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EVE ENSLER con Mollie Doyle SE NON ORA QUANDO? Contro la violenza e per la dignità delle donne Traduzione di ANNALISA CARENA

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EVE ENSLERcon Mollie Doyle

SE NON ORA QUANDO?

Contro la violenzae per la dignità delle donne

Traduzione diAnnalisa Carena

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Titolo originale: A Memory, a Monologue, a Rant and a Prayer© 2007 by Eve Ensler and Mollie Doyle

This translation is published by arrangement with Villard, an imprint of the Ran-dom House Publishing Group, a division of Random House, Inc.

Realizzazione editoriale: Conedit Libri Srl - Cormano (MI)

I Edizione 2012

© 2012 - EDIzIONI PIEMME Spa 20145 Milano - Via Tiziano, 32 [email protected] - www.edizpiemme.it

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INTRODUzIONEdi Eve Ensler

Parole. Parole. Questo libro è incentrato sulle parole. Parlare del non detto. Parlare del già detto in un modo nuovo e vitale, parlare del dolore, parlare della fame. Parlare. Parlare della violenza sulle donne non perché sia l’unico problema, ma perché è un problema centra-le nel mondo e tuttavia si continua a non parlarne, a non vederlo, a non dargli peso o importanza. Affinché le parole rompano il torpore e la negazione, la dissocia-zione e la distanza, l’inganno. Parlare affinché si crei una comunità, una coscienza, un interesse.

Parlare della violenza sulle donne perché nel 2006 delle bambine Amish vengono ammazzate nella loro scuola solo perché sono bambine; perché nei quartieri poveri le donne sono vendute come carne da macello agli uomini dei quartieri ricchi; perché in Darfur le donne vengono stuprate quando vanno a raccogliere legna per il fuoco o erba per gli asini. Nel 2006 le don-ne sono bruciate, mutilate, lapidate, scacciate, rovinate, rifiutate, zittite. Parlare della violenza perché ai primi di novembre del 2006 il presidente israeliano si è di-messo dopo un’accusa di violenza e molestie, e un reli-gioso in Australia ha incolpato le donne poco vestite degli stupri che subiscono. Parlare della violenza sulle

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donne per vostra madre, vostra sorella, vostra zia, vo-stra figlia, la vostra ragazza, la vostra migliore amica, vostra moglie. Parlare della violenza sulle donne per-ché la storia delle donne è la storia della vita stessa. Parlandone non si può evitare di parlare di razzismo e supremazia, povertà e patriarcato, costruzione di impe-ri, guerra, sessualità, desiderio, immaginazione. Il mec-canismo della violenza è ciò che distrugge le donne, le controlla, le sminuisce e le tiene al loro cosiddetto po-sto. Parlare della violenza, raccontare le storie, perché nel raccontare legittimiamo l’esperienza femminile. Ri-veliamo ciò che accade nell’oscurità, nel sottoscala, lontano dagli sguardi. Nel raccontare, le donne si riap-propriano del loro potere. Della loro voce. Dei loro ri-cordi. Del loro futuro.

Nell’ambito del festival Until the Violence Stops che si è svolto nell’estate del 2006 a New York per due set-timane, abbiamo chiesto a un gruppo di illustri scritto-ri di produrre memorie, monologhi, invettive e pre-ghiere sul tema della violenza contro le donne. Immagi-navamo un evento epocale in cui questi monologhi fossero recitati da grandi attori. Pensavamo che avreb-bero risposto al massimo in dieci o venti. Siamo stati inondati di contributi.

Ogni scrittore ha prodotto qualcosa di così specifico, così originale, che Edward Albee poteva essere solo Ed-ward Albee, e Alice Walker solo Alice Walker, e così per Erin Cressida Wilson, e Michael Eric Dyson.

Abbiamo bisogno di scrittori in quest’epoca terribile di inganno, manipolazione, frasi a effetto e mezze verità, in quest’epoca in cui la brama di potere ha sconfitto la fame di giustizia, in quest’epoca di santi e malfattori. Non abbiamo molti veri leader, non abbiamo molti po-

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litici di cui ci possiamo fidare. Ma possiamo fidarci degli scrittori. Invece di venderci qualcosa, esplorano qualco-sa; invece di dominarci, ci aprono la mente; invece di conquistare o detenere una posizione, ci invitano a fare domande.

