reato è perseguibile soltanto a richiesta del Ministro della giustizia (artt. 8, 9 e 10 cod.pen.), ovvero dietro sua autorizzazione (art. 313 cod.pen., positivamente scrutinato da questa Corte nella sentenza n. 22 del 1959), ovvero a querela di parte; inoltre questa Corte ha in più occasioni ribadito la legittimità costituzionale dell’art. 260 cod.pen.mil.pace che subordina la procedibilità di una serie di reati militari alla richiesta del comandante del corpo.

Il principio di eguaglianza richiamato dal Tribunale di Milano ha, quindi, il significato di vietare leggi ad personam allorquando le persone prese in considerazione siano effettivamente “eguali”, ma non quello di impedire le opportune diversificazioni. In tale ottica la parte privata osserva che vi sono numerose norme, sia di diritto penale sostanziale sia di diritto processuale penale, nelle quali rileva la condizione soggettiva del destinatario; tra queste ultime vengono ricordate, oltre all’art. 205 cod.proc.pen., l’art. 200 cod.proc.pen. sul segreto professionale e le norme sull’incompatibilità ad assumere l’ufficio di testimone.

Dopo aver esaminato l’aspetto relativo alla sospensione del processo, la difesa affronta il problema delle cause di immunità riconosciute dal nostro ordinamento, cercando innanzitutto di stabilire cosa si intenda effettivamente per immunità. Si richiamano, all’uopo, alcune specifiche disposizioni riguardanti il trattamento processuale dei funzionari e dei dipendenti consolari nonché le immunità in favore dei componenti il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti. Si passa poi a considerare l’art. 5 della legge n. 1 del 1981 relativa ai componenti del Consiglio superiore della magistratura, che ha introdotto una causa soggettiva di non punibilità «ben più pregnante ed incisiva sulla giurisdizione che non una sospensione» del processo, con annessa sospensione della prescrizione. Il giudice remittente avrebbe altresì dimenticato di tener presente tutta una serie di ipotesi nelle quali sussistono altre cause di immunità (si citano, in proposito, sentenze della Corte di cassazione

188

sull’estradizione, sulle immunità diplomatiche e consolari, sui reati commessi da militari appartenenti alla NATO nel territorio di uno Stato diverso da quello di appartenenza, nonché sui reati commessi da soggetti appartenenti ad enti centrali della Chiesa cattolica).

Fatte queste premesse generali, la parte privata richiama la distinzione dottrinale tra le immunità funzionali e quelle extrafunzionali, ricordando che queste ultime, in particolare, fanno sì che l’individuo che ne gode non possa essere assoggettato al processo penale per reati “comuni” commessi nel corso del proprio incarico o prima dello stesso. Terminato il mandato, però, si ha una reviviscenza della punibilità per i fatti extrafunzionali, sicché tale tipo di immunità non crea, in effetti, alcun tipo di limite al potere giurisdizionale. Si sarebbe perciò in presenza di una esenzione temporanea dalla giurisdizione, determinata da motivi di opportunità politica per cui il soggetto, «pur penalmente capace al momento della commissione dell’illecito, non lo è processualmente, per evitare un qualsiasi turbamento nel regolare svolgersi dell’attività»; concluso l’incarico, nulla può impedire l’avvio o la prosecuzione del processo penale per illeciti penali di carattere privato. I suddetti motivi di opportunità politica correlati all’attività del soggetto possono essere inerenti ai rapporti tra poteri dello Stato ovvero sul piano internazionale ai rapporti tra organi di Stati diversi che comportano una autolimitazione da parte dell’ordinamento della propria giurisdizione, la quale torna poi a riespandersi nella sua interezza al termine del mandato cui è connessa la prerogativa (si citano, al riguardo, un parere della Corte internazionale di giustizia dell’Aja a proposito delle immunità dei componenti dell’ONU e la sentenza della medesima Corte del 14 febbraio 2002 sull’immunità di un Ministro degli esteri della Repubblica del Congo nei confronti del quale un giudice belga aveva emesso un ordine di arresto internazionale, c.d. caso Yerodia).

Dalla suddetta analisi si desume che «la possibilità di prevedere … immunità extrafunzionali con legge ordinaria appare … conclamata», ma tale osservazione non è l’unica a dimostrare l’erroneità del ragionamento seguito dal Tribunale di Milano, perché l’argomento principale attraverso il quale si perviene a questo risultato è rappresentato dalla profonda diversità che sussiste tra il tema della sospensione temporanea del processo e quello delle immunità. Se, infatti, si ha chiara tale differenza, tutta una serie di argomentazioni sviluppate nell’ordinanza di rimessione diventano ininfluenti, in quanto è proprio la suddetta diversità che spiega perché, mentre per le immunità è necessariamente richiesto un collegamento con la funzione esercitata al momento della commissione del fatto, ciò invece non è necessario per la sospensione. Inoltre, mentre l’immunità, sottraendo un soggetto all’esercizio della giurisdizione, deve essere, in alcuni casi, prevista da norme di rango costituzionale, ciò non è richiesto per la sospensione che, ove si accompagni a quella della prescrizione del reato, non incide sull’integrità del valore della giurisdizione, ma coinvolge altri beni costituzionalmente protetti e, precisamente, quello della funzionalità della carica di rilevanza costituzionale e quello della ragionevolezza dei tempi del processo.

Una volta escluso che la norma impugnata avrebbe dovuto avere rango di legge costituzionale, resta da valutare se essa violi, per il suo contenuto precettivo, uno dei parametri costituzionali richiamati dal giudice remittente.

Con riguardo all’art. 112 Cost., la parte privata osserva che in tema di condizioni di procedibilità al legislatore è concessa ampia discrezionalità, sicché il punto decisivo non è quello dei rapporti col principio di obbligatorietà dell’azione penale, quanto piuttosto quello di stabilire se la norma sia o meno ragionevole. Si richiamano, al riguardo, le sentenze n. 89 del 1982, n. 85 del 1998, n. 298 del 2000, e n. 223 del 2001 di questa Corte, dalle quali

189

si deduce che è soltanto in caso di trattamento diverso di situazioni uguali che può affermarsi la sussistenza di un’irragionevolezza conseguente alla diversità di trattamento. La violazione del principio di eguaglianza presuppone, in altre parole, una valutazione in cui vi è un tertium comparationis alla stregua del quale si ravvisi la disparità; nel caso della norma impugnata, invece, le uniche situazioni similari con le quali sembrerebbe possibile un raffronto sono quelle di cui agli artt. 90 e 96 Cost., ma, al di là del fatto che esse si riferiscono a soggetti presi in considerazione anche dalla norma impugnata, le ipotesi rispettivamente disciplinate sono, in realtà, molto diverse e, quindi, inconfrontabili. Infatti, l’art. 96 Cost. stabilisce, a tutela della funzione ministeriale, che per i reati commessi nell’esercizio di tale funzione è competente un particolare organo giurisdizionale, senza dire nulla in relazione alla procedibilità; analogamente, l’art. 90 Cost. prevede, a tutela della libertà della funzione del Presidente della Repubblica, l’impunità per gli atti compiuti nel relativo esercizio e i casi di deroga a tale impunità. La legge n. 140 del 2003, invece, si limita a dettare semplicemente una regola di procedura.

Tale regola che, per quanto fin qui si è detto, non contrasta con l’art. 3 Cost. dal punto di vista del principio di eguaglianza, neppure viola il suddetto parametro per quel che riguarda il principio di ragionevolezza. Al riguardo potrebbe sostenersi l’irragionevolezza in sé della normativa impugnata in conseguenza dell’impossibilità che essa determinerebbe in ordine alla formazione della prova, ma anche questa censura è destituita di fondamento in quanto l’utilizzazione del termine “processo” e non di quello “procedimento” ha proprio il significato tecnico di consentire l’assunzione delle prove nel corso delle indagini preliminari.

La memoria difensiva si sofferma, poi, sul particolare aspetto della questione riguardante la parte civile. Si sostiene, in proposito, che detta questione sarebbe stata impropriamente sollevata dal Tribunale di Milano in sede penale, nell’erronea convinzione che l’art. 1 della legge n. 140 del 2003, imponendo l’immediata sospensione del processo, non consenta lo svolgimento di alcuna attività processuale. In realtà, anche trascurando la circostanza che, nella specie, la parte civile costituita non ha in effetti mai dichiarato di voler trasferire la propria domanda in sede civile – sicché la questione dovrebbe ritenersi inammissibile, in quanto del tutto ipotetica – resta il fatto che il dubbio di legittimità costituzionale avrebbe dovuto essere posto nella sede competente, ossia davanti al giudice civile, chiamato eventualmente a fare applicazione dell’art. 295 del codice di procedura civile. Del resto, sarebbe del tutto incongrua una sospensione ex lege del processo penale cui non faccia seguito la possibilità di trasferimento dell’azione in sede civile. In tal senso vanno letti l’art. 75, comma 3, cod.proc.pen. e l’art. 82 del medesimo codice (che consente la revoca della costituzione di parte civile) e ciò vale, di per sé, ad escludere qualsiasi violazione dell’art. 24 Cost. Tale lettura corrisponde al principio della separazione delle giurisdizioni che, in materia di rapporti tra giudizi diversi, ha sostituito, nel vigente codice di procedura penale, quello dell’unità della giurisdizione cui, invece, si ispirava il codice del 1930. Una conferma dell’esattezza di tale tesi è rinvenibile, secondo la parte privata, anche nella sentenza n. 354 del 1996 di questa Corte con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale del citato art. 75, comma 3, cod.proc.pen., nella parte relativa alla mancata previsione dell’inapplicabilità della disciplina ivi stabilita per i rapporti tra azione civile e azione penale all’ipotesi di «accertato impedimento fisico permanente che non permetta all’imputato di comparire all’udienza, ove questi non consenta che il dibattimento prosegua in sua assenza». A tale conclusione la pronuncia è pervenuta al fine di impedire – in armonia con quanto deciso nella precedente sentenza n. 330 del 1994 – una stasi del processo «di durata indefinita ed indeterminabile» che avrebbe vulnerato il diritto di azione e difesa della parte civile. E’ del tutto evidente che l’ipotesi esaminata nella citata sentenza non è

190

affatto assimilabile a quella disciplinata dalla norma attualmente impugnata. Infatti, anche a prescindere dal fatto che le cariche indicate dalla legge n. 140 del 2003, pur essendo alcune volte ipoteticamente reiterabili, hanno una durata predeterminata ex lege, va considerato che la disciplina censurata dalla Corte «non era quella attuale ma quella del codice del 1930», sicché non solo per essa non si ponevano problemi di ammissibilità rispetto alla proposizione delle relative questioni di legittimità costituzionale direttamente nel giudizio penale, ma soprattutto emergeva la necessità di superare la regola del divieto della translatio iudicii dalla sede penale a quella civile derivante dal principio dell’unità della giurisdizione. La disciplina attualmente vigente non è più ispirata, come si è detto, a tale principio; conseguentemente il problema allora denunciato non può più porsi in quanto la parte civile ha, di regola, la facoltà di trasferire la propria azione in sede civile.

3.— Si è costituita anche la CIR s.p.a., parte civile costituita nel giudizio a quo, sostenendo la piena condivisibilità delle argomentazioni dell’ordinanza di rimessione e chiedendo che la norma denunciata venga dichiarata costituzionalmente illegittima.

Osserva la parte privata che l’art. 1 della legge n. 140 del 2003, prevedendo l’automatica sospensione del processo a carico del Presidente del Consiglio dei ministri, è in contrasto innanzitutto con l’art. 3 Cost. (in relazione agli artt. 101 e 112 Cost.), perché attribuisce una prerogativa incompatibile col principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, principio che può essere derogato solo con una legge costituzionale (sentenza n. 300 del 1984 di questa Corte). A tale conclusione induce, con assoluta evidenza, il fatto che nel nostro ordinamento di regola le prerogative o le immunità riguardanti cariche o funzioni istituzionali sono previste o direttamente dalla Carta costituzionale (artt. 68, 90 e 96 Cost.) ovvero in successive leggi costituzionali (es. legge cost. 16 gennaio 1989, n. 1, in materia di procedimenti per i reati di cui all’art. 96 Cost.).

Per altro verso, e sempre in relazione all’art. 3 Cost., la norma impugnata viola il principio di obbligatorietà dell’azione penale, poiché impedisce a tempo indeterminato che il processo penale venga condotto ad una definizione, in considerazione del fatto che l’attuale Presidente del Consiglio potrebbe continuare a ricoprire la carica per molti anni, ovvero essere eletto ad altra carica istituzionale tra quelle di cui alla norma in questione.

Fatte queste premesse, la memoria osserva che nel nostro sistema le immunità e le prerogative di cui agli artt. 68, 90 e 96 Cost., oltre ad essere disposte da norme di rango costituzionale, sono comunque collegate allo svolgimento delle funzioni, di modo che il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio ed i Ministri, fino all’entrata in vigore della legge in esame, erano, per i reati comuni, soggetti alla legge come tutti gli altri cittadini. Oggi, invece, i procedimenti eventualmente instaurati a carico del Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio dei ministri in merito a tali ultimi reati, sono tutti sospesi ope legis e senz’alcuna possibilità di controllo istituzionale, anche nell’ipotesi in cui si tratti di reati commessi prima dell’assunzione della carica, mentre per i reati c.d. funzionali continua ad avere vigore la disciplina che ne prevede la giustiziabilità, sia pure a certe condizioni. Ne consegue che, da questo punto di vista, la norma impugnata appare in contrasto con i principi di ragionevolezza e di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge.

Il carattere obbligatorio e non rinunziabile della sospensione sarebbe poi lesivo sia del diritto di difesa (art. 24 Cost.) sia del principio della ragionevole durata dei processi sancito dall’art. 111 Cost., il che è tanto più evidente in relazione alla mancanza di una specifica

191

norma che garantisca la possibilità di assunzione al processo delle prove non rinviabili o di compimento degli atti urgenti, a differenza di quanto è espressamente stabilito dal codice di procedura penale in altri casi di sospensione (si citano gli artt. 3, comma 3; 41, comma 2; 47, comma 3; 70, commi 2 e 3; 71, comma 4, cod.proc.pen.).

Per quanto specificamente interessa la domanda avanzata dalla parte civile costituita, si rileva che la sospensione del processo penale, in mancanza di una norma che deroghi al disposto dell’art. 75, comma 3, cod.proc.pen., viene di fatto a paralizzare sine die ogni pretesa risarcitoria della suddetta parte nei confronti dell’imputato. Il processo penale è, infatti, sospeso, mentre la domanda eventualmente proposta in sede civile dovrebbe necessariamente comportare la sospensione anche di quest’ultimo processo, poiché le eccezioni previste alla regola del citato art. 75, comma 3, sono tassative e non estensibili in via analogica.

La CIR s.p.a., infine, si associa alle considerazioni fatte dal Tribunale di Milano a proposito della violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in riferimento al principio relativo al diritto di accesso ad un tribunale, desumibile dall’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (secondo quanto stabilito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza Golder del 21 febbraio 1975 e nella sentenza Cordova del 31 gennaio 2003).

4.— E’ altresì intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che vengano dichiarate inammissibili o comunque infondate entrambe le questioni proposte dal Tribunale di Milano.

Quanto alla questione relativa all’art. 1 della legge n. 140 del 2003, la difesa erariale osserva che il giudice a quo muove da un presupposto erroneo, ossia quello per cui detta norma avrebbe creato una nuova figura di immunità. Essa, invece, si limita a disporre la sospensione dei processi in corso, con conseguente sospensione dei termini di prescrizione dei reati, in linea con quanto stabilito per altre ipotesi di sospensione del processo penale – sia obbligatoria (v. art. 71 cod.proc.pen. e art. 3, comma 5, della stessa legge n. 140 del 2003) sia facoltativa (v. art. 486 cod.proc.pen.) – previste dal sistema. Ne consegue che non vi sarebbe lesione dell’art. 112 Cost., sia perché l’azione penale viene ugualmente esercitata nei confronti dei soggetti che ricoprono le alte cariche istituzionali indicate nella norma impugnata (anche se con sospensione del processo per la durata del mandato) sia perché il decorso del tempo non incide sulla pretesa punitiva dello Stato, in virtù dell’espresso richiamo dell’art. 159 cod.pen., in materia di sospensione del corso della prescrizione.

Escluso, quindi, che la norma de qua abbia a che fare con le immunità riservate alla regolamentazione costituzionale, l’Avvocatura dello Stato ritiene che essa non si ponga in contrasto neppure con gli altri principi costituzionali invocati dal giudice a quo. Si tratta di una disciplina che è stata dettata allo scopo di impedire che «vicende processuali di diritto comune possano intralciare l’operato dei vertici costituzionali democraticamente scelti per tutto – e solo – il tempo in cui essi svolgono la loro funzione». La ratio cui si è ispirato il legislatore non era, quindi, quella di proteggere i soggetti che ricoprono le alte cariche dello Stato, ma la loro funzione, sicché appare ultroneo ogni richiamo al principio di eguaglianza come principio fondante dell’ordinamento, visto che anche questa Corte ha ripetutamente affermato che la violazione di tale principio deriva dal trattamento eguale di situazioni diverse e non dalla previsione di trattamenti differenziati per alcune categorie di

192

soggetti giustificata dal contemperamento del principio stesso con la tutela di altri principi costituzionali. Tale ultima evenienza è proprio quella che si riscontra nella fattispecie nella quale la tutela della posizione istituzionale del Presidente del Consiglio dà fondata ragione della deroga all’ordinario trattamento processuale.

Analogamente, poi, la difesa erariale ritiene infondata la presunta lesione del principio di ragionevolezza in riferimento a quanto disposto dagli artt. 68, 90 e 96 Cost., sul principale rilievo che, in una logica di ponderazione e bilanciamento degli interessi in gioco, non è irrazionale che il Presidente del Consiglio continui ad essere perseguibile per i c.d. reati ministeriali e si veda invece sospesi i processi penali per i reati comuni. Infatti, mentre il perseguimento dei reati funzionali non può essere procrastinato, data «la rilevanza di carattere generale degli interessi incisi» e la loro «indubbia maggiore gravità dal punto di vista istituzionale», il perseguimento dei reati comuni ben può essere rinviato al momento della cessazione dell’esercizio delle funzioni protette, visto che la loro commissione comporta la lesione di «interessi cedevoli».

Ritiene inoltre la difesa pubblica che siano infondate tutte le doglianze riguardanti una presunta lesione degli artt. 24 e 111 Cost., sotto il duplice profilo del diritto di difesa dell’imputato (che non può rinunciare all’applicazione della sospensione) e del diritto della persona offesa dal reato ad un giudizio rapido ed efficace in merito alle sue pretese risarcitorie. Quanto al primo profilo, si osserva che l’obbligatorietà della protezione accordata dalla norma impugnata deriva dal fatto che essa ha rilevanza oggettiva, è finalizzata a tutelare l’interesse dell’ordinamento e non è stata concepita come un privilegio di cui la persona che ricopre la carica possa, a sua scelta, decidere di godere o meno. Quanto alla pretesa violazione dei diritti della persona offesa costituitasi parte civile nel processo penale sospeso, si osserva che nell’ipotesi di cui si tratta la parte offesa subisce un ritardo nella delibazione delle sue pretese del tutto analogo a quello che si verifica non solo nelle numerose altre ipotesi di sospensione del processo, ma anche in altre situazioni processuali, come ad esempio in quella relativa alla conclusione del procedimento penale con sentenza di patteggiamento nella quale, ai sensi dell’art. 445 cod.proc.pen., è impedito alla parte civile di giovarsi della suddetta sentenza in sede civile. D’altra parte, non appare conferente al riguardo il richiamo all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali atteso che la normativa denunciata è il frutto di un ponderato – e, cioè, «ragionevole» – contemperamento dell’esigenza di definizione del processo in tempi rapidi con quella di tutela di altri interessi ritenuti anch’essi di rilevanza primaria.

