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RECENSIONI&REPORTS report
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PIETRO BIANCHI LIVIO BONI
ALBERTO GUALANDI STEFANO PIPPA
EPISTEMOLOGIA DELLA PSICOANALISI TRA ALTHUSSER E LACAN
ALBERTO GUALANDI, Tra corpo e linguaggio. Il problema dello statuto della psicoanalisi in Althusser/Lacan
1. Criticità psicoanalitiche 2. La scoperta lacaniana
3. Psicoanalisi e biologia 4. Il différend tra corpo e linguaggio: l’inconscio
LIVIO BONI, L’insight althusseriano nella psicoanalisi: elementi per una lettura meta‐analitica
1. Il chiasmo Althusser/Lacan 2. La rimozione della differenza sessuale
3. Oltre la critica della psicologia
STEFANO PIPPA, Althusser senza Lacan. Prospettive a partire dalle Due conferenze
1. Il chiasmo marxismo/psicoanalisi 2. Sulla presunta rottura epistemologica lacaniana
3. Cogito (cartesiano‐lacaniano) vs immaginario (spinoziano‐althusseriano) 4. Discorso dell’inconscio/Discorso dell’ideologia
PIETRO BIANCHI, La lettera tra scienza e psicoanalisi
1. Badiou tra Althusser e Lacan 2. La scienza e i suoi oggetti 3. Il materialismo della lettera
ABSTRACT: The contributions included in this section of S&F_ focus on the problem of the epistemological status of psychoanalysis and its object, the unconscious. They were originally presented in Venice at the Ca’ Foscari University in December 2014, during a debate organized by Maria Turchetto and the Associazione Louis Althusser, following the first Italian translation of the two conferences on psychoanalysis delivered by Althusser at the École Normale in 1963‐64 (L. Althusser, Psicoanalisi e scienze umane, Mimesis, Milano 2014). The two conferences, centred around the alleged “epistemological break” brought about by the work of Lacan in the domain of human sciences, provide the authors with the opportunity to examine the relationship between Marxism, psychoanalysis and philosophy in the current theoretical context, and to address such problems as the relationship between the discourse of the unconscious and the theory of ideology, transindividual imaginary and subjective Cogito, body and language, as well as the status of scientific truth. The authors attempt to show the fecundity of an epistemological approach which allows us to reposition the problem of the unconscious in an “interstitial gap” separating body from language, phenomenology from biology, corporeal linguistic signifier (lalangue) from the pure axiomatic of science (matema).
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ALBERTO GUALANDI
Tra corpo e linguaggio. Il problema dello statuto della psicoanalisi in Althusser/Lacan
1. Criticità psicoanalitiche
Le due conferenze di Althusser, pubblicate in Psicoanalisi e
scienze umane1, presentano un evidente interesse storico. Come
Livio Boni mette in luce nella Prefazione, un interesse legato al
ruolo che la psicoanalisi, e in particolare la psicoanalisi di
Lacan, ha giocato nel pensiero francese degli anni ’60. A ragion
veduta, Boni parla a questo proposito di una sorta d’infatuazione
di Althusser per Lacan, terminata poi in seguito, verso la fine
degli anni ’60. Un’infatuazione grazie a cui Lacan appare come una
sorta di sujet supposé savoir e come un analogon di Althusser
stesso, come colui cioè che ha compiuto in psicoanalisi una
rivoluzione parallela a quella compiuta da Althusser nella scienza
materialista della storia. Nei termini dell’epistemologia
francese, una rottura epistemologica che ha trasformato la
dialettica materialista di Marx e la psicoanalisi di Freud in
scienze vere e proprie. Che questo tentativo non sia poi andato a
buon fine è Althusser stesso ad affermarlo nei suoi scritti degli
anni ’70, e Boni ricostruisce gli enjeux teorici e storici
connessi con questi cambi di rotta.
Benché sarebbe opportuno approfondire il rapporto tra filosofia
francese e psicoanalisi, lacaniana in particolare – e soprattutto
la surdétermination teorica di cui essa è stata oggetto,
sovradeterminazione che, a mio avviso, consiste nel far giocare
alla psicoanalisi il ruolo di antropologia, laddove è evidente che
Lacan stesso parte, in realtà, proprio da un’antropobiologia ben
determinata, quella di Bolk, ovvero della neotenia – non mi
soffermerò, qui, tanto su tali implicazioni storiche e
metateoriche, ma mi chiederò, più direttamente, che cosa c’è per
1 L. Althusser, Psicoanalisi e scienze umane (1996), tr. it. Mimesis, Milano 2014.
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noi oggi d’interessante in questo testo. D’interessante, per
qualcuno che non è né althusseriano, né lacaniano, ma ha
semplicemente a cuore la questione del senso e dello statuto
teorico, pratico e politico della psicoanalisi. Immaginiamoci che
queste due conferenze si tengano ai nostri giorni, e di capitarvi
per caso, senza sapere molto né di Lacan, né di Althusser. Da che
cosa resteremmo innanzi tutto colpiti? Direi dal rigore del
discorso althusseriano, dal suo stile incalzante e diretto, dal
suo «piglio arietino», come ebbe a dire una volta Roberto Dionigi,
anch’egli frequentatore a Parigi del Cours de philosophie pour
scientifiques e, fino alla fine dei suoi giorni, pensatore
profondamente influenzato da Althusser2. Rimarremmo colpiti da uno
stile argomentativo che la filosofia contemporanea, nella sua
autoreferenzialità e involuzione storicistico‐ermeneutico‐
analitica sembra avere completamente abbandonato: procedere per
problemi e tesi, enunciati e dimostrati con rigore e chiarezza,
quasi cristallina. Quali sono dunque le tesi sostenute da
Althusser in queste due conferenze, così come giungono ancora oggi
al nostro orecchio?
Innanzi tutto un problema di fondo: qual è il posto di fatto e di
diritto che la psicoanalisi occupa all’interno delle scienze
umane? Secondo Althusser questo posto è di fatto e di diritto
problematico e, potremmo aggiungere, oggi più di quanto lo fosse
nel 1963‐64, epoca in cui sono state tenute le conferenze, in
quanto uno dei due discorsi che mettono a rischio per Althusser la
sua tenuta – il discorso tecnocratico delle neuroscienze3 – è
ormai omnipervasivo. Tale problematicità dipende, secondo
Althusser, da due fatti principali.
In primo luogo, nel momento della sua nascita e costituzione come
discorso scientifico, nel momento del “miracolo freudiano”, la
2 Cfr. A. Gualandi, Quale Bachelard? Una controversia ancora aperta, in R. Dionigi, Gaston Bachelard. La filosofia come ostacolo epistemologico, Quodlibet, Macerata 2001. 3 L. Althusser, op. cit., p. 61.
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psicoanalisi ha dovuto prendere a prestito i suoi concetti da
altri tipi di discorso: in particolare dalla biologia e dalla
fisica dell’energia – la termodinamica ottocentesca – e
dall’economia classica. Quest’importazione è al tempo stesso segno
della sua creatività analogica, ma anche della sua fragilità
teorica. Fragilità da cui la psicoanalisi non riuscirà mai a
emanciparsi completamente, e che ci impone ancora oggi di
riflettere sul suo statuto di scientificità, e sul ruolo che
metafore e analogie transdisciplinari, inevitabilmente, giocano in
essa.
In secondo luogo, la psicoanalisi postfreudiana non è riuscita,
secondo Althusser, a porre riparo a questa fragilità, anzi. Nella
maggior parte dei casi – e Althusser prende di mira, qui, la
psicologia dell’Io americana e, soprattutto, la sua iniziatrice,
Anna Freud – essa ha aggravato ulteriormente la situazione
costruendo un ibrido teorico in cui la psicoanalisi appare come
una sottospecie della psicologia, sospesa a metà strada tra
biologia e sociologia. Althusser afferma tuttavia che anche coloro
che tentano di uscire da questa impasse, sostenendo che la
psicoanalisi è innanzi tutto una pratica, incorrono in un evidente
paradosso, poiché nessuna «teoria della pratica analitica» può
trasformarsi magicamente in «una teoria della psicoanalisi
stessa»4. Mi pare che tale impasse sia aggravata da coloro che
credono di poter trovare giustificazione per tale primato della
pratica nella teoria dei giochi di linguaggio di Wittgenstein o
nell’ermeneutica. Althusser avrebbe affermato che tale teoria
della pratica analitica non fa altro che sostituire una moda con
un’altra: l’esistenzialismo sartriano o merleau‐pontyano, fondato
sugli atti intenzionali della coscienza, è rimpiazzato da una
dottrina dell’intersoggettività, centrata su una concezione quasi‐
pragmatista della prassi, in cui l’accadere impersonale e anonimo
del linguaggio diviene, magicamente, fondamento di se stesso. Le
4 Ibid., p. 41.
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oscurità dell’esperienza della coscienza sono barattate con le
contingenze di un accadere fattuale, tanto cieco e anonimo, quanto
istitutore di senso. Ma non inaspriamo l’arte althusseriana della
polemica, e ritorniamo alla prima conferenza che si conclude
sostanzialmente con una denuncia critica.
2. La scoperta lacaniana
Questo stato critico, sembra dirci Althusser, esprimerebbe ancora
oggi la condizione in cui versa la psicoanalisi, se non fosse
intervenuto, con la sua aggressività teorica dirompente, un
personaggio che nessuno comprende, e che tutti adorano proprio
perché aggredisce e insulta, che si chiama Jacques Lacan. Non
vorrei ritornare sul ritratto quasi demoniaco – misto di reverenza
e ironia, «terrorismo intellettuale» e «impostura teorica» – che
ne fornisce Althusser5. Mi pare che la Prefazione di Boni ne abbia
colto in poche frasi l’essenza. Ciò che mi interessa è richiamare
l’attenzione sulla “vera scoperta” operata da Lacan, scoperta che,
secondo Althusser, ha definitivamente trasformato la psicoanalisi
in una scienza, rivoluzionando completamente il senso della
dottrina freudiana stessa. Qual è tale scoperta? La grande
scoperta di Lacan, ci dice Althusser nella seconda conferenza, è
quella riguardante le modalità attraverso cui il «piccolo
d’uomo»6, l’animale umano prematuro e rallentato, accede alla sua
umanità, le modalità attraverso cui il vivente umano s’inscrive
nell’ordine simbolico che lo rende umano in senso stretto.
Quest’ordine non è affatto quello “continuista” e “stratigrafico”,
teorizzato dalla tradizione filosofica classica – da Hobbes fino a
Condillac, o dallo stesso Freud, letto soprattutto attraverso la
lente deformante di Anna Freud e di Heinz Hartmann – che vorrebbe
che il bambino acceda alla propria umanità, oltrepassando la
propria natura biologica, cioè la propria animalità, pervenendo
5 Ibid., pp. 60‐61. 6 Ibid., p. 72.
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alla cultura tramite il linguaggio, e sottomettendo la propria
pulsionalità alle leggi della cultura e, in particolare, al nome
del padre che gli impone di rinunciare al suo desiderio per la
madre. La grande scoperta lacaniana, che rende la psicoanalisi
definitivamente una scienza, è quella per cui «la cultura precede
sempre se stessa»7, e che la natura non precorre, nell’animale
umano, la cultura. Il vettore, dice Althusser, va dalla cultura
verso la natura, e non l’inverso. Attraverso il complesso di Edipo
è il linguaggio che ingloba e ristruttura, come per una sorta di
Nachträglichkeit simbolica, una natura che è già fin dall’inizio
impregnata di esso. In altre parole, la “seconda natura”, che si
instaura con l’accesso al simbolico, al linguaggio e alla cultura,
non sovrappone le proprie leggi alle leggi della “prima natura”,
complessificando l’insieme, ma lasciandone fondamentalmente
immutato il senso evolutivo e la direzione adattativa. Ciò che si
verifica è un vero e proprio rovesciamento che ristruttura
radicalmente l’insieme, sottomette l’inconscio e le pulsioni alle
leggi metaforiche e metonimiche del significante linguistico,
scinde le dimensioni reali, immaginarie e simboliche della
soggettività mostrando che ogni tentativo di ricondurle a
un’identità, e farne unità (filosofica o scientifica), è pura
illusione ontico‐ontologica. L’uomo è un essere fin dall’inizio in
balia di un linguaggio che, pur pervenendo a struttura in sé
conchiusa nella fase edipica, è sempre e inevitabilmente il
linguaggio dell’Altro.