Abbiamo bisogno che ogni singolo scrittore, ogni singolo artista, dica la verità come la vede, come la sen-te dentro. In questo libro ci sono alcuni contributi di-vertenti, alcuni misteriosi, alcuni molto difficili, alcuni drammatici. E sono tutti nuovi. Sono stati recitati per la prima volta al festival davanti a duemila persone. È sta-to emozionante.

Per questo lavoro gli autori non hanno ricevuto com-pensi ma solo la profonda soddisfazione che deriva dal servire il bene comune. I miei compensi e i diritti d’au-tore sulle vendite di questo volume andranno a benefi-cio del V-Day. (Per sapere di più sul V-Day, consultate la sezione finale del libro o il sito www.vday.org.)

Ringrazio questi grandi drammaturghi, poeti, gior-nalisti e visionari per il dono di questo libro, e ringrazio te, lettore, che affronti questo viaggio.

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MEMORIA

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CerCare la musiCa del Corpo

di Michael Klein

Il mio amico Frank lo chiama cercare la musica del cor-po – la musica che sentiva mia madre.

Quando finisci di cercare la musica del corpo, ti im-batti nel corpo di una donna

cui è stato strappato il mondo intero – ma prima di quella scena,

un presagio: mia madre in collegio.Ha dodici anni, figlia di due alcolizzati, artisti di va-

rietà, ombre su un palcoscenico.È sovrappeso e già allora riesce a vedere oltre se

stessa, per questo le ragazze fanno le stronze nei loro abiti ben stirati e di solito la tengono appesa per i piedi fuori

dalla finestra per un sacco di tempo aspettando la giusta sequenza di suppliche per restituirla alla sua vita.

Era il 1940-e-qualcosa – l’anno in cui mia madre co-minciò il libro che la sua mente andava scrivendo inti-tolato questo è ciò che mi è capitato –

il libro che ci leggeva – frasi terapeutiche per mitiga-re il vuoto di due matrimoni –

un marito la picchiava, un marito le prendeva i soldi e la isolava

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dal mondo finché non è stata classificata come il ten-tato suicidio perché era rimasta appesa a un filo

a un capello, per i piedi, orgogliosamente sospesasopra qualcosa chiamato gioventù.

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sette variazioni su margarita Weinberg

di Moisés Kaufman

In memoria di Rebeca Clisci Akerman

1

Mia nonna nacque in Ucraina ma emigrò in Vene-zuela prima della Seconda guerra mondiale. Mi raccon-tò questa storia:

«Una giovane donna ebrea fu rapita da un gruppo di cosacchi durante un pogrom. La portarono in una stan-za e la tennero ferma, mentre decidevano chi l’avrebbe avuta per primo.

“Se mi toccate getterò una maledizione su di voi” disse la donna. “Sono una strega.” I cosacchi risero. “Posso dimostrarlo!” gridò lei. “Posso dimostrarvi che sono una strega.”

Il loro capo sorrise e disse: “Benissimo. Dimostralo, allora”.

“Io sono immortale,” fece lei “e voi non potete ucci-dermi.” Quelli risero ancor di più. “Non potete ucci-dermi. Nemmeno se mi sparate. Provateci.”

Gli uomini smisero di ridere e la fissarono.“Su, provateci.” La donna si indicò il petto. “Spara-

temi qui. Vedrete che sono immortale.” I cosacchi si guardarono l’un l’altro ma non si mossero.

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“Sparatemi al cuore. Vedrete che non morirò. E voi avrete la prova che sono una strega.” Il capo ci pensò su per un attimo, poi estrasse rapidamente la pistola e le sparò al cuore. La giovane donna cadde a terra san-guinante, guardò l’uomo che le aveva sparato e disse: “Grazie, imbecille”.»

Mia nonna amava le storie di suicidi eroici.

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Da giovane mia nonna voleva fare il medico. Ma in Ucraina nel 1935 c’erano pochi posti all’università de-stinati agli ebrei, e andavano tutti agli uomini. Così di-ventò infermiera.

Quando nel 1937 disse alla sua famiglia che voleva andare in Venezuela, tutti si opposero. Non sapevano nemmeno trovare il Venezuela sull’atlante.

Ma il suo fidanzato, Boris (mio nonno), si era trasfe-rito laggiù due anni prima in cerca di fortuna, e voleva che lei lo raggiungesse; gli affari gli stavano andando bene ed era preoccupato per le voci di una guerra in Europa.