Quanto, infine, alla presunta mancanza di norme che facciano salva la possibilità di compimento degli atti urgenti, l’Avvocatura dello Stato rammenta che, a parte il rilievo per cui ciò costituirebbe solo un’ipotetica manchevolezza, detta questione non risulta adeguatamente precisata nell’ordinanza di rimessione, il che impone che la stessa debba ritenersi inammissibile.

5.— Nell’imminenza dell’udienza la CIR s.p.a. ha depositato memoria, in cui premette che il presente giudizio concerne soltanto la disciplina dell’improcedibilità concessa dalla legge n. 140 del 2003 al Presidente del Consiglio: non può quindi sostenersi la legittimità dell’art. 1, comma 1, sulla base della posizione dei titolari delle altre cariche, ferma l’estensibilità a queste ultime della eventuale dichiarazione d’incostituzionalità della norma (ex art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87).

193

In ragione del carattere rigido della Costituzione, nessuna fonte può modificarla surrettiziamente, qualora ne pregiudichi una o più norme: le limitazioni sostanziali o processuali della (altrimenti assoluta) responsabilità del funzionario – ex art. 28 Cost. – devono individuarsi in altre norme costituzionali (Presidente della Repubblica, Presidente del Consiglio, ministri, parlamentari, giudici costituzionali, titolari di organi giurisdizionali) perché ogni limitazione di tale responsabilità si risolve nella corrispondente restrizione del diritto di azione e di difesa. Inoltre la differenziazione delle discipline processuali con riferimento a fatti extrafunzionali viola il principio di eguaglianza (non sopprimibile nemmeno con una legge di revisione costituzionale). Pertanto l’art. 3, primo comma, Cost. non può essere derogato, senza che sulla validità della deroga vi sia verifica da parte di questa Corte. Non si può discutere della legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge n. 140 come se l’illegittimità di questa norma dipendesse esclusivamente dal fatto che essa è contenuta in una legge ordinaria, anziché in una disposizione approvata ex art. 138 Cost.: la sottoponibilità al sindacato permarrebbe comunque, poiché le immunità valgono soltanto nei limiti delle previsioni costituzionali, e qualsiasi legge ordinaria che ne ampliasse l’ambito sarebbe incostituzionale.

Nel porre una disciplina di favore per i governanti in relazione a fatti extrafunzionali, si è determinata la violazione sia del principio di eguaglianza, sia di quello della responsabilità dei pubblici funzionari allorché agiscano al di fuori delle funzioni, sia infine del diritto di azione e di difesa. Infatti, esiste un istituto che adeguatamente mette al riparo i titolari delle più alte cariche pubbliche da eventuali impedimenti alla propria attività istituzionale, derivanti dalla pendenza di un processo penale, ancorché relativo a reati comuni, essendo imposto al giudice penale di valutare in concreto la sussistenza di impedimenti dell’imputato, tenendo conto degli interessi degli altri poteri.

La norma impugnata prevede una forma di immunità processuale prescindendo da ogni connessione funzionale fra la carica pubblica e gli atti posti in essere dal soggetto che la ricopre. Ciò in violazione dell’art. 3 Cost., che vieta al legislatore ordinario d’introdurre differenziazioni normative basate esclusivamente su elementi soggettivi. Per la tendenziale universalità del precetto di legge la norma deve dirigersi a tutti senza distinguere in base a categorie soggettive, ma soltanto oggettive (natura dell’atto, dei beni, etc.) in logico rapporto con la natura dell’attività e senza aver riguardo a connotati inerenti alle persone (prestigio, onore, dignità, etc.). Nella fattispecie, invece, un tale rapporto è del tutto assente (laddove si prevede la sospensione dei processi per illeciti compiuti prima dell’assunzione della carica). In essa, infatti, il munus publicum rappresenta non già il fondamento e il limite dell’immunità, bensì il mero presupposto di essa. Ciò che si tutela, dunque, non è la funzione, ma la persona, introducendo così un vero e proprio privilegio personale.

Negli artt. 68, 90 e 96 Cost. l’immunità ha il fondamento ed il limite nell’esercizio della funzione. Per effetto della censurata normativa il Presidente del Consiglio dei ministri già sottoposto, previa autorizzazione parlamentare, alla giurisdizione ordinaria per i reati funzionali, ne è viceversa sottratto ope legis per quelli comuni. Il che è contraddittorio, perché in base all’art. 96 Cost. l’autorizzazione a procedere può essere negata solo nei casi ivi previsti. Poiché l’unico soggetto sottoposto a processo, per «fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione», era l’on. Berlusconi, si è in presenza di una legge personale di favore, definita da autorevole dottrina come lesiva dell’art. 3 Cost., in quanto volta ad estendere, oltre i casi previsti dalla Costituzione, le ipotesi di improcedibilità soggettiva e le garanzie costituzionali impedienti la immediata attuazione

194

della legge. Infatti, tali improcedibilità e garanzie privano di concreta efficacia la legge rispetto a determinati cittadini e creano diseguaglianze formali tra i medesimi.

Quanto alla violazione degli artt. 101 e 112 Cost., ogni condizione di procedibilità in tanto può ritenersi legittima in quanto sia direttamente riconducibile ad un interesse costituzionalmente protetto, da bilanciare con quello ex art. 112 Cost., che, nella specie, non sussiste. Infatti, non ogni processo penale è tale da comportare necessariamente un «turbamento» per la carica, il cui prestigio sarebbe anzi ancor più gravemente compromesso, ove colui che la ricopre se ne servisse per sottrarsi alla giurisdizione; è interesse della collettività sapere se i titolari delle più alte cariche erano e sono al di sopra di ogni sospetto.

Paradossalmente, per tutelare la funzione, si «iberna» il processo a carico di chi la ricopre, impedendogli di chiedere l’assunzione di prove a suo favore, senza fare neppure salvo il compimento di eventuali atti urgenti e indifferibili e senza stabilire un termine massimo di durata della sospensione medesima, che potrebbe protrarsi indefinitamente.

La violazione degli artt. 24 e 111 Cost. con riguardo alla parte civile si radica nell’automatismo della paralisi sine die dell’azione civile e nella mancata previsione della rinunziabilità alla sospensione del processo penale, nonché di una deroga all’art. 75, comma 3, del codice di procedura penale.

La norma, inoltre, viola l’art. 117, primo comma, Cost. con riguardo alla Convenzione europea per i diritti dell’uomo, sia sotto il profilo del «diritto ad un tribunale» (ex artt. 13 e 14 della Convenzione che, rispettivamente, sanciscono il diritto a un ricorso effettivo davanti ad un giudice, nonché la garanzia del godimento dei diritti e delle libertà ivi assicurati) sia in riferimento al «diritto ad un processo equo».

Dopo una disamina di diritto comparato sulle immunità funzionali ed extrafunzionali proprie dei titolari della cariche omologhe a quella del Presidente del Consiglio dei ministri italiano, la parte privata contesta puntualmente le tesi difensive.

In particolare sarebbe l’esigenza di diversificare la disciplina delle situazioni (oggettive) differenti, in rapporto con quella di non collegare la differenziazione al soggetto, in quanto tale, a condurre alla definizione dell’eguaglianza come «pari trattamento di pari situazioni e diverso trattamento di situazioni diverse». Ne deriva, da un lato, che il legislatore non è libero di differenziare i soggetti fin dove la Costituzione non frappone limiti specifici e, dall’altro, che le differenziazioni normative possono essere eccezionalmente legittime, nei limiti in cui si riflettano sull’oggetto e sempre che sussista un nesso di assoluta necessità tra la differenziazione ed un fine costituzionalmente consentito e se sono ispirate a ragionevolezza: il che impone che si versi in ipotesi in cui siano le «situazioni di fatto» messe a confronto ad essere tra loro differenti. Al contrario, nel caso di specie, la situazione in cui si trovano i titolari delle cinque cariche è ontologicamente identica a quella di qualsiasi altro cittadino perseguito per reati comuni.

La memoria contesta poi la pertinenza degli esempi di «sospensione» richiamati ex adverso e cioè l’art. 18, comma 1, lett. b), cod.proc.pen., gli artt. 3, 37, 41, 47, 71, 344, 477 e 479 cod.proc.pen. (ipotesi di sospensione «endoprocessuale», ossia di temporanea stasi dell’iter processuale, giustificate da ragioni interne al processo che ne causano una sorta di quiescenza, in cui la momentanea sospensione si giustifica per assicurare il diritto

195

di difesa e la terzietà-imparzialità del giudice, o per ottenere l’autorizzazione a procedere, o per garantire una sollecita definizione del processo).

Considerazioni analoghe valgono per tutti gli altri casi di «sospensione», singolarmente contestati, unitamente: 1) alla citazione dell’art. 205 cod.proc.pen. la cui ratio è di evitare che i soggetti ivi previsti non rendano in pubblico la loro deposizione, così limitandosi a disciplinarne le modalità di assunzione e non esimendoli dal relativo dovere; 2) al richiamo all’art. 5 della legge n. 1 del 1981, che non configura una causa di sospensione, bensì una causa di non punibilità specifica, avente per oggetto le sole manifestazioni di pensiero funzionali all’esercizio dei poteri-doveri propri dei componenti del C.S.M.; 3) al riferimento alla procedibilità «a richiesta» o dietro «autorizzazione» del Ministro della giustizia (artt. 8, 9, 10 e 313 cod.pen.), ovvero su querela della persona offesa: qui la condizione di procedibilità gioca a tutela del soggetto passivo del reato, e non già del soggetto attivo.

E’ inconferente anche la citazione delle immunità di cui alla Convenzione di Vienna, perché l’ordinamento consente – per il rispetto dell’eguaglianza degli Stati – trattamenti di privilegio in favore di determinati soggetti per la loro qualità di funzionari di altri Stati; ma ciò avviene per il principio di cui all’art. 10 Cost., che conferisce alle norme internazionali generalmente riconosciute il livello di norme primarie: il rango costituzionale della norma di adattamento dell’ordinamento italiano al diritto internazionale (anche consuetudinario) giustifica la compressione del principio di eguaglianza e del diritto alla tutela giurisdizionale. Anche l’estradizione è una delle forme di collaborazione tra Stati in materia penale: la ratio della sospensione del processo in tal caso sta nel rispetto della sovranità degli altri Stati (l’estradizione opera esclusivamente per i reati per i quali è stata concessa).

Considerato in diritto

1.― Il Tribunale di Milano solleva questione di legittimità costituzionale del comma 2, in relazione al comma 1, dell’art. 1 della legge 20 giugno 2003, n.140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), il quale, fatti salvi gli articoli 90 e 96 della Costituzione, dispone la sospensione, dall’entrata in vigore della legge stessa, dei processi penali in corso nei confronti dei soggetti di cui al comma 1 (Presidente della Repubblica, Presidente del Senato della Repubblica, Presidente della Camera dei deputati, Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente della Corte costituzionale), in ogni fase, stato o grado, per qualsiasi reato, anche riguardante fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione, fino alla cessazione delle medesime.

Secondo il giudice remittente la norma censurata, nello stabilire per i processi suindicati la sospensione automatica, generalizzata e senza prefissione di un termine finale, viola l’art. 3 Cost., anzitutto con riguardo all’art. 112 Cost., che sancisce il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale; in secondo luogo con riferimento agli artt. 68, 90 e 96 Cost., in quanto attribuisce alle persone che ricoprono una delle menzionate alte cariche dello Stato una prerogativa non prevista dalle citate disposizioni della Costituzione, che verrebbero quindi ad essere illegittimamente modificate con legge ordinaria, in violazione anche dell’art. 138 Cost., disposizione questa che il remittente non indica nel dispositivo dell’ordinanza, ma cita in motivazione ed alla quale fa implicito ma chiaro riferimento in tutto l’iter argomentativo del provvedimento; infine viola gli artt. 24, 111 e 117 Cost., perché non consente l’esercizio del diritto di difesa da parte dell’imputato e delle parti civili, in

196

contrasto anche con la Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

2.― In via preliminare si osserva che l’astensione dei magistrati componenti del collegio presso il quale era incardinato il processo penale e che ha sollevato la presente questione incidentale non ha influenza sulla rilevanza e quindi sull’ammissibilità della medesima.

L’astensione, infatti, non comporta la regressione del giudizio ad una fase preprocessuale, tale da escludere l’immediata applicazione della norma da scrutinare.

E’ opportuno soggiungere che, secondo il principio affermato dall’indirizzo di gran lunga prevalente di questa Corte (v., ex plurimis, ordinanze n. 270 del 2003, n. 383 del 2002, n. 110 del 2000, sentenze n. 171 del 1996 e n. 300 del 1984), le vicende del giudizio a quo non incidono sullo svolgimento del processo costituzionale, caratterizzato dall’interesse generale alla risoluzione della prospettata questione. Né si può aderire alla tesi difensiva secondo la quale, non essendovi altri processi pendenti nei quali potrebbe ipotizzarsi l’applicazione della norma censurata, non sarebbe configurabile alcun interesse generale cui riferirsi. Non soltanto, infatti, non è provata tale situazione, ma la tesi non tiene conto del rilievo secondo cui la disposizione in oggetto (comma 2 dell’art. 1 della legge n. 140 del 2003) ha carattere di transitorietà anche rispetto alla norma – non espressamente formulata ma necessariamente desumibile – la quale impone l’immediata sospensione di quei processi penali nei quali dovesse verificarsi in qualsiasi momento la coincidenza della qualità d’imputato con quella di titolare di una delle cinque alte cariche indicate nel comma 1 dello stesso art. 1.

La questione, pertanto, non riguarda soltanto il processo in cui è stata sollevata, ma ha valenza generale, sicché dev’essere esaminata nel merito.

3.― Per rispondere agli interrogativi posti dall’ordinanza di rimessione occorre, in primo luogo, definire quali siano la natura, la funzione e la portata della normativa impugnata.

Essa riguarda una sospensione del processo penale, istituto che si sostanzia nel temporaneo arresto del normale svolgimento del medesimo ed è oggetto non di una disciplina generale, bensì di specifiche regolamentazioni dettate con riguardo alla diversità dei presupposti e delle finalità perseguite.

Le sospensioni possono essere così raggruppate:

a) sospensioni per l’esistenza di una pregiudiziale (costituzionale, comunitaria, civile, amministrativa, tributaria etc.);

b) sospensioni dovute all’instaurazione di procedimenti incidentali finalizzati ad assicurare la terzietà del giudice o la serenità dello svolgimento del processo (ricusazione, rimessione);

c) sospensioni per il compimento di atti e comportamenti che possono influire sull’esito del processo in modo tale da rendere tale esito, nella valutazione del legislatore, preferibile rispetto a quelli prevedibili sulla base del normale svolgimento del processo stesso (come avviene per l’affidamento in prova dell’imputato nel processo minorile e per il compimento delle riparazioni, delle restituzioni e del risarcimento del danno nel processo davanti al giudice di pace);

197

d) sospensioni per ragioni soggettive, quali quella dipendente dalla condizione dell’imputato che per infermità di mente non è in grado di partecipare coscientemente al processo, e quella degli appartenenti a reparti mobilitati prevista dall’art. 243 del codice penale militare di guerra.

Se si prescinde da quest’ultima, peraltro prevista in un testo risalente (regio decreto 20 febbraio 1941, n. 303), mai sottoposto a scrutinio di costituzionalità e soprattutto connesso ad una situazione eccezionale quale lo stato di guerra, le altre sospensioni soddisfano esigenze del processo e sono finalizzate a realizzare le condizioni perché esso abbia svolgimento ed esito regolari, anche se ciò può comportare la temporanea compressione dei diritti che vi sono coinvolti. Ciò vale anche per la sospensione stabilita per l’ipotesi dell’imputato incapace, perché la capacità dell’imputato di partecipare coscientemente al processo è aspetto indefettibile del diritto di difesa senza il cui effettivo esercizio nessun processo è immaginabile, come questa Corte ha affermato fin dai primi anni della sua attività (cfr. sentenze n. 59 del 1959 e n. 354 del 1996). Da quanto fin qui esposto emerge che la sospensione, di solito prevista per situazioni oggettive del processo, è funzionale al suo regolare proseguimento.

Ciò non significa che quello delle sospensioni sia un sistema chiuso e che il legislatore non possa stabilire altre sospensioni finalizzate alla soddisfazione di esigenze extraprocessuali, ma implica la necessità di identificare i presupposti di tali sospensioni e le finalità perseguite, eterogenee rispetto a quelle proprie del processo.

4.― La situazione cui si riconnette la sospensione disposta dalla norma censurata è costituita dalla coincidenza delle condizioni di imputato e di titolare di una delle cinque più alte cariche dello Stato ed il bene che la misura in esame vuol tutelare deve essere ravvisato nell’assicurazione del sereno svolgimento delle rilevanti funzioni che ineriscono a quelle cariche.

Si tratta di un interesse apprezzabile che può essere tutelato in armonia con i principi fondamentali dello Stato di diritto, rispetto al cui migliore assetto la protezione è strumentale.

E’ un modo diverso, ma non opposto, di concepire i presupposti e gli scopi della norma la tesi secondo la quale il legislatore, considerando che l’interesse pubblico allo svolgimento delle attività connesse alle alte cariche comporti nel contempo un legittimo impedimento a comparire, abbia voluto stabilire una presunzione assoluta di legittimo impedimento. Anche sotto questo aspetto la misura appare diretta alla protezione della funzione.

Occorre ora accertare e valutare come la norma incida sui principi del processo e sulle posizioni e sui diritti in esso coinvolti.

5.― La sospensione in esame è generale, automatica e di durata non determinata.

Ciascuna di siffatte caratteristiche esige una chiarificazione.

La sospensione concerne i processi per imputazioni relative a tutti gli ipotizzabili reati, in qualunque epoca commessi, che siano extrafunzionali, cioè estranei alle attività inerenti alla carica, come risulta chiaro dalla espressa salvezza degli artt. 90 e 96 della Costituzione.

198

Essa è automatica nel senso che la norma la dispone in tutti i casi in cui la suindicata coincidenza si verifichi, senza alcun filtro, quale che sia l’imputazione ed in qualsiasi momento dell’iter processuale, senza possibilità di valutazione delle peculiarità dei casi concreti.

Infine la sospensione, predisposta com’è alla tutela delle importanti funzioni di cui si è detto e quindi legata alla carica rivestita dall’imputato, subisce, per quanto concerne la durata, gli effetti della reiterabilità degli incarichi e comunque della possibilità di investitura in altro tra i cinque indicati. E non è fondata l’obiezione secondo la quale il protrarsi dell’arresto del processo sarebbe da attribuire ad accadimenti e non alla norma, perché è questa a consentire l’indefinito protrarsi della sospensione.

6.― Da quanto detto emerge anzitutto che la misura predisposta dalla normativa censurata crea un regime differenziato riguardo all’esercizio della giurisdizione, in particolare di quella penale.

La constatazione di tale differenziazione non conduce di per sé all’affermazione del contrasto della norma con l’art. 3 della Costituzione. Il principio di eguaglianza comporta infatti che, se situazioni eguali esigono eguale disciplina, situazioni diverse possono implicare differenti normative. In tale seconda ipotesi, tuttavia, ha decisivo rilievo il livello che l’ordinamento attribuisce ai valori rispetto ai quali la connotazione di diversità può venire in considerazione.

Nel caso in esame sono fondamentali i valori rispetto ai quali il legislatore ha ritenuto prevalente l’esigenza di protezione della serenità dello svolgimento delle attività connesse alle cariche in questione.