Secondo Althusser, questa scoperta è d’importanza capitale poiché
permette d’interrompere a livello epistemologico la presunta
continuità, su cui ha creduto di poter ricostituire le proprie
basi la psicoanalisi postfreudiana, che connette il biologico col
psicologico e in seguito col sociale; e pone la psicoanalisi in
una posizione di netta discontinuità rispetto al campo
epistemologico all’interno del quale essa ha fatto la sua
7 Ibid., p. 74.
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apparizione. Altra conseguenza di grande rilievo di tale scoperta
è che essa permette di separare il soggetto (linguistico,
simbolico, politico), dall’individuo (biologico=reale) e dall’Io
(filosofico=immaginario)8, trasformando la psicoanalisi in una
vera e propria teoria critica delle formazioni ideologiche, ovvero
in uno strumento critico fondamentale per la stessa scienza
materialista della storia. Scienza resa così capace – come ha
messo in luce Stefano Pippa nella Postfazione – di affondare il
bisturi nelle illusioni e false razionalizzazioni della
soggettività filosofica moderna, trasformando finalmente il
soggetto, in tal modo de‐ideologizzato, in soggetto
rivoluzionario.
3. Psicoanalisi e biologia
Ora, la mia impressione è che non sia necessario attendere la
svolta di Althusser nei confronti di Lacan, rievocata nella
Prefazione di Boni, (svolta principalmente di natura politica),
per comprendere che, in realtà, la funzione di rottura
epistemologica assegnata da Althusser alla teoria lacaniana è,
almeno in parte, un abbaglio. A mio avviso essa costituisce un
abbaglio perché la presunta rottura di Lacan con la biologia, o
meglio con il ricapitazionalismo périmé che sta alla base della
teoria freudiana delle pulsioni, e dell’intero impianto
riduzionista tardo‐ottocentesco della psicoanalisi (impianto che
Stephen Jay Gould chiama darwinismo di cartapesta)9, è in realtà
fondato su un’altra teoria – quella bolkiana del rallentamento
ontogenetico o, in altri termini, teoria della neotenia – che, per
8 Ibid., p. 83. 9 S.J. Gould, Un riccio nella tempesta (1987), tr. it. Feltrinelli, Milano 1991; Id., Ontogenesi e filogenesi (1977), tr. it. Mimesis, Milano 2013, pp. 146‐154. Su questo tema, cfr. anche, F.J. Sulloway, Freud biologist of the mind, Basic Books, New York 1979; S.A. Mitchell, Gli orientamenti relazionali in psicoanalisi (1988), Boringhieri, Torino 1993, p. 71; A. Gualandi, Psicoanalisi, neotenia e comunicazione, in A. Cavazzini, A. Gualandi, M. Turchetto, F. Turriziani Colonna, L’eterocronia creatrice, Unicopli, Milano 2013.
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quanto radicalmente alternativa a quella ricapitazionalista, è pur
sempre una “biologia”. Come noto, Lacan, da tale dottrina della
neotenia, ha derivato numerosi elementi teorici: il tema
dell’incompiutezza dell’“animale umano”, della carenza identitaria
e istintiva, della prematurazione, della condizione simbiotica e
fetale che fa dell’Entzweiung l’evento traumatico originario che
condiziona tragicamente (e pre‐edipicamente) il destino umano
segnato dal desiderio fusionale per l’unità materna. Tali elementi
sono stati sapientemente amalgamati – come Althusser nota
ironicamente nella seconda conferenza10 – con teorie psicologiche
preesistenti. Oltre che con la dottrina freudiana della
castrazione simbolica, essi sono stati miscelati con la dottrina
dello specchio di Wallon, o con concezioni filosofiche, come
quella della funzione identificante dell’intelletto di Emile
Meyerson11. Benché la diagnosi althusseriana relativa allo stato
critico della psicoanalisi sia ancora attuale, mi pare che la
soluzione del problema non consista nell’assegnare alla
psicoanalisi uno spazio di discorso completamente separato dalla
biologia, come vorrebbe Althusser sulla scorta di Lacan. Quanto
piuttosto rifondare la psicoanalisi su una teoria biologica,
quella della neotenia che, come ebbe a dire Enzo Melandri12, anche
se non fosse scientificamente vera – ma a mio avviso numerosi
indici teorici e risultati sperimentali attuali ci dicono che lo è
– lo sarebbe comunque dal punto di vista della sua capacità di
descrivere fenomenologicamente il comportamento umano, e prima di
ogni altra cosa, la nostra follia.
10 L. Althusser, op. cit., p. 49. 11 Cfr. a tal proposito, F. Fruteau de Laclos, Meyerson, Les Belles Lettres, Paris 2014, pp. 145‐159. 12 E. Melandri, Zoon Politikon. Bolk e l’antropogenesi, in «Che fare», 3, 1968, ora in «Carmilla Online». Cfr. anche A. Gualandi, “La neotenia è il veicolo di ogni rivoluzione”. Gould e la rifondazione delle scienze dell’uomo, in A. Cavazzini, A. Gualandi, M. Turchetto, F. Turriziani Colonna, L’eterocronia creatrice, cit.
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4. Il différend tra corpo e linguaggio: l’inconscio
Cerco brevemente di chiarirmi, ritornando al problema del
linguaggio. A mio avviso, il discorso psicoanalitico soffre ancora
di ciò che Jean‐François Lyotard ha chiamato un différend, un
torto fondamentale prodotto dall’incommensurabilità tra regimi di
frasi e generi di discorso13. Da un lato, la psicoanalisi ha avuto
fin dall’inizio la pretesa di proporsi come quel discorso
scientifico che ha per oggetto l’inconscio. D’altro lato, i
detrattori della psicoanalisi, a iniziare da Popper, hanno
sostenuto che tale discorso non soddisfa minimamente i criteri
dell’oggettività scientifica, e che l’inconscio, pseudo‐entità
senza tempo e senza spazio, non può in alcun modo essere
identificato con un oggetto scientifico. Ogni tentativo di
identificare tale “non‐oggetto” con la realtà bioenergetica ibrida
della pulsione, o di ricondurlo, come vorrebbero alcuni
neuroscienziati contemporanei, al cervello subcorticale e limbico,
è, ed è sempre stato, destinato al fallimento. Se tali tentativi
avessero del resto successo, la psicoanalisi si trasformerebbe
inevitabilmente in altro: in psicologia evoluzionistica, in
etologia umana, o neuroscienza dell’ipotalamo o dell’amigdala, per
l’appunto. Ora, io credo invece che, benché non sia un oggetto, e
sia quindi irriducibile a qualsiasi forza fisica o entità
metafisica nascosta, manifestantesi in modo indiretto tramite
sogni, sintomi, lapsus, atti mancati o altro, l’esistenza
dell’inconscio sia perfettamente dimostrabile in modo semplice e
diretto. La prova che l’inconscio esiste è il fatto che c’è del
linguaggio o, meglio, che da una parte c’è il linguaggio, e
dall’altra c’è un corpo, prematuro, infantile e neotenico, che
intrattiene un rapporto prelinguistico e tuttavia comunicativo,
sinestesico, immaginativo e metaforico con l’ambiente naturale e
umano. L’inconscio non è un oggetto perché esso non è altro che la
differenza infinitesimale, e tuttavia incolmabile, lo scarto
13 J.‐F. Lyotard, Le différend, Ed. de Minuit, Paris 1983.
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irriducibile che esiste tra il corpo, vissuto e “centrico”,
dell’essere prematuro e neotenico, e il linguaggio, in terza
persona ed “eccentrico” che gli è imposto dall’Altro.
Per spiegarmi meglio, cito a questo proposito alcuni passi
illuminanti di Daniel Stern: «Il linguaggio apre la strada (sia in
senso topografico che in senso potenzialmente dinamico)
all’inconscio. Prima del linguaggio tutti i comportamenti hanno la
stessa importanza, per quanto concerne il senso di “proprietà”.
Con l’avvento del linguaggio alcuni acquisiscono una condizione
privilegiata sotto questo punto di vista. I molti messaggi
trasmessi dai molti canali vengono frammentati dal linguaggio e
disposti in un ordine gerarchico lungo la dimensione
responsabilità/ritrattabilità»14. Il bambino comprende molto
presto che «la sua vocalizzazione, più che il suo gesto, è
considerata l’atto di cui è responsabile»15. E in tal modo, sembra
concludere Stern – in questo scarto tra ciò che è ritrattabile e
ciò di cui siamo ritenuti responsabili, nello spazio metaforico,
pre‐verbale del gesto espressivo, transensoriale e multimodale dei
sensi e del corpo – s’insedia l’inconscio.
Ma c’è, continua Stern, «anche un altro tipo di scarto fra
esperienza e parole, che merita di essere nominato. Alcune
esperienze del Sé, quali la continuità della coesione, il
“continuare a esistere” di un Sé non frammentato, fisicamente
integrato, rientrano in una categoria analoga a quella del battito
cardiaco e del respiro. È raro che queste categorie vengano fatte
oggetto di attenzione e richiedano la verbalizzazione. E tuttavia
periodicamente giunge alla coscienza una sensazione transitoria di
tali esperienze, per qualche motivo inspiegabile o tramite la
psicopatologia; l’effetto sconvolgente è quello di un’improvvisa
rivelazione del fatto che il Sé verbale e il Sé esistenziale
possono essere distanti anni luce, e che il Sé è inevitabilmente
14 D. Stern, Il mondo interpersonale del bambino (1985), Boringhieri, Torino 1987, p. 187. 15 Ibid., p. 186.
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scisso dal linguaggio»16. E infine un’ultima citazione che apre la
strada alla mia conclusione. «Molte esperienze del “Sé con
l’Altro”, afferma Stern, rientrano in questa categoria non
verbalizzata; guardandosi negli occhi senza parole ci si rivela. E
rivelatrice è anche la sensazione che abbiamo degli effetti vitali
caratteristici di un’altra persona, le peculiarità del suo fisico,
che vengono sperimentate nello stesso modo in cui il bambino
sperimenta una macchia di luce sulla parete [cioè in maniera
transmodale]. Tutte queste esperienze sono ineluttabili, e ciò che
ne risulta è un ulteriore distanziamento fra la conoscenza
personale sperimentata in parole e pensieri. (Non stupisce che
abbiamo tanto bisogno dell’arte per gettare un ponte tra queste
due parti di noi)»17.
In conclusione, il linguaggio «produce una scissione
nell’esperienza del Sé e sposta l’esperienza della relazione dal
livello immediato, personale, tipico degli altri campi, al livello
impersonale, astratto, intrinseco al linguaggio stesso»18. La
miglior prova dell’esistenza dell’inconscio è fornita dunque dal
fatto che esiste un différend irreducibile tra il corpo e il
linguaggio che fa sì che ci sia sempre dell’impensato, e che
l’essere umano non possa mai pretendere di essere Uno,
completamente corpo vissuto fenomenologico, analogico e “privato”,
o completamente linguaggio, intersoggettivamente codificato e
discreto. Io credo che psicoanalisti come Daniel Stern o Hans
Loewald19 abbiano mostrato, con modalità e esiti diversi,
esattamente questo fatto. Anche Lacan, si potrebbe obiettare,
concorderebbe su questa discontinuità tra biologia e cultura, tra
corpo e linguaggio. La differenza sta tuttavia nel modo in cui si
concepisce il linguaggio: da un lato struttura opposizionale di
16 Ibid., p. 187. 17 Ibid. 18 Ibid., p. 169. 19 H. Loewald, Riflessioni psicoanalitiche (1980), tr. it. Masson, Milano 1999; S.A. Mitchell, Il modello relazionale. Dall’attaccamento all’intersoggettività (2000), Raffaello Cortina, Milano 2002, pp. 21‐47.
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differenze fonetiche e semantiche organizzate in una rete di
significanti, dall’altro voce sensibile, autopercepita e
autoprodotta20, che si radica nei rimandi intersensoriali e
comunicativi tra i sensi, i gesti e le azioni, sovraccaricata di
contenuti sinestesici sperimentati nel commercio prelinguistico
con l’Heteros e con l’Allon21. Da un lato, struttura simbolica che
dinamizza metaforicamente e metonimicamente l’inconscio, e si erge
come legge che impone in modo irreversibile la sua azione di
castrazione al desiderio, dall’altra il linguaggio come «arma a
doppio taglio». Il linguaggio è infatti al contempo tecnica o
strategia che ci consente di «partecipare più facilmente agli
altri le nostre esperienze, permette a due persone di dar vita
scambievolmente a nuovi significati prima sconosciuti e che non
potevano esistere fintanto che le esperienze relative non erano
esprimibili a parole [...] e che consente al bambino di cominciare
a costruire una narrazione della propria vita»22. Ma è anche
istanza che separa il processo primario dal secondario (Loewald) e
che fa sì che parti scisse della nostra esperienza «divengano più
difficilmente comunicabili a noi stessi e agli altri»23. In questa
prospettiva l’inconscio non è strutturato come un linguaggio,
bensì è l’arma a doppio taglio del linguaggio che s’inserisce come
un «cuneo fra due forme simultanee di esperienza interpersonale:
quella vissuta e quella verbalmente rappresentata. L’esperienza
che ha luogo nei campi di relazione emergente, nucleare e
intersoggettiva, e che prosegue indipendentemente, non può essere
fatta rientrare se non in modo molto parziale nel campo di
relazione verbale. E, nella misura in cui agli eventi che hanno
luogo nel campo di relazione verbale viene attribuito un valore di
“realtà”, ne risulta un’alienazione delle esperienze che hanno
20 D. Anzieu, L’enveloppe sonore du soi, in «Nouvelle Revue de Psychanalyse», 13, 1976; Id., Le moi peau, Ed. Dunod, Paris 1995. 21 Sulla distinzione tra l’alterità dell’Heteros e dell’Allon, cfr. E. Straus, Il vivente umano e la follia. Studio sui fondamenti della psichiatria (1963), tr. it. Quodlibet, Macerata 2010. 22 D. Stern, op. cit., p. 169. 23 Ibid.