Non so se per la guerra imminente o per l’invito di un innamorato ai Tropici, o per entrambi i motivi, ma lei partì. Aveva ventidue anni.

Pare che quando arrivò a Caracas, fosse una donna di tale delicata bellezza che tutti gli emigranti voleva-no sposarla. (Ho visto delle foto, ed era uno schianto.) E mio nonno disse: «Anche se sono stato io a farti venire qui, non sei obbligata a sposarmi. Siamo stati lontani per due anni, e forse i tuoi sentimenti sono

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cambiati. Puoi scegliere l’uomo che vuoi nella nostra comunità».

Mia madre pianse, commossa dalle sue parole, e gli disse che sì, spettava a lei decidere. E aveva deciso di sposare lui. (Un’altra versione della storia dice che il ma-trimonio era stato combinato dai loro genitori in Ucrai-na, e che il fatto che lui le avesse chiesto di scegliere di sposarlo era una prova delle sue idee liberali, per cui lei lo sposò.)

3

Quando nacque la loro prima figlia, mia nonna la chiamò Margarita, che è il nome del fiore nazionale del Venezuela. Margarita Weinberg. (Il suo nome ebreo, Miriam, veniva dalla madre di mia nonna, che era mor-ta quando mia nonna aveva due anni.)

Mia nonna era la narratrice della famiglia.Per accordi presi molto prima che io nascessi, aveva

ereditato il compito di tener vivi i nostri racconti e la nostra storia per noi.

«Mio fratello era un comunista che lasciò il nostro villaggio in Ucraina e andò a Parigi per unirsi ai parti-giani della Resistenza contro i nazisti» diceva. «Diventò una delle loro migliori spie. Gli hanno intitolato una strada a Parigi.» Due anni dopo il suo ingresso nella Resistenza, fu sorpreso in missione dentro un arsenale tedesco in un sobborgo di Parigi. «Quando i nazisti cir-condarono l’arsenale, lui usò tutte le armi che vi erano contenute per difendersi. Uccise molti nazisti quel giorno. Serbò l’ultimo proiettile per se stesso.»

Suicidi eroici...Io sono cresciuto con questi racconti.

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A diciannove anni mia madre, Margarita, incontrò un giovanotto di nome Simon che era arrivato in Vene-zuela dopo la guerra, dalla Romania. Era sopravvissuto al conflitto cucendo e vendendo le stelle di Davide gial-le che gli ebrei erano costretti a indossare. Trascorse gran parte della guerra nascosto in uno stanzino o ven-dendo stelle di Davide. Aveva undici anni.

L’infanzia di mia madre in Venezuela fu idilliaca. Il paese godeva di un clima mite e aveva abitanti gentili e ben disposti verso gli immigrati. La guerra era lontana, oltre l’oceano, e mia madre ne sentiva parlare solo quando i miei nonni discutevano sottovoce di parenti che non erano partiti e adesso erano nei campi di con-centramento o erano morti.

Simon fu portato in Venezuela da sua zia, che aveva un negozio di orologi ben avviato nel centro della città. Fu lei a portarlo a casa di mia nonna per fargli conosce-re mia madre. I due uscirono insieme qualche volta, poi lui le chiese di sposarlo.

A mia madre Simon piaceva, ma il suo intuito le di-ceva di non sposarlo: veniva da una vita troppo diversa. Lei non aveva mai conosciuto la fame o la guerra se non nelle storie eroiche e suicide di sua madre.

Ma mio nonno Boris disse: «Credi che ci sia una fila di uomini ad aspettarti? Siamo una piccola comunità ebraica. Lui è un brav’uomo. Dovresti sposarlo».

Mia nonna sentì ma non disse niente. E mia madre lo sposò.

Del giorno delle sue nozze ricorda soprattutto che sotto il baldacchino della sinagoga pensò: “Che ci fac-cio qui? Questo è un suicidio”.

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Il loro matrimonio fu un disastro. L’intuizione di mia madre a proposito di Simon, mio padre, era assoluta-mente giusta. Venivano da due mondi diversi.

L’educazione est-europea di mio padre, già rigida e severa, era stata ulteriormente inasprita dalla guerra. Lui amava Spinoza, Schopenhauer e altri austeri filoso-fi europei. Era dispotico e aveva poca pazienza per tut-to ciò che andava al di là della mera sopravvivenza. I suoi principali interessi erano guadagnarsi da vivere, fare figli e andare in sinagoga.