Alle origini della formazione dello Stato di diritto sta il principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione, il cui esercizio, nel nostro ordinamento, sotto più profili è regolato da precetti costituzionali.

L’automatismo generalizzato della sospensione incide, menomandolo, sul diritto di difesa dell’imputato, al quale è posta l’alternativa tra continuare a svolgere l’alto incarico sotto il peso di un’imputazione che, in ipotesi, può concernere anche reati gravi e particolarmente infamanti, oppure dimettersi dalla carica ricoperta al fine di ottenere, con la continuazione del processo, l’accertamento giudiziale che egli può ritenere a sé favorevole, rinunciando al godimento di un diritto costituzionalmente garantito (art. 51 Cost.). Ed è appena il caso di osservare che, in considerazione dell’interesse generale sotteso alle questioni di legittimità costituzionale, è ininfluente l’atteggiamento difensivo assunto dall’imputato nella concretezza del giudizio.

Sacrificato è altresì il diritto della parte civile la quale, anche ammessa la possibilità di trasferimento dell’azione in sede civile, deve soggiacere alla sospensione prevista dal comma 3 dell’art. 75 del codice di procedura penale.

7.― Si è affermato, per sostenere la legittimità costituzionale della legge, che nessun diritto è definitivamente sacrificato, nessun principio costituzionale è per sempre negletto.

La tesi non può essere accolta.

199

All’effettività dell’esercizio della giurisdizione non sono indifferenti i tempi del processo. Ancor prima che fosse espressamente sancito in Costituzione il principio della sua ragionevole durata (art. 111, secondo comma), questa Corte aveva ritenuto che una stasi del processo per un tempo indefinito e indeterminabile vulnerasse il diritto di azione e di difesa (sentenza n. 354 del 1996) e che la possibilità di reiterate sospensioni ledesse il bene costituzionale dell’efficienza del processo (sentenza n. 353 del 1996).

8.― La Corte ritiene che anche sotto altro profilo l’art. 3 Cost. sia violato dalla norma censurata.

Questa, infatti, accomuna in unica disciplina cariche diverse non soltanto per le fonti di investitura, ma anche per la natura delle funzioni e distingue, per la prima volta sotto il profilo della parità riguardo ai principi fondamentali della giurisdizione, i Presidenti delle Camere, del Consiglio dei ministri e della Corte costituzionale rispetto agli altri componenti degli organi da loro presieduti. Né vale invocare, come precedente e termine di comparazione, l’art. 205 cod.proc.pen. il quale disciplina un aspetto secondario dell’esercizio della giurisdizione, ossia i luoghi in cui i titolari delle cinque più alte cariche dello Stato possono essere ascoltati come testimoni.

Non è superfluo soggiungere che, mentre vengono fatti salvi gli artt. 90 e 96 Cost., nulla viene detto a proposito del secondo comma dell’art. 3 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, che ha esteso a tutti i giudici della Corte costituzionale il godimento dell’immunità accordata nel secondo comma dell’art. 68 Cost. ai membri delle due Camere. Ne consegue che si riscontrano nella norma impugnata anche gravi elementi di intrinseca irragionevolezza.

La questione è pertanto fondata in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.

Resta assorbito ogni altro profilo di illegittimità costituzionale.

9.― La disposizione direttamente impugnata si inserisce in un contesto normativo le cui articolazioni, per quanto riguarda i primi due commi – che si riferiscono, rispettivamente, alle due situazioni della non sottoponibilità a processo e della sospensione dei processi eventualmente già in corso – sono dirette alla medesima, sostanziale finalità, hanno lo stesso ambito soggettivo di applicazione ed entrano in contrasto con gli stessi precetti costituzionali. Pertanto, in via conseguenziale ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la dichiarazione di illegittimità costituzionale deve estendersi anche ai commi 1 e 3, non direttamente impugnati, dell’art. 1 della legge n. 140 del 2003: al comma 1 per le ragioni appena dette, ed al comma 3, concernente la sospensione della prescrizione per il tempo di applicazione delle misure di cui ai primi due commi, perché lo stesso, caducati i precedenti, non ha alcuna autonomia applicativa.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riservata a separata decisione la questione di legittimità costituzionale dell’art. 110, quinto comma, del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), sollevata dal Tribunale di Milano con l’ordinanza in epigrafe;

200

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della legge 20 giugno 2003, n.140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato);

dichiara, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, commi 1 e 3, della predetta legge n. 140 del 2003.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 gennaio 2004.Riccardo CHIEPPA, PresidenteFrancesco AMIRANTE, RedattoreDepositata in Cancelleria il 20 gennaio 2004.

201

SENTENZA N. 120 DEL 2004

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:- Gustavo ZAGREBELSKY Presidente- Valerlo ONIDA Giudice- Carlo MEZZANOTTE “- Fernanda CONTRI “- Guido NEPPI MODONA “- Piero Alberto CAPOTOSTI “- Annibale MARINI “- Franco BILE “- Giovanni Maria FLICK “- Francesco AMIRANTE “- Ugo DE SIERVO “- Romano VACCARELLA “- Paolo MADDALENA “- Alfonso QUARANTA “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 1, 3, 4, 5 e 7, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), promossi con ordinanze del 10 luglio 2003 del Tribunale di Roma, IV sezione penale, del 1° luglio 2003 del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano e del 17 settembre 2003 del Tribunale di Bologna, I sezione penale, rispettivamente iscritte ai nn. 714, 715 e 1021 del registro ordinanze 2003 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 37 e 48, prima serie speciale, dell’anno 2003.

Visti gli atti di costituzione di Gian Carlo Caselli, Guido Lo Forte ed altri e di Gabriele Canè, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

uditi nell’udienza pubblica del 24 febbraio 2004 i Giudici relatori Carlo Mezzanotte e Piero Alberto Capotosti;

uditi gli avvocati Carlo Federico Grosso, Carlo Smuraglia e Giuseppe Giampaolo per Gian Carlo Caselli, Carlo Smuraglia per Guido Lo Forte ed altri, Filippo Sgubbi per Gabriele Canè e l’avvocato dello Stato Franco Favara per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

202

1. Con ordinanza emessa il 10 luglio 2003 nel corso del giudizio penale nei confronti del parlamentare M. D. per il reato di cui agli articoli 595, terzo comma, del codice penale e 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa), il Tribunale di Roma, IV sezione penale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), denunciandone il contrasto con gli artt. 68, primo comma, 24, primo comma, e 3 della Costituzione.

1.1. — Espone in fatto il rimettente che, all’esito dell’udienza preliminare del 12 aprile 2001, il parlamentare M. D. veniva rinviato a giudizio per rispondere dell’imputazione di diffamazione aggravata a mezzo stampa, perché nel corso di una intervista - pubblicata in un quotidiano del 4 ottobre 1999, nell’articolo intitolato «Chi mi vuole in galera non ha letto le carte» e sottotitolato «Il deputato: i giudici di Palermo sono pazzi» - rilasciata a seguito della richiesta di custodia cautelare formulata dalla Procura della Repubblica di Palermo, nella persona dei magistrati Gian Carlo Caselli, Guido Lo Forte, Domenico Gozzo, Antonio Ingroia, Mauro Terranova, Lia Sava ed Umberto De Giglio, offendeva la reputazione di questi ultimi pronunciando, in risposta ad una domanda della giornalista (“Una battuta sui p.m. di Palermo”), le seguenti affermazioni: “Sono dei pazzi, pazzi come Milosevic”.

Il giudice a quo prosegue ricordando che nel corso dell’udienza dibattimentale del 1° luglio 2003 la difesa dell’imputato eccepiva l’insindacabilità, ex art. 68 Cost., delle dichiarazioni oggetto dell’imputazione e, in base alla disciplina dettata dalla sopravvenuta legge 20 giugno 2003, n. 140, chiedeva l’assoluzione ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. ovvero, in subordine, la trasmissione alla Camera dei deputati di copia degli atti del procedimento al fine della deliberazione di quest’ultima in ordine all’insindacabilità. A siffatte richieste si opponevano sia il pubblico ministero, sia la difesa delle parti civili costituite: il primo contestando anzitutto l’applicabilità al caso di specie della legge n. 140 del 2003 ed entrambi sollecitando comunque la proposizione della questione di costituzionalità dell’art. 3 della legge medesima.

1.2. — Tanto premesso, il Tribunale rimettente osserva in primo luogo che i fatti oggetto di giudizio penale a carico del parlamentare M. D. devono ritenersi ricompresi nella nozione di insindacabilità delle opinioni espresse dai parlamentari che deriva dall’art. 3, comma 1, della legge n. 140 del 2003, il quale stabilisce che l’art. 68, primo comma, Cost. si applica anche “per ogni altra attività […] di critica e denuncia politica, connessa alle funzioni di parlamentare, espletata anche fuori del Parlamento”. Secondo il giudice a quo, trattandosi di dichiarazioni rilasciate dal deputato ad un quotidiano “lo stesso giorno in cui la Giunta per le autorizzazioni a procedere aveva dato parere favorevole al suo arresto, richiesto dalla Procura della Repubblica di Palermo”, le stesse sarebbero riconducibili all’ambito di applicazione della citata disposizione, tenuto conto dell’“ampia e generale previsione della norma”, nonché della “circostanza della contiguità temporale tra il parere favorevole della Giunta e le espressioni contestate”.

Ne consegue, ad avviso del rimettente, che l’imputato dovrebbe essere assolto ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen., come previsto dal comma 3 dello stesso art. 3 della legge n. 140 del 2003: donde la rilevanza della questione concernente il comma 1 del medesimo art. 3, e non già delle altre disposizioni dello stesso articolo, delle quali il tribunale afferma non dovere, allo stato, fare applicazione.

203

Sostiene peraltro il giudice a quo che la rilevanza della questione non verrebbe meno in ragione del fatto che la questione di costituzionalità verte su “norme penali di favore”, talché l’imputato dovrebbe essere in ogni caso prosciolto per il principio di irretroattività della legge penale. Alla luce di quanto statuito dalla giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 148 del 1983, n. 167 del 1993 e n. 25 del 1994), ciò non sarebbe infatti preclusivo della proposizione dell’incidente di costituzionalità perché la Corte potrebbe assumere “una serie di decisioni certamente suscettibili di influire sugli esiti del giudizio penale”.

1.3. — Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente osserva anzitutto che il censurato art. 3, comma 1, “anziché limitarsi ad attuare l’art. 68, primo comma, Cost., ha finito […] per modificarne sensibilmente la portata”. Difatti, ad avviso del Tribunale di Roma, la norma costituzionale limiterebbe la garanzia della insindacabilità “alle sole opinioni riconducibili agli atti e alle procedure specificamente previsti dai regolamenti parlamentari; alle opinioni, cioè, espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari tipiche”. Di qui la necessità, affinché la prerogativa dell’art. 68 Cost. possa operare anche per le dichiarazioni rese al di fuori del Parlamento, della “sostanziale corrispondenza” di significato con opinioni già espresse o contestualmente espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari tipiche.

Tale sarebbe, secondo il giudice a quo, l’interpretazione dell’art. 68 Cost. data dalla stessa Corte costituzionale con le sentenze n. 10 e n. 11 del 2000 e successivamente sempre ribadita, con l’ulteriore precisazione che “la mera connessione con la funzione parlamentare, il semplice collegamento di argomento tra attività parlamentare e dichiarazione, la mera comunanza di tematiche, il riferimento al contesto politico parlamentare”, non costituiscono elementi sufficienti a rendere applicabile la prerogativa dell’insindacabilità.

Alla luce di tali considerazioni il giudice rimettente sostiene dunque che la nozione di insindacabilità che si evince dall’art. 3, comma 1, della legge n. 140 del 2003 si porrebbe in contrasto “con l’interpretazione dell’art. 68, primo comma, Cost. costantemente accolta dalla Corte costituzionale e con le esigenze di certezza e garanzia ad essa sottese”. La disposizione denunciata stabilisce infatti che l’art. 68 Cost. non debba applicarsi soltanto alle opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari tipiche, ma anche ad ogni altra dichiarazione - “di divulgazione, di critica, di denuncia politica” - la quale sia comunque “connessa alla funzione parlamentare, espletata anche al di fuori del Parlamento” e non invece circoscritta “a riportare quanto già manifestato in un atto parlamentare”. In tal modo, secondo il rimettente, si verrebbe ad introdurre, “per il tramite di una legge ordinaria”, una nozione di insindacabilità che la stessa Corte costituzionale, a partire dalle sentenze innanzi ricordate, “ha censurato, ritenendola in contrasto con l’art. 68, primo comma, Cost.” e ciò in quanto la garanzia costituzionale coprirebbe dichiarazioni “difficilmente determinabili a priori, del tutto slegate dalle procedure parlamentari tipiche e da quelle forme di controllo ad esse inerenti, tramite le quali si realizza il bilanciamento tra prerogative dell’istituzione parlamentare e tutela dell’individuo”.

Il giudice a quo afferma, pertanto, che la disposizione denunciata si collocherebbe oltre i limiti stabiliti dall’art. 68 Cost. e “la sua introduzione con semplice legge ordinaria” violerebbe anche l’art. 24 Cost., “comprimendo i diritti della persona offesa dal reato, senza che tale lesione sia legittimata da fonte di pari grado”.

204

Infine il rimettente deduce il contrasto della norma censurata con l’art. 3 Cost., sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza: principio al quale l’art. 68, primo comma, della Costituzione apporta una deroga nei limiti innanzi precisati e che non potrebbe essere legittimante derogato “attraverso una legge ordinaria che introduca, solo per una determinata categoria, una causa di (non) punibilità che non si applica alla generalità dei consociati”.

2. Si è costituito in giudizio il dott. Gian Carlo Caselli, parte civile nel giudizio a quo, per sentir dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 3, comma 1, della legge n. 140 del 2003, previa riunione del presente giudizio con quello relativo alla questione sollevata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano con ordinanza iscritta al r. o. n. 715 del 2003.

Ad avviso della difesa della parte costituita, la disposizione denunciata estenderebbe l’applicazione della prerogativa costituzionale anche ad atti che non presentano una reale connessione con le funzioni e le opinioni di cui all’art. 68 Cost., sicché non di vera attuazione di quest’ultima norma si tratterebbe, bensì dell’introduzione di un’autonoma fattispecie che inserirebbe nello stesso art. 68 “una garanzia ulteriore, non prevista dalla Carta costituzionale”, ciò che sarebbe precluso al legislatore ordinario apportare.

La parte sostiene inoltre che la disposizione censurata violerebbe sia il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., quale “vincolo comune a tutte le leggi ordinarie”, sia l’art. 24 Cost., comprimendo i diritti della persona offesa dal reato senza che tale lesione “sia legittimata da una fonte di pari grado”. La persona offesa sarebbe quindi privata della tutela giurisdizionale, venendo lasciato in via esclusiva alla maggioranza parlamentare il giudizio sulla sussistenza di una connessione tra dichiarazioni e funzione parlamentare. A tal riguardo, si osserva nella memoria, la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo ha di recente sottolineato la differenza che intercorre tra le “mere dispute private” ed il concetto di connessione tra opinioni e funzioni parlamentari, precisando che non potrebbe esservi divieto di accesso alla giustizia per il solo motivo che la disputa riguarderebbe “ragioni politiche”; se così fosse, infatti, si violerebbe l’art. 6, § 1, della Carta europea dei diritti dell’uomo giacché il cittadino non potrebbe reagire ad offese nei suoi confronti ed ottenere il danno eventualmente patito.

3. E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque infondata.

Quanto all’inammissibilità, la difesa erariale osserva anzitutto che il rimettente, a fronte di un’eccezione riguardante l’operatività dell’art. 68 Cost., non ritenendo di applicare il disposto dell’art. 3, comma 3, della legge n. 140 del 2003, avrebbe dovuto applicare, senza ritardo, il comma 4 dello stesso art. 3. Il giudice a quo, al contrario, non menziona neppure tale ultima disposizione e solleva “anticipatamente” una questione di costituzionalità “che avrebbe potuto e potrebbe risultare non rilevante” in esito alla deliberazione della Camera di appartenenza del parlamentare. In definitiva, secondo l’Avvocatura, “il rimettente ipotizza un giudizio di legittimità costituzionale non incidentale ad un eventuale conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, ma potenzialmente preclusivo delle valutazioni della Camera competente”.

Altra ragione di inammissibilità risiederebbe, secondo la difesa erariale, nel fatto che il giudice a quo non precisa i motivi del contrasto con i parametri evocati dell’inciso “connessa alla funzione parlamentare” (anche se espletata extra moenia) contenuto nel

205

comma 1 dell’art. 3; inciso che esprimerebbe invero la nozione di “delimitazione funzionale” o “nesso funzionale” elaborata dalla giurisprudenza costituzionale.

Sostiene infine l’Avvocatura che la questione sarebbe, in subordine, “palesemente” infondata: la formulazione dell’ultima parte del comma 1 dell’art. 3 non si discosterebbe dal testo dell’art. 2, comma 3, dell’ultimo dei decreti-legge menzionati nell’art. 8 della stessa legge n. 140 del 2003 e, peraltro, utilizzandosi il termine “connessa” invece di “collegata”, si presenterebbe più restrittiva anche di quella contenuta nell’art. 2, comma 1, della proposta di legge Atto Camera n. 185 della XIV legislatura.

4. Con memoria successivamente depositata, la parte costituita, dott. Gian Carlo Caselli, argomenta ulteriormente a sostegno delle ragioni di incostituzionalità della norma denunciata, ribadendone l’illegittimità in riferimento all’art. 68 Cost., del quale sarebbe estesa inammissibilmente l’applicabilità; sussisterebbe altresì il contrasto con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. e con l’art. 24 Cost., per il sacrificio che subirebbe il “diritto di azione e di difesa riconosciuto al terzo che ritiene di aver subito dal parlamentare una lesione dei propri diritti all’onore e alla reputazione”, diritti che a loro volta trovano fondamento nell’art. 2 Cost.

La difesa della parte costituita conclude quindi sostenendo che, in presenza di una fattispecie che pone in conflitto il principio di garanzia dell’attività parlamentare con i principî costituzionali appena enunciati, il “giusto bilanciamento” era stato già effettuato, “in assenza di una disciplina attuativa dell’art. 68”, dalla Corte costituzionale con la sua giurisprudenza, mentre la disposizione denunciata opererebbe un “bilanciamento completamente diverso”, che però comprimerebbe, fino ad annullarli, “il principio di eguaglianza di fronte alla giustizia, il diritto di difesa, lo stesso principio di eguaglianza politica”: si tratterebbe dunque di un “bilanciamento irragionevole”.

5. — Con ordinanza 2 luglio 2003, il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 1, 3, 4, 5 e 7, della legge del 2003, n.140, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.

La questione è stata sollevata nell’ambito di procedimento penale e nel corso della udienza preliminare conseguente a richiesta di rinvio a giudizio del parlamentare M. D. ed altri, imputati del delitto di diffamazione aggravata ai danni di alcuni magistrati della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, mediante la pubblicazione in un quotidiano di due articoli, il 10 marzo 1999 e il 15 luglio 1999, ritenuti offensivi della reputazione dei predetti magistrati.

5.1. — Nella ordinanza di rimessione si precisa che i difensori del parlamentare M.D. avevano richiesto la immediata pronuncia di proscioglimento ex art.129 cod. proc. pen. per la sussistenza dell’esimente di cui all’art. 68 della Costituzione ovvero, in subordine, la sospensione del procedimento soltanto per l’imputato M. D. ex art. 3 legge n. 140 del 2003; mentre il pubblico ministero e le parti civili costituite avevano eccepito l’incostituzionalità del procedimento incidentale predisposto dall’art. 3, commi 1, 3, 4, 5 6, 7 e 8, della legge n. 140 del 2003 in riferimento agli articoli 3, 24, 101 e 112 della Costituzione.