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luogo negli altri campi, [le quali possono quindi divenire] i
campi sommersi dell’esperienza»24, in altre parole l’inconscio.
È su questo tema della natura del linguaggio che la differenza tra
Lacan e queste correnti del pensiero analitico post‐freudiano, in
gran parte trascurate in Francia, emerge nel modo più netto, anche
nel modo di intendere la cura psicoanalitica. Il paradigma
psicoanalitico relazionale, così come è stato messo a punto da
psicoanalisti come Hans Loewald o Stephen Mitchell, permette
infatti di dialettizzare il paradigma ancora in parte
“stratigrafico” di Stern, e portare a compimento quell’inversione
del vettore in cui risiede secondo Althusser la grande scoperta di
Lacan. Tale paradigma relazionale ci insegna che l’incontro con
l’Altro contribuisce a strutturare il nostro inconscio ben prima
che il linguaggio si conchiuda in struttura simbolica
autosufficiente e completa, che detta la sua legge edipica al
soggetto: nel vivente neotenico umano «la cultura precede fin da
sempre la natura». La psicoanalisi relazionale ci mostra tuttavia
che ben prima della fase dello specchio c’è la relazione di
rispecchiamento e sintonizzazione multisensoriale (Stern, Anzieu),
più o meno riuscita e felice, con l’Altro. Anziché indurre il
soggetto a rinunciare a tutte le sue identificazioni immaginarie
per riconoscere e accettare l’imperio del significante linguistico
sul proprio inconscio, compito della psicoanalisi è piuttosto
quello di riattivare possibilità neoteniche congelate al di sotto
della scorza imposta all’esperienza dal processo secondario del
linguaggio intersoggettivamente codificato, rivitalizzando quelle
relazioni comunicative iscritte nei sensi e nel corpo tramite cui
si è strutturato fin dai primi giorni di vita il nostro rapporto
con noi stessi e con l’Altro. È in questa matrice relazionale che
si struttura il rapporto del soggetto con se stesso, e non nella
fase immaginariamente surdéterminée dello specchio. Ma se, da un
lato, le figure della coscienza infelice: stoica, scettica,
24 Ibid.
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nevrotica, narcisistica, ossessiva, psicotica etc. che ne
derivano, dischiudono alla psicoanalisi un orizzonte politico e di
critica delle funzioni ideologiche veicolate dal linguaggio,
d’altro lato esse riconducono la psicoanalisi nei pressi della
Cariddi filosofica, dialettico‐hegeliana, più di quanto la rottura
epistemologica althusseriana avrebbe forse concesso e desiderato.
RECENSIONI&REPORTS report
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LIVIO BONI
L’insight althusseriano nella psicoanalisi: elementi per una lettura meta‐analitica
1. Il chiasmo Althusser/Lacan
Vorrei proporre qualche breve considerazione a margine e come
supplemento a quanto ho già tentato d’articolare nella prefazione
a Psicoanalisi e scienze umane, cercando di evitare la pura e
semplice ripetizione e di offrire qualche spunto ulteriore per la
discussione.
Nel mio saggio introduttivo ho tentato di mettere l’accento sul
chiasmo Althusser/Lacan, il quale non si riduce al puro e semplice
movimento di Althusser in direzione di Lacan, del tutto evidente a
metà degli anni ’60, ma che genera a sua volta anche una serie di
contro‐movimenti e di introiezioni in Lacan stesso (ed è
innanzitutto su questi ultimi che ho cercato d’attirare
l’attenzione nella prefazione).
Da poco trasferito il proprio seminario e il proprio sito
d’enunciazione all’École Normale e ricevuto asilo presso Althusser
e i suoi allievi, Lacan ha infatti cura di dar luogo a un
movimento controtrasferenziale, che prende in contropiede il
riconoscimento da parte di Althusser della rottura epistemologica
freudo‐lacaniana introducendo una nuova rottura, questa volta
interna al lacanismo stesso, corrispondente all’introduzione delle
categorie di soggetto della scienza e di jouissance (godimento),
nozioni‐chiave del cosiddetto «secondo Lacan». Come ho ricordato
nella prefazione, è infatti già nel dicembre del ’65, appena
arrivato all’École Normale, che Lacan introduce il soggetto della
scienza nel suo seminario, in una seduta talmente cruciale da
figurare in seguito come chiosa agli Scritti, con il titolo «La
scienza e la verità», unica stenografia del seminario che figuri
negli Scritti (1966), e testo concepito all’origine per il primo
numero (gennaio 1966) dei Cahiers pour l’analyse, luogo d’incontro
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295
e di messa alla prova del sodalizio tra lacanismo e althusserismo.
L’introduzione del concetto di «soggetto della scienza», e il
conseguente recupero di Descartes che ne deriva, con il cogito
cartesiano considerato addirittura “archi‐condizione” per
l’emergenza del soggetto dell’inconscio, rappresentano qualcosa di
più che uno smarcamento rispetto alle posizioni assunte da
Althusser tra il ’63 e il ’65, ma configurano un vero e proprio
spostamento di prospettiva epistemica, e inaugurano una nuova
strategia ideologica, che non mancherà di sconcertare Althusser,
il quale si rifiuterà di seguire Lacan in questa nuova direzione,
tornando anzi a Freud, questa volta contro il lacanismo, o
comunque, prendendo le distanze da quest’ultimo (vedasi l’affaire
di Tiblisi e il testo La scoperta del dottor Freud, in seguito
ritirato da Althusser dopo gli avvisi negativi di alcuni suoi
allievi lacaniani, in particolare Elisabeth Roudinesco e Jacques
Nassif, ma pubblicato a suo discapito).
Il lavoro incompiuto Tre note sulla teoria dei discorsi
costituisce in questo senso un documento eloquente del tentativo
non finalizzato, da parte di Althusser e dei suoi allievi, di
rispondere al contro‐transfert lacaniano, e come tale mi sembra
che andrebbe riletto. A partire da questo tentativo incompiuto di
rispondere alla svolta imboccata da Lacan, la strada intrapresa da
Althusser nel suo confronto con la psicoanalisi si affrancherà
sostanzialmente dal divenire della riflessione di Lacan, e
Althusser realizzerà in seguito un’appropriazione autonoma e
idiosincratica della psicoanalisi lacaniana nella teoria
dell’interpellazione dell’individuo in soggetto nel dispositivo
dell’ideologia.
Questo era il primo punto che m’interessava mettere in esergo:
come la crisi del transfert tra il marxismo althusseriano e il
lacanismo sia stata in qualche modo inaugurale, pur continuando a
produrre degli strascichi da entrambe le parti. Si può infatti
sostenere che, dopo aver realizzato questo smarcamento inaugurale,
RECENSIONI&REPORTS report
296
o questa sottrazione, rispetto al transfert althusseriano, Lacan
tornerà più tardi a utilizzare a suo modo alcuni elementi
provenienti dalla proposta elaborata da Althusser e dai suoi
allievi intorno al ’65. Ad esempio la famosa tesi, enunciata
nell’ottobre ’68, secondo la quale Marx sarebbe l’inventore del
sintomo, in quanto scopritore del segreto del «plusvalore» che
restava implicito nell’economia classica. Si può in effetti
leggere questo assioma lacaniano come una trasposizione della tesi
althusseriana della lettura sintomale come metodo prefigurato da
Marx stesso e in Marx stesso. La stessa teoria dei «Quattro
discorsi», elaborata da Lacan dopo il ’68, può esser letta come
una risposta al tentativo, che menzionavo or ora, d’elaborare una
teoria generale dell’economia dei discorsi da parte di Althusser e
dei suoi allievi. E, più in generale, il ricorso sui generis a
Marx da parte di Lacan tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli
anni ’70 sembra avere il senso di un riassorbimento del marxismo
althusseriano nel momento stesso in cui quest’ultimo entra in
crisi, sembrando in qualche modo, per dirla con il Derrida di
Spettri di Marx, «out of joints».
In breve, e senza entrare nei dettagli, credo che la pubblicazione
di queste conferenze inedite debba incoraggiarci a percorrere una
pista critica meno battuta, quella degli effetti paradossali e
differiti del transfert althusseriano sull’itinerario di Lacan
medesimo, e su una certa introiezione di alcuni motivi
althusseriani in Lacan, introiezione che al tempo stesso non
preclude affatto un lavoro di trasmutazione di questi stessi temi
(come nel caso della teoria dei «Quattro discorsi», che non è una
teoria epistemologica, ma una teoria delle funzioni
transferenziali del discorso).
Credo, insomma, che la riflessione sul rapporto tra Lacan e Marx
non possa fare l’economia – come invece suggeriscono alcuni
studiosi lacaniani vicini al marxismo (penso a Pierre Bruno) –
della complessità della triangolazione introdotta dalla mediazione
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297
althusseriana. Lacan non è in una splendid isolation nel suo
confronto con Marx, il suo dispositivo teorico non è del tutto
sovrano e libero da ogni dimensione congiunturale, ma al contrario
reagisce “controtrasferenzialmente” a una serie di sollecitazioni,
appelli e investimenti esterni, operando in maniera analitica,
vale a dire disattendendoli, fornendo risposte che non assecondino
ma trasformino la domanda iniziale, in un misto tra estrema
ricettività e sordità che è proprio alla posizione analitica,
anche quando questa si situa al livello dello scambio della
produzione intellettuale.
Questo era il primo punto che m’interessava enucleare e
argomentare nella prefazione e che ho qui ricapitolato in maniera
estremamente sintetica25.
2. La rimozione della differenza sessuale
Il secondo punto riguarda l’approccio alla psicoanalisi e a Freud
25 Per una mappatura più dettagliata dei luoghi del chiasmo Althusser/Lacan, che s’articola lungo più di un decennio (dal 63 al 74), cfr. L. Boni, Al di là della congiuntura: l’impronta di Althusser sulla ricezione della psicoanalisi, prefazione a L. Althusser, Psicoanalisi e scienze umane, cit. Tale mappatura non è esaustiva, e potrebbe senza dubbio essere arricchita. Maria Turchetto, durante la discussione che ha seguito la tavola rotonda, notava ad esempio come lo stesso «Corso di filosofia per scienziati», organizzato tra l’autunno del ’67 e il maggio del ’68, possa esser riletto nel quadro di una risposta all’introduzione del «soggetto della scienza». Si potrebbe parlare di contro‐contro‐transfert da parte di Althusser, ricordando tuttavia che: (1) Lacan è sempre stato profondamente critico nei confronti della nozione di «controtransfert», operatore fondamentale di una concezione intersoggettiva dell’analisi che Lacan intende destituire, opponendo in fine alla nozione di controtransfert quella di «desiderio dell’analista». (2) Althusser, dal canto suo, enuncerà in più occasioni l’idea di un «primato del controtransfert» sul transfert stesso, posizione alla quale pervengono le note Sul transfert e il controtransfert (1973). Tuttavia queste ultime – che Althusser attribuisce parodisticamente al proprio analista, René Diaktine – fanno parte dei testi “autoanalitici” di Althusser , e, in quanto tali, restano difficili da prendere in conto da un punto di vista prettamente teorico (cfr. P. Bruno, Lacan, passeur de Marx, érès, Toulouse 2010, pp. 101‐116). In queste «piccole incongruenze portatili», Althusser mette in scena la difficoltà dell’analista a pensare e accettare la fine della cura, a separarsi dall’analizzando, ma lo fa in vece dell’analista, dando luogo a una spirale nella quale non si sa più bene chi sia il soggetto del contro‐transfert, se l’analista o l’analizzando. Comunque sia, è chiaro, alla lettura di queste note, che Althusser non si interessa all’idea lacaniana del «desiderio dell’analista», e che il suo tentativo di recupero sui generis della logica del controtransfert accompagna la sua presa di distanza più generale da Lacan.
