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Prof. Riccardo Bruscagli IL FINE NON GIUSTIFICA I MEZZI
I La leggenda ‘nera’ di Machiavelli
Antimachiavellismo cattolico
[Reginald Pole, Ritratto di Sebastiano del Piombo, 1537]
REGINALD POLE, Apologia ad Carolum Quintum (1538-9)
Talem autem librum inveni, scriptum ab hoste humani generis, in quo omnia hostis
concilia explicantur, et modi, quibus religio, pietas, et omnes virtutis indoles facilius
destrui possent. Liber enim etsi hominis nomen et stylum prae se ferat, tamen, vix
coepi legere, quin Satanae digito scriptum agnoscerem. Ut enim illi libri, qui rectam
vivendi normam tradunt, per quam homines maxime cum Deo in gratia, et secum in
pace, et concordia vivere possint, divini maxime, et Dei digito scripti dicuntur, quales
sunt, qui divinas leges continent; sic qui talem viam ad perniciem patefaciunt, ut
omnem veram pietatem tollant, et hominum inter se societatem dirimant, qualis est
hic liber, de quo sum dicturus, nunquam eundem Satanae digitis scriptum dubitabo
dicere, etiamsi hominis nomen prae se ferat. Est autem (ne diutius teneam
expectationem tuam) liber inscriptus nomine Machiavelli, cujusdam Florentini,
indigni prorsus, qui tam nobilem civitatem patriam habeat.
Ho trovato poi un tale libro, scritto da un vero e proprio nemico del genere umano,
in cui si spiegano tutti i concilii del demonio, e i modi con cui si possono più
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facilmente distruggere la religione, l’umanità, e ogni specie di virtù. Un libro che,
anche se si presenta con nome e stile d’uomo, tuttavia, appena ho incominciato a
leggere, subito l’ho riconosciuto scritto col dito di Satana. Come infatti quei libri
che trasmettono la retta norma del vivere, attraverso cui gli uomini possano stare in
grazia di Dio e in pace e concordia fra di loro, si dicono massimamente divini, e
scritti col dito di Dio – come sono quelli che contengono la legge divina – così quelli
che aprono una tale strada al male, da togliere di mezzo ogni vera devozione, e
dissolvere ogni patto sociale fra gli uomini (come è questo libro di cui sto per parlare)
mai esiterò a dire che uno di tali libri sia stato scritto con le dita di Satana, anche
se reca sul frontespizio un nome d’uomo. Allora (per non tenerti ulteriormente
sulla corda): questo libro reca il nome di Machiavelli, un Fiorentino, indegno per
altro, di avere per patria una tale nobile città.
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Antimachiavellismo protestante
William Shakespeare; Enrico VI (Parte III, Atto iii, Scena 2)
Richard of Gloucester: Why, I can smile, and murder whiles I smile, And cry
'Content' to that which grieves my heart, And wet my cheeks with artificial tears,200
And frame my face to all occasions. I'll drown more sailors than the mermaid shall;
I'll slay more gazers than the basilisk; […]. I can add colours to the chameleon,
Change shapes with Proteus for advantages, and set the murderous Machiavel to
school. Can I do this, and cannot get a crown?
E allora? So sorridere e, sorridendo, uccidere e gridare ‘ben fatto!’ per quello che
mi affligge il cuore, e bagnare le guance di lacrime false e atteggiare il viso a
seconda delle occasioni. Annegherò più marinai che la sirena, come il basilisco
ucciderò chi mi guarda […] So aggiungere colori al camaleonte e cambiar forma
come Proteo, se mi giova, e dar lezioni a quell’assassino di Machiavelli. Se sono
capace di far questo, non saprò anche ottenere una corona?
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Dalla Enciclopedia TRECCANI:
machiavellismo s. m. [dal nome di N. Machiavelli]. - 1. [dottrina politica
ed esercizio del potere improntati a un utilitarismo cinico e
spregiudicato]. 2. (estens.) [comportamento di chi fa un uso spregiudicato
della simulazione e della dissimulazione per perseguire il proprio utile] ≈ ↓
astuzia, ingegno. ‖ cinismo, opportunismo, spregiudicatezza.
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II Come nasce una fake news
DE his rebus quibus nomine et praesertim principes LAUDANTUR aut
VITUPERANTUR
Il Principe, Capitolo XV: contro “gli ordini degli altri”
Resta ora a vedere quali debbino essere e' modi e governi di uno principe o co'
sudditi o con li amici. E perché io so che molti di questo hanno scritto, dubito,
scrivendone ancora io, non essere tenuto prosuntuoso, partendomi massime, nel
disputare questa materia, da li ordini delli altri. Ma sendo l'intenzione mia stata
scrivere cosa che sia utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare dreto
alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa. E molti si sono
immaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero
essere.