Il giudice a quo impugna le norme di cui ai commi 1, 3, 4, 5 e 7 dell’art. 3 della predetta legge n. 140 del 2003, nella parte in cui, tra l’altro con legge ordinaria e non con legge

206

costituzionale, estendono l’applicabilità del primo comma dell’art. 68 della Costituzione ad «…ogni altra attività di ispezione, di divulgazione, di critica, di denuncia politica connessa alla funzione di attività parlamentare, espletata anche fuori dal Parlamento…», non limitandola alla presentazione di disegni di legge, di emendamenti, di ordini del giorno, di mozioni, di risoluzioni, di interpellanze e di interrogazioni nonché agli interventi nelle assemblee e negli altri organi delle Camere ed a qualsiasi espressione di voto comunque formulata; nonché nella parte in cui impone al giudice, quando in un procedimento penale è rilevata o eccepita l’applicabilità dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, e ove non ritenga applicabile la guarentigia costituzionale, di trasmettere con ordinanza non impugnabile e senza ritardo direttamente copia degli atti alla Camera alla quale il membro del Parlamento appartiene o apparteneva al momento del fatto.

5.2. — Nell’ordinanza si richiama la giurisprudenza costituzionale che ha ancora affermato che la prerogativa di cui all’art. 68, comma primo, della Costituzione non copre tutte le opinioni espresse dal parlamentare nello svolgimento della sua attività politica, ma solo quelle legate da nesso funzionale con le attività svolte nella qualità di membro della Camera, riconoscendo che costituiscono opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni quelle manifestate nel corso dei lavori della Camera e dei suoi vari organi ovvero manifestate anche in atti individuali costituenti estrinsecazioni delle facoltà proprie del parlamentare in quanto membro dell'Assemblea.

5.3. — La estensione dell’immunità parlamentare, in mancanza delle condizioni richieste dalla norma costituzionale, comporta, ad avviso del giudice a quo,la violazione dell'art. 3 della Costituzione per disparità di trattamento con i cittadini che non rivestono la qualità di parlamentare, nonché dell’art. 24 della Costituzione poiché priverebbe la persona offesa della tutela dei propri diritti.

5.4. — In punto di rilevanza, il rimettente osserva che le valutazioni imposte dall’art. 3, commi 3 e 4, della legge n.140 del 2003 – il proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen. ovvero la sospensione del processo e l’immediata trasmissione di copia degli atti alla Camera di appartenenza del parlamentare – devono essere effettuate nell’udienza preliminare, in base ai parametri previsti dal comma primo del medesimo art. 3.

6. — Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la Corte dichiari inammissibile e, comunque, manifestamente infondata la sollevata questione di legittimità costituzionale.

Preliminarmente, la difesa erariale osserva che il giudice a quo avrebbe dovuto, una volta deciso di non pronunciare sentenza di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen., trasmettere direttamente “senza ritardo” copia degli atti alla Camera di appartenenza del membro del Parlamento, come stabilito dall’art. 3, comma 4, della legge n. 140 del 2003.

Il giudice rimettente avrebbe, invece, prospettato “anticipatamente” una questione che “avrebbe potuto e potrebbe” risultare non rilevante in esito alla deliberazione del Senato.

La questione sarebbe, comunque, inammissibile in quanto il giudice a quo non avrebbe esposto, con specifico riferimento a ciascuna delle norme indicate nell’ordinanza, le ragioni del dubbio di legittimità costituzionale. Nel merito, la difesa erariale ritiene la questione infondata, in quanto la formulazione dell’ultima parte del comma primo del citato articolo 3 non si discosterebbe “sensibilmente” da quella dell’art. 2, comma 3, dell’ultimo dei molti decreti-legge elencati nell’art. 8 legge n. 140 del 2003.

207

7. — Si sono costituite le parti civili presenti nel giudizio principale, aderendo in toto alle argomentazioni svolte nell’ordinanza di rimessione.

La difesa delle parti costituite segnala ulteriormente la decisione 31 gennaio 2003 della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo cui vi é violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della Carta europea dei diritti dell’uomo allorché, senza valide ragioni, si inibisca al cittadino la possibilità di reagire ad offese formulate nei suoi confronti, e conseguentemente anche di ottenere la riparazione del danno subito.

7.1. — Nell’imminenza della udienza pubblica, hanno depositato memorie le parti civili, insistendo nelle conclusioni già rassegnate.

8. — Con ordinanza emessa in data 17 settembre 2003, il Tribunale di Bologna, I sezione penale, nel corso del procedimento penale a carico del parlamentare V. S. – imputato, in concorso con G. C., di diffamazione aggravata, per avere rilasciato dichiarazioni ritenute gravemente offensive della reputazione del magistrato Giancarlo Caselli, all’epoca procuratore della Repubblica di Palermo, pubblicate in un articolo di stampa di un quotidiano del quale il coimputato G. C. era direttore responsabile – ha sollevato, su eccezione della parte civile e degli imputati, questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 3, comma 1, della legge n. 140 del 2003, per contrasto con gli artt. 3, 68, primo comma, 24 e 117 della Costituzione.

8.1. — Premette il giudice a quo che, in data 27 maggio 2003, era intervenuta la delibera della Camera dei deputati, comunicata nel corso della udienza dibattimentale del 28 maggio 2003, con la quale era stata recepita la proposta della Giunta per le autorizzazioni a procedere di dichiarare che i fatti per i quali è in corso il procedimento penale concernono opinioni espresse dal parlamentare stesso nell’esercizio delle sue funzioni ai sensi del primo comma dell’art. 68 della Costituzione, in quanto sostanzialmente corrispondenti, quanto al contenuto, a quelle riportate in una interrogazione a risposta orale. Pervenuta la relativa documentazione nel corso della udienza dibattimentale, il giudice a quo aveva disposto un rinvio preliminare alla udienza del 17 settembre 2003.

Nelle more del rinvio, era entrata in vigore la legge n. 140 del 2003, il cui art. 3, comma 1, ridefinisce l’ambito di applicazione dell’art. 68, primo comma, della Costituzione. Giusta il combinato disposto dei commi 3 e 8 dell’art. 3 della citata legge, il rimettente sarebbe tenuto ad adottare senza ritardo i provvedimenti indicati nel comma 3, ovvero a provvedere, con sentenza, a norma dell’art. 129 cod. proc. pen., o, in alternativa, a sollevare conflitto di attribuzione. Peraltro, la pronuncia ex art. 129 del codice di rito gli imporrebbe una valutazione preliminare dell’ambito di applicazione dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, come ridefinito dall’art. 3, comma 1, della legge n. 140 del 2003: donde il ritenuto carattere preliminare della questione di legittimità costituzionale rispetto ad ogni altra decisione, sia afferente alla proposizione del conflitto di attribuzione, sia alla applicazione dell’art. 129 cod. proc. pen.

Al riguardo, si rileva nella ordinanza che detta norma non si limita ad una semplice attuazione del richiamato art. 68 della Costituzione, estendendo, senza gli strumenti offerti dall’art. 138 della Costituzione, l’ambito di operatività della garanzia della immunità parlamentare ben oltre i limiti definiti dalla attuale formulazione del citato art. 68 della Costituzione, quali individuati dalla giurisprudenza costituzionale.

208

Il testo attuale dell’art. 3, comma 1, della legge n. 140 del 2003, ad avviso del tribunale rimettente, indicando analiticamente, in aggiunta agli atti tipici espressivi dell’esercizio di funzioni parlamentari, quali disegni di legge, proposte di legge, emendamenti, interrogazioni, etc., una serie di ulteriori atti, quali atti di ispezione, di divulgazione, di critica e denuncia politica, ugualmente coperti dall’immunità anche se compiuti al di fuori del Parlamento quando risultino connessi alla funzione di parlamentare, individua il nesso funzionale tra le dichiarazioni rese extra moenia e le attività svolte in sede parlamentare non solo in tutte le ipotesi di sostanziale identità di significati, ma in tutti i casi di mero collegamento con la funzione di parlamentare, a prescindere da una specifica connessione con l’attività parlamentare.

8.2. — Il giudice esamina, quindi, la interrogazione indicata dalla Giunta delle autorizzazioni a procedere come quella alla quale il parlamentare V. S. si era ispirato nelle dichiarazioni rilasciate alla stampa per le quali si procede, rilevando che essa si riferisce a fatti specifici solo parzialmente coincidenti con il contenuto dell’articolo in questione. Pertanto, si rileva nella ordinanza, quelle stesse dichiarazioni contenute nell’articolo di stampa che, in base al consolidato orientamento interpretativo dell’art. 68, primo comma, della Costituzione fornito dalla Corte costituzionale, non rientrerebbero nella sfera di operatività di detta norma costituzionale, si potrebbero far rientrare nell’attuale previsione normativa dell’art. 3, comma 1, della legge n. 140 del 2003.

Il giudice a quo sospetta, poi, il contrasto della norma impugnata anche con gli artt. 3, 24 e 117 della Costituzione. Sotto il primo profilo, lamenta la irragionevole disparità di trattamento che la stessa introduce tra i soggetti che rivestono la qualità di parlamentare ed i comuni cittadini, trasformando di fatto quella eccezionale garanzia finalizzata alla tutela del libero esercizio delle funzioni parlamentari attraverso le opinioni espresse in una ingiustificata situazione di privilegio personale derivante esclusivamente dallo status di parlamentare. Quanto al denunciato contrasto con gli articoli 24 e 117 della Costituzione, esso viene ravvisato dal giudice a quo nella indebita compressione dell’esercizio del diritto costituzionalmente attribuito a tutti i cittadini, anche ai sensi dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi, diritto suscettibile di legittima compressione solo a fronte della esigenza di tutelare un preminente interesse di carattere generale, quale il libero esercizio delle funzioni parlamentari e non per salvaguardare attività che non ne costituiscono espressione.

8.3. — Infine, si osserva nella ordinanza che le questioni di legittimità costituzionale sollevate rilevano anche con riguardo alla posizione processuale dell’imputato G. C., dovendosi procedere alla trattazione congiunta delle due posizioni, in quanto l’accertamento della responsabilità del direttore del quotidiano ai sensi dell’art. 57 cod. pen. comporta la preliminare valutazione della ricorrenza degli estremi del reato presupposto, e, pertanto, nel caso di cui si tratta, un accertamento che non può prescindere dalla previa risoluzione delle sollevate questioni di legittimità costituzionale.

9. — Nel giudizio innanzi alla Corte, è intervenuto il Presidente del consiglio dei ministri, con il patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la inammissibilità o la infondatezza della questione.

Sotto il primo profilo, la difesa erariale ha sottolineato che la legge impugnata è entrata in vigore successivamente sia al fatto imputato al parlamentare V. S., commesso in data 31 dicembre 1998, sia alla deliberazione della Camera dei deputati del 27 maggio 2003, nei

209

confronti della quale il rimettente non ha proposto conflitto di attribuzione, sollevando invece questione di legittimità costituzionale, ritenuta pregiudiziale rispetto alla decisione relativa alla eventuale proposizione del conflitto, oltre che a quella di procedere all’applicazione immediata dell’art. 129 cod. proc. pen. L’Avvocatura contesta tale pregiudizialità sia con riferimento all’ipotizzato conflitto di attribuzione, sul quale la pronuncia avrebbe dovuto essere resa con riguardo ai parametri di legittimità vigenti al 27 maggio 2003, sia rispetto all’applicazione dell’art. 129 cod. proc. pen., applicazione dovuta in assenza di una pronuncia costituzionale favorevole al potere ricorrente sul conflitto. La questione sollevata sarebbe, pertanto, inammissibile per difetto di rilevanza, tenuto anche conto che, alla data del 27 settembre 2003, data in cui è stata emessa la ordinanza di rimessione, il processo a quo si trovava già nella fase disciplinata dall’art. 3, comma 8, della legge n. 140 del 2003, ed il giudice rimettente non ha sollevato questione relativa a detto comma 8, da applicarsi per principio di diritto intertemporale, con la conseguenza che non vi sarebbe spazio per una impugnativa del comma 1 del medesimo art. 3.

9.1. — Nel merito, l’Avvocatura ritiene la questione non fondata, rilevando, per un verso, che la formulazione dell’ultima parte del comma 1 dell’art. 3 non si discosta né dagli insegnamenti della Corte costituzionale, né dall’art. 2, comma 3, dell’ultimo dei molti decreti-legge elencati nell’art. 8 della legge n. 140; per l’altro verso, che la specialità dell’art. 68, primo comma, della Costituzione esclude di per sé la utilizzabilità degli artt. 3 e 24 Cost., mentre incongruo sarebbe il richiamo all’art. 117 della Costituzione.

10. — Si è costituito nel giudizio il dott. Giancarlo Caselli, parte civile nel procedimento penale pendente presso il Tribunale di Bologna, che ha concluso per la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma impugnata, riportandosi alle argomentazioni svolte nella ordinanza di rimessione, ed in particolare soffermandosi sulla circostanza che l’art. 3 della legge n. 140 del 2003 detta una disciplina non già attuativa, ma estensiva della previsione dell’art. 68 Cost., là dove il bilanciamento tra il principio di autonomia ed indipendenza del Parlamento ed il diritto alla tutela giurisdizionale del soggetto offeso nell’onore e nella reputazione dalle dichiarazioni di un parlamentare non è stato affidato al legislatore ordinario, ma è stato effettuato una volta per tutte dal Costituente nel senso della prevalenza del primo qualora le opinioni siano espresse “nell’esercizio delle funzioni”. Tale nesso funzionale, avverte la difesa della parte, non può non richiedere una sostanziale identità di contenuto delle dichiarazioni rese extra moenia con quello delle attività parlamentari.

11. — Si è costituito in giudizio anche G.C., che ha concluso per la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma impugnata, riportandosi alle considerazioni formulate dal giudice rimettente, e richiedendo altresì la estensione, ex art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, della dichiarazione di illegittimità anche al comma 2 dell’art. 3 della legge n. 140 del 2003.

12. — Nella imminenza della udienza pubblica, la parte civile ha depositato memoria, insistendo nelle conclusioni già rassegnate.

Considerato in diritto

1.1. — Il Tribunale di Roma, IV sezione penale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 1, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei

210

confronti delle alte cariche dello Stato), denunciandone il contrasto con gli artt. 68, primo comma, 24, primo comma, e 3 della Costituzione.

1.2. — Il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 1, 3, 4, 5 e 7, della legge 20 giugno 2003, n. 140, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione.

1.3. — Il Tribunale di Bologna, I sezione penale, ha sollevato, su eccezione della parte civile e degli imputati, questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 3, comma 1, della legge n. 140 del 2003, per contrasto con gli artt. 3, 68, primo comma, 24 e 117 della Costituzione (parametro, quest’ultimo, soltanto evocato).

1.4. — Secondo i rimettenti il denunciato articolo 3, comma 1, della citata legge, lungi dal limitarsi ad attuare l’art. 68, primo comma, della Costituzione, ne avrebbe modificato l’ambito applicativo. Nel prevedere che esso si applica anche “per ogni altra attività […] di critica e di denuncia politica, connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori del Parlamento”, il denunciato art. 3, comma 1, introdurrebbe nell’ordinamento una nozione di insindacabilità che la stessa Corte costituzionale, a partire dalle sentenze n. 10 e n. 11 del 2000, avrebbe rifiutato, osservando che la garanzia costituzionale verrebbe in tal modo a coprire dichiarazioni difficilmente determinabili a priori, del tutto slegate dalle procedure parlamentari tipiche e da quelle forme di controllo ad esse inerenti, tramite le quali si realizza il bilanciamento tra prerogative dell’istituzione parlamentare e tutela dell’individuo. Sarebbero violati – ad avviso dei giudici a quibus – pure l’art. 24 della Costituzione, giacché l’introduzione di una così ampia garanzia con una semplice legge ordinaria, anziché con legge costituzionale, determinerebbe una ingiustificata compressione dei diritti della persona offesa dal reato, e l’art. 3 Cost., sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza.

2. — Le tre ordinanze in esame prospettano una questione di legittimità costituzionale sostanzialmente identica in riferimento a parametri costituzionali in larga misura coincidenti, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con un’unica pronuncia.

3. — In via preliminare va accolta l’eccezione di inammissibilità prospettata dall’Avvocatura generale dello Stato in riferimento alla questione di costituzionalità dei commi 3, 4, 5 e 7 dell’art. 3 della legge n. 140 del 2003 sollevata dall’ordinanza del 1° luglio 2003 del giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano. Ed invero il giudice rimettente, sollevando il dubbio di compatibilità della disciplina del comma 1 del predetto art. 3 con i parametri costituzionali evocati, afferma la rilevanza anche degli altri commi citati, che contengono norme procedurali, ma non fornisce motivazioni in ordine all’applicabilità in quella fase del giudizio delle suddette norme, che invece riguardano fasi processuali ulteriori.

Non possono viceversa essere accolte altre eccezioni di inammissibilità per difetto di rilevanza sollevate, nei tre giudizi, dalla difesa erariale, che prospetta il carattere “anticipato” della questione di costituzionalità del comma 1 del citato art. 3 rispetto all’ipotizzata instaurazione di un conflitto di attribuzione con la Camera competente, giacché in proposito va osservato che i giudici rimettenti erano chiamati, innanzi tutto, ad applicare nei rispettivi giudizi proprio quel comma della cui costituzionalità appunto dubitavano.

4. — Nel merito, la questione è infondata nei termini di seguito precisati.

211

La legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione, nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato) si può considerare, a parte l’art. 1 relativo appunto ai processi penali nei confronti delle “alte cariche dello Stato”, in continuità ideale con la serie ininterrotta di 19 decreti-legge in materia di attuazione dell’art. 68 della Costituzione, emanati tra il 1993 ed il 1996 e mai convertiti, e dei quali, non a caso, la stessa legge convalida gli atti e fa salvi gli effetti ed i rapporti giuridici sorti medio tempore. Come è noto, il primo di tali decreti fu emanato il 15 novembre 1993, e cioè subito dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale 29 ottobre 1993, n. 3 (Modifica dell’articolo 68 della Costituzione), con la quale, in particolare, fu abolita l’autorizzazione a procedere nei confronti dei membri del Parlamento. La modifica costituzionale così operata fu appunto immediatamente seguita dal citato decreto-legge 15 novembre 1993, n. 455, che avrebbe dovuto, secondo il Governo, “assicurare che la norma costituzionale fosse prontamente accompagnata da disposizioni atte a disegnarne le modalità operative”.

Si può quindi ritenere che il predetto decreto-legge – e anche gli altri che seguirono – abbiano avuto la finalità di dettare una disciplina per dare attuazione, essenzialmente sul piano processuale, al nuovo disposto dell’art. 68 della Costituzione, attraverso l’istituzione della c.d. “pregiudizialità parlamentare”, che imponeva al giudice di dichiarare, in ogni stato e grado del processo, l’improcedibilità del giudizio in caso di evidente applicabilità del primo comma dell’art. 68, mentre, in tutti gli altri casi, faceva obbligo al giudice di sospendere il giudizio e trasmettere gli atti alla Camera competente a decidere. I criteri che in proposito venivano seguiti nella prassi parlamentare denotavano una chiara propensione ad estendere l’applicazione della prerogativa, in un primo momento, agli atti preparatori e conseguenziali rispetto a quelli tipici e successivamente all’intera attività lato sensu politica dei singoli membri del Parlamento, in base ad ipotesi di collegamento con un determinato “contesto politico”.