RECENSIONI&REPORTS report
298
quale emerge dal testo di queste conferenze, a prescindere dal
loro contesto e dalle complicazioni del chiasmo Althusser/Lacan.
La domanda può esser formulata in termini alquanto drastici: in
che misura queste conferenze possono costituire una buona
introduzione al rapporto filosofia/psicoanalisi, o a quello tra
scienze umane e psicoanalisi, o addirittura una buona introduzione
a Freud e alla psicoanalisi tout court? O, per dirla nei termini
di Alberto Gualandi, che impressione si ricava da questi testi
allorché non li si legga né more lacaniano, né more althusseriano,
ma come testi d’introduzione alla psicoanalisi e al freudismo?
Vorrei fare una premessa, che ho tralasciato nella mia prefazione,
ma sulla quale non mi sembra inutile rivenire in quest’occasione:
un elemento che colpisce alla lettura di queste due conferenze,
che pure per più versi costituiscono un’introduzione critica
lucida ed efficace ad alcune operazioni fondamentali realizzate da
Freud e dalla psicoanalisi, è l’assoluta assenza della questione
della differenza sessuale. Non vi è traccia, in effetti, in queste
conferenze, né in altri scritti di Althusser sullo stesso
argomento, del fatto che la psicoanalisi muova i propri primi
passi a partire dal corpo delle isteriche, dal cosiddetto problema
della conversione isterica. Il personaggio clinico‐concettuale che
domina la narrazione teorica althusseriana non è la donna, non è
l’isterica, ma è il bambino, nella fattispecie Victor, l’enfant
sauvage studiato dallo psichiatra Itard, precursore della
psichiatria infantile, cui Althusser dedica pagine appassionate
nella seconda conferenza. Come se la priorità di Althusser in
questo suo primo corpo a corpo con la psicoanalisi fosse quella di
estorcere a quest’ultima un’antipedagogia, un approccio
irriducibile a ogni psicologia dell’adattamento, del
condizionamento, dell’apprendimento attraverso una conformazione
strumentale tra linguaggio e bisogni. Insomma, un approccio
roussauviano alla psicoanalisi, che traspare nella rilettura
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299
althusseriana del caso di Victor...26. Comunque sia, l’immagine
del bambino è ricorrente e privilegiata nei testi althusseriani
sulla psicoanalisi. Penso alla parte finale dell’articolo
Ideologia e apparati ideologici dello Stato, in cui il battesimo e
l’identificazione dell’infante, attraverso l’attribuzione di un
nome proprio, vengono addotti come esempi d’interpellazione
ideologica originaria; o ancora all’inizio dello scritto su Freud
e Lacan, in cui Nietzsche, Marx e Freud sono presentati come
enfants terribles che non erano previsti dalla storia, come punti
di eccesso rispetto a ogni prefigurazione ideologica preventiva.
Insomma, credo ci sia materia sufficiente per interrogarsi su
questa centralità della questione pedagogica in Althusser, e su
quest’idea che la psicoanalisi possa funzionare come una contro‐
pedagogia, una decostruzione dell’alienazione indotta
dall’educazione, sebbene Althusser non indulga mai all’idea
freudo‐marxista di una liberazione vera e propria dai vincoli
repressivi dell’educazione, ma pensi piuttosto a un décalage, uno
spostamento. Freud sostiene da qualche parte che la psicoanalisi
sia una «ri‐educazione», nel senso di un’educazione ulteriore, che
disfi i nodi, i complessi e le inibizioni indotte dall’educazione
familiare, scolastica e socialmente riconosciuta. Forse Althusser
non è così lontano da una simile prospettiva.
Da qui la posizione frontale assunta da Althusser contro il post‐
freudismo incarnato da Anna Freud e Mélanie Klein, che egli
considera regressivo e conformista. Non si dimentichi che uno
degli elementi fondamentali del post‐freudismo ortodosso di Anna
Freud, così come di quello eterodosso di Klein, è proprio
26 Lascio questo punto in sospeso, magari per chi conosca meglio di me il rapporto tra Althusser e Rousseau, ma la mediazione di Rousseau è forse «spontanea» per chi pervenga al freudismo provenendo da Marx, non solo in contesto francese. Mi viene in mente una delle rare note sulla psicoanalisi nei Quaderni gramsciani, in cui il freudismo è sospettato d’essere una nuova forma di roussauvismo. In merito alle note gramsciane su Freud e la psicoanalisi mi permetto di rimandare alle voci “psicanalisi” e “Freud” da me curate per il Dizionario Gramsciano 1926‐1937, a cura di G. Liguori e P. Voza, Carocci, Roma 2009.
RECENSIONI&REPORTS report
300
l’allargamento della psicoanalisi alla psicoanalisi infantile.
L’infans, e persino il neonato, diventano il soggetto centrale, e
il rapporto madre‐bambino il luogo decisivo della psicogenesi
analitica postfreudiana. Mi sembra che la virulenza althusseriana
contro una simile prospettiva non sia dovuta solamente alla sua
adesione convinta alla critica della psicologia dell’Io già
avanzata da Lacan, o contro la psicologia dell’adattamento, ma
all’idea che, se si aderisce alla prospettiva post‐freudiana,
allora la psicoanalisi come «contro‐educazione», come contro‐
pedagogia, non è più veramente possibile, nella misura in cui
tutto si gioca ormai nelle prime fasi dell’esistenza, nei rapporti
fantasmatici originari, nelle esperienze “archi‐originarie” di
soddisfacimento, di frustrazione e di riconoscimento. In una
simile prospettiva, la psicoanalisi prenderebbe sostanzialmente
congedo dalla vis pedagogica, o anti‐pedagogica (in un certo senso
è la stessa cosa), della filosofia, per non parlare
dell’inservibilità politica, o metapolitica, di questa psico‐
genealogia radicale indotta dal post‐freudismo.
È quindi significativo il fatto che sia il duo Anna Freud/Mélanie
Klein a incarnare questo rischio regressivo – malgrado la rivalità
arcinota tra le due donne e le posizioni da esse incarnate. Come
se il femminile, “forcluso” nella ricostruzione althusseriana
della scoperta analitica, tornasse poi in forma fantasmatica, come
spettro di un riassorbimento regressivo, di una negazione radicale
di qualsiasi destino eroico del bambino e dell’uomo, fagocitato
dal rapporto arcaico con la madre. Non vorrei essere oltranzista
nell’avanzare quest’impressione analitica che mi sembra di poter
ricavare dalla lettura di queste due conferenze – ma anche di
altri testi althusseriani sulla psicoanalisi – l’impressione che
il femminile, rimosso dalla presentazione dell’evento freudiano e
dalla sua disamina antropologica ed epistemologica faccia poi
ritorno in forma di fantasma della madre castratrice. Resta il
fatto che qualcosa del genere traspare dalla parola althusseriana,
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301
a tal punto che, per quattro o cinque volte, egli commette dei
lapsus, condensando i nomi di Anna Freud e di Mélanie Klein
(«Mélanie Freud»), o confondendo la prima con la seconda (come
attestato dalla registrazione a partire dalla quale è stabilito il
testo delle conferenze).
3. Oltre la critica della psicologia
Un’ultima osservazione, importante, per rispondere parzialmente
alle analisi di Alberto Gualandi, che sottoscriverei in gran
parte, pur essendo i miei riferimenti culturali e filosofici
alquanto diversi dai suoi. Sono d’accordo sul fatto che si
trascuri troppo spesso il fatto che Lacan usi una certa biologia
contro il biologismo freudiano, e che vi sia una notevole parte di
fraintendimento o di pigrizia intellettuale nel continuare a
reiterare l’idea di una rottura e un’emancipazione radicale di
Lacan da ogni riferimento alle scienze della natura, ecc. (si
pensi all’importanza dell’etologia nell’opera pubblicata e nei
Seminari di Lacan). Non credo però che Lacan si possa ridurre al
cosiddetto “primo Lacan”, al Lacan dell’«inconscio strutturato
come un linguaggio», al Lacan anni ’50 del primato epistemologico
della linguistica e del simbolico. La vitalità attuale del
lacanismo è essenzialmente incentrata sul cosiddetto «secondo
Lacan», quello del paradigma del «godimento», del primato del
Reale. Mi pare che una nozione come quella di lalangue ( la
«lalingua»), avanzata all’inizio degli anni ’70, indichi
chiaramente che il linguaggio s’inscrive toujours‐déjà nel corpo,
che il linguaggio (o piuttosto la lalingua, neologismo che rinvia
alla lallazione infantile e a momenti primigeni di appropriazione
del linguaggio da parte del neonato in interazione con la madre o
con chi ne faccia le veci) non è solo un thesaurus di significanti
concatenati da un phallus; non è solo il luogo in cui si è parlati
dall’Altro, ma è il luogo in cui prende forma prematuramente il
godimento, forma sempre‐già articolata al corpo, sempre‐già
RECENSIONI&REPORTS report
302
incistata in esso, alienata alla corporeità e non solo alla
riserva simbolica rappresentata dal grande Altro della
«linguisteria». Attraverso una nozione come quella di lalingua, al
limite tra l’onomatopea e il gioco di parole, Lacan procede a
un’autocritica parziale del proprio logocentrismo residuale, del
sovrainvestimento del linguaggio come logica. «Il y a dans le
langage quelque chose de trop conceptuel, de trop logique»,
scriverà sul numero 6/7 di Scilicet. «Il linguaggio è quel che si
cerca di sapere a proposito della funzione della lalingua»,
ribadirà nel seminario XX, Ancora. Questo non significa che la
lalingua traduca d’ora in avanti l’inconscio. Lacan non cede mai a
una mistica dell’incarnazione enigmatica e indicibile, l’inconscio
«non può che strutturarsi come linguaggio»27, definirsi cioè
rispetto a un andirivieni tra codificazione e decodificazione, ma
questo linguaggio possiede tuttavia un versante incarnato,
incorporato, intricato al godimento, che rinvia a una forma di
appropriazione pre‐speculare del linguaggio stesso da parte del
piccolo d’uomo, al rapporto bambino‐madre (o al rapporto con un
ersatz della madre), cioè a un versante «reale» sul quale il
linguaggio stesso non può che formulare, dirà Lacan, che una serie
di ipotesi (è qui che ritroviamo il différend linguaggio/corpo,
rivendicato da Gualandi, come luogo di produzione d’inconscio).
Ci sarebbero ancora tanti punti da abbordare, che non ho trattato
nella mia prefazione: per esempio sarebbe utile tornare sulle
ragioni per le quali Lacan considererà, nello stesso esatto
periodo di queste due conferenze althusseriane, la nozione
d’inconscio fondamentalmente incompatibile con qualsiasi
ontologia, congedando Spinoza nel momento stesso in cui Althusser
lo rilancia come anti‐Descartes28. Ma preferisco concludere con
27 Cfr. P.‐L. Assoun, Lacan, Puf, Paris, 2003 p. 45. 28 Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1973), tr. it. Einaudi, Torino 2003, seduta del 29‐6‐1974. Sul tema, vedasi l’eccellente saggio di José Attal, La non‐excommunication de Jacques Lacan. Quand la psychanalyse a perdu Spinoza, L’unebévue, Paris 2010.
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una considerazione d’ordine più (meta)politico: se è vero che
l’insight althusseriano nella psicoanalisi, nutrito da un forte
transfert con l’opera e la figura di Lacan, si fonda su una
lettura parziale di quest’ultimo, ignorando il Lacan “post‐
strutturalista” del godimento e del primato del Reale sul
Simbolico; se è vero ugualmente che una serie di malintesi (come
quello circa il soggetto della scienza) presiederanno al divenire
del rapporto althusseriano con il lacanismo e con la psicoanalisi,
resta il fatto che l’equazione althusseriana fondamentale Io =
Immaginario = Ideologia, già presente per più versi in queste
conferenze, produrrà un effetto di lunga durata non solo nella
ricezione della psicoanalisi da parte del marxismo e della
filosofia, ma in un certo senso in seno alla psicoanalisi stessa.
Un tratto distintivo della cultura analitica freudo‐lacaniana,
soprattutto nel contesto francese, consiste infatti nel
considerare la psicoanalisi come una critica implicita
dell’ideologia, o meglio come un lavoro di sottrazione del
soggetto rispetto alle identificazioni ideologiche che ne
sovradeterminano una parte consistente di produzione desiderante e
sintomatica. Detto in altri termini, la mediazione althusseriana
ha concorso potentemente a una certa inflessione del freudismo, il
quale non si contenta più di rivendicare una postura a‐ideologica,
non rimuove la questione dell’ideologia in nome di un ideale
scientista di neutralità, lasciandosi in tal modo la possibilità
di operare corrosivamente nei confronti dell’ideologia,
considerata un travestimento e una capitalizzazione del disagio
della civiltà.