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Il Principe, Capitoli XVI-XVIII: i capitoli del “nondimanco”
Capitolo XVI: De liberalitate et parsimonia
[…] e' sarebbe bene essere tenuto liberale. Nondimanco la liberalità, usata in modo
che tu sia tenuto, ti offende: perché, se la si usa virtuosamente e come la si debbe
usare, la non fia conosciuta e non ti cascherà la 'nfamia del suo contrario; e però, a
volersi mantenere in fra li uomini el nome di liberale, è necessario non lasciare
indreto alcuna qualità di suntuosità: talmente che sempre uno principe così fatto
consumerà in simili opere tutte le sua facultà; e sarà necessitato alla fine, se si vorrà
mantenere el nome del liberale, gravare e' populi estraordinariamente ed essere
fiscale e fare tutte quelle cose che si possono fare per avere danari; il che comincerà
a farlo odioso a' sudditi, o poco stimare da ciascuno divenendo povero.
Capitolo XVII: De crudelitate et pietate; et an sit melius amari quam timeri,vel e
contra
[…] ciascuno principe debbe desiderare di essere tenuto piatoso e non crudele:
nondimanco debbe avvertire di non usare male questa pietà. Era tenuto Cesare
Borgia crudele: nondimanco quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagna,
unitola, ridottola in pace e in fede. Il che se si considera bene, si vedrà quello essere
stato molto più piatoso che il populo fiorentino, il quale, per fuggire il nome di
crudele, lasciò distruggere Pistoia. Debbe pertanto uno principe non si curare della
infamia del crudele per tenere e' sudditi sua uniti e in fede: perché con pochissimi
esempli sarà più pietoso che quelli e' quali per troppa pietà lasciono seguire e'
disordini, di che ne nasca uccisioni o rapine; perché queste sogliono offendere una
universalità intera, e quelle esecuzioni che vengono dal principe offendono uno
particulare. E in fra tutti e' principi al principe nuovo è impossibile fuggire il
nome di crudele, per essere gli stati nuovi pieni di pericoli.
XVIII Quomodo fides a principibus sit servanda
Quanto sia laudabile in uno principe il mantenere la fede e vivere con integrità e
non con astuzia, ciascuno lo intende; nondimanco si vede per esperienza ne' nostri
tempi quelli principi avere fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto
che della fede hanno tenuto poco conto e che hanno saputo con l'astuzia aggirare e'
cervelli delli uomini: e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in su la
realtà.
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III Il principe–centauro: un ‘mostro’ di natura
Il Principe, Capitolo XVIII: la bestia e l’uomo
Quanto sia laudabile in uno principe il mantenere la fede e vivere con integrità e non
con astuzia, ciascuno lo intende; nondimanco si vede per esperienza ne' nostri tempi
quelli principi avere fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto e che
hanno saputo con l'astuzia aggirare e' cervelli delli uomini e alla fine hanno superato
quelli che si sono fondati in su la realtà.
Dovete adunque sapere come e' sono dua generazioni di combattere: l'uno, con le
leggi; l'altro, con la forza. Quel primo è proprio dello uomo; quel secondo, delle
bestie. Ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo:
pertanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo. Questa
parte è suta insegnata alli principi copertamente da li antichi scrittori, e' quali
scrivono come Achille e molti altri di quelli principi antichi furno dati a nutrire a
Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuole dire altro,
avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno
principe sapere usare l'una e l'altra natura: e l'una sanza l'altra non è durabile.
E hassi a intendere questo, che uno principe e massime uno principe nuovo
non può osservare tutte quelle cose per le quali gli uomini sono chiamati buoni,
sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro
alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però bisogna che egli abbia
uno animo disposto a volgersi secondo che e' venti della fortuna e la variazione delle
cose gli comandano; e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma
sapere entrare nel male, necessitato.
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IV Pietas o clementia?
Ma in questo modo, facendo entrare il principe, sia pure “necessitato”, nel mondo
della bestia, e della slealtà, Machiavelli abbatte l’infrangibile barriera che la
cultura classica, dall’antichità all’Umanesimo, aveva eretto fra princeps, appunto – o
rex - e tyrannus.
E’ qui che diventa cruciale tornare al capitolo precedente, quello sulla crudelitas
necessaria del principe:
XVII De crudelitate et pietate; et an sit melius amari quam timeri, vel e contra
Nasce da questo una disputa, s'e' gli è meglio essere amato che temuto o e converso.