Nonostante l’ampiezza dei canoni valutativi elaborati dagli organi parlamentari, in due dei più recenti decreti-legge della serie, ossia quello n. 116 del 12 marzo 1996 e quello n. 555 del 23 ottobre dello stesso anno, si è proceduto, pur facendo comunque salvo “ogni altro atto parlamentare”, ad una dettagliata catalogazione di atti parlamentari tipici, con l’aggiunta delle “attività divulgative connesse, pur se svolte fuori del Parlamento”, al fine di assicurare a tali atti l’immediata applicazione, da parte del giudice, dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, con conseguente improcedibilità del relativo giudizio, mentre in caso di dubbio il giudice, o anche lo stesso parlamentare, dovevano investire direttamente la Camera competente alla decisione. Infine, dopo alcune proposte di legge non approvate nel corso delle precedenti legislature, si è pervenuti nel 2003 al varo della legge in esame, il cui art. 3, riproducendo un emendamento approvato da una sola Camera in sede di conversione del citato decreto-legge n. 116 del 1996 e reintroducendo la pregiudizialità parlamentare, dispone che il giudice debba in ogni caso applicare l’art. 68, primo comma, riguardo ai medesimi atti parlamentari, già indicati dai precedenti decreti-legge, nonché riguardo ad “ogni altra attività di ispezione, di divulgazione, di critica e di denuncia politica, connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori del Parlamento”.

5. — Si tratta di una disposizione legislativa che, anche questa volta, nonostante la nuova, più ampia formulazione lessicale, può considerarsi di attuazione, e cioè finalizzata a rendere immediatamente e direttamente operativo sul piano processuale il disposto dell’art. 68, primo comma. Ed invero le attività analiticamente indicate possono non essere esaustive del concetto di funzione parlamentare, ma costituiscono comunque un’ulteriore

212

forma di specificazione, rispetto a quella dei citati decreti-legge del 1996, ai fini della loro riconduzione nella sfera di applicabilità processuale dell’art. 68, primo comma, e comunque esse non fuoriescono dal campo materiale dello stesso articolo, dal momento che il legislatore stabilisce espressamente che tutte le attività indicate debbono comunque, anche se espletate fuori del Parlamento, essere connesse con l’esercizio della funzione propria dei membri del Parlamento, in conformità appunto con il primo comma dell’art. 68.

Proprio in base a questa formulazione si può ritenere che con la norma in esame il legislatore non innovi affatto alla predetta disposizione costituzionale, ampliandone o restringendone arbitrariamente la portata, ma si limiti invece a rendere esplicito il contenuto della disposizione stessa, specificando, ai fini della immediata applicazione dell’art. 68, primo comma, gli “atti di funzione” tipici, nonché quelli che, pur non tipici, debbono comunque essere connessi alla funzione parlamentare, a prescindere da ogni criterio di “localizzazione”, in concordanza, del resto, con le indicazioni ricavabili al riguardo dalla giurisprudenza costituzionale in materia.

Nel raffrontare peraltro la disposizione legislativa censurata al parametro costituzionale il compito più problematico che si presenta a questa Corte è proprio quello di definire una volta per tutte ed in modo esaustivo l’ambito precettivo dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, ossia il contenuto della prerogativa parlamentare in esso prevista, che segna i confini oltre i quali la giurisdizione non può spingersi. L’art. 68 contiene infatti principi che presiedono alla garanzia delle attribuzioni delle Camere e dell’autorità giudiziaria contro reciproche interferenze e, al contempo, sono preordinati alla tutela di beni costituzionali potenzialmente confliggenti, i quali, per coesistere, debbono essere di volta in volta contemperati per essere resi tra loro compatibili: da un lato l’autonomia delle funzioni parlamentari come area di libertà politica delle Assemblee rappresentative; dall’altro la legalità e l’insieme dei valori costituzionali che in essa si puntualizzano (eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, eguale tutela giurisdizionale e diritto di agire e di difendersi in giudizio, ecc.) (cfr. sentenza n. 379 del 1996).

Un’esigenza di questo tipo è avvertita anche nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, come dimostrano, in particolare, le decisioni 30 gennaio 2003 sui ricorsi n. 40877/98 e n. 45649/99, secondo le quali l’assenza di un chiaro legame tra l’opinione espressa e l’esercizio di funzioni parlamentari postula una interpretazione stretta della proporzionalità esistente tra il fine perseguito ed i mezzi impiegati, specialmente nei casi in cui, sulla base della natura asseritamente politica della dichiarazione contestata, venga negato il diritto del soggetto leso di agire in giudizio.

Nella giurisprudenza costituzionale non mancano, in relazione ai conflitti di attribuzione cui dà luogo l’art. 68, primo comma, indirizzi che esprimono la tensione incessante verso la razionalizzazione di moduli di giudizio atti a garantire stabilità di valutazioni in ordine alla garanzia in oggetto, ma nessuno di essi può dirsi, in ragione dell’inscindibile legame tra conflitto e singola fattispecie, espressivo di una ratio decidendi così piena ed esauriente da potere essere prolungata fino alle sue estreme conseguenze, così da definire per suo tramite, in positivo, l’intero contenuto precettivo dell’art. 68, primo comma, e delle contrapposte istanze in esso rappresentate. E’ vana, insomma, la pretesa di cristallizzare una regola di composizione del conflitto tra principi costituzionali che assumono configurazioni di volta in volta diverse e richiedono soluzioni non riducibili nei rigidi limiti di uno schema preliminare di giudizio.

213

Meno disagevole è invece la definizione in negativo dei rispettivi ambiti di competenza delle Camere e dell’autorità giudiziaria; l’identificazione del confine oltre il quale nessuna interpretazione e nessuno schema di soluzione del conflitto potrebbero spingersi, se si ha riferimento all’art. 68 nella sua inequivoca testualità. Da esso si trae pianamente la vera costante di tutte le decisioni di merito sui conflitti: non qualsiasi opinione espressa dai membri delle Camere è sottratta alla responsabilità giuridica, ma soltanto le opinioni espresse “nell’esercizio delle funzioni”. Nonostante le evoluzioni subite, nel tempo, nella giurisprudenza di questa Corte, è enucleabile un principio, che è possibile oggi individuare come limite estremo della prerogativa dell’insindacabilità, e con ciò stesso delle virtualità interpretative astrattamente ascrivibili all’art. 68: questa non può mai trasformarsi in un privilegio personale, quale sarebbe una immunità dalla giurisdizione conseguente alla mera “qualità” di parlamentare. Per tale ragione l’itinerario della giurisprudenza della Corte si è sviluppato attorno alla nozione del c.d. “nesso funzionale”, che solo consente di discernere le opinioni del parlamentare riconducibili alla libera manifestazione del pensiero, garantita ad ogni cittadino nei limiti generali della libertà di espressione, da quelle che riguardano l’esercizio della funzione parlamentare.

Certamente rientrano nella sfera dell’insindacabilità tutte le opinioni manifestate con atti tipici nell’ambito dei lavori parlamentari, mentre per quanto attiene alle attività non tipizzate esse si debbono tuttavia considerare “coperte” dalla garanzia di cui all’art. 68, nei casi in cui si esplicano mediante strumenti, atti e procedure, anche “innominati”, ma comunque rientranti nel campo di applicazione del diritto parlamentare, che il membro del Parlamento è in grado di porre in essere e di utilizzare proprio solo e in quanto riveste tale carica (cfr. sentenze n. 56 del 2000, n. 509 del 2002 e n. 219 del 2003). Ciò che rileva, ai fini dell’insindacabilità, è dunque il collegamento necessario con le “funzioni” del Parlamento, cioè l’ambito funzionale entro cui l’atto si iscrive, a prescindere dal suo contenuto comunicativo, che può essere il più vario, ma che in ogni caso deve essere tale da rappresentare esercizio in concreto delle funzioni proprie dei membri delle Camere, anche se attuato in forma “innominata” sul piano regolamentare. Sotto questo profilo non c’è perciò una sorta di automatica equivalenza tra l’atto non previsto dai regolamenti parlamentari e l’atto estraneo alla funzione parlamentare, giacché, come già detto, deve essere accertato in concreto se esista un nesso che permetta di identificare l’atto in questione come “espressione di attività parlamentare” (cfr. sentenze n. 10 e n. 11 del 2000, n. 379 e n. 219 del 2003).

E’ in questa prospettiva che va effettuato lo scrutinio della disposizione denunciata. Le attività di “ispezione, di divulgazione, di critica e di denuncia politica” che appunto il censurato art. 3, comma 1, riferisce all’ambito di applicazione dell’art. 68, primo comma, non rappresentano, di per sé, un’ipotesi di indebito allargamento della garanzia dell’insindacabilità apprestata dalla norma costituzionale, proprio perché esse, anche se non manifestate in atti “tipizzati”, debbono comunque, secondo la previsione legislativa e in conformità con il dettato costituzionale, risultare in connessione con l’esercizio di funzioni parlamentari. E’ appunto questo “nesso” il presidio delle prerogative parlamentari e, insieme, del principio di eguaglianza e dei diritti fondamentali dei terzi lesi.

Così intesa la disposizione censurata si sottrae ai vizi di legittimità addebitati: essa, come già osservato, non elimina affatto il nesso funzionale e non stabilisce che ogni espressione dei membri delle Camere, in ragione del rapporto rappresentativo che li lega agli elettori, sia per ciò solo assistita dalla garanzia dell’immunità. E’ pertanto nella dimensione funzionale che le dichiarazioni in questione possono considerarsi insindacabili: “garanzia e funzione sono inscindibilmente legate fra loro da un nesso che, reciprocamente, le

214

definisce e giustifica” (sentenza n. 219 del 2003). Né, d’altra parte, ai fini dell’insindacabilità, la prospettata necessità della connessione tra attività di critica o di denuncia politica e atti di funzione parlamentare può essere inficiata dalla precisazione che tali attività possano essere state espletate “anche fuori del Parlamento”. Tale precisazione, infatti, nulla aggiunge a quanto ormai è acquisito al patrimonio giurisprudenziale di questa Corte, che non ha mai limitato la garanzia alla sede parlamentare, giacché il criterio di delimitazione dell’ambito della prerogativa non è quello della “localizzazione” dell’atto, ma piuttosto, come già detto, quello funzionale, cioè riferibile in astratto ai lavori parlamentari (cfr. sentenza n. 509 del 2002). Solo a queste condizioni l’opinione così manifestata e così qualificata può essere considerata insindacabile anche quando dia luogo a forme di divulgazione e riproduzione al di fuori dell’ambito delle attività parlamentari (cfr. sentenze n. 10, n. 11 e n. 320 del 2000).

In definitiva, alla luce delle considerazioni che precedono, la prospettata questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge n. 140 del 2003 appare infondata.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 68, primo comma, e 117 della Costituzione, rispettivamente dal Tribunale di Roma, IV sezione penale, dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano e dal Tribunale di Bologna, I sezione penale, con le ordinanze indicate in epigrafe;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 3, 4, 5 e 7, della predetta legge 20 giugno 2003, n. 140, sollevata dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 aprile 2004.

Gustavo ZAGREBELSKY, PresidenteCarlo MEZZANOTTE e Piero Alberto CAPOTOSTI, Redattori

Depositata in Cancelleria il 16 aprile 2004

215

SENTENZA N. 163 DEL 2005

REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori:

- Fernanda CONTRI Presidente

- Piero Alberto CAPOTOSTI Giudice

- Guido NEPPI MODONA "

- Annibale MARINI "

- Franco BILE "

- Giovanni Maria FLICK "

- Francesco AMIRANTE "

- Ugo DE SIERVO "

- Romano VACCARELLA "

- Paolo MADDALENA "

- Alfio FINOCCHIARO "

- Alfonso QUARANTA "

- Franco GALLO "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 6, commi 2, 3, 4, 5 e 6, e dell’art. 7 della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), promosso con ordinanza del 9 marzo 2004 dalla Corte di cassazione sul ricorso proposto da S. D., iscritta al n. 695 del registro ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2004.

Visti l’atto di costituzione di S. D. nonché gli atti di intervento del Senato della Repubblica e del Presidente del Consiglio dei ministri;

216

udito nell’udienza pubblica dell’8 febbraio 2005 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick;

uditi gli avvocati Aldo Guagliani per S. D., Giuseppe de Vergottini per il Senato della Repubblica e l’avv. dello Stato Maurizio Greco per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. − Con l’ordinanza in epigrafe la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 112 della Costituzione, dell’art. 6, commi 2, 3, 4, 5 e 6, e dell’art. 7 della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), recanti la disciplina – rispettivamente, “a regime” e transitoria – dell’utilizzabilità delle intercettazioni, effettuate nel corso di procedimenti riguardanti terzi, di conversazioni o comunicazioni alle quali hanno preso parte membri del Parlamento.

La Corte rimettente riferisce di essere investita del ricorso diretto per cassazione proposto, ai sensi dell’art. 311, comma 2, cod. proc. pen., contro l’ordinanza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma che aveva disposto la custodia cautelare in carcere del ricorrente e di numerose altre persone, per il delitto di cui all’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza). Alla luce del provvedimento impugnato, la misura faceva seguito ad indagini di polizia giudiziaria che avevano portato all’accertamento di un vasto traffico organizzato di sostanze stupefacenti (in particolare, cocaina) nel territorio della capitale: indagini dalle quali era emerso che tra i destinatari dello stupefacente figurava anche un senatore, il quale effettuava gli acquisti prevalentemente tramite due appartenenti alla Guardia di finanza addetti alla sua scorta, tra cui il ricorrente. Quest’ultimo, in particolare, nel corso delle indagini, aveva contattato telefonicamente in cinque occasioni il soggetto di vertice dell’organizzazione di trafficanti, al fine di ordinare lo stupefacente per conto del senatore.

Tra i motivi di ricorso, l’interessato aveva dedotto la violazione dell’art. 6 della legge n. 140 del 2003, in quanto le telefonate in questione – poste a fondamento della valutazione di gravità degli indizi di colpevolezza a suo carico – erano state effettuate da due utenze (una fissa e una cellulare) in uso al senatore e su suo incarico; con conseguente inutilizzabilità delle relative intercettazioni, per non essere stata seguita la procedura prevista dalla citata disposizione in rapporto alle conversazioni cui prendano parte membri del Parlamento.

Al riguardo, la Corte di cassazione osserva come l’art. 68 Cost. − nel nuovo testo introdotto dall’art. 1 della legge costituzionale 29 ottobre 1993, n. 3 (Modifica dell’articolo 68 della Costituzione) − stabilisca che, senza l’autorizzazione della Camera alla quale appartengono, i membri del Parlamento non possono essere sottoposti «ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni».

La Corte rimettente premette che alla norma costituzionale è stata data attuazione dalla legge n. 140 del 2003, il cui art. 4 ha disciplinato le modalità di esecuzione – tra l’altro – delle intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni «nei confronti di un membro del Parlamento»: ossia delle intercettazioni c.d. «dirette», cui il parlamentare venga sottoposto – non soltanto quale indagato, ma anche (si dovrebbe ritenere) quale persona offesa o semplice persona informata sui fatti – tramite la captazione di

217

conversazioni effettuate su utenze a lui intestate o da lui utilizzate, ovvero con l’esecuzione di intercettazioni ambientali in luoghi nella sua disponibilità o nei quali si reputa egli possa trovarsi.

Trattandosi della norma regolativa dei casi in cui debbano eseguirsi nei confronti del parlamentare provvedimenti idonei ad interferire sullo svolgimento delle sue funzioni, il citato art. 4 dovrebbe considerarsi applicabile – ad avviso della Corte rimettente – anche quando, nell’ambito di indagini riguardanti terze persone, vengano intercettate conversazioni o altre comunicazioni dalle quali possa evincersi una partecipazione al reato del membro del Parlamento. Nel caso di specie, peraltro, la possibilità che il senatore assuma la qualità di persona sottoposta alle indagini resterebbe esclusa, in quanto – come accertato dal giudice della cautela – la sostanza stupefacente acquistata era destinata a suo esclusivo uso personale: e tale destinazione – alla luce dei più recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità – non costituisce una semplice causa di non punibilità, posto che, al contrario, è la destinazione ad uso di terzi ad integrare un elemento costitutivo del delitto di detenzione illecita di sostanze stupefacenti.

La fattispecie concreta andrebbe ricondotta piuttosto alle previsioni dell’art. 6 della legge n. 140 del 2003, che disciplina le «conversazioni o comunicazioni intercettate in qualsiasi forma nel corso di procedimenti riguardanti terzi, alle quali hanno preso parte membri del Parlamento»: vale a dire le intercettazioni c.d. «indirette» o «casuali», così denominate in quanto non aventi ad oggetto l’utenza intestata o in uso al parlamentare, né (in caso di intercettazione ambientale) luoghi nella sua disponibilità.

Riguardo a tali intercettazioni, il citato art. 6 prevede, al comma 1, la distruzione dei verbali e delle registrazioni delle conversazioni o comunicazioni che appaiano irrilevanti ai fini del procedimento, prefigurando − sotto tale profilo − una disciplina a tutela della riservatezza del parlamentare del tutto analoga a quella dettata per le persone prive di tale qualità. La norma stabilisce, invece, al comma 2, che il giudice per le indagini preliminari, qualora, su istanza di una parte processuale e sentite le altre parti, ritenga necessario utilizzare le intercettazioni (ovvero i tabulati di comunicazioni, ipotesi peraltro non rilevante nella specie), debba richiedere – entro i dieci giorni successivi alla relativa decisione, adottata con ordinanza – l’autorizzazione della Camera alla quale il membro del Parlamento appartiene. Richiesta che, nella fattispecie in esame, non era stata per contro formulata.

A parere della Corte rimettente, d’altra parte, la nozione di intercettazioni «indirette» o «casuali» non andrebbe intesa – contrariamente a quanto sostenuto dal Procuratore generale di udienza – in senso strettamente letterale, ossia come comprensiva delle sole conversazioni cui prenda parte, direttamente e personalmente, il membro del Parlamento: lettura, questa, che renderebbe inapplicabile l’art. 6 della legge n. 140 del 2003 alle conversazioni oggetto del procedimento a quo, avendo ad esse preso parte personalmente il solo ricorrente, e non anche il senatore. Si potrebbe, difatti, «prendere parte» ad una conversazione o comunicazione non soltanto interloquendo in via personale e diretta; ma anche trasmettendo il proprio pensiero a mezzo di altra persona che si limiti, quale semplice nuncius, a riferire al terzo il messaggio di chi intende comunicare. Tale diversa interpretazione – della quale non potrebbe neppure affermarsi il carattere estensivo, apparendo consentita dalla lettera della legge – risulterebbe altresì conforme alla sua ratio: giacché, se il legislatore ha voluto offrire una particolare tutela alla riservatezza del parlamentare, sarebbe incongruo ritenere che tale tutela venga garantita solo quando egli parla direttamente con la persona sottoposta ad intercettazione; e non anche quando il colloquio avviene tramite una persona incaricata esclusivamente di

218

trasmettere all’interlocutore un messaggio, sul quale il nuncius non attua alcun sindacato o intervento modificativo.

Le conversazioni intercettate nel procedimento a quo rientrerebbero proprio in quest’ultima categoria, giacché, stando alla stessa ordinanza impugnata, il ricorrente si era limitato – valendosi di utenze telefoniche nella disponibilità del senatore – a trasmettere al venditore l’«ordinazione» della sostanza stupefacente, che doveva essere acquistata dal parlamentare, e a prendere accordi per la sua consegna. Il tutto sotto le «immediate direttive» del parlamentare medesimo, che – almeno in un caso (riferito però all’altro dei due appartenenti alla Guardia di finanza di cui egli si serviva) – «sembra» essere stato presente ai colloqui.