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304
STEFANO PIPPA
Althusser senza Lacan. Prospettive a partire dalle Due conferenze
1. Il chiasmo marxismo/psicoanalisi
Se dovessimo porci la domanda circa l’importanza che possono avere
oggi le due conferenze pronunciate da Althusser nel 1963‐6429 tra
le mura dell’École Normale, potremmo addurre innanzitutto
l’esigenza di portare a conoscenza del pubblico italiano un testo
postumo che ancora non era stato tradotto e che, del resto, è
ormai introvabile anche in francese. In secondo luogo, si potrebbe
tentare di fornire una risposta più “althusseriana”. Si
tratterebbe, in questo secondo caso, di provare a chiarire in che
modo il contenuto di queste due conferenze sulle psicoanalisi
possa avere un effetto sulla concettualizzazione del chiasmo
marxismo/psicoanalisi. Va da sé che questa seconda ragione ci
impegna in una presa di posizione circa il modo in cui
l’intervento althusseriano di intersezione di marxismo e
psicoanalisi continua a produrre effetti teorici nelle modalità
odierne di effettuazione di una tale intersezione.
Per quanto concerne la congiuntura attuale, è evidente che oggi il
chiasmo marxismo‐psicoanalisi è ben lontano dalla “stagione
eroica” degli anni ’60 del secolo scorso. Nondimeno il duplice
riferimento a questi due campi continua a essere un punto
imprescindibile per buona parte del pensiero critico
contemporaneo, in autori come Badiou e Žižek, ad esempio, ma anche
Butler e in altri autori della scuola di Lubiana come Dolar,
Zupančič, Močnik. In questa congiuntura, che si richiama sia a
Althusser che a Lacan, direi che la funzione di Althusser si può
definire come quella di una convocazione e di un rifiuto. Nel
discorso critico contemporaneo (dominato dalle figure di Badiou e
Žižek), Lacan prende nettamente il sopravvento su Althusser. Ma
29 L. Althusser, Psicoanalisi e scienze umane (1996), cit.
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305
non solo: Althusser è sovente letto esclusivamente nei termini
della filosofia di Lacan, cosicché la specificità dell’operazione
althusseriana di intersezione di marxismo e psicoanalisi va
sovente perduta, o trascurata. In questo senso, le due conferenze,
rappresentando il primo passo di Althusser nel dominio della
psicoanalisi lacaniana, sono utili per tentare una
riconsiderazione del rapporto di Althusser con la psicoanalisi e
della strategia teorica che viene messa in moto per dare
consistenza a un tale rapporto.
Esse fanno parte, come è noto, del periodo più strettamente
teoricista di Althusser: è evidente in esse un approccio
nettamente epistemologico, volto a stabilire con cura le
“frontiere” tra discipline afferenti al generico campo delle
scienze umane. Ma l’interesse maggiore sta secondo me altrove. Sta
precisamente nell’intreccio emergente in esse tra il marxismo
althusseriano – allora in piena gestazione – la psicoanalisi e
l’apporto di Spinoza. Questa triade fornisce la triangolazione
primaria sulla quale Althusser tenterà di forgiare il suo marxismo
e i propri strumenti filosofici ed epistemologici, ma è anche una
triangolazione assai instabile – e questa instabilità appare
evidente fin dall’inizio, cioè appunto fin da queste conferenze.
Ciò che intendo dire è che il valore principale di queste
conferenze è forse nel metterci di fronte a una certa
problematicità che fin dall’inizio marca l’avvicinamento di
Althusser a Lacan; ed è questa problematicità che rende difficile,
a mio avviso, avallare la tesi di una fascinazione teorica di
Althusser verso Lacan.
2. Sulla presunta rottura epistemologica lacaniana
Per questo motivo mi sembra interessante soffermarsi in profondità
sugli elementi di divergenza che emergono in queste conferenze nei
confronti di Lacan. Ma facciamo un passo indietro, e chiediamoci:
che cosa rappresenta, innanzitutto, l’incontro di Althusser con
RECENSIONI&REPORTS report
306
Lacan? La specificità di queste due conferenze rispetto ad altri
testi scritti da Althusser su Lacan è che esse insistono molto
sull’aspetto della rottura, direi proprio sull’effetto di rottura
che Lacan produce in Althusser rispetto a una idea di psicoanalisi
ben determinata: quella di Politzer. Il ruolo giocato da Politzer
nella formazione di Althusser lungo gli anni ’50 è stato sovente
trascurato dalla critica: di norma il rapporto di Althusser con la
psicoanalisi si fa cominciare con gli anni sessanta. Ma in realtà,
per comprendere la funzione svolta da Politzer per il pensiero di
Althusser è necessario tenere conto che Althusser intuisce fin dal
1948 l’importanza della psicoanalisi freudiana e la possibilità di
un suo utilizzo per una teoria delle ideologie, e mostra già una
buona conoscenza delle opere di Freud. Nella tesi di laurea del
1948, Freud viene mobilitato per descrivere l’origine del mito e
dell’ideologia nella repressione della categoria di realtà, prima
nel Sollen kantiano e poi nelle opere post‐fenomenologiche di
Hegel (in particolare la Filosofia del Diritto e le Lezioni sulla
filosofia della storia)30. Negli anni successivi, la relazione di
Althusser nei confronti della psicoanalisi va incontro al veto
pronunciato dalle istituzioni comuniste ufficiali nei confronti
dell’opera freudiana. Ma vari documenti per lo più inediti –
appunti di lettura e note di lavoro, oltre che trascrizioni di
corsi all’École – mostrano una attenzione di Althusser verso la
psicologia – in particolare di Piaget – cui si accompagna sempre
più una critica di tipo epistemologico31. È in questo contesto
che, come spiega Althusser in queste due conferenze, egli si
rivolge a Politzer e arriva a quella “sintesi paradossale” che
individua nell’inconscio l’oggetto della psicologia. Sintesi
insostenibile per lo stesso Althusser, ovviamente, ed è in questa
30 Cfr. L. Althusser, Il contenuto in Hegel, tr. it. Mimesis, Milano 2015, pp. 42 e sgg. 31 In proposito si vedano le note del corso sulla psicologia che si trovano in É. Jalley, Louis Althusser et quelques autres, L’ Harmattan, Paris 2014, pp. 37‐57.
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tensione tra l’esigenza di una valorizzazione dell’opera di Freud
e l’insistenza sul “concreto” che proveniva dalla psicologia
sovietica (di cui però Althusser rifiuta il riduzionismo, come
mostrano altre note depositate all’archivio Althusser dell’IMEC),
che l’opera di Lacan si inserisce come una possibilità e una via
di uscita. Del resto bisogna notare anche che, se ci atteniamo a
quanto ne dicono autorevoli esponenti di quell’epoca fervida, fu
proprio la critica di Politzer avanzata da Laplanche e Leclaire
nel loro articolo L’inconscient: une étude psychanalytique32, a
produrre in Althusser quella rottura personale con la sua sintesi
impossibile di psicologia e inconscio33. Questo articolo,
presentato nel 1960 – quindi appunto prima delle due conferenze –
a Bonneval, rappresentò per molto tempo il testo di riferimento
per la nuova concezione della psicoanalisi di ispirazione
lacaniana, in mancanza degli Écrits, che come è noto verranno
pubblicati solo nel 1966; ma è anche l’unico testo “lacaniano” che
prende le misure degli “errori” di Politzer, che più tardi
Althusser definirà “geniali”. Questo apparente ossimoro, come ha
notato giustamente Balibar, dà nella sua fulminante brevità l’idea
del complicato rapporto che Althusser ha intrattenuto con l’opera
di Politzer.
Ma per tornare all’articolo di Leclaire e Laplanche: che cos’è che
i due autori criticano in Politzer? Due punti, essenzialmente. Il
primo aspetto è l’idea di “prima persona”, introdotta da Politzer
nella sua critica alla metapsicologia freudiana. Per Politzer,
infatti, Freud sarebbe caduto in contraddizione con se stesso,
prima introducendo un metodo di analisi del sogno come “atti in un
dramma in prima persona”, per poi alla fine sostituire a questo
“dramma” una spiegazione “impersonale”, un “meccanismo” che non
32 J. Laplanche e S. Leclaire, L’inconscient: une étude psychanalytique, in H. Ey (a cura di), L’ inconscient. VI colloque de Bonneval, Desclée de Brouwer, Paris 1966. 33 Cfr. P. Hallward, Strong Structuralism, Weak Subject: an Interview with Yves Duroux, in P. Hallward and K. Peden (a cura di), Concept and Form, vol. 2, Verso, London 2012, pp. 189‐202; e la prefazione di E. Balibar a A. Pardi, Il sintomo la rivoluzione, Manifestolibri, Roma 2007.
RECENSIONI&REPORTS report
308
riesce a mantenersi al livello della soggettività. Leclaire e
Laplanche obiettano a Politzer che voler ridurre l’inconscio a una
scena di un “dramma” in prima persona impone una notevole
restrizione alla scoperta freudiana, poiché uno dei cardini della
dottrina di Freud è che il processo onirico può presentarsi
appunto «nella forma alienata della seconda o della terza
persona»: «quando ça parle nell’inconscio, noi troviamo per
l’appunto l’unità drammatica così cara a Politzer, ma questo
dramma non ha necessariamente la forma di una prima persona»34.
Questo punto è uno dei punti cardine della critica di Althusser,
che non smetterà di attaccare Politzer per il suo uso del concetto
di “prima persona” e di “dramma”. Ma la seconda obiezione di
Leclaire e Laplanche è ancora più importante, e qui si innesta in
effetti con maggior pregnanza il discorso di Althusser. I due
autori infatti mostrano che la critica di “realismo”, che Politzer
rivolge a Freud, si basa su un presupposto essenzialmente di
natura fenomenologica, che cerca di pensare il significato del
testo del sogno come una traduzione di gesti, emozioni, intenzioni
del soggetto stesso, che non ha trovato possibilità di esprimerli
in altra maniera. Ora, Politzer senz’altro prende posizione contro
la trasparenza del cogito cartesiano; tuttavia questa opacità dà
luogo a una duplicità di livello del tipo significante e
significato, in cui l’inconscio diventa una riserva di
significati. Qui l’obiezione di Leclaire e Laplanche è netta:
questa ipotesi, di tipo schiettamente ermeneutico, non rende conto
dei dati dell’analisi. Proprio il collegamento di Politzer con la
fenomenologia, soltanto accennato nell’articolo, sarà sviluppato
da Althusser, e diventerà in fondo la base per ogni sua critica
seguente alle interpretazione “ermeneutiche” dell’opera freudiana.
A questa linea di “rottura” con – si potrebbe ben dire – la
propria precedente coscienza filosofica, non si associa però una
completa adesione di Althusser al progetto lacaniano. Anzi,
34 J. Laplanche e S. Leclaire, L’inconscient..., cit.
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proprio in due queste conferenze Althusser avanza elementi di
critica all’opera di Lacan che non si trovano nel celebre Freud e
Lacan35, scritto dopo queste conferenze ma con scopo particolare:
esso fu scritto, come ricorda Boni nell’introduzione, per
accreditare la psicoanalisi presso il mondo comunista e per aprire
una breccia nel silenzio da cui l’opera di Freud era all’epoca
circondata. Di contro a quello scritto le due conferenze
presentano una analisi meno marcata dall’immediata finalità
pratica di intervento congiunturale; in esse emergono pertanto già
in maniera più netta gli elementi di dissenso verso l’impresa di
Lacan, che costituiscono, a ben vedere, una sorta di “dissenso
originario” su cui Althusser non cambierà mai idea. Non
sorprenderà, di conseguenza, che due testi apparentemente distanti
come queste due conferenze e le Tre note sulla teoria dei
discorsi36 contengano di fatto lo stesso nucleo tematico
fondamentale, e anzi che le seconde si presentino come sviluppo e
continuazione di ciò che all’interno delle prime è soltanto
annunciato.
3. Cogito (cartesiano‐lacaniano) vs immaginario (spinoziano‐
althusseriano)
Questo nucleo è da individuarsi in due punti precisi: il primo è
una critica epistemologica di Lacan; il secondo, l’opposizione
Cartesio‐Spinoza attorno al concetto di “immaginario”. Per quanto
riguarda la critica epistemologica, l’obiezione che Althusser
solleva qui è la questione circa la fondazione, da parte della
psicoanalisi, del proprio statuto di scienza. Althusser scrive
infatti:«può la psicoanalisi, di per se stessa, modificare la
35 L. Althusser, Freud e Lacan, ora in Sulla psicoanalisi, cit., pp. 15‐39. 36 L. Althusser, Tre note sulla teoria dei discorsi, in Sulla psicoanalisi, cit., pp. 101‐154. Su questo testo cfr. i recenti interessanti lavori di V. Morfino, L’ articolazione dell’inconscio e dell’ideologico in Althusser, in «Quaderni Materialisti», 10, 2011, pp. 31‐43, e di F. Bruschi, Le sujet entre inconscient et idéologie. Althusser et la tentation du freudo‐marxisme, in «Meta: Research in Hermeneutics, Phenomenology, and Practical Philosophy», VI, 1, 2014, pp. 288‐319.
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topologia del campo [delle scienze umane], cioè cambiarne la
natura e le divisioni interne? […] Lacan pensa in effetti che la
psicoanalisi possa ristrutturare il campo nel quale sorge. Ma la
cosa è forse al di là delle sue possibilità»37. Il secondo punto
cruciale è l’inserimento del riferimento a Spinoza nella parte
finale della seconda conferenza, già di per sé meritevole di
attenzione, in quanto costituisce forse il primo testo in cui
Althusser si dilunghi su Spinoza e sulla sua concezione
dell’immaginario, che diventerà poi, come è noto, il riferimento
cardine del “materialismo dell’immaginario” con cui Althusser
cercherà ristrutturare la teoria marxista dell’ideologia. Qui
Althusser introduce una prospettiva anticartesiana a partire da
una genealogia storica della psicologia come disciplina che fa
sintesi di elementi eterogenei: una nozione biologica e sociale di
individuo, una nozione di soggetto come soggetto di imputazione
morale e politica, un ego come operazione di sintesi
trascendentale dell’oggettività38. Ma quello che interessa
maggiormente qui è che Althusser individua nel cogito di Cartesio
esattamente l’opposto di ciò che Lacan, nel 1965, vedrà in esso, e
cioè l’istanziazione storicamente capitale del soggetto della
scienza. Per Althusser il soggetto cartesiano è sì una
(ri)fondazione della scienza, che l’epistemologo contemporaneo può
rileggere oggi come il necessario intervento di ripensamento del
campo teorico nel momento cruciale della nascita della “nuova
scienza”; ma il problema, per Althusser, è piuttosto: perché
questa rifondazione ha preso la forma di una filosofia del
soggetto e del giudizio? La risposta di Althusser si colloca su un
livello che rimane estraneo al pensiero di Lacan, su un piano
assieme storico‐ideologico ed epistemologico. Essa è da ricercarsi
nel misconoscimento da parte di Cartesio della coupure (storica)
tra verità ed errore, misconoscimento che è reso possibile dal
37 L. Althusser, Psicoanalisi..., cit., p. 68. 38 Ibid., p. 83.
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recupero di questa stessa coupure nei termini di un semplice
partage tra verità ed errore nella forma di una filosofia dell’ego
e del giudizio. Il risultato dell’operazione cartesiana è duplice:
da un lato, egli misconosce il problema del rapporto complesso tra
verità ed errore; dall’altro pensa il rapporto del soggetto con la
verità, e quindi la costituzione dell’oggettività, secondo la
categoria giuridico‐morale dell’imputazione39. Anche se non è
possibile qui entrare nei dettagli di questa lettura, è necessario
rimarcarne la più importante conseguenza. La ricaduta capitale
dell’operazione cartesiana è per Althusser che essa rende
impossibile pensare l’immaginario altrimenti che come errore, e
quindi come una “inconsistenza”. Di fronte a questa riduzione,
Althusser introduce Spinoza, avanzando l’audace ipotesi che la
rinuncia di Spinoza al cogito offra allo stesso tempo la
possibilità di rivalutare anche il soggetto psicologico in senso
non soggettivistico, ovvero di operare il passaggio
dall’immaginazione come facoltà di un soggetto all’immaginazione
“come mondo”. Questa prospettiva è per Althusser fondamentale, in
quanto apre alla possibilità di concettualizzare l’immaginario in
senso “transindividuale”, come istanza oggettiva dotata di una
funzione all’interno della formazione sociale in cui essa esiste.
Ora, quello che mi sembra cruciale è il fatto che il riferimento
all’immaginario, in queste due conferenze, non passi affatto
attraverso Lacan. Anzi, questo concetto di derivazione spinoziana
si mostra incompatibile con l’immaginario lacaniano, che è sì
luogo di un fondamentale misconoscimento, ma di un misconoscimento
che è del tutto pre‐politico40. La questione dunque che queste
pagine althusseriane aprono è se sia in definitiva fondata l’idea
che Althusser prenda da Lacan i concetti con cui pensare la sua
teoria dell’ideologia – una questione che porta sovente alla
conclusione che Althusser confonda, oscilli, o in definitiva
39 Ibid., p 89. 40 Su questo si veda B. Ogilvie, Lacan. Le sujet: la formation du concept de sujet, 1932‐1949, PUF, Paris 2005, p. 112 e sgg.
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312
tradisca i concetti di Lacan. Questa linea interpretativa, mi
pare, dovrebbe invece fare i conti con il fatto che fin
dall’inizio la riflessione sull’immaginario in Althusser è
totalmente spinoziana, e la distanza dai concetti di Lacan si
mostra proprio nel fatto che anche in queste conferenze, quando si
tratta dell’immaginario, Lacan non è praticamente mai menzionato.
4. Discorso dell’inconscio/Discorso dell’ideologia
Questi due assi di disaccordo, o sarebbe meglio dire di distanza
tra Althusser e Lacan, riemergono d’altra parte con forza nel 1966
sia nelle Lettere a D. che nelle Tre note sulla teoria dei
discorsi. Da questo punto di vista, dunque, le due conferenze
sulla psicoanalisi possono essere lette come la premessa teorica
della critica che in questi due gruppi di scritti, elaborati a
breve distanza l’uno dall’altro in un arco di quattro mesi, verrà
portata a un più alto livello di dettaglio. Sarebbe interessante
vedere i diversi livelli su cui si articola la presa di posizione
di Althusser e le implicazioni per la sua teoria dell’ideologia;
in questa sede mi preme però rilevare che appunto i due assi
principali sono la critica epistemologica concernente la
fondazione epistemologica della psicoanalisi all’interno del campo
delle scienze umane, e di nuovo un ritorno sul problema del
soggetto, ovvero una ripresa del problema Spinoza‐Cartesio. Per
quanto riguarda il primo punto, Althusser concede volentieri a
Lacan di aver compreso l’importanza della linguistica come teoria
che può fornire una base per rifondare la scientificità del campo
psicanalitico, ma si mostra insofferente verso la riduzione del
significante a significante linguistico. La critica all’“idealismo
del significante” che ne segue ha di fatto due obiettivi
complementari: da un lato intende criticare l’assolutizzazione del
modello linguistico che per Althusser deriva da una impropria e
non criticata valorizzazione di Lévi‐Strauss, il cui
strutturalismo è per Althusser uno strutturalismo riduzionista;
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dall’altro si propone di ampliare la nozione di significante
distinguendo sia la struttura dei diversi tipi di discorso che
sono presenti all’interno di una qualsiasi formazione sociale
(Althusser ne analizza quattro: scienza, ideologia, discorso
estetico e discorso dell’inconscio), sia il tipo di significante
che pertiene a ognuno di essi. Se è chiaro che Althusser ha come
proposito quella di costruire una teoria dei diversi discorsi,
attenta alla specificità di ciascun discorso, il suo problema è
anche quello di comprendere il modo in cui questi discorsi si
articolano l’uno sull’altro. Ora, è qui che di nuovo emerge il
problema del soggetto. Althusser infatti parte dall’idea che ogni
discorso produca un “effetto‐soggetto”, assunto la cui conseguenza
è che esistono diversi effetti‐soggetto prodotti dai diversi tipi
di discorso. Ma ben presto risulta chiaro che è il discorso
ideologico a essere il discorso primario, quello che di fatto
rappresenta l’elemento su cui si articolano tutti gli altri.
Questo discorso ideologico, che coincide con l’immaginario
transindividuale di Spinoza, diventa infatti (nella terza nota)
l’unico discorso a produrre un effetto‐soggetto mediante
l’operazione di “interpellazione”, possibile grazie alla struttura
centrata e speculare di questo discorso41. Qui Althusser è molto
più chiaro di quanto non sia nei testi sugli apparati ideologici
di stato: il discorso ideologico non coincide affatto con
l’inconscio, e il discorso ideologico non è inconscio se non nel
senso descrittivo, come non‐conscio. Il discorso dell’inconscio
propriamente detto, invece, è per Althusser subordinato a
quest’ultimo, nel senso che per Althusser produce i suoi effetti
sempre e solo a partire dalle “formazioni vissute” in cui
l’individuo si viene di volta in volta a trovare. Ma qui appare
anche una precisazione fondamentale della teoria althusseriana
dell’ideologia. La distinzione tra i due discorsi gli permette
infatti di pensare una articolazione (contingente) dell’uno
41 L. Althusser, Sulla psicoanalisi, cit., p. 121.
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sull’altro, introducendo l’idea che il rapporto tra il discorso
dell’inconscio, il quale “cerca” di esprimersi, può (come può non)
“fare presa” e quindi “parlare” (o no) nel discorso ideologico,
andando – nel caso di una “presa”– a rafforzare il
riconoscimento/misconoscimento implicito nella costituzione
dell’individuo in soggetto ideologico, introducendo nel discorso
ideologico un “effetto‐libido”42. D’altra parte, Althusser critica
proprio l’idea, che trova in Lacan, di un troppo rapido
schiacciamento del discorso ideologico sul discorso
dell’inconscio, poiché per Lacan esiste ancora un soggetto
dell’inconscio, ovvero l’inconscio è ancora organizzato come
soggetto. Difficile sottrarsi all’impressione che qui Althusser
ponga a Lacan la stessa domanda che aveva posto a proposito di
Cartesio: perché ripensare la rottura freudiana mediante la
categoria di soggetto, per quanto certamente rinnovata? È
interessante vedere come nello svolgersi frammentario di questa
critica43, Althusser trovi in Lacan elementi con cui egli stesso
aveva fatto i conti molti anni prima, e cioè l’idea del vuoto come
soggetto. Ciò che Althusser critica è infatti l’idea lacaniana che
la Spaltung sia a sua volta soggetto; che la mancanza, il vuoto di
soggetto, sia soggetto. Proprio questa idea del vuoto come
soggetto è al centro del confronto di Althusser con Hegel nella
tesi di laurea scritta molti anni prima, in cui Althusser prendeva
il vuoto come l’essenza della coscienza e poi come il motore della
storia. Si può sostenere, quindi, che Althusser veda
nell’attaccamento di Lacan al soggetto, pur vuoto, un attaccamento
persistente alla dialettica hegeliana nella sua versione
antropologica, cioè kojèviana? Io credo di sì, e questo è
confermato, mi pare, dalle fugaci ma eloquenti allusioni
all’utilizzo di Lacan di espressioni come “la verità come causa”,
o da riferimenti ai passi in cui Lacan si serve di Heidegger per
42 Su questo punto, cfr. V. Morfino, op. cit., p. 40 sgg. 43 Cfr. in part. L. Althusser, Sulla psicoanalisi, cit., p. 60.
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descrivere l’inconscio come “memoria”, concetto che per Althusser
richiama immediatamente l’Erinnerung hegeliana e fa pertanto
scivolare il discorso teorico su un versante idealistico.
Certamente la prospettiva di Althusser non è esente da problemi, e
la sua proposta di articolazione tra ideologico e inconscio rimane
percorsa da incertezze.
Tuttavia, rimane il fatto che i punti “caldi” su cui Althusser
dissente da Lacan trovano una netta anticipazione nelle due
conferenze, e a partire da esse è possibile provare a tracciare
una interpretazione della teoria dell’ideologia di Althusser che
si pone come alternativa, a dispetto di una terminologia talvolta
affine, rispetto a quella di Lacan. In questo modo potrebbe forse
essere possibile leggere le categorie althusseriane senza
ricorrere necessariamente alla sovrapposizione di una griglia
lacaniana, per provare a testare fino in fondo l’ipotesi che la
strada presa da Althusser possa condurre a una concettualizzazione
diversa del problema del soggetto, invece di misurarne la
consistenza solo in rapporto a ciò che essa “manca” rispetto al
tentativo lacaniano. Questo non significa certamente sostenere che
si possano in questo modo risolvere le difficoltà legate a una
teoria materialista del soggetto; non si sta cioè sostenendo che
Althusser rappresenti per forza la chiave per una tale impresa.
Tuttavia, una lettura di Althusser autonoma dalle categorie
lacaniane è forse auspicabile quantomeno per testare la
percorribilità di una strada alternativa a quello che rimane a
oggi il filone dominante del pensiero critico contemporaneo. Che
poi questo sentiero porti effettivamente da qualche parte, questo
è ciò che va dimostrato – e non c’è altra possibilità che mettersi
in cammino44.
44 Interessante su questa linea il recente libro di P. Macherey, Les sujets des normes, Éditions Amsterdam, Paris 2014.
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PIETRO BIANCHI
La lettera tra scienza e psicoanalisi
1. Badiou tra Althusser e Lacan
Nelle brevi note che seguono interrogheremo il rapporto tra
Althusser e Lacan attraverso una figura peculiare che, quanto meno
negli anni del “transfert di lavoro” di Althusser nei confronti di
Lacan, si dimostrò emblematica per la vicinanza del loro rapporto:
Alain Badiou. Nel farlo proveremo ad articolare la relazione tra
tre termini centrali per il pensiero di Badiou, Althusser e Lacan:
scienza, psicoanalisi e lettera. Sono questi gli anni che vanno
dalle prime conferenze di Althusser sulla psicoanalisi del 1963,
incluse nel volume Psicanalisi e scienze umane, fino al termine
dell’esperienza dei Cahiers pour l’analyse45, la rivista che per
un pugno di anni provò a far dialogare il marxismo strutturalista
althusseriano e la psicoanalisi lacaniana sotto l’egida dei saperi
logico‐formali. I Cahiers interromperanno le loro pubblicazioni
nel 1969 – anche se il gruppo di lavoro cessò di fatto di esistere
già nel 1968 – ma non è tuttavia peregrino rilevare come le
conseguenze di quell’incontro e di quel milieu teorico andranno
ben al di là delle ragioni, per certi versi contingenti, di quella
rottura. La riflessione filosofica di Badiou, ad esempio, che dopo
il 1968 per una quindicina d’anni si concentrò quasi
esclusivamente su temi d’ordine politico, ricominciò a partire
45 Una selezione di testi dei Cahiers pour l’analyse è stata recentemente pubblicata in inglese per i tipi dell’editore Verso insieme a diversi saggi che a distanza di anni si confrontano con quell’esperienza. Vi sono altresì incluse diverse interviste a molti dei protagonisti (Alain Badiou, Jean‐Claude Milner, Jacques Bouvresse, Alain Grosrichard, Jacques Rancière) che ricostruiscono in modo preciso ed esaustivo il dibattito che caratterizzò la rivista e i motivi del suo scioglimento: cfr. P. Hallward and K. Peden (a cura di), Concept and Form, cit. Tutti gli articoli originali dei dieci numeri della rivista sono invece reperibili in francese sul sito http://cahiers.kingston.ac.uk/. In italiano alcuni dei saggi più importanti dei Cahiers (compresi quelli di Badiou e di Miller) vennero tradotti da Rodolfo Balzarotti in un volume collettaneo di Bollati Boringhieri che uscì pochi anni dopo la loro pubblicazione in Francia: Cahiers pour l’Analyse. Scritti scelti di analisi e teoria della scienza, Bollati Boringhieri, Torino 1972.
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dagli anni Ottanta46 a confrontarsi con molte delle questioni
lasciate in sospeso a metà degli Sessanta: tra queste il ruolo
della matematica, le pratiche di formalizzazione e una dottrina
del soggetto che esplicitamente si richiama a Lacan. Allo stesso
modo lo sviluppo del pensiero althusseriano, come ricordato nella
prefazione di Livio Boni, continuerà il proprio confronto con la
psicoanalisi con una serie di testi degli anni Settanta che per
certi versi riconsidereranno l’iniziale fascinazione lacaniana
della prima metà degli anni Sessanta47, così come Lacan non poté
non confrontarsi con il pensiero di Marx a ridosso degli eventi
del Sessantotto francese nei seminari D’un Autre à l'autre (1968‐
1969) e L’envers de la psychanalyse (1969‐1970). Ma è nostra
convinzione che sia soprattutto Badiou a rendere possibile, ben
oltre i confini degli anni Sessanta, un incontro tra il pensiero
di Althusser e quello di Lacan, che quanto meno a partire dal
seminario L’objet de la psychanalyse (1965‐1966) si interruppe
bruscamente. Se l’incontro tra Althusser e Lacan è stato
storicamente per molti versi un incontro mancato o solo
parzialmente riuscito, è tuttavia vero che molti di quegli spunti
teorici sopravviveranno in altre forme negli anni e verranno per
certi versi anche sintetizzati in modi originali e inediti.
Tra il 1966 e il 1968 Badiou è nel pieno del suo periodo
althusseriano. Lo dimostrano i testi pubblicati nei Cahiers pour
l’analyse – Marque et manque: à propos de zéro del 1967, che in
realtà viene dato alle stampe solo nel 1969 e La subversion
infinitésimale del 196848 – oltre al suo primo vero e proprio
libro di filosofia, Il concetto di modello49. Ma lo si vede
soprattutto da una recensione a Per Marx e Leggere il Capitale che
46 In particolare A. Badiou, Théorie du sujet, Seuil, Parigi 1982 e A. Badiou, L’essere e l’evento (1988), tr. it. Il Melangolo, Genova 1995. 47 L. Althusser, Apparati e Apparati Ideologici dello Stato (1970), in L. Althusser, Freud e Lacan, ed. it. Editori Riuniti, Roma 1981; e L. Althusser, Sulla psicoanalisi, cit. 48 Entrambi inclusi in Cahiers pour l'Analyse. Scritti scelti di analisi e teoria della scienza, cit. 49 A. Badiou, Il concetto di modello (1969), tr. it. Jaca Book, Milano 1972.
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318
viene pubblicata su Critique nel 1967 (in realtà scritta nel
1966): Le (re)commencement du matérialisme dialectique. In questo
testo dove Badiou tesse le lodi della novità dell’approccio
althusseriano allo studio di Marx e del materialismo storico,
viene sviluppata una dettagliata analisi del concetto di ideologia
e di scienza. Nonostante sia nota l’articolazione di questi
concetti nel pensiero di Althusser, è bene ripercorrere il filo
dell’argomentazione non solo per chiarire la definizione di
pratica scientifica – un concetto centrale, vedremo in seguito,
anche per comprendere la pratica psicoanalitica – ma anche per
mettere in luce la distanza tra il modo con cui Badiou definisce
la scienza e quello di Althusser.
2. La scienza e i suoi oggetti
Scienza e ideologia – sostiene Badiou in questo articolo – non
devono essere opposte l’una all’altra, come se appartenessero a
due sfere antitetiche dell’esperienza: l’una fedele alla realtà, e
l’altra presa in una sorta di fantasmatica mistificazione; l’una
appartenente alla struttura, l’altra alla sovrastruttura. Per
riuscire a comprendere la portata dei concetti di ideologia e di
scienza in Althusser, bisogna per un momento dimenticarsi del loro
significato corrente, e cercare di ridurle semplicemente alle loro
definizioni esplicite che ci vengono date. Badiou ci dice che
l’ideologia è un processo attraverso cui viene istituito un
complesso sistema di “rappresentazioni”, dove cioè viene creato
quello sfondo apparentemente neutrale dove nelle scienze empiriche
avviene l’incontro tra un oggetto (isolato e irrelato dalle
relazioni che lo circondano) e un soggetto conoscente. L’ideologia
parte dal vissuto del soggetto conoscente, e da come egli si
approccia a un mondo fatto di oggetti già costituiti e isolati gli
uni dagli altri che nel processo di conoscenza non possono che
venire “rappresentati” e astratti dalla loro concretezza. In
questo processo di rappresentazione l’ideologia non produce alcuna
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nuova conoscenza [connaissance], ma semmai solo un effetto di
riconoscimento [reconnaissance]: non produce concetti, ma semmai
solo nozioni. Esattamente come nell’immaginario lacaniano – su cui
il concetto di ideologia pare mutuato – nel processo di conoscenza
ideologica è il soggetto che si limita a ri‐conoscersi nel
processo di conoscenza e nel farlo si costituisce in quanto tale:
come oggetto tra gli oggetti empirici del mondo; come Uno tra gli
Uni. Lacanianamente la reconnaissance non può che essere una
méconaissance. L’ideologia dunque ha soprattutto l’effetto di
creare un “posto” per il soggetto nel mondo. Non stupisce dunque
che all’altezza di questi anni Badiou erediti da Althusser quello
scetticismo nei confronti della categoria di soggetto che manterrà
fino a Théorie du sujet del 1982: ma è bene chiarire che negli
anni Sessanta il termine “soggetto” è in tutto e per tutto
equiparabile con ciò che Lacan definisce come individuo. Quando
Badiou inizierà a elaborare una teoria rigorosa del soggetto, si
tratterà di un concetto visibilmente diverso.
Che cosa fa invece la scienza? La scienza, come abbiamo detto, non
è da opporre all’ideologia: semmai agisce su di essa producendo
quello che Badiou chiama un “effetto di sapere,” che non è
nient’altro che la “produzione regolata di un oggetto”
essenzialmente diverso dall’oggetto empirico dato e presupposto, e
quindi anche diverso dall’oggetto reale. Laddove l’ideologia
innesca solo processi di ripetizione e di rappresentazione, la
scienza produce una trasformazione e dei concetti. La pratica
scientifica è dunque vista innanzitutto come una produzione di
qualcosa di nuovo, mentre l’ideologia è la riproduzione continua
dei presupposti dati dall’intuizione immediata. Rappresentazione e
produzione sono le due azioni essenziali che si producono nel
campo dell’ideologia: la prima statica, la seconda dinamica.
Il problema per Althusser (e anche per Badiou) non è allora tanto
quello di una divisione del campo della realtà tra ciò che è
scientifico e ciò che è ideologico – divisione che non può che
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320
essere statica e dunque non può che prendere per vera la struttura
presupposta dell’ideologia. Non si tratta dunque di distribuire
patenti di scientificità o d’ideologia. Sarebbe infatti questa
un’operazione astratta e secondo i termini di Althusser
eminentemente filosofica, attraverso cui nella realtà indistinta
costituita dalle ideologie si ritiene che sia possibile tracciare
una linea di separazione tra ciò che è scienza e ciò che è
ideologia. La scienza produce invece una rottura epistemologica
nel campo ideologico: un concetto che non va inteso come un evento
puntuale, ma semmai come una pratica immanente di produzione; un
movimento continuo di separazione dall’intuizione immediata e
presupposta. Ma che cosa caratterizza la pratica scientifica
quando agisce nel campo dell’ideologia? Quali sono concretamente
le sue operazioni? È qui che Badiou emenda la teoria
dell’ideologia althusseriana con una più rigorosa definizione di
scienza. La scienza è infatti per Badiou ciò che smonta e supera
dall’interno l’oggettualità dell’intuizione, quella per cui il
soggetto si ri‐conosce attraverso un processo di categorizzazione
rappresentativa dell’oggetto che ha davanti a sé e che è
presupposto all’atto conoscitivo (il Badiou degli anni Ottanta
avrebbe detto che l’oggetto nel campo ideologico è già stato
sottoposto all’operazione del conto‐per‐Uno).
La definizione di pratica scientifica viene di fatto mutuata
dall’assiomatica hilbertiana e cantoriana che si oppone
esplicitamente alla tradizione epistemologica anglo‐sassone delle
scienze empiriche e naturali. Non è un’eccessiva semplificazione
dire che, all’altezza di questi anni, quando Badiou parla di
ideologia, ha in mente soprattutto le scienze naturali e il
positivismo logico e, quando parla di scienza, ha in mente
soprattutto le matematiche assiomatiche e le logiche formali. La
questione è quindi prettamente epistemologica: l’ideologia parte
dalla presupposizione di un oggetto da conoscere e di un soggetto
che lo deve rappresentare a sé; la scienza invece non ha alcun
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oggetto al quale si possa riferire al di fuori dell’immanenza
della propria pratica formalizzante. L’iscrizione scritturale
delle lettere matematiche non deve quindi rappresentare degli
oggetti empirici reali, ma sottrarsi a ogni possibile riferimento
all’intuizione e fare riferimento solo alle proprie costruzioni
concettuali. Come dice Maurice Loi nella prefazione agli scritti
di Lautman, una delle caratteristiche fondamentali della
matematica moderna è che
le entità matematiche sono introdotte da vere e proprie definizioni creatrici che non sono affatto la descrizione di un dato empirico [...] Liberando la matematica dal compito di descrivere un dominio intuitivo e dato, si attuò una vera e propria rivoluzione, le cui conseguenze scientifiche e filosofiche non sono sempre apprezzate nel loro giusto valore. Una tale concezione della matematica che la avvicina ad altre attività produttive umane pone in termini nuovi il problema dei suoi rapporti con il reale, dell’oggettività e della soggettività. Gli empiristi moderni oppongono volentieri la scienza al soggettivismo e al volontarismo. Ora l’oggettività non è mai un dato ma una conquista i cui punti estremi sono l’assiomatica e la matematica formale. È un compito umano che esige lavoro e sforzo, precisavano Herbrand e Lautman50.
L’oggettività della matematica non è dunque un presupposto, ma
semmai il risultato di una costruzione assiomatica rigorosa, che
fa riferimento soltanto alle proprietà esplicite del proprio
sistema di riferimento. La pratica scientifica si definisce quindi
esplicitamente come pratica di assiomatizzazione che sebbene parta
da un presupposto ideologico dato – l’oggetto empirico concreto –
è tuttavia in grado di metterlo sempre più a distanza fino a
renderlo superfluo; a sottrarsi completamente dalla sua influenza.
Il processo di assiomatizzazione va dunque distinto da quello di
astrazione dal concreto, che invece caratterizza l’ideologia della
rappresentazione empirica. Nella specificazione delle proprietà di
un sistema assiomatico, le analogie con l’intuizione, che spesso
vengono utilizzate per chiarire alcuni concetti (ad esempio quando
definiamo un insieme come “insieme di elementi” prendendo a
prestito il termine dal suo uso nel linguaggio naturale) finiscono
50 M. Loi, Introduzione in A. Lautman, Essai sur l’unité des mathématiques et divers écrits, Union générale d’éditions, Paris 1977, pp. 8‐9.
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pian piano per non essere più sufficienti e richiedono invece di
essere esplicitate solamente tramite una scrittura formale e
letterale. Nei Fondamenti della geometria, scritti nel 1899,
Hillbert riesce ad assiomatizzare le geometrie euclidee senza
dover far riferimento ad alcuna definizione presupposta. L’idea ad
esempio di definire un “punto” come ciò che è “privo di
estensione” viene completamente rifiutata. Il problema non è
quello di stabilire che cosa siano i singoli elementi attraverso
dei presupposti che siano esterni e fondativi del sistema
assiomatico, ma di limitarsi a definire le proprietà delle loro
relazioni. Un sistema assiomatico è quindi privo di un elemento
esterno, che escludendosi da esso, lo possa fondare (come invece
avviene nella logica della struttura significante lacaniana, così
come viene esposta da Jacques‐Alain Miller in Sutura). Per provare
a spiegare come possa avvenire questa “presa di distanza” dal
regno dell’intuizione e dell’esperienza nella costruzione di un
sistema assiomatico, Gabriele Lolli, utilizza questo esempio, che
sebbene non abbia il rigore della scrittura formale crediamo possa
rendere efficacemente e intuitivamente l’idea:
Si incominciano a usare rozze analogie prese da domini conosciuti, magari dal mondo fisico: per esempio, per riferirsi alle nozioni topologiche inventate da Cantor, cosa può voler suggerire la parola “denso” riferita alla distribuzione dei punti di un insieme? Vuol dire che i suoi punti si “toccano”? Ma i punti non si toccano, anche se sono molto vicini. Si può dire che ce ne sono tanti in poco spazio, ma in verità bisognerebbe dire che ce ne sono infiniti, e poi non basta. Ispirandosi alla vita comune e alla distribuzione della popolazione per illustrare la densità, si può pensare di dire che ci sono abitanti in ogni isolato, e non basta, che in ogni appartamento ci sono inquilini, e non basta, che in ogni locale c’è almeno una persona, e non basta, che per ogni metro quadrato c’è una persona, per poi far tendere l’area a zero. Alla lunga bisogna staccarsi dall’analogia con le popolazioni reali. L’infinità impone condizioni che vanno al di là di ciò che si può confrontare con il mondo finito. Man mano che si precisano le definizioni, queste sono sufficienti a esprimere le proprietà che interessano, e la natura degli elementi studiati non viene più presa in considerazione. Si forma una nozione che dipende solo dalle caratteristiche esplicitate, e non dalle altre non menzionate [corsivi nostri]51.
51 G. Lolli, Dagli insieme ai numeri, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p. 23.
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Questo processo di specificazione interna delle proprietà di un
sistema assiomatico, che faticosamente riesce a sottrarsi
all’intrusione confusiva dell’intuizione per riuscire a elaborare
un’oggettualità di tipo nuovo è per Lautman un vero e proprio atto
di creazione sottrattiva. L’oggettività cessa di essere
l’opposizione inerte e passiva al soggetto conoscente, ma diventa
il prodotto di un processo di produzione immanente alla pratica di
formalizzazione che lungi dall’avere il soggetto come origine, ne
prescrive semmai la sua totale sparizione. Badiou lo annuncia in
modo spregiudicato e tuttavia inequivocabile in un passaggio di
Marque et manque: à propos de zéro:
Non c’è soggetto della scienza. Stratificata all’infinito, regolatrice dei suoi passaggi, la Scienza è lo spazio puro, senza rovescio né marca o posto di ciò che essa esclude. In quanto preclusione, ma di nulla, la si può definire psicosi di nessun soggetto. Dunque di tutti; universale a pieno diritto, delirio distribuito, basta aderirvi per non essere più nessuno, anonimamente dispersi nella gerarchia degli ordini52.
Badiou si immagina qui un’idea che Althusser non ha mai voluto
fino in fondo abbracciare: un dominio della scienza completamente
ripulito e sottratto da presupposizioni ideologiche. Se
immaginiamo una scienza formale ideale nel suo punto di massima
emancipazione dall’intuizione e dal dominio dell’ideologico,
queste sarebbero le sue fattezze: una psicosi generalizzata; una
totale eclissi del soggetto immaginario della conoscenza. Il campo
ideologico non è infatti solamente il regno degli oggetti empirici
separati e irrelati gli uni dagli altri, ma anche quello dei
soggetti della conoscenza. La scienza per Badiou deve essere anche
una pratica di sparizione del soggetto dell’immaginario. Il
processo di assiomatizzazione sarà dunque anche un processo di de‐
immaginarizzazione oltre che di de‐ideologizzazione. Ma come è
possibile concretamente produrre questa pratica assiomatica a
partire dal campo ideologico nel quale ci troviamo? Come può un
soggetto dell’immaginario, preso nella méconnaissance del campo
52 A. Badiou, Marca e mancanza, in Cahiers pour l’Analyse. Scritti scelti di analisi e teoria della scienza, cit., pp. 130‐131.
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ideologico mettere in pratica la propria auto‐cancellazione? Chi
può farsi portatore di questo processo di formalizzazione? La
risposta questa volta non ci viene da Badiou né da Althusser, ma
ci pare che possa essere rilevata implicitamente dal pensiero di
Lacan: la psicoanalisi.
3. Il materialismo della lettera
Se è vero che per Badiou e Althusser, questa dottrina della
pratica scientifica centrata sull’assiomatica, debba essere
definita come materialistica, lo è in un senso molto peculiare:
ovvero nel senso di un materialismo della lettera. Che cosa vuol
dire lettera? In che cosa sarebbe materialistica? E quale sarebbe
la differenza tra la lettera e la catena significante? Se
prendiamo una definizione non assiomatica come quella data da
Euclide di punto come “elemento privo di estensione” ci troviamo
di fronte a una certa connessione tra un significante (punto) e
una serie di altri significanti (elemento privo di estensione).
Una definizione è dunque un processo di significazione, che come
tale non può che risiedere su un minimo effetto metaforico dato da
una verticalizzazione della catena significante. In una
definizione noi facciamo dunque esperienza della capacità della
catena significante di produrre un senso, o se si vuole, di dare
un’interpretazione. La psicoanalisi ci ha tuttavia insegnato che
ogni processo di significazione ha sempre un resto, dato che il
significato non riesce mai a essere esaustivo delle mille altre
possibilità di articolazione della catena significante che
aleggiano minacciosamente anche nei casi di significazione e di
comunicazione più riusciti. L’effetto metaforico di
verticalizzazione si accompagna sempre a uno scivolamento
orizzontale metonimico. Lo si vede bene in analisi quando una
certa connessione significante viene aperta alla sua possibile
interpretazione (effetto metaforico) fino a che le sue possibili
ri‐significazioni e re‐interpretazioni non prendono il sopravvento
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mettendola nuovamente in discussione (effetto metonimico). Il
percorso d’analisi non è nient’altro che l’attraversamento della
diverse possibili significazioni e interpretazioni, di un
significante o di un sintomo. L’interpretazione – lo strumento
attraverso cui viene metaforizzato un sintomo in una seduta
d’analisi – ha uno statuto affatto precario nella pratica
analitica: può durare giusto il tempo sufficiente affinché
un’altra interpretazione prenda il sopravvento producendo
ulteriore materiale analitico. Questa struttura caratterizzata da
un’apparente cattiva infinità è una diretta conseguenza della
natura stessa del significante, che si definisce proprio
attraverso il principio della sua eterna sostituibilità. Inutile
provare a fermarlo, un significante è destinato a essere sempre
alla rincorsa di sé stesso, proprio perché il suo essere è dato da
“ciò che non è” prima che da “ciò che è”.
Ma se il significante è destinato a una costante ed eterna
transitività, la lettera si costituisce esattamente sul principio
contrario: è intransitiva; non è nient’altro che se stessa; non
significa nulla. È pura materia riluttante a ogni
rappresentazione, proprio come nella matematica dove la lettera
non è inserita in un nessun legame negativo‐differenziale di una
struttura. Tuttavia come è possibile convertire la transitività
della catena significante nell’intransitività della lettera? È
possibile ridurre la costante metonimia del linguaggio a un
nocciolo non più ulteriormente significabile? È quello che
Jacques‐Alain Miller definisce l’ “osso di un analisi”: quando il
significante attraversato da mille significazioni e ri‐
significazioni viene ridotto dopo molti anni di analisi a un osso
riluttante a ogni ulteriore interpretazione. La lettera è quella
struttura di inerzia data dalla resistenza a ogni ulteriore
possibile significazione. È materia non ulteriormente
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significabile. Sono quelli che Lacan chiamava i detriti lasciati
dal passaggio della catena significante53.
È forse qui che è possibile comprendere l’origine della lettera
matematica: in quella pratica di isolamento di un “osso” che
rimane dopo che ogni possibile significazione è stata
attraversata. Una volta Badiou lo disse in una conferenza
all’Università della California di Los Angeles, rispondendo a una
domanda di uno studente che si lamentava della difficoltà dell’uso
della matematica nei suoi libri: «la matematica non è difficile –
disse Badiou – è semmai troppo facile. Sono solo lettere che non
vogliono dire nulla. Il problema è sostenere la posizione di un
discorso che non vuole dire nulla»54. Il problema della produzione
assiomatica della lettera matematica, del suo isolamento
dell’intuizione del campo ideologico, sta allora proprio qui:
nella sua riduzione a pura materia che rifiuta il doppio‐fondo del
linguaggio naturale dove un significante è sempre ricondotto a
un’eterna catena di connessioni. La lettera è la materia di cui è
fatta l’assiomatica. Il problema sarà dunque quello di riuscire a
isolare questo resto: sostenere questa in‐immaginaria semplicità;
produrre un soggetto (in senso proprio, non immaginario) che possa
dare corpo alla semplicità di questa pratica di formalizzazione
materialistica.
53 J. Lacan, Lituraterra, in Altri scritti, tr. it. Einaudi, Torino 2013. 54 A. Badiou, Lacan and Philosophy (conferenza tenuta al Dipartimento di Letterature Comparate a UCLA, il 27/5/2010).
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PIETRO BIANCHI è PhD candidate in Romance Studies alla Duke University. Ha svolto attività di ricerca all'Università di Udine, alla University of California ‐ Los Angeles e alla Jan Van Eyck Academy di Maastricht
[email protected] LIVIO BONI è ricercatore in filosofia affiliato all'Università di Tolosa II Jean Jaurès, dottore di ricerca in psicopatologia e psicoanalisi e psicologo clinico
[email protected] ALBERTO GUALANDI è autore e curatore di numerose opere dedicate al problema della natura umana, al rapporto tra scienza e filosofia, alla filosofia della biologia, della psicoanalisi e della psichiatria
[email protected] STEFANO PIPPA PhD Candidate in Philosophy, Kingston University, London, Centre of Research in Modern European Philosophy