Mia madre amava i film americani, i cantanti vene-zuelani e le bambole di porcellana. Lui era puntuale e tedesco nelle sue abitudini quotidiane. Lei aveva la puntualità delle genti dei Tropici e il loro atteggiamen-to rilassato. Lui la trovava pigra e viziata. E presto la sua incapacità di capirla si trasformò in rabbia.

Lei, da parte sua, spesso si considerava superiore al marito. La guerra aveva lasciato profonde cicatrici: lui era pressoché privo di buone maniere, rideva troppo forte, parlava uno spagnolo incerto e mangiava come un lupo. (Aveva sofferto la fame così a lungo, mi rac-contò, che gli sembrava di non potersi mai saziare.)

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Ogni venerdì sera c’era una cena di Shabbat a casa nostra. Il mio ricordo più vivido di quelle cene è mio padre, con il viso paonazzo e le vene gonfie sul collo, che strillava accuse. «Le candele di Shabbat non sono state accese al momento giusto! Tu te ne freghi dello

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Shabbat! Che razza di madre sei? Questa cena fa schi-fo! Non sai cucinare! I bambini fanno troppo chiasso, come li hai educati?» Gli attacchi si facevano via via più veementi: le grida, gli insulti.

Eppure, ogni volta che mia madre tentava di ribatte-re, mio nonno diceva: «Margarita, lascia stare. Shoin». («Basta» in yiddish.) E non le permetteva di rispon-dere. Se mia madre ci riprovava, lui ripeteva: «Shoin» e la zittiva.

Forse pensava che quello fosse il modo migliore per stemperare la lite, forse lui stesso aveva paura di mio padre, forse provava pietà per lui. Quale che fosse il motivo, era sempre mia madre quella invitata a tacere. «Dagliela vinta» le diceva mio padre. «Che importanza ha?»

Ma la cosa che mi colpiva di più, già da bambino, era che mia nonna guardasse e ascoltasse senza mai aprire bocca.

Margarita veniva attaccata brutalmente da mio pa-dre e zittita da mio nonno, e mia nonna non diceva nul-la, nemmeno una parola.

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Pensavo che mia nonna fosse eroica. Doveva esserlo per attraversare l’Atlantico, stabilirsi in un piccolo vil-laggio dell’America Latina senza conoscere la lingua, allevare tre figli in quella nuova terra, e accollarsi la re-sponsabilità di tener vive le nostre storie.

Ma a che servono le storie se portano al suicidio?Come poteva star lì a vedere aggredire sua figlia sen-

za far niente? Credeva che le vessazioni sarebbero ces-

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sate? Non si rendeva conto che mia madre aveva biso-gno che sua madre la difendesse?

Mia madre pensò molte volte al suicidio. Ma aveva tre figli. È questo il problema con le storie di eroismo...

Mia nonna è morta sette anni fa, e da allora un altro tacito accordo mi ha eletto scrittore della famiglia, con-servatore delle nostre storie. I membri della mia fami-glia vengono da me per fare domande sul passato.

E così mentre scrivo questa storia chiamo mia madre per essere certo di ricordarla nel modo giusto. E colgo l’occasione per interrogarla su quegli eventi: «Hai mai chiesto a tua madre perché non ti difendeva?».

«Ero adulta. Avevo tre figli. Non toccava a lei difen-dermi» mi dice. «E penso che parte della tua storia sia sbagliata.»

Mi dà una versione diversa dell’arrivo di mia nonna in Venezuela, una che le è stata raccontata da sua zia.

Secondo questa versione, dopo che mio nonno la-sciò l’Ucraina per venire in Venezuela, mia nonna si innamorò perdutamente di un rivoluzionario comuni-sta. Suo padre proibì quella relazione, e l’amante co-munista, con il cuore infranto, andò a combattere nella guerra civile spagnola e fu ucciso in battaglia. Suo pa-dre, ben sapendo che in Europa la guerra era alle por-te, costrinse mia nonna ad andare in Venezuela e spo-sare mio nonno.

Se questa versione è vera, le storie eroiche di mia nonna avevano uno scopo più profondo di quello che avevo pensato in origine. Non erano un codice di com-portamento, o una vocazione alla rivolta; erano sempli-cemente i sogni di un’adolescente ucraina che viveva ai Tropici. Gesta eroiche di cui poteva fantasticare ma che non poteva mettere in pratica.