Di qui, dunque, la rilevanza della questione di legittimità costituzionale del citato art. 6, dalla cui decisione dipenderebbe la legittimità della misura cautelare applicata al ricorrente, in quanto fondata esclusivamente sulle intercettazioni in discussione.

Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, la Corte rimettente esclude preliminarmente che della norma impugnata possa darsi una interpretazione «costituzionalmente orientata», atta a rimuovere i dubbi di legittimità costituzionale: quale sarebbe, in specie, quella di ritenere che il comma 2 dell’art. 6 si riferisca ai soli casi in cui il parlamentare, a seguito delle intercettazioni, assuma la qualità di persona sottoposta alle indagini. Tale interpretazione, difatti, oltre ad apparire contraria alla lettera della legge – che non contiene alcun riferimento alla possibilità di utilizzare le intercettazioni nei confronti del parlamentare – risulterebbe espressamente smentita dal comma 1 dello stesso articolo (richiamato dal comma 2), allorché identifica le intercettazioni ivi regolate in quelle effettuate «nel corso di procedimenti riguardanti terzi».

L’ipotesi in cui dall’intercettazione emerga una notizia di reato nei confronti del parlamentare dovrebbe ritenersi in realtà disciplinata, sia pure implicitamente, dall’art. 4: giacché, se è necessaria l’autorizzazione della Camera di appartenenza per sottoporre il parlamentare ad intercettazione, analoga autorizzazione dovrebbe considerarsi richiesta per utilizzare nei suoi confronti intercettazioni «casuali», che, per questa ragione, da «indirette» diverrebbero «dirette». Inoltre, anche a voler contrariamente opinare sul punto, il riferimento dell’art. 6 ai «procedimenti riguardanti terzi» non consentirebbe comunque di ritenere che la norma attenga esclusivamente ai casi in cui emerga una notizia di reato nei confronti del parlamentare; ma, tutt’al più, che essa attenga sia a tali casi, sia a quelli in cui il procedimento riguardi soltanto il terzo: prospettiva nella quale i dubbi di costituzionalità non verrebbero meno.

In tale ottica, infatti, la disposizione impugnata sarebbe andata comunque al di là dei limiti della tutela accordata dall’art. 68, terzo comma, Cost. alla funzione parlamentare: tutela da ritenere circoscritta alle sole intercettazioni «dirette». Deporrebbero in tal senso tanto il tenore letterale della norma costituzionale, che richiede l’autorizzazione per «sottoporre» i membri del Parlamento ad intercettazioni; quanto il suo «impianto complessivo», dal quale trasparirebbe l’intento del legislatore costituente di fornire una protezione speciale del parlamentare per atti da lui direttamente compiuti o che lo riguardano personalmente. Né varrebbe far leva, in direzione contraria, sulla locuzione «in qualsiasi forma»: tale locuzione – lungi dal potersi considerarsi evocativa delle intercettazioni «indirette» – si riferirebbe soltanto alle diverse modalità di captazione dei messaggi e ai differenti mezzi di comunicazione intercettati (intercettazioni telefoniche, ambientali, di sistemi informatici e telematici, e così via dicendo).

219

Escluso, pertanto, che l’estensione della tutela alle intercettazioni «indirette» possa ritenersi prevista dall’art. 68, terzo comma, Cost., la disciplina introdotta dal legislatore ordinario risulterebbe costituzionalmente illegittima sotto plurimi aspetti.

Sarebbe leso, anzitutto, il principio di uguaglianza. È vero, infatti, che la previsione di un trattamento differenziato non implica la violazione dell’art. 3 Cost., quando rispecchi la diversità delle situazioni regolate; ma la disparità di trattamento dovrebbe trovare fondamento nell’esigenza di protezione di valori sovraordinati – o, quanto meno, di pari valore – rispetto a quelli che vengono in rilievo nell’ambito della singola disciplina. Nell’ipotesi in esame, si tratterebbe segnatamente del principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione: principio che è alle origini della formazione dello Stato di diritto ed immanente al nostro ordinamento, il che spiegherebbe perché il Costituente abbia ritenuto di dover disciplinare analiticamente il sistema delle immunità e delle prerogative dei membri del Parlamento, conscio della deroga che a detto principio veniva in tal modo introdotta. Con la conseguenza che eventuali «tutele privilegiate», le quali trovino giustificazione nella specialità delle funzioni svolte – e implichino, in specie, la subordinazione di un principio fondante dell’ordinamento, come quello in parola, alla tutela della riservatezza – potrebbero essere previste solo da norme costituzionali, e non già da una legge ordinaria.

L’art. 6 della legge n. 140 del 2003 si porrebbe inoltre in contrasto, sotto diverso profilo, con gli artt. 3 e 24 Cost. Esso prevede, infatti, che se l’autorizzazione viene negata, la documentazione delle intercettazioni «è distrutta immediatamente, e comunque non oltre i dieci giorni dalla comunicazione del diniego» (comma 5); e che, in ogni caso, tutti i verbali e le registrazioni di comunicazioni acquisiti in violazione delle disposizioni dello stesso articolo «devono essere dichiarati inutilizzabili dal giudice in ogni stato e grado del procedimento» (comma 6). Poiché la disposizione è destinata ad operare in procedimenti riguardanti persone prive della qualità di parlamentare, il meccanismo così delineato implicherebbe che le predette persone possano andare esenti dalla giurisdizione – e, dunque, evitare di essere perseguite e condannate, anche per reati gravissimi – solo perché la prova del reato è stata raccolta con l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni cui ha preso parte un membro del Parlamento, beneficiando, in pratica, per tale circostanza casuale, di una vera e propria immunità. Si tratterebbe di una conseguenza sproporzionata rispetto all’entità dell’interesse in gioco – la privacy del parlamentare – la cui tutela finirebbe «con l’oscurare completamente il diritto alla prova delle parti»: tanto più che la prevista distruzione della documentazione, entro dieci giorni dal diniego dell’autorizzazione, non consentirebbe neppure alla Camera di rimeditare la propria decisione, alla luce di fatti nuovi.

Né, d’altra parte, potrebbe ritenersi che il problema trovi soluzione nella possibilità che la Camera conceda l’autorizzazione. A differenza, infatti, dei casi previsti dal secondo comma dell’art. 68 Cost. – nei quali il parametro per concedere l’autorizzazione dovrebbe identificarsi nel fumus persecutionis, e dunque in un parametro accertabile in concreto volta per volta – nei casi di intercettazione «indiretta» la lesione dell’interesse tutelato (la riservatezza del parlamentare) sarebbe in re ipsa, potendosi discutere soltanto della sua gravità. Ciò renderebbe del tutto discrezionale la valutazione della Camera, con «ovvi riflessi» sulla sua sindacabilità, anche in sede di conflitto di attribuzione, da parte della Corte costituzionale.

220

La disciplina censurata comprometterebbe, pertanto, non solo il principio di uguaglianza – sotto il duplice profilo della disparità di trattamento sia tra membro del Parlamento e chi non riveste tale carica; sia tra imputati raggiunti da prove consistenti in intercettazioni di conversazioni cui ha preso parte un parlamentare, e soggetti raggiunti da prove diverse – ma anche il diritto di difesa, garantito dall’art. 24 Cost. L’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni «indirette», in caso di mancata richiesta o di diniego dell’autorizzazione, potrebbe infatti risolversi in un grave ed irreparabile danno non soltanto per la parte civile, ma anche per lo stesso imputato: avuto riguardo, ad esempio, alle ipotesi – tutt’altro che teoriche – in cui le conversazioni risultassero idonee a scagionare uno dei coimputati; o alle ipotesi in cui acquisizioni probatorie successive consentissero di «rileggere» le conversazioni stesse in senso favorevole all’imputato.

Risulterebbe violato, altresì, di riflesso, l’art. 112 Cost., avuto riguardo all’esclusione o alla compressione dell’obbligo del pubblico ministero di esercitare l’azione penale, suscettibile di derivare dall’impossibilità di utilizzare i risultati delle intercettazioni in questione.

Il dubbio di costituzionalità investirebbe, d’altro canto – oltre al comma 2 dell’art. 6 della legge n. 140 del 2003 ed ai commi successivi dello stesso articolo, ad esso collegati – anche la norma transitoria di cui all’art. 7 della legge, che rende applicabile la disciplina censurata alle intercettazioni effettuate prima della sua entrata in vigore, purché non ancora utilizzate in giudizio. La questione sarebbe rilevante, per tal verso, in quanto alcune delle intercettazioni telefoniche, di cui si discute nel procedimento a quo, sono state effettuate prima dell’entrata in vigore della legge e non ancora utilizzate in giudizio, essendo il procedimento stesso nella fase delle indagini preliminari.

2. – Nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque infondata.

Ad avviso della difesa erariale, la questione sarebbe irrilevante a fronte dell’inapplicabilità dell’art. 6 della legge n. 140 del 2003 alla vicenda oggetto del procedimento a quo, nel quale non era stata captata alcuna conversazione che avesse come interlocutore un parlamentare. L’argomentazione svolta dalla Corte rimettente onde superare siffatta obiezione – dilatando la portata della norma all’ipotesi del «nuncius», di cui in essa non v’è traccia – sarebbe, d’altra parte, scarsamente convincente: trattandosi, infatti, di disciplina eccezionale, in quanto derogatoria rispetto alle regole dettate per la generalità dei cittadini, essa dovrebbe essere interpretata in senso restrittivo e strettamente letterale; inoltre, per il principio di conservazione delle norme, andrebbe sempre privilegiata la lettura che rende la disposizione compatibile con il dettato costituzionale.

Non sarebbe condivisibile neppure la premessa fondante del quesito di costituzionalità, secondo cui la norma impugnata, tutelando soltanto il diritto alla riservatezza del parlamentare, si porrebbe al di fuori dell’alveo dell’art. 68 Cost. La tutela della riservatezza del parlamentare rientrerebbe indubbiamente tra le finalità della norma; ma si tratterebbe di una protezione secondaria e riflessa, venendo in rilievo in prima battuta e con carattere assorbente la salvaguardia delle prerogative parlamentari e la libertà di esplicazione della funzione connessa al mandato elettivo: prospettiva nella quale la disposizione censurata risulterebbe, viceversa, compiutamente riconducibile alla previsione dell’art. 68 Cost., la quale giustificherebbe, dunque, il trattamento differenziato.

221

In via subordinata, la motivazione dell’ordinanza di rimessione dovrebbe essere valutata con attenzione soprattutto con riguardo al dedotto vulnus dell’inviolabilità del diritto di difesa dell’imputato; mentre risulterebbe meno problematico l’ipotizzato contrasto con il diritto di difesa delle altre parti private o con l’obbligatorietà dell’azione penale, conoscendo l’ordinamento varie ipotesi nelle quali i relativi principi subiscono deroghe, giustificate da altre esigenze di rango costituzionale.

3. – Nel giudizio di costituzionalità si è costituito S. D., persona sottoposta alle indagini e ricorrente nel procedimento a quo, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.

Ad avviso della parte privata, anche ad ammettere che la norma impugnata comporti una compressione dell’ambito di operatività degli artt. 3, 24 e 112 Cost., non per questo solo essa potrebbe essere ritenuta costituzionalmente illegittima: tale compressione sarebbe, infatti, frutto del bilanciamento con altro interesse di rango costituzionale, quale il diritto del parlamentare – riconducibile alla previsione dell’art. 68 Cost. – alla salvaguardia della propria sfera di riservatezza. Ciò tanto più a fronte del fatto che la protezione offerta dalla norma stessa non ha carattere assoluto, ma passa attraverso un duplice filtro: la valutazione iniziale del giudice per le indagini preliminari circa la rilevanza delle intercettazioni; e la successiva verifica della Camera di appartenenza del parlamentare, in sede di rilascio o diniego dell’autorizzazione.

4. – È intervenuto, inoltre, nel giudizio di costituzionalità il Senato della Repubblica, il quale ha sostenuto, in via preliminare, la propria legittimazione all’intervento: sia in quanto titolare del potere di autorizzazione all’utilizzazione delle intercettazioni «indirette» oggetto del quesito di costituzionalità, destinato ad essere immediatamente inciso da una eventuale pronuncia di accoglimento; sia, e comunque, in forza dell’art. 20 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), che riconosce in via generale agli organi dello Stato e delle Regioni il diritto di intervenire nei giudizi davanti alla Corte.

Nel merito, il Senato ha chiesto che la questione venga dichiarata infondata, dovendosi ritenere la disciplina censurata pienamente conforme al disposto del terzo comma dell’art. 68 Cost.

4.1. – L’assunto è stato ribadito nella memoria difensiva depositata dal Senato in prossimità dell’udienza pubblica, facendo leva sia sulla ratio della tutela prefigurata dalla norma costituzionale; sia sui lavori parlamentari relativi alla legge costituzionale n. 3 del 1993, con cui essa è stata introdotta; sia, infine, sulla prassi attuativa instauratasi anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 140 del 2003. Elementi tutti che confermerebbero come il precetto costituzionale – nel richiedere il vaglio autorizzatorio per sottoporre ad intercettazione i membri del Parlamento «in qualsiasi forma» – abbracci anche l’ipotesi in cui la captazione abbia luogo occasionalmente, nell’ambito di un’attività investigativa che ha come destinatario un terzo.

Considerato in diritto

1. – La Corte di cassazione dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 112 della Costituzione, dell’art. 6, commi 2, 3, 4, 5 e 6, e dell’art. 7 della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato).

222

Il primo dei due articoli oggetto di impugnativa disciplina le intercettazioni, effettuate in qualsiasi forma nel corso di procedimenti riguardanti terzi, di conversazioni o comunicazioni «alle quali hanno preso parte membri del Parlamento»: intercettazioni usualmente qualificate come «indirette» o «casuali», in quanto si presuppone che la captazione avvenga nella cornice di un’attività investigativa che non ha ab origine come destinatario il parlamentare. La norma prevede, in specie – nella parte denunciata – che il giudice per le indagini preliminari, qualora, su istanza di una parte processuale e sentite le altre parti, ritenga necessario utilizzare le intercettazioni in parola (ovvero i tabulati di comunicazioni acquisiti nel corso dei medesimi procedimenti: ipotesi peraltro non rilevante nel giudizio a quo), debba richiedere, nei dieci giorni successivi alla relativa decisione, l’autorizzazione della Camera alla quale il membro del Parlamento appartiene (o apparteneva al momento in cui le conversazioni o comunicazioni sono state intercettate). In caso di diniego dell’autorizzazione, la documentazione delle intercettazioni deve essere distrutta immediatamente, e comunque non oltre i dieci giorni dalla comunicazione del diniego; inoltre, tutti i verbali e le registrazioni di comunicazioni acquisiti in violazione del disposto dello stesso art. 6 devono essere dichiarati inutilizzabili dal giudice, in ogni stato e grado del processo.

La Corte rimettente muove dalla premessa interpretativa per cui – alla luce tanto della valenza attribuibile alla formula verbale «prendere parte», che della ratio di tutela della riservatezza del parlamentare sottesa alla disciplina considerata – la norma sarebbe destinata a trovare applicazione non soltanto nel caso di captazione fortuita di conversazioni o comunicazioni cui il membro del Parlamento abbia preso parte personalmente; ma anche quando l’intercettazione abbia ad oggetto conversazioni o comunicazioni di altra persona che si sia limitata a riferire, quale mero «nuncius», un messaggio del parlamentare. Interpretazione, questa, che renderebbe il quesito di costituzionalità rilevante nel giudizio a quo, nel quale si discute della legittimità di una misura cautelare personale fondata esclusivamente sui risultati di intercettazioni «casuali» di telefonate che il ricorrente – privo della qualità di parlamentare – avrebbe effettuato in veste, per l’appunto, di semplice latore di messaggi provenienti da un senatore.

Escluso, per altro verso, che la sfera di operatività della disciplina censurata possa essere circoscritta – nell’ottica di un’interpretazione «costituzionalmente orientata» – ai soli casi in cui, a seguito dell’intercettazione, il parlamentare assuma la qualità di persona sottoposta alle indagini, il giudice a quo ritiene che la disciplina stessa ecceda l’ambito della tutela accordata alla funzione parlamentare dall’art. 68, terzo comma, Cost.: tutela consistente nella previsione per cui, senza l’autorizzazione della Camera alla quale appartengono, i membri del Parlamento non possono essere sottoposti «ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni». A fronte sia del dato letterale (l’impiego del verbo «sottoporre»), che dell’«impianto complessivo» della norma costituzionale – da cui trasparirebbe l’intento di offrire al parlamentare una speciale protezione per atti da lui direttamente compiuti o che lo riguardano personalmente – l’anzidetta tutela dovrebbe ritenersi infatti limitata alle sole intercettazioni «dirette»: senza che possa invocarsi, in senso contrario, l’inciso «in qualsiasi forma», trattandosi di locuzione riferibile esclusivamente alle diverse modalità di captazione dei messaggi e ai differenti mezzi di comunicazione intercettati.

Non potendo trovare, dunque, una base di legittimazione nel citato art. 68, terzo comma, Cost., l’estensione della garanzia alle intercettazioni «indirette», operata dalla norma

223

denunciata, verrebbe a porsi irrimediabilmente in contrasto con una pluralità di parametri costituzionali.

Risulterebbe compromesso, anzitutto, l’art. 3 Cost., essendosi introdotte con legge ordinaria deroghe ad un principio fondante dello Stato di diritto – quello di parità di trattamento dei cittadini rispetto alla giurisdizione – che implicherebbero la sua subordinazione ad un interesse di minor rango, quale la riservatezza del parlamentare: operazione che solo una norma costituzionale avrebbe potuto viceversa compiere.

Il principio di uguaglianza sarebbe leso, peraltro, anche sotto un diverso profilo. Prevedendo la distruzione immediata della documentazione delle intercettazioni nel caso di diniego dell’autorizzazione, e l’inutilizzabilità dei verbali e delle registrazioni acquisiti in violazione dei divieti, la norma impugnata farebbe sì che persone prive della qualità di parlamentare possano evitare di essere perseguite e condannate, anche per reati di particolare gravità, grazie ad una circostanza casuale: quella, cioè, che la prova del reato scaturisca, nei loro confronti, dall’intercettazione di conversazioni o comunicazioni cui ha preso parte un membro del Parlamento; conseguenza, questa, da ritenere sproporzionata rispetto all’entità dell’interesse in gioco (la privacy del parlamentare).

Sarebbe violato, in pari tempo, l’art. 24 Cost., potendo le previsioni censurate determinare un irreparabile pregiudizio del diritto di difesa non soltanto della parte civile, ma anche dello stesso imputato, avuto riguardo all’ipotesi in cui le conversazioni intercettate risultassero idonee a scagionarlo o potessero essere comunque «rilette», a seguito di successive acquisizioni, in senso a lui favorevole.

Di riflesso, si riscontrerebbe anche una lesione dell’art. 112 Cost., per la compressione dell’obbligo del pubblico ministero di esercitare l’azione penale che deriverebbe dall’impossibilità di utilizzare i risultati del mezzo investigativo in oggetto.

Il dubbio di costituzionalità si estenderebbe anche all’art. 7 della legge n. 140 del 2003, nella parte in cui rende applicabili le disposizioni dell’art. 6 ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della suddetta legge, allorché – come nel giudizio a quo – le intercettazioni non siano già state utilizzate in giudizio.

2. – L’intervento del Senato della Repubblica nel giudizio di legittimità costituzionale non è ammissibile.

Il Senato ha sostenuto la propria legittimazione ad intervenire sulla base di un duplice rilievo: da un lato, la pronuncia di questa Corte inciderebbe direttamente sulla propria funzione di autorizzazione all’utilizzazione delle intercettazioni «indirette», che trae titolo dall’art. 68, terzo comma, Cost. e dall’art. 6 della legge n. 140 del 2003, oggetto, appunto, dello scrutinio di costituzionalità; dall’altro lato, l’art. 20, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 prevede espressamente che «gli organi dello Stato e delle Regioni hanno il diritto di intervenire in giudizio», confermando, così, la «naturale» legittimazione dell’organo, che sia portatore di un interesse qualificato dal collegamento alle proprie funzioni costituzionali, ad essere presente nel giudizio stesso, a prescindere da ogni ulteriore considerazione.

Riguardo a tale ultimo argomento, questa Corte ha già avuto peraltro occasione di chiarire come il secondo comma dell’art. 20 della legge n. 87 del 1953 detti una previsione generale volta a regolare esclusivamente la rappresentanza e difesa nel giudizio davanti

224

alla Corte, stabilendo che – a differenza di quanto è previsto per il Governo, rappresentato dall’Avvocato generale dello Stato (terzo comma), e per le altre parti, le cui rappresentanza e difesa possono essere affidate soltanto ad avvocati abilitati al patrocinio innanzi alla Corte di cassazione (primo comma) – per gli organi dello Stato e delle Regioni non è richiesta una difesa professionale: il che, peraltro, «non riguarda, né vale a modificare, la disciplina della legittimazione ad essere parte o ad intervenire in giudizio» (cfr. sentenza n. 350 del 1998).

Neppure il primo argomento addotto dal Senato può essere tuttavia condiviso. Nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale, infatti, ciò che forma oggetto di scrutinio – e dunque di contraddittorio – è la conformità alla Costituzione o ad una legge costituzionale di una norma avente forza di legge, in correlazione, peraltro, con le posizioni soggettive che quella norma ha coinvolto nel giudizio principale, o che in relazione ad esso possono venir coinvolte. Resta, invece, affidato al Presidente del Consiglio dei ministri o al Presidente della Giunta regionale – a seconda che si tratti di legge statale o regionale – il ruolo di interventori ex lege (art. 25, terzo comma, della legge n. 87 del 1953).

La disciplina del giudizio incidentale non contempla, per contro, né esplicitamente né implicitamente, una concorrente facoltà di intervento di ulteriori organi o poteri dello Stato, estranei per definizione al giudizio a quo – come, nella specie, il Senato della Repubblica – quante volte il sindacato di costituzionalità verta su norme che riconoscano loro determinate attribuzioni, ancorché ricollegabili, in tesi, a previsioni di rango costituzionale; attribuzioni alla cui tutela è invero predisposto il distinto strumento del conflitto. Detta facoltà di intervento non potrebbe in effetti prescindere da una specifica previsione, che ne definisse gli esatti contorni e le finalità nel panorama delle tutele e dei meccanismi di contenzioso costituzionale, finendo altrimenti l’intervento stesso per sovrapporsi a quello “istituzionale” del Presidente del Consiglio dei ministri.

Nell’assenza di una simile previsione, l’intervento del Senato non può pertanto essere ammesso.

3. – La questione sollevata è inammissibile.

La Corte rimettente basa l’affermazione della rilevanza di essa nel giudizio a quo sull’assunto che la disciplina delle intercettazioni «indirette», oggetto di censura, sarebbe applicabile non soltanto alle conversazioni o comunicazioni cui il membro del Parlamento partecipi personalmente; ma anche a quelle intrattenute da altro soggetto «che si limiti a trasmettere la volontà e le manifestazioni del pensiero» del parlamentare, quale semplice «nuncius» di quest’ultimo.

Tale premessa non è condivisibile. Contrariamente a quanto sostenuto nell’ordinanza di rimessione, alla stregua del comune significato dell’espressione, «prende parte» ad una conversazione o comunicazione chi interloquisce in essa: non colui su mandato del quale uno degli interlocutori interviene, sia pure nella veste di mero portavoce.

La Corte rimettente trascura altresì un argomento di segno contrario alla soluzione interpretativa proposta, ricavabile dall’iter parlamentare della legge n. 140 del 2003: vale a dire l’avvenuta soppressione, ad opera del Parlamento, della previsione – contenuta nel testo originario dei progetti di legge – che estendeva il regime dell’autorizzazione anche alle intercettazioni, effettuate nel corso di procedimenti riguardanti terzi, di conversazioni o comunicazioni nelle quali si fosse semplicemente «fatta menzione» di membri del

225

Parlamento. Ancorché il «far menzione» di un parlamentare sia indubbiamente concetto più ampio e generico rispetto al fungere da portavoce del medesimo, la caduta della previsione ora ricordata potrebbe essere comunque letta come indice dell’intento del legislatore ordinario di escludere che il meccanismo autorizzatorio sia destinato a scattare anche a fronte della mera “riferibilità” al membro del Parlamento dei contenuti della conversazione intercettata, fuori dei casi di una sua partecipazione personale e diretta ad essa.

Va poi osservato come il percorso interpretativo, dal quale l’ordinanza di rimessione deriva il giudizio di rilevanza, si presenti intrinsecamente contraddittorio rispetto a quello che sorregge la successiva affermazione della non manifesta infondatezza della questione.

La Corte rimettente, difatti, dapprima motiva la rilevanza della questione facendo leva su una interpretazione lata della norma impugnata – quanto alla formula «prendere parte» – giustificandola essenzialmente con l’esigenza di assicurare una garanzia piena, e non dimidiata, all’interesse da essa protetto. Subito dopo, però, sostiene la non manifesta infondatezza di tale questione sulla scorta di una interpretazione restrittiva della norma costituzionale di riferimento – l’art. 68, terzo comma, Cost. − quanto all’asserita inidoneità dell’inciso «in qualsiasi forma» ad abbracciare le intercettazioni «indirette».

Tale contrastante atteggiamento interpretativo non appare adeguatamente giustificato e motivato, posto che anche in rapporto alla locuzione «in qualsiasi forma», contenuta nel precetto costituzionale, sarebbe astrattamente proponibile – ed è stata in fatto proposta – una interpretazione ampiamente comprensiva, basata sulla ratio del privilegio di cui si discute.

A tutto ciò si aggiunga che, in ogni caso, una volta che la Corte rimettente reputi costituzionalmente illegittima la norma impugnata, in ragione della asserita radicale estraneità delle intercettazioni indirette al perimetro di protezione tracciato dall’art. 68, terzo comma, Cost., essa avrebbe dovuto logicamente privilegiare, tra le diverse letture possibili, quella che riduce l’“area di incostituzionalità”, in ossequio al generale canone dell’interpretazione secundum constitutionem; e non già quella che la amplifica. È lo stesso giudice a quo, infatti, a dire che l’estensione all’ipotesi del «nuncius» sarebbe «consentita», e non già rigidamente «imposta» dalla formula della legge.

Risultando, in conclusione, la premessa interpretativa che fonda il giudizio di rilevanza non condivisibile e comunque sostanzialmente contraddittoria, rispetto al tenore complessivo del quesito, la questione va dichiarata inammissibile.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile l’intervento del Senato della Repubblica;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, commi 2, 3, 4, 5 e 6, e dell’art. 7 della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 112 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l’ordinanza indicata in epigrafe.

226

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 aprile 2005.

F.to:

Fernanda CONTRI, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Depositata in Cancelleria il 21 aprile 2005.

227

SENTENZA N. 241 DEL 2007

REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori:- Franco BILE Presidente- Giovanni Maria FLICK Giudice- Francesco AMIRANTE ”- Ugo DE SIERVO ”- Paolo MADDALENA ”- Alfio FINOCCHIARO ”- Alfonso QUARANTA ”- Franco GALLO ”- Luigi MAZZELLA ”- Gaetano SILVESTRI ”- Sabino CASSESE ”- Maria Rita SAULLE ”- Giuseppe TESAURO ”- Paolo Maria NAPOLITANO ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della nota del 21 settembre 2005 (prot. n. 2005/0001389/SG-CIV) emessa dalla Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, nonché dell’atto del 17 settembre 2005 (prot. n. 3490/ALPI) del Presidente della medesima Commissione, onorevole Carlo Taormina, promosso con ricorso della Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Roma notificato il 10 marzo 2006, depositato in cancelleria il 22 marzo 2006 ed iscritto al n. 37 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2005, fase di merito. Visto l’atto di costituzione della Camera dei deputati;udito nell’udienza pubblica del 5 giugno 2007 il Giudice relatore Alfonso Quaranta; uditi il dottor Franco Ionta per la Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Roma e l’avvocato Massimo Luciani per la Camera dei deputati.

Ritenuto in fatto

1. La Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Roma ha promosso, con ricorso depositato pressa la cancelleria della Corte il 5 ottobre 2005, conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.

228

1.1. La ricorrente premette di aver appreso da organi di stampa «dell’arrivo in Italia della vettura Toyota a bordo della quale, presumibilmente, furono uccisi Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, il 20 marzo 1994», e di aver pertanto avviato – nel settembre del 2005 – uno scambio di corrispondenza con la citata Commissione parlamentare, segnalando «l’opportunità dello svolgimento congiunto degli accertamenti tecnici sul predetto veicolo», necessari a ciascuna delle due autorità per l’espletamento dell’attività di indagine di rispettiva competenza.Deduce, tuttavia, che il Presidente della predetta Commissione – pur informata la Procura che l’organo parlamentare in questione aveva «preso in carico, previo sequestro, l’autovettura», disponendo «anche a norma dell’art. 360 c.p.p.» degli «accertamenti tecnici», taluni dei quali «di natura irripetibile» – comunicava, con nota (prot. n. 2005/0001389/SG-CIV) pervenuta alla medesima Procura il 21 settembre 2005, di non potere «aderire alla richiesta» formulata, «significando che, tra l’altro, l’atto deliberativo di istituzione della Commissione», dal medesimo presieduta, «impone accertamenti non solo sul fatto e sui responsabili, ma anche sulle carenze istituzionali, comprese quelle attribuibili ai molteplici passaggi giudiziari che hanno interessato la vicenda». Per l’annullamento di tale nota – e dell’atto, adottato dal Presidente della citata Commissione parlamentare in data 17 settembre 2005 (prot. n. 3490/ALPI), con il quale è stato conferito «incarico peritale» al dott. Alfredo Luzi, «volto allo svolgimento di accertamenti tecnici, anche di natura irripetibile, sulla vettura in questione» – ha proposto il presente conflitto di attribuzione la Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Roma, svolgendo le seguenti considerazioni.

1.2. La ricorrente evidenzia, innanzitutto, come la possibilità di configurare un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato postuli – ex art. 37, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 – che lo stesso insorga «tra organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono». Tali organi sono identificati dalla giurisprudenza costituzionale in quelli «i cui atti o comportamenti siano idonei a configurarsi come espressione ultima ed immodificabile dei rispettivi poteri: nel senso che nessun altro organo, all’interno di ciascun potere, sia abilitato ad intervenire d’ufficio o dietro sollecitazione del potere controinteressato rimuovendo o provocando la rimozione dell’atto o del comportamento che si assumono lesivi» (sono citate le ordinanze n. 229 e n. 228 del 1975). Tra detti organi, pertanto, sono stati inclusi – prosegue la ricorrente – tanto i «singoli giudici, in considerazione segnatamente del carattere “diffuso” che contrassegna il potere giudiziario», quanto gli «organi requirenti», relativamente «all’attribuzione, costituzionalmente individuata, dell’esercizio dell’azione penale» (vengono richiamate le sentenze n. 150 del 1981 e n. 231 del 1975, nonché l’ordinanza n. 132 del 1981).Egualmente indubbia – secondo la Procura ricorrente – è la legittimazione passiva della Commissione parlamentare di inchiesta, avendo precisato la Corte, «fin dal 1975», che «a norma dell’art. 82 Cost., la potestà riconosciuta alle Camere di disporre inchieste su materie di pubblico interesse non è esercitabile altrimenti che attraverso la interposizione di Commissioni a ciò destinate, delle quali può ben dirsi perciò che, nell’espletamento e per la durata del loro mandato, sostituiscono ope constitutionis lo stesso Parlamento, dichiarandone perciò e definitivamente la volontà ai sensi del primo comma dell’art. 37» della legge n. 87 del 1953 (sono richiamate la sentenza n. 231 del 1975 e le ordinanze n. 229 e n. 228 del 1975). Alla stregua, quindi, delle considerazioni che precedono «è possibile concludere» – si legge ancora nel ricorso – che la Procura di Roma e la Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin «sono soggetti legittimati,

229

rispettivamente dal lato attivo e dal lato passivo, ad essere parti di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato».

1.3. «Quanto ai requisiti di ordine oggettivo», prosegue la ricorrente, deve rilevarsi come la Corte abbia «da tempo superato la restrittiva nozione di conflitto di attribuzione come vindicatio potestatis, riconoscendo l’ammissibilità del cosiddetto “conflitto per interferenza” o “conflitto da menomazione”» (sono richiamate le sentenze n. 126 del 1994, n. 473 del 1992, n. 204 del 1991 e n. 731 del 1988), ipotizzabile «quando un organo, pur non rivendicando a sé la competenza a compiere un determinato atto, denuncia che un atto oppure un comportamento omissivo di un altro organo abbiano menomato la sua competenza o ne abbiano impedito l’esercizio».Orbene, siffatta evenienza – nella prospettiva della ricorrente – sussisterebbe proprio nel caso di specie.Se è innegabile – osserva sempre la ricorrente – che la Commissione parlamentare suddetta ha «il potere di compiere atti di indagine» (ex art. 82, secondo comma, Cost.), tuttavia la decisione dalla stessa assunta «di procedere autonomamente ad accertamenti sul veicolo», con esclusione della possibilità di analogo intervento dell’autorità giudiziaria, «provoca un pregiudizio alla Procura perché le impedisce di esercitare le funzioni che le attribuisce la Costituzione». Essendo, difatti, paralizzato «il proseguimento delle indagini» – tuttora in corso «presso la Procura della Repubblica di Roma (proc. n. 6403/98 R.G.)» – si impedisce alla ricorrente «di raccogliere tutti gli elementi necessari ai fini delle proprie determinazioni in ordine all’esercizio dell’azione penale», con palese violazione del principio della obbligatorietà della stessa, «sancito dall’art. 112 della Costituzione», oltre che di quelli «di indipendenza ed autonomia della magistratura» (ex artt. 101, 104 e 107 Cost.). Risulta, in particolare, preclusa la possibilità «di sottoporre a sequestro l’autovettura a bordo della quale viaggiavano Ilaria Alpi e Miran Hrovatin», e con essa quella «di effettuare rilevamenti ed accertamenti sul veicolo stesso ai fini dell’esatta ricostruzione della dinamica dei fatti, attività queste tutte essenziali nell’ambito del procedimento penale in oggetto e la cui mancata effettuazione ha determinato una vera e propria paralisi» del medesimo.In tal modo, oltretutto, si contravviene a quella «opportunità di un effettivo coordinamento tra la Commissione e le strutture giudiziarie» presa in considerazione «all’atto dell’istituzione della stessa Commissione con Deliberazione della Camera dei Deputati del 31 luglio 2003 (art. 6, comma 3) nonché nel regolamento interno approvato dalla Commissione nella seduta del 4 febbraio 2004 (art. 22, comma 1)».

1.4. Su tali basi, pertanto, la Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Roma ha proposto il presente conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, nei confronti della Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, chiedendo – previa declaratoria di non spettanza, alla predetta Commissione, del potere di adottarla – l’annullamento della nota del 21 settembre 2005 (prot. n. 2005/0001389/SG-CIV) emessa dalla medesima Commissione (con la quale quest’ultima ha rifiutato di aderire alla richiesta della ricorrente di valutare «l’opportunità dello svolgimento congiunto di accertamenti tecnici»), nonché l’annullamento, per l’effetto, anche dell’atto del 17 settembre 2005 (prot. n. 3490/ALPI) con cui la stessa – in persona del suo Presidente, on. Carlo Taormina – ha conferito incarico peritale al dott. Alfredo Luzi.

2. All’esito della camera di consiglio del 20 febbraio 2006, il presente conflitto è stato dichiarato ammissibile, con l’ordinanza n. 73 del 24 febbraio 2006.

230

In data 10 marzo 2006, il ricorso introduttivo e la predetta ordinanza sono stati notificati – come da richiesta del giorno 1° marzo della Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Roma – alla Commissione parlamentare di inchiesta, in persona del suo Presidente.

3. Con memoria depositata presso la cancelleria della Corte il 29 marzo 2006 si è costituita in giudizio la Camera dei deputati dichiaratamente allo scopo di «far constatare l’avvenuta cessazione della Commissione parlamentare d’inchiesta» suddetta, nonché per «fare emergere le circostanze in virtù delle quali sembrano essere ormai venute meno le ragioni stesse del conflitto», su tali basi, dunque, chiedendo che il presente conflitto «sia dichiarato irricevibile, improcedibile ovvero inammissibile».