Rispondesi che si vorrebbe essere l'uno e l'altro; ma perché e' gli è difficile
accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbi a
mancare dell'uno de' dua. Perché degli uomini si può dire questo, generalmente, che
sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi del
guadagno; e mentre fai loro bene e' sono tutti tua, offeronti el sangue, la roba, la
vita, e' figliuoli, come di sopra dissi, quando el bisogno è discosto: ma quando ti si
appressa, si rivoltono, e quello principe che si è tutto fondato in su le parole loro,
trovandosi nudo di altre preparazioni, ruina. Perché le amicizie che si acquistono col
prezzo, e non con grandezza e nobilità di animo, si meritano, ma elle non si hanno, e
alli tempi non si possono spendere; e li uomini hanno meno rispetto a offendere uno
che si facci amare, che uno che si facci temere: perché lo amore è tenuto da uno
vinculo di obligo, il quale, per essere gl'uomini tristi, da ogni occasione di propria
utilità è rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che non ti abbandona
mai.
SENECA, De clementia :
Clementia efficit, ut magnum inter regem tyrannumque discrimen sit”.
PLATINA, De clementia principis nel De Principe:
Hinc est quod clementes deo similes exitimamus; contra vero crudeles et immites
detestamur et abominamur ut inimicos et hostes humani generis
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V Machiavelli in un campo minato: principe, re, tiranno Una considerazione linguistica: MACHIAVELLI NON USA MAI, nel Principe, il
vocabolo TIRANNO: neanche nel caso di personaggi che la tradizione gli
consegnava come tali:
Il principe, Capitolo VIII (De his qui per scelera ad principatum pervenere)
Agàtocle siciliano, non solo di privata ma d'infima e abietta fortuna, divenne re di
Siracusa. Costui, nato di uno figulo, tenne sempre, per li gradi della sua età, vita
scelerata: nondimanco accompagnò le sua sceleratezze con tanta virtù di animo e di
corpo che, voltosi alla milizia, per li gradi di quella pervenne a essere pretore di
Siracusa. Nel qual grado sendo constituito, e avendo deliberato diventare principe e
tenere con violenzia e sanza obligo di altri quello che d'accordo gli era suto
concesso, e avuto di questo suo disegno intelligenzia con Amilcare cartaginese, — il
quale con li eserciti militava in Sicilia, — ragunò una mattina il populo e il senato di
Siracusa, come se egli avessi avuto a deliberare cose pertinenti alla repubblica. E a
uno cenno ordinato fece da' sua soldati uccidere tutti e' senatori ed e' più ricchi del
populo; e' quali morti, occupò e tenne il principato di quella città sanza alcuna
controversia civile. E, benché da' Cartaginesi fussi dua volte rotto e demum
assediato, non solo possé difendere la sua città, ma, lasciato parte delle sue gente
alla defesa della ossidione, con le altre assaltò l'Affrica e in breve tempo liberò
Siracusa da lo assedio e condusse e' Cartaginesi in estrema necessità; e furno
necessitati accordarsi con quello, essere contenti della possessione della Affrica, e ad
Agàtocle lasciare la Sicilia.
Il Principe, Capitolo IX (De principatu civili)
Concluderò solo che a uno principe è necessario avere il populo amico, altrimenti
non ha nelle avversità remedio. Nabide principe delli spartani sostenne la ossidione
di tutta Grecia e di uno esercito romano vittoriosissimo, difese contro a quelli la
patria sua e il suo stato; e gli bastò solo, sopravvenendo el periculo, assicurarsi di
pochi; che, se gli avessi avuto el populo inimico, questo non li bastava.
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INVECE NEI DISCORSI:
Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, Libro I, Capitolo 10
Quanto sono laudabili i fondatori d'una republica o d'uno regno, tanto quelli
d'una tirannide sono vituperabili.