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La vera lezione che aveva imparato da suo padre era scendere a compromessi per sopravvivere.

Forse l’eroina della storia di pogrom narrata da mia nonna sarebbe sopravvissuta se fosse scesa a compro-messi. Suo fratello sarebbe stato catturato e magari sa-rebbe vissuto ancora qualche anno se non avesse usato il proiettile contro se stesso. Ma entrambi avevano de-ciso diversamente.

Quelle storie erano la strada non intrapresa. La vita non vissuta.

E quindi lei poteva sognarle, ma non poteva insegna-re a sua figlia a metterle in pratica.

Il suicidio andava bene nella fantasia. Non nella realtà. Nella realtà il silenzio e l’obbedienza sembravano assi-curare la sopravvivenza.

E l’eroismo era una virtù da ammirare in un romanzo o un viaggio transatlantico. Ma non una ricetta per la vita...

Alla fine mia madre divorziò da mio padre, poi lo risposò e divorziò di nuovo da lui. Questo accadeva dieci anni fa.

«Sono contenta che tu scriva queste cose» mi dice. «Certo non hanno il fascino delle storie di tua nonna.» Sorride. «Mi ci è voluto tanto tempo e varie riscritture, ma alla fine ho lasciato tuo padre. E sono soddisfatta di questo risultato» fa una pausa «e che non sia finita con un suicidio.»

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1600 elmWood avenue

di Monica Szlekovics

Ricordo la mia prima visita a Elmwood Avenue. Il per-corso in macchina dalla casa di mia nonna ci portava sempre ad attraversare Highland Park, e in primavera si sentiva il profumo dei lillà in fiore. Highland Park era un luogo di grande bellezza, con tutti i suoi giardini fioriti e i suoi sentieri pedonali, e sebbene ci passassimo solo con l’auto creava un’atmosfera di euforia nel mio minuscolo mondo mentre spiavo dal finestrino. L’eufo-ria cessava non appena uscivamo dal parco. Il paesag-gio diventava desolato, e in lontananza un unico edifi-cio solitario innalzato verso il cielo incombeva su di noi.

Il 1600 di Elmwood Avenue aveva un viale di ingres-so circolare, proprio come tanti ospedali, e dall’ester-no nessuno avrebbe mai immaginato che non fosse un normale ospedale, se non per il silenzio inquietante. Non c’erano ambulanze o persone che andavano di fretta. Quel posto era una fortezza, con posti di blocco e porte serrate. Il 1600 di Elmwood Avenue era una clinica psichiatrica.

Il più delle volte non mi permettevano di vedere mia madre perché i bambini non erano ammessi in certe aree dell’ospedale. Tuttavia ricordo un’occasione in cui

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vidi mia madre in un reparto ad accesso limitato, e ser-bo dentro di me i momenti trascorsi con lei in quella stanza prima che il personale si accorgesse che c’era una bambina in un’area riservata.

La stanza puzzava di urina ed era lurida. Le finestre avevano le sbarre, e gli unici mobili della stanza erano due tavoli metallici con le panche attaccate e fissate al pavimento. Quando entrai non vidi mia madre rannic-chiata per terra in un angolo. Lei mi vide, però.

E quando mi vide, balzò in piedi in un disperato ten-tativo di raggiungermi, ma non ci riuscì. Fu allora che mi accorsi che era incatenata al suolo. La mia bella mamma era stata ridotta alla condizione di un animale. Aveva lividi su tutto il corpo, e sembrava avere la bava alla bocca. All’inizio fui paralizzata dalla paura, ma ben presto prevalse l’isteria e mi accompagnarono fuori, verso un’altra ala dell’ospedale.

Fui condotta all’unità di riabilitazione, che era prov-vista di una sala da bowling per i pazienti. Passai da un mondo a un altro in pochi secondi. I pazienti erano al-legri, ciarlieri e ben trattati. Tutt’altra cosa rispetto a ciò che avevo visto al reparto in cui si trovava mia ma-dre. Era come se fossi rientrata nel parco da cui ero uscita venendo lì. La mia infanzia fu guastata da inci-denti di questo tipo, e fu da queste esperienze che im-parai che nel mondo esiste un dualismo di bene e male. Avrei trascorso gran parte della mia vita entrando e uscendo dalle sue varie sfaccettature. Perché io stessa ora sono confinata in un manicomio generosamente truccato da istituto di pena.

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l’armadio

di Howard Zinn

Avevo all’incirca dodici anni. Avevo tre fratelli più pic-coli, che andavano dai quattro ai dieci anni. Era il 1934, più o meno. Già, uno degli anni peggiori della Depres-sione. La nostra famiglia abitava in una delle tante case da cui entravamo e uscivamo in quegli anni, un attimo prima che il padrone di casa pretendesse l’affitto. Era quello che veniva definito un appartamento “con acqua fredda”, ossia: una camera da letto per i genitori, una camera da letto per i figli, un letto matrimoniale per tre bambini che dormivano zu fiesens (testa-piedi, per ave-re più spazio), e un letto pieghevole per il quarto bam-bino. Niente soggiorno o sala da pranzo, inauditi nel nostro ambiente. Una cucina con un lavatoio sia per i panni sia per le persone. Un gabinetto con solo la tazza, senza lavandino, senza vasca o doccia. Niente frigorife-ro (anch’esso inaudito) ma una ghiacciaia riempita con blocchi di ghiaccio portati dal venditore della zona, i quali sciogliendosi in una vasca sottostante talvolta la facevano traboccare durante la notte, causando un pic-colo disastro. Una stufa a carbone sulla quale scaldava-mo l’acqua quando ci serviva, e che costituiva l’unica fonte di riscaldamento per le tre stanze.

C’era un armadio? Non ricordo, ma è importante

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per questa piccola storia, perché era inverno e mio pa-dre fu spedito da mia madre (era lei a prendere le de-cisioni in famiglia) a comprare una specie di armadio di cartone che aveva visto in una vetrina a una dozzina di isolati di distanza. Mio padre era un cameriere, al momento disoccupato, un immigrato dall’Austria, che aveva conosciuto mia madre quando entrambi lavora-vano come operai a Manhattan. Era alto un metro e sessantacinque, corporatura robusta e mani forti, un uomo silenzioso e gentile. Mia madre era un’immigrata dalla Siberia, leggermente più bassa, corpulenta, con capelli neri e un bel viso ovale.

Mio padre uscì all’imbrunire per arrivare al negozio prima che chiudesse, e tornò con l’armadio desiderato. O meglio, tornò con dei cartoni imballati che, assem-blati in un certo modo, avrebbero costituito un arma-dio. C’era una pagina di istruzioni, incomprensibili sia per mio padre sia per mia madre. Lui fece vari tentativi di montare l’armadio fallendo ogni volta, ma continuò a provarci, con mia madre accanto che forniva sterili suggerimenti e la sua frustrazione che cresceva di mi-nuto in minuto. La cosa andò avanti per un’ora, mentre noi ragazzi assistevamo dalla soglia della nostra camera da letto, in mutande. Mio padre era al limite della sua capacità e della sua pazienza, ma mia madre continuò a chiedergli di provare ancora, una volta sola. Lui lo fece e fallì di nuovo, era terribilmente frustrato, e quando mia madre gli disse di portare indietro l’armadio dove l’aveva comprato, la sua frustrazione repressa si trasfor-mò in rabbia, così raccolse uno dei cartoni e glielo sbatté sulla testa. Era solo cartone e non poteva farle male, ma fu una scena orribile a vedersi, e noi quattro figli ci met-temmo a strillare, inveendo contro di lui, piangendo.

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Anche mia madre piangeva, e nostro padre di colpo si placò. Raccolse i pezzi dell’“armadio” e uscì di casa.

Mi è tornato in mente questo incidente molti anni dopo leggendo il racconto Come un sudario di Ann Pe-try, in cui un nero che ama sua moglie – anche se en-trambi lavorano duramente per pochi soldi – viene umiliato tutto il giorno sul posto di lavoro da un sorve-gliante bianco, e poi in un ristorante da una cameriera bianca e bionda. Al ritorno a casa, quando sua moglie lo invita a mettersi a tavola con la frase: «Sei solo un vecchio negro affamato» lui la prende a pugni.

Che significa tutto questo? Non possiamo accettare la violenza che una persona disperata scatena su un’al-tra. Dobbiamo gridare e protestare, come facemmo io e i miei fratelli, finché non smette. Allo stesso tempo, dobbiamo pensare al compito più profondo che ci aspetta, cambiare le condizioni di vita che inducono gli esseri umani alla violenza: quella degli uomini sulle donne, e tutta la violenza che una singola persona fru-strata, arrabbiata e ferita fa subire a un’altra.