3.1. Premette la Camera dei deputati – nell’eccepire, preliminarmente, che il conflitto sarebbe «irricevibile e comunque improcedibile e inammissibile per nullità assoluta della notificazione» – che, con deliberazione del 22 dicembre 2005, la conclusione dei lavori della predetta Commissione parlamentare, inizialmente stabilita entro sei mesi dalla sua costituzione, ma già più volte prorogata, era stata definitivamente fissata «entro la data di scioglimento delle Camere e comunque non oltre il 28 febbraio 2006».Orbene, essendosi svolta in data 23 febbraio 2006 l’ultima seduta della Commissione (nel corso della quale è stata approvata la relazione finale e sono state date disposizioni per gli incombenti amministrativi del caso), da tale circostanza dovrebbe dedursi che la stessa – già al momento della decisione della Corte sull’ammissibilità del conflitto, depositata il successivo 24 febbraio – «non esisteva più come soggetto costituzionale», atteso che l’esercizio della funzione di inchiesta verrebbe ad esaurirsi proprio con l’approvazione della relazione finale, non potendo, così, la Commissione, successivamente all’espletamento di tale attività, «essere parte di alcun conflitto di attribuzione». Né, d’altra parte, potrebbe addursi la circostanza che la suddetta decisione della Corte risulta adottata nella camera di consiglio del 20 febbraio e solo depositata in cancelleria il successivo giorno 24, in quanto – sebbene l’art. 18, comma 1, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale stabilisca che la data delle pronunce della Corte è quella della deliberazione in camera di consiglio – è unicamente con la loro pubblicazione in cancelleria che le stesse «possono determinare i loro effetti», secondo quanto stabilito dagli artt. 19, 29 e 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87, oltre che dallo stesso art. 136 della Costituzione.Tuttavia, anche a volere ritenere il contrario, e dunque ad attribuire rilievo al fatto che nella seduta conclusiva del 23 febbraio 2006 la predetta Commissione abbia autorizzato il suo Presidente al coordinamento formale e alla materiale trasmissione della relazione alla Camera dei deputati, ciò nondimeno il presente conflitto risulterebbe «pur sempre proposto nei confronti di un organo non più esistente». Difatti, la notificazione del ricorso e dell’ordinanza di ammissibilità del conflitto risulta essere stata richiesta solo il 1° marzo 2006, nonché effettuata il successivo 10 marzo, e pertanto «oltre il termine dei lavori della Commissione e comunque oltre il termine finale, non più prorogato, del 28 febbraio 2006».Ad una diversa conclusione, inoltre, non sarebbe possibile pervenire rilevando che il conflitto risulta introdotto – mediante il deposito del ricorso, effettuato il 5 ottobre 2005 – quando la Commissione era ancora in vita, giacché siffatta conclusione contrasterebbe con il riconoscimento della «struttura bifasica» del giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato (è citata, in proposito, quale pronuncia capofila dell’indirizzo giurisprudenziale che ha enunciato tale principio, la sentenza della Corte costituzionale n. 116 del 2003).In altri termini, il conflitto – secondo la Camera dei deputati – «esiste solo con il superamento della fase dell’ammissibilità», nonché all’ulteriore condizione – come

231

sarebbe stato possibile evincere già dalla sentenza n. 7 del 1996, e come avrebbe definitivamente confermato la sentenza n. 449 del 1997 (e il complessivo indirizzo giurisprudenziale al quale tale decisione ha dato origine) – che il ricorrente abbia adempiuto «l’onere di introdurre correttamente la seconda fase». È proprio la ricorrenza di tale seconda evenienza che deve, invece, escludersi nel caso di specie, atteso che la notificazione «è da intendersi come affetta da nullità assoluta, in quanto indirizzata ad organo non più esistente».Del resto, che nell’ipotesi in esame il solo soggetto legittimato ad essere parte – dal lato passivo – dell’ipotizzato conflitto fosse esclusivamente la predetta Commissione di inchiesta è quanto emerge dall’esame della giurisprudenza costituzionale.Difatti, con la sentenza n. 231 del 1975, la Corte ha identificato nelle Commissioni parlamentari all’uopo costituite i soli soggetti legittimati ad esercitare i poteri d’inchiesta ex art. 82 Cost., ribadendo quanto già affermato nelle ordinanze n. 229 e n. 228 del 1975, ovvero che tali organi – pur sempre, però, «nell’espletamento e per la durata del loro mandato» – «sostituiscono, ope constitutionis, lo stesso Parlamento, dichiarandone perciò “definitivamente la volontà” ai sensi del primo comma dell’art. 37» della legge n. 87 del 1953. Conclusioni confermate – si sottolinea – anche dalla dottrina costituzionalistica, secondo cui ogni Commissione parlamentare d’inchiesta «è un potere a sé stante, che non può essere confuso con la Camera che l’ha istituita», di talché, esaurito il suo mandato, i poteri dei quali essa era munita «non sono concretamente esercitabili in quanto non vi è più l’organo che ne era titolare».Su tali basi, dunque, la Camera dei deputati reputa quello in esame «un vero e proprio “conflitto impossibile”, in quanto è stato evocato in giudizio, quale contraddittore (notificatario) della Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Roma un soggetto costituzionale ormai non più esistente». Come, quindi, in altri casi analoghi – sono menzionate le sentenze n. 30 del 2002 e n. 252 del 1999 – la Corte costituzionale non dovrebbe ammettere lo scrutinio nel merito, venendo in rilievo «un caso di nullità assoluta», imputabile alla circostanza che «il ricorrente ha indicato come potere al quale notificare il ricorso un soggetto che non poteva essere assunto quale idoneo confliggente (appunto in quanto non esisteva più)».Né si potrebbe ritenere che, estinta la Commissione parlamentare, il giudizio debba proseguire nei confronti della Camera dei deputati ai sensi degli artt. 110 e 299 del codice di procedura civile.Premesso, invero, che – secondo quanto stabilito dall’art. 22 delle già richiamate norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale – le «norme sulla sospensione, interruzione ed estinzione del processo non si applicano ai giudizi davanti la Corte costituzionale», deve escludersi la possibilità di ravvisare, nel caso di specie, un fenomeno lato sensu successorio, e ciò sebbene «i principi generali in materia di diritto di difesa (di cui agli artt. 24 e 111 Cost.)» siano comunque idonei, secondo la difesa della Camera dei deputati, a legittimare la costituzione in giudizio di quest’ultima, perché di essa «la Commissione è (stata) organo». Ad escludere, difatti, la successione della Camera dei deputati nella posizione della Commissione d’inchiesta dovrebbero valere i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità, secondo i quali l’applicabilità dell’art. 299 cod. proc. civ. presuppone che via sia già stata la vocatio in ius, ai fini della validità della quale, a sua volta, è necessaria «l’esistenza attuale delle parti» (è citata, in particolare, la sentenza della Corte di cassazione, sezione terza, 5 dicembre 1994, n. 10437).Inoltre, dal momento che la circostanza dell’avvenuta cessazione – in data 28 febbraio 2006 – dell’attività della predetta Commissione parlamentare risultava pienamente conoscibile dalla ricorrente, neppure potrebbe trovare applicazione il principio enunciato dalla giurisprudenza costituzionale, secondo il quale, verificatasi la morte o l’estinzione di

232

una delle parti del giudizio, sarebbe necessario impedire «il verificarsi dell’effetto lesivo dei diritti della parte incorsa in errore incolpevole» (sentenza n. 27 del 2000). Si tratta, per contro, di «portare ad effetto il principio di diligenza del notificante», già ritenuto dalla Corte applicabile – sentenza n. 247 del 2004 – al giudizio per conflitto di attribuzione. A nulla, poi, varrebbe invocare la previsione – richiamata dall’art. 22 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale – contenuta nell’art. 92 del regio decreto 17 agosto 1907, n. 642 (Regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato), secondo cui la «morte» o «il cangiamento di stato di una delle parti non sospende la procedura», atteso che, ad evitare che una procedura sia sospesa, occorre pur sempre che la stessa sia stata validamente introdotta. Su tali basi, quindi, la Camera dei deputati chiede che il presente conflitto venga dichiarato «irricevibile e comunque improcedibile e inammissibile per nullità assoluta della notificazione».

3.2. In subordine, la Camera dei deputati ipotizza «l’improcedibilità del conflitto per sopravvenuta carenza di interesse» (viene richiamata la sentenza n. 462 del 1993).Si premette, al riguardo, che nel giudizio per conflitto di attribuzione, non il solo thema decidendum, ma anche l’interesse del ricorrente risulta definito nei termini in cui il contenuto del ricorso è ricostruito dall’ordinanza di ammissibilità (sentenza n. 7 del 1996; ordinanza n. 470 del 1995), emessa dalla Corte nell’esercizio del suo amplissimo potere di conformazione del giudizio (sentenza n. 116 del 2003). Tanto premesso, poiché, nella specie, il giudizio è configurato non come vindicatio potestatis, bensì come conflitto da menomazione, la circostanza che la Commissione parlamentare non soltanto abbia concluso i suoi lavori, ma abbia messo a disposizione della ricorrente autorità giudiziaria «i verbali degli accertamenti già compiuti e anche – materialmente – l’autovettura sulla quale erano stati effettuati», denoterebbe il superamento di quella situazione di «paralisi del procedimento» penale che ha indotto la Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Roma a promuovere il presente conflitto.Orbene, poiché quello per conflitto di attribuzione «non è un astratto giudizio sull’astratto ordine costituzionale delle attribuzioni, ma un giudizio concreto su una concreta menomazione di una ben determinata attribuzione», ne consegue che, una volta rimosso il pregiudizio derivante dalla lamentata menomazione, ovvero divenutane impossibile la rimozione, una pronuncia “accademica” della Corte si presenterebbe in contrasto con lo stesso onere di formulazione di una domanda concreta posto dalla giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 31 e n. 15 del 2002) a carico della parte ricorrente.Su tali basi – e non senza rammentare due pronunce della Corte che, rispettivamente, hanno dichiarato improcedibili altrettanti conflitti, l’uno promosso dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Caltanissetta, essendo «venuto a cadere ogni ostacolo» all’esercizio delle sue attribuzioni (sentenza n. 464 del 1993), l’altro per essere cessato ogni interesse pratico dell’autorità giudiziaria ricorrente ad ottenere una pronuncia nel merito, in ragione dell’avvenuta estinzione del reato oggetto del giudizio pendente innanzi ad essa (sentenza n. 204 del 2005) – la Camera dei deputati conclude affinché il presente conflitto sia dichiarato irricevibile, improcedibile ovvero inammissibile.

4.— La Camera dei deputati, nell’imminenza dell’udienza pubblica di discussione, ha depositato un’ulteriore memoria, ribadendo le conclusioni già rassegnate.

5.— All’udienza pubblica di discussione è comparsa – ai sensi dell’art. 37, ultimo comma, della legge 11 marzo del 1953, n. 87 – la ricorrente autorità giudiziaria, in persona del dott. Franco Ionta, all’uopo delegato dal Procuratore della Repubblica.

233

Ribadite le ragioni a sostegno dell’iniziativa assunta, la ricorrente ha replicato alle eccezioni preliminari svolte dalla Camera dei deputati.In particolare, quanto all’ipotizzata nullità assoluta che inficerebbe la notificazione del ricorso e dell’ordinanza che ha dichiarato ammissibile il conflitto, la Procura ricorrente ha dedotto di aver espletato tale adempimento nei riguardi del soggetto identificato, quale contraddittore, nell’ordinanza adottata dalla Corte all’esito della fase preliminare del giudizio. Quanto, poi, alla supposta improcedibilità del conflitto, la ricorrente ha rilevato che tale evenienza non può certo ritenersi integrata dalla mera “messa a disposizione” dell’accertamento tecnico non ripetibile, svolto su incarico della Commissione d’inchiesta. Difatti, la determinazione in tal senso assunta dal predetto organismo parlamentare, nella sua assoluta atipicità nel panorama degli istituti contemplati dal codice di procedura penale per la collaborazione tra organi investigativi, non potrebbe consentire alla ricorrente medesima di utilizzare le risultanze dell’indagine tecnica aliunde espletata, ciò che conferma, quindi, il persistente interesse a conseguire l’annullamento degli atti oggetto del conflitto.

Considerato in diritto

1.— La Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Roma ha promosso conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.In particolare, la ricorrente si duole del fatto che la predetta Commissione, conferito – con atto emesso dal suo Presidente il 17 settembre 2005 (prot. n. 3490/ALPI) – incarico peritale per l’espletamento di accertamenti tecnici anche non ripetibili sull’autovettura a bordo della quale la Alpi ed il Hrovatin viaggiavano in occasione dell’attentato nel quale persero la vita, con nota pervenuta alla ricorrente il 21 settembre 2005 (prot. n. 2005/0001389/SG-CIV) ha rifiutato di acconsentire allo svolgimento di accertamenti tecnici congiunti sulla predetta autovettura.Ritenendo che la Commissione parlamentare, attraverso tali atti, le abbia impedito «di raccogliere tutti gli elementi necessari ai fini delle proprie determinazioni in ordine all’esercizio dell’azione penale», con palese violazione del principio della obbligatorietà della stessa, «sancito dall’art. 112 della Costituzione», oltre che di quelli «di indipendenza ed autonomia della magistratura» (ex artt. 101, 104 e 107 Cost.), la ricorrente ha chiesto l’annullamento di tali atti, previa declaratoria della non spettanza, alla Commissione suddetta, del potere di adottarli.

2. Si è costituita in giudizio la Camera dei deputati, al solo scopo di chiedere che sia fatta «constatare l’avvenuta cessazione della Commissione parlamentare d’inchiesta», nonché che siano fatte «emergere le circostanze in virtù delle quali sembrano essere ormai venute meno le ragioni stesse del conflitto», sicché questo dovrebbe essere «dichiarato irricevibile, improcedibile ovvero inammissibile».

2.1. A giudizio della Camera, sotto un primo profilo, difatti, dovrebbe pervenirsi a tale conclusione in ragione della «nullità assoluta della notificazione», per essere stata effettuata il 10 marzo 2006 nei confronti di un soggetto non più esistente a tale data. In realtà, secondo la deducente Camera dei deputati, la stessa declaratoria di ammissibilità del conflitto – adottata da questa Corte con ordinanza depositata in cancelleria il 24 febbraio 2006 – risulterebbe intervenuta quando la Commissione parlamentare «non esisteva più come soggetto costituzionale», atteso che l’esercizio della

234

funzione di inchiesta si sarebbe esaurito con l’approvazione della relazione finale, adempimento espletato il 23 febbraio 2006. In ogni caso, poi, la notificazione del ricorso e dell’ordinanza di ammissibilità del conflitto dovrebbe vieppiù considerarsi affetta da nullità assoluta, giacché avvenuta dopo il termine di conclusione dei lavori della Commissione, definitivamente fissato – dopo varie proroghe – con deliberazione della Camera dei deputati del 22 maggio 2005, «entro la data di scioglimento delle Camere e comunque non oltre il 28 febbraio 2006».

2.2. Sotto altro profilo, la Camera dei deputati ha eccepito la improcedibilità del conflitto «per sopravvenuta carenza di interesse».La circostanza che la Commissione parlamentare, non soltanto abbia concluso i suoi lavori, ma abbia messo a disposizione della ricorrente autorità giudiziaria «i verbali degli accertamenti già compiuti e anche – materialmente – l’autovettura sulla quale erano stati effettuati», denoterebbe il superamento di quella situazione di «paralisi del procedimento» penale che ha indotto la ricorrente Procura della Repubblica a promuovere il presente conflitto.

3.— Le suindicate eccezioni preliminari non sono fondate.

3.1.— Non è fondata, innanzi tutto, l’eccezione di nullità della notificazione.

3.1.1.— Non assume rilievo, ai fini della instaurazione del contraddittorio nel presente giudizio per conflitto, la circostanza che, alla data della avvenuta notificazione, congiuntamente, dell’ordinanza di ammissibilità e del ricorso della Procura della Repubblica (10 marzo 2006), la Commissione di inchiesta non esistesse più, e ciò tanto ritenendo che essa avesse esaurito la sua funzione il 23 febbraio 2006 (in occasione della sua ultima seduta, nella quale venne approvata la relazione del Presidente), quanto prendendo in considerazione la diversa data fissata per l’ultimazione dei lavori (28 febbraio 2006). Difatti, la notifica alla Commissione in persona del suo Presidente, presso la Camera dei Deputati, può ritenersi validamente effettuata ai fini della rituale instaurazione del contraddittorio, con conseguente prosecuzione del giudizio nei confronti della Camera stessa, della quale la Commissione costituisce diretta emanazione ai sensi dell’art. 82 Cost.

3.1.2.— Va, al riguardo, ricordato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 231 del 1975), le Commissioni d’inchiesta, siano monocamerali o bicamerali, non hanno il compito di emettere giudizi in senso tecnico, ma solo di «raccogliere notizie o dati necessari per l’esercizio delle funzioni delle Camere», sicché «esse non tendono a produrre, né le loro relazioni conclusive producono, alcuna modificazione giuridica (come è invece proprio degli atti giurisdizionali), ma hanno semplicemente lo scopo di mettere a disposizione delle Assemblee tutti gli elementi utili affinché queste possano, con piena cognizione delle situazioni di fatto, deliberare la propria linea di condotta, sia promuovendo misure legislative, sia invitando il Governo ad adottare, per quanto di sua competenza, i provvedimenti del caso». In altri termini, l’attività di inchiesta delle Camere rientra nella più lata nozione di attività ispettiva di competenza istituzionale di ciascuna di esse, volta all’acquisizione di informazioni su materie di pubblico interesse; attività ispettiva che è, dunque, propria della Camera in quanto tale, la quale − in via strumentale − si avvale, sia pure necessariamente, di una sua apposita articolazione interna, qual è (e resta) la Commissione di inchiesta, ferma rimanendo la titolarità del potere ispettivo in capo alla Camera parlamentare.

235

Conclusione, questa, conforme anche alla lettera dell’art. 82, primo comma, Cost., secondo cui ciascuna Camera «può disporre inchieste su materie di pubblico interesse». Il potere di inchiesta, pertanto, rientra tra le funzioni tipiche di ciascuna Camera e solo per il suo concreto esercizio è previsto che «a tale scopo» vengano nominate Commissioni di inchiesta come articolazioni interne della Camera che le istituisce.E incisivamente, con la citata sentenza n. 231 del 1975, questa Corte ha affermato «che le Commissioni parlamentari di inchiesta (…) sostituendo necessariamente a norma dell’art. 82, primo comma, Cost. il plenum delle Camere, a buon diritto possono configurarsi come le stesse Camere nell’atto di procedere all’inchiesta». Di qui, pertanto, la conclusione secondo cui, nell’ipotesi di cessazione, per qualsiasi causa, del funzionamento della Commissione (quali, ad esempio, la scadenza del suo termine di durata o l’esaurimento della sua funzione), la legittimazione processuale ad agire o a resistere è riassunta dalla Camera medesima. Ed è proprio quanto è accaduto nel caso di specie, per cui l’avvenuta notifica del ricorso alla Commissione di inchiesta in persona del suo Presidente, presso la Camera di appartenenza, è idonea alla corretta instaurazione del contraddittorio e a consentire alla Camera medesima, come è di fatto accaduto, di costituirsi nel giudizio per conflitto che, in definitiva, la coinvolge direttamente, essendo la Commissione una sua emanazione.Né, in senso contrario, potrebbe addursi la riconosciuta indipendenza funzionale, durante munere, delle Commissioni d’inchiesta dalle Camere dalle quali esse promanano, giacché tale indipendenza non postula affatto una loro strutturale distinzione dalle Camere stesse, di cui rappresentano pur sempre una articolazione, come conferma la necessità di una loro composizione che rispecchi, sostanzialmente, quella della Camera di appartenenza. Pertanto, l’affermazione della difesa della Camera, secondo la quale ogni Commissione d’inchiesta rappresenta un «potere a sé stante», che non può essere confuso con la Camera che l’ha istituita, non è condivisibile nella sua assolutezza; quanto meno non postula affatto che, quando la Commissione abbia cessato di esistere, non sia possibile elevare o proseguire conflitto per menomazione nei confronti di alcun potere; non quello di cui sarebbe espressione la Commissione, né quello proprio della Camera di appartenenza. In realtà, proprio perché la Commissione costituisce una articolazione della Camera, è ben ammissibile che – nell’ipotesi sopra indicata – il conflitto si instauri o prosegua nei confronti della Camera stessa. Né, a tale scopo, è necessario richiamare, come fa la concludente Camera dei deputati, gli artt. 110 e 299 del codice di procedura civile o l’art. 92 del regio decreto 17 agosto 1907, n. 642 (Regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato), ovvero i principi a tali norme sottesi, essendo sufficiente il riferimento all’assetto costituzionale dei rapporti tra Commissioni d’inchiesta e Camere che le abbiano istituite.

3.2.— Del pari non è fondata l’eccezione pregiudiziale di improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse, stante la ininfluenza, sulla procedibilità del presente conflitto per menomazione, anche in ragione della natura non ripetibile degli accertamenti tecnici che sarebbero stati preclusi alla ricorrente, di vicende sopravvenute rispetto al momento della sua instaurazione.

4.— Ciò premesso in ordine alle suddette eccezioni pregiudiziali, deve rilevarsi che la scelta operata dalla Camera dei deputati, in relazione alla novità ed alla particolarità della vicenda, di non svolgere difese di merito in ordine al thema decidendum, sul presupposto di non rivestire la qualità di contraddittore necessario nel presente giudizio, fa emergere la necessità di limitare la presente pronuncia esclusivamente ai suindicati profili processuali e di assegnare, conseguentemente, ad entrambe le parti un congruo termine per

236

assicurare la completezza del contraddittorio anche per gli aspetti di merito del conflitto per menomazione sollevato dalla ricorrente.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

non definitivamente pronunciando e riservata ogni decisione sul merito del conflitto;dichiara non fondate le eccezioni pregiudiziali di inammissibilità del conflitto per nullità assoluta della notificazione, nonché di improcedibilità dello stesso per sopravvenuta carenza di interesse, sollevate dalla Camera dei deputati; assegna alla Camera dei deputati ed alla ricorrente Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Roma il termine di giorni sessanta, decorrente dalla data della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della presente sentenza, per la eventuale presentazione di memorie difensive.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 giugno 2007.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Alfonso QUARANTA, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 26 giugno 2007.

237