Intra tutti gli uomini laudati sono i laudatissimi quelli che sono stati capi e ordinatori
delle religioni. Appresso, dipoi, quelli che hanno fondato o republiche o regni. Dopo
a costoro, sono celebri quelli che, preposti agli eserciti, hanno ampliato o il regno loro
o quello della patria. A questi si aggiungono gli uomini litterati. E perché questi sono
di più ragioni, sono celebrati, ciascuno d'essi, secondo il grado suo. A qualunque altro
uomo, il numero de' quali è infinito, si attribuisce qualche parte di laude, la quale gli
arreca l'arte e lo esercizio suo. Sono pel contrario, infami e detestabili gli uomini
distruttori delle religioni, dissipatori de' regni e delle republiche, inimici delle virtù,
delle lettere, e d'ogni altra arte che arrechi utilità e onore alla umana generazione;
come sono gl'impii, i violenti, gl'ignoranti, i dappochi, gli oziosi, i vili. E nessuno
sarà mai sì pazzo o sì savio, sì tristo o sì buono, che, prepostagli la elezione delle due
qualità d'uomini, non laudi quella che è da laudare, e biasimi quella che è da
biasimare: nientedimeno, dipoi, quasi tutti, ingannati da uno falso bene e da una falsa
gloria, si lasciono andare, o voluntariamente o ignorantemente, nei gradi di coloro
che meritano più biasimo che laude; e potendo fare, con perpetuo loro onore, o una
republica o uno regno, si volgono alla tirannide: né si avveggono per questo partito
quanta fama, quanta gloria, quanto onore, sicurtà, quiete, con sodisfazione
d'animo, ei fuggono; e in quanta infamia, vituperio, biasimo, pericolo e
inquietudine, incorrono. Ed è impossibile che quelli che in stato privato vivono in
una republica, o che per fortuna o per virtù ne diventono principi, se leggessono le
istorie, e delle memorie delle antiche cose facessono capitale, che non volessero
quelli tali privati vivere nella loro patria più tosto Scipioni che Cesari; e quelli che
sono principi, più tosto Agesilai, Timoleoni, Dioni, che Nabidi, Falari e Dionisii:
perché vedrebbono questi essere sommamente vituperati, e quelli eccessivamente
laudati. Vedrebbero ancora come Timoleone e gli altri non ebbono nella patria loro
meno autorità che si avessono Dionisio e Falari, ma vedrebbono di lunga avervi avuta
più sicurtà. Né sia alcuno che s'inganni, per la gloria di Cesare, sentendolo, massime,
celebrare dagli scrittori: perché quegli che lo laudano, sono corrotti dalla fortuna sua,
e spauriti dalla lunghezza dello imperio, il quale, reggendosi sotto quel nome, non
permetteva che gli scrittori parlassono liberamente di lui. Ma chi vuole conoscere
quello che gli scrittori liberi ne direbbono, vegga quello che dicono di Catilina.
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Torniamo al testo del capitolo XVII. Ricordate? “Nasce da questo
una disputa: se egli sia meglio essere temuti o amati…” Ma di che DISPUTA si potrà
trattare? a cosa allude qui il Machiavelli?
VI Essere amati o temuti? Nerone e Seneca
Octavia, vv. 440-461
SEN Nihil in propinquos temere constitui decet
NER Iustum esse facile est cui vacat pectus metu
SEN Magnum timoris remedium clementia est.
NER Extinguere hostem maxima est virtus ducis.
SEN Servare cives maior est patriae patri.
NERPraecipere mitem convenit pueris senem.
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SEN Regenda magis est fervida adolescentia.
NER Aetate in hac sat esse consilii reor.
SEN Ut fcta Superi comprobent semper tua !
NER Stulte verebor, ipse cum faciam, deos.
SEN Hoc plus vere quod licet tantum tibi.
NER Fortuna nostra cuncta permittit mihi.
SEN Crede obsequenti parcius: levis est dea.
NER Inertis est nescire quid liceat sibi.
SEN Id facere laus est quod decet, non quod licet.
NER Calcat jacentem vulgus
SEN Invisum opprimit
NER Ferrum tuetur principem.
SEN Melius fides.
NER Decet timeri Caesarem.
SEN At plus diligi.
NER Metuant necesse est.
SEN Quicquid exprimitur grave est.
NER Iussis nostris pareant.
SEN Iusta impera.
NER Statuam ipse.
SEN Quae consenus efficiat rata.
NER Despectus enis faciet.
SEN Hoc absit nefas!
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VII Le masse giustificano i mezzi
Il Principe, Capitolo XVIII
E li uomini in universali iudicano più alli occhi che alle mani; perché tocca a vedere
a ognuno, a sentire a pochi: ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che
tu se'; e quelli pochi non ardiscono opporsi alla opinione di molti che abbino la
maestà dello stato che gli difenda; e nelle azioni di tutti li uomini, e massime de'
principi, dove non è iudizio a chi reclamare, si guarda al fine.
Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e' mezzi sempre
fieno iudicati onorevoli e da ciascuno saranno laudati; perché el vulgo ne va preso
con quello che pare e con lo evento della cosa: e nel mondo non è se non vulgo.