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NOME SOCIETÀ A NNO VI — N UMERO II D ICEMBRE 2011 NOME SOCIETÀ Giornalino del Liceo Ginnasio Statale G. Carducci

L'OblòSulCortile_2011fDicembre

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Numero di Dicembre 2011, anno VI, numero II

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Dicembre 2011

NOME SOCIETÀ

ANNO VI — NUMERO I I

D ICEMBRE 2011

Dicembre 2011

NOME SOCIETÀ

Giornalino del Liceo Ginnasio Statale G. Carducci

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Hello, Goodbye!

ANNO VI — NUMERO I I

S altando i convenevoli propri dell’attacco di un editoriale, che tendono a disorien-

tarmi, vi do il bentornati dalle scorse inaspettate (e per que-sto più godute) vacanze e allo stesso tempo vi saluto prima che abbandoniate nuovamen-te il liceo per la pausa natali-zia che ci attende. Nel perio-do trascorso tra il precedente numero del giornale e l’attua-le, nulla di sconvolgente ha turbato la quiete carducciana, nessuno scandalo ha animato i banchi di via Beroldo, men-tre adesso il silenzio vortico-so, tipico dello studente im-pegnato in interrogazioni e compiti dell’ultim’ora, gela i corridoi della scuola, la frene-sia del maturando che si ac-cinge alla stesura della tesina nelle vacanze di Natale devi-talizza l’umore di chi lo cir-conda. Gli orologi, tronfi e autorevoli, che dominano i corridoi segnano con lentezza le ultime ore del 2011 che lo studente carducciano passerà all’interno di questo edificio, mentre quelli da polso con-trollati ossessivamente du-rante le lezioni rincuorano i giovani con nuove speranze ogni cinque minuti circa. Pur-troppo è questa l’indole dello studente medio: pigro, ma

studioso, dedito alla scuola, ma non troppo, pensieroso in clas-se, fuggitivo al suono della cam-pana.

Coloro che invece hanno voluto smarcarsi dall’etichetta di stu-denti medi avranno avuto l’op-portunità in questo mese di interessarsi alla vita extrascola-stica e di partecipare con proba-bilità all’evento di Laterza, che ha visto come protagonista e relatore il giornalista Federico Rampini, inviato a New York di Repubblica e noto viaggiatore. Affascinante, questo incontro ha ricordato i racconti di Tiziano Terzani, di cui in Rampini si po-trebbe cogliere il successore, altrettanto valido e altrettanto originale, quasi altrettanto co-raggioso. Ricordando nell’intro-duzione all’intervento i tempi in cui, accintosi al giornalismo, si occupava del giornale scolasti-co, Rampini ha descritto, con somiglianza quasi allarmante, il lavoro che egli svolgeva prima della stampa e che ancora oggi alcuni di noi svolgono in ore notturne e buie dell’esistenza perché il giornale possa uscire, perfezionato o anche solo com-pletato.

Di extrascolastico in questo periodo hanno continuato a vivere un collettivo di cui diffi-cilmente si sente la presenza, il giornale che dopo l’uscita di

novembre ha ricevuto com-plimenti e critiche (analizzate e utilizzate durante la stesura del presente numero), un cineforum di cui non passa notizia agli studenti e che ha ricordato, nell’anniversario della sua morte, il fu carduc-ciano Monicelli. Stanno pren-dendo forma inoltre il corso di Cultura del ‘900, già pre-sentato lo scorso anno dai Professori Viola, Giovannetti, Re e Patetta, e che avrà pro-babilmente nuova vita nel prossimo pentamestre, e una cogestione, non approvata quest’anno nella forma pro-posta lo scorso dal Professor Re: si tratta per ora di un’ini-ziativa studentesca, che ri-scontra però maggiori proble-matiche di attuazione rispet-to al passato: non è più orga-nizzata da un ristretto gruppo di studenti (è diventato un lavoro sempre più impegnati-vo e faticoso), ma è l’Assem-blea dei Delegati che se ne occupa. L’Assemblea non potrà però completare il pro-getto se non perverranno da tutti proposte concrete e contributi pratici: servono materie per i gruppi ed esper-ti disposti a relazionarne. Perciò, carducciani, propone-te, partecipate.

L’EditorialeL’EditorialeL’EditorialeL’Editoriale SOMMARIO

PAGINA 2

Federico Rampini 4

Un sorriso in corsia 5

Necro-Elogio di Mario 6

Oblogonia 7

Lutto al Carducci + Il Carducci (h)a L’Ultima Parola

8

La Foto del Mese 9

Inglorious Reviewers 10

Inglorious Reviewers 11

Per non morire di mafia 12

Da Bacon ai Beatles 13

La Bibliobussola 14

Pixarmania 15

Musica 16

Florilegio Natalizio 17

Difesa in rosa + Babbo Natale 18

La nuova bacheca dell’Oblò! 19

CPS + La Redazione! 20

In ambito interscolastico ricordo con piacere che, avvenute le ele-zioni interne alla Consulta, è stata rinnovata, tra le altre, la carica di Presidente, attualmente ricoperta da uno studente del Liceo Scientifi-co Leonardo di Milano, il quale ha acconsentito a scrivere per noi un resoconto dell’attività già intrapre-sa dai consiglieri. Potete leggere il suo articolo in ultima pagina e, oltretutto, deliziarvi della sua dote di scrittore!

Per il momento, buona lettura attiva! Chiara Compagnoni

Blackout, Scarlet 25, The Heartbreakers

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ATTUALITÀ D ICEMBRE 2011 PAGINA 3

tre il grosso del corteo viene respinto fino Corso Torino. L’intera zona è sgombrata, “bonificata”; c’è rimasto solo il fumo dei lacrimogeni. Poi, d’improvviso, un gruppo di carabinieri del battaglione Sicilia, vedendo un flusso di manifestanti avanzare ancora lungo via Tolemaide, si prepara a fronteg-giarli in un clima teso, da battaglia. Da en-trambe le parti ha inizio un fitto lancio d’og-getti. Dietro i carabinieri ci sono due defen-der, che li hanno seguiti per tutta l’avanzata: è un errore, contrario ad ogni prassi di ordi-ne pubblico, e infatti, quando i carabinieri decidono di arretrare, i due defender li in-tralciano, ostacolandosi a vicenda nella riti-rata. I mezzi blindati vengono così raggiunti dal contrattacco di una ventina di manife-stanti, tra cui vi è un giovane di 23 anni:

Carlo Giuliani. In Piazza Alimonda uno dei defender viene bloccato e isolato: al suo interno vi sono tre carabinieri, uno di loro è Mario Placa-nica, di appena 21 anni. L’automezzo viene preso d’assalto e dal finestrino po-steriore esce una

mano armata: partono due colpi di pistola. Quella sera il signor Giulio Giuliani e la mo-glie, mentre i telegiornali parlano di un ra-gazzo, di cui non emerge il nome, rimasto ucciso durante gli scontri, vengono raggiunti da una volante della polizia e portati in que-stura, dove vengono messi al corrente della tragedia senza troppe cautele: Carlo è mor-to. È stato colpito sotto lo zigomo sinistro da uno dei due proiettili sparati da Placanica - per “legittima difesa”, come affermerà egli in seguito - e poi schiacciato dal defender, che gli è passato sopra due volte nel tentati-vo di fare marcia indietro. Culmina con la morte di Carlo la violenza di questa prima giornata di G8 a Genova; sono le 17.27: “ci è scappato il morto”. Gli ultimi scontri termi-neranno poco dopo.

Martina Brandi

manifestazione. Alle 14.30 il corteo arriva in Via Tolemaide, a 1 km di distanza. Più a nord però, i Black Block stanno devastando Piazza Giusti; la questura ordina dunque alla compa-gnia Alfa di carabinieri, sotto il comando di Mario Mondelli, di recarsi laggiù, ma in fret-ta, per non incrociare il corteo autorizzato che sta scendendo lungo Via Tolemaide, dove arriverà intorno alle 14.50 incrociando i cara-binieri della compagnia Alfa. Mondelli, invece di allontanarsi velocemente, ordina ai suoi uomini di scendere dai blindati, facendoli schierare di fronte alla testa del corteo pronti al lancio dei lacrimogeni, giustificandosi con l’essere stati accolti con oggetti scagliati co-me proiettili dai manifestanti; i fatti in realtà, come testimoniano le centinaia di riprese, andarono diversamente, poiché l’intera pro-vocazione era stata opera dei Black Block, velocemente dileguatisi. Sono le ore 15.00 quando i carabi-nieri caricano i manifestanti facendo uso di manganelli, lacrimogeni e un carico di violenza. Il corteo tenta di arre-trare, ma l’operazione risulta impossibile viste le sue enormi dimensioni e la conforma-zione di Via Tolemaide, chiusa sulla destra dalla ferrovia; si forma così un “tappo”, la fiumana di gente non può proseguire né tor-nare indietro, rimane bensì bloccata all’in-gresso di Via Tolemaide. I manifestanti in testa al corteo tentano di disperdersi nelle viuzze che si affacciano laterali, inseguiti dai blindati dei carabinieri lanciati a gran velocità come non si vedeva dal ’75 (Aprile, a Milano muore Giannino Zibecchi, schiacciato da una camionetta dei carabinieri). La situazione degenera. Alcuni manifestanti bloccano la strada ai blindati con i cassonetti della spaz-zatura per poi bersagliarli con pietre e altri oggetti: si innesca così una vera e propria guerriglia tra manifestanti e forze dell’ordine. Continuano le cariche nelle vie laterali, men-

V enerdì 20 Luglio. Palazzo Ducale. Arrivano qui i grandi del mondo, accolti dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Fuori dalla zona

rossa, intanto, oltre 20.000 manifestanti si radunano nelle rispettive piazze tematiche. Tutto sembra procedere regolarmente, ma non è così. Fin dalle 10.00 del mattino, infatti, un centinaio di Black Block si riuniscono in Piazza Danovi (tematica dei Cobas), dove con calma e meticolosità iniziano a smantellare le pietre del selciato e a sradicare cartelli stradali e ringhiere di aiuole, tutti oggetti che divente-ranno armi, proiettili, spranghe. Ad assistere e riprendere ogni scena vi sono giornalisti e for-ze dell’ordine, ma nessuno interviene. Un altro gruppo di almeno cinquecento, intanto, par-tendo da Piazza Trento, attraversa la città a macchia di leopardo, devastando e dando fuoco a tutto ciò in cui s’imbatte: auto par-cheggiate, vetrine, banche, ristoranti, ecc; attaccano le forze dell’ordine con il lancio di sassi e di altri proiettili, per poi disperdersi e riunirsi altrove. Verso le 3.00 del pomeriggio, come un testimone ci riporta, un gruppo di Black Block raggiunge Piazza Manin (tematica della Rete Lilliput) seguito da un vero e proprio esercito di polizia, che gli dava la caccia dopo che alcuni di loro avevano bombardato il por-tone del carcere di Marassi con bottiglie molo-tov. La polizia inizia a caricare i manifestanti, nonostante le mani alzate in segno di resa non violenta, e a sparare gas lacrimogeni, riceven-do l’ordine di “fare dei fermati, fare dei prigio-nieri”, ma non tra i Black Block, che ormai non ci sono più. Dalle testimonianze, dalle immagi-ni e dai filmati di quei momenti emergono atteggiamenti di pura follia e accanimento da parte delle forze dell’ordine, che isolano singo-li manifestanti accerchiandoli e picchiandoli violentemente con i manganelli. Sessanta sa-ranno i feriti, due fermati: così inizia il disastro del G8 di Genova, con tutta la sua inspiegabile violenza.

Il grande corteo organizzato dal Genova Social Forum per quel pomeriggio è il “corteo dei disobbedienti”: 15.000 persone che partiranno dallo Stadio Carlini dirette a Piazza delle Ame-riche, dove termina l’autorizzazione per la

G8 di Genova, 2001G8 di Genova, 2001G8 di Genova, 2001G8 di Genova, 2001

Morte di Carlo Giuliani

“Piena piazza della Repubblica, i manifestanti arrivati a bordo dei pullman o in treno […]. Guerriglia urbana a Roma, feriti tra i manifestanti e tra le forze dell'ordine. Individui incappucciati provocano danni a banche, negozi, auto, agenzie pubbliche e private e sedi istituzionali. I mani-festanti pacifici tentano di isolare i violenti e sottolineano la loro differenza: "Siamo il 99%". La polizia risponde. Lancio di bombe carta. Blin-dati tra la folla […]. Assalto contro i mezzi delle forze dell'ordine, almeno 70 feriti. Un blindato dei carabinieri dato alle fiamme. La polizia in-terviene, migliaia di persone in fuga.” Questi sono solo alcuni stralci delle notizie provenienti in tempo reale da Roma il 15 Ottobre 2011, giorno in cui l’immenso “corteo degli indignati” sfilò per le vie della capitale per dissentire con le soluzioni anti-crisi assunte dai governi di tutto il mondo. Ed è impressionante come sentendo tale cronaca vengano così nitidamente rievocati i fatti di Genova del 2001. Ancora gruppi di armati e incappucciati tentano, in parte riuscendo, di sviare l’attenzione mediatica dalla protesta (pacifica) facendola fallire, ancora la poli-zia costretta (?!) ad intervenire carica indistintamente manifestanti e provocatori, ancora a fine giornata la città è violentata e lo sconcerto e l’amarezza sono grandi per quanto è accaduto, o meglio riaccaduto. E se sotto tutto ciò ci fosse un intento ben preciso e un’organizzazione molto più minuziosa? Per conoscenza personale consiglio a tutti la visione integrale della puntata di Blu Notte da cui è tratto questo articolo, certe immagini raccontano meglio di qualsiasi parola…

-II parte, il primo giorno di guerriglia-

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ATTUALITÀ PAGINA 4

Q uando arrivo, l’aula magna del Carducci è per la terza volta stra-ordinariamente piena di gente desiderosa di ascoltare le parole

del relatore di questa sera. Lui è lì, sul palco, in piedi, che parla con i relatori degli incontri precedenti e futuri – Gustavo Charmet ed Eva Cantarella. Subito mi ispira simpatia, non vedo l’ora di ascoltare tutto ciò che ha da raccontare, i suoi viaggi e il suo mestiere, che sicuramente lo portano ogni giorno in contatto con per-sone di culture molto diverse. Quando ini-zia l’intervento, ci avvolge in una piace-vole atmosfera, come se si trattasse di una normalissima conver-sazione con un uomo assolutamente comu-ne con qualche storia stravagante da rac-contare. Subito dichiara che parlerà in piedi - cosa che, dice, gli permette di guadagnare qualche centimetro, occasione che non manca di cogliere qualora gli capiti. Si perce-pisce chiaramente la naturale tendenza di quest’uomo a raccontare tutto ciò che ha intorno, come se ogni aspetto del mondo lo colpisse e dovesse essere codificato per poter essere riportato agli altri in modo che possano comprenderlo. Deformazione pro-fessionale o, forse, passione innata. Rampini mette subito le cose in chiaro e afferma di aver cercato di fare con il suo mestiere ciò che gli viene da esso prescritto: scomporre in parti una notizia così da poterla riferire e spiegare nel modo più chiaro possibile. Inizia parlando di come da ragazzo si sia avvicinato al giornalismo a scuola, a Bruxelles, e degli studi, apparentemente lontani dalla profes-sione futura; Rampini si è infatti laureato in economia all’Università Bocconi, dove è stato allievo di Mario Monti. Ma la passione per il giornalismo è rimasta ed egli trova in altre fonti le solide basi per costruirsi le capacità adatte ad intraprendere questo lavoro. Innanzitutto ci parla della grande predilezione per la lettura; in particolare cita Hemingway, definito il “signore della lin-gua”, amato per la sua disciplina e la sua pulizia, caratteristiche fondamentali di un buon reporter. A condividere con lo scrittore americano il posto nel cuore del nostro rela-tore sono tre grandi narratori italiani: Italo Calvino, Alberto Moravia e Pier Paolo Pasoli-ni, ricordati soprattutto per le loro opere a proposito di viaggi, da cui emerge la passio-ne per il racconto di usanze e culture di pae-si lontani, il fascino esotico che essi esercita-no sugli scrittori e la grande capacità evoca-tiva e affabulatoria di questi ultimi.

Rampini ci parla poi dei primi incarichi per le testate giornalistiche: inizia la sua attività in Città futura e dal 1979 scrive per Rinascita, giornale vicino al partito comunista italiano. È chiaro che per quest’uomo, al di là dei corsi di giornalismo, è l’esperienza a formare il reporter. L’intervento procede infatti con il racconto di due importanti “lezioni” di vita e di giornalismo del nostro relatore; in primo luogo racconta del terremoto in Irpinia, du-

rante il quale l’allora presi-dente del con-siglio, Sandro Pertini, seppe dare una gran-de lezione di coerenza e di cosa voglia dire informazione trasparente. Un altro fatto sto-rico che ha colpito molto

Rampini agli inizi della carriera giornalistica furono i processi svoltisi contro alcuni operai della FIAT accusati di essere membri delle brigate rosse negli anni ’70. In quell’occasio-ne ai giornalisti delle testate vicine al PCI sembrò naturale schierarsi al fianco degli accusati, che si rivelarono poi colpevoli; da questo fatto derivò una profonda delusione e un ripensamento del giornalismo politico. L’incontro procede su toni sempre più avvin-centi ed entusiasmanti: mi rendo conto di che occasione unica e straordinaria sia poter ascoltare quest’uomo che ha documentato tra i momenti più importanti della nostra storia contemporanea. Racconta infatti di quando nel ’99 si è spostato nella Silicon Valley, spinto dal desiderio di “inseguire i laboratori dove si costruiva il nostro futuro”. Qui stava avvenendo una tra le più importan-ti rivoluzioni tecnologiche dei nostri tempi, e il fiuto e la curiosità del giornalista hanno spinto Rampini a recarsi nella San Francisco Bay Area. Emerge un’altra caratteristica fon-damentale di ogni buon reporter, il desiderio di conoscere: è evidente che ciò che ha spin-to il nostro relatore più di ogni altra cosa nei luoghi dove stava accadendo qualcosa di importante che doveva essere raccontato, è stata la sua curiosità, la voglia di scoprire quel che di “meravigliosamente interessan-te” era in atto.

Rampini passa poi al racconto della prepara-zione alla partenza per un nuovo paese in cui si reca per svolgere incarichi giornalistici: innanzitutto legge tantissimo, prima, per impregnarsi di chiavi interpretative. Non si limita alla lettura di testi storici o geografici, ma anche di economia e tanta letteratura, perché la fantasia creativa offre degli sguardi diversi. In secondo luogo è fondamentale

imparare la lingua della nazione in cui ci si sta recando, anche se si dovesse trattare del mandarino, come gli è capitato quando è stato corrispondente da Pechino. La metropoli cinese permette al giornalista di riallacciarsi a un discorso più ampio sul giornalismo in questo paese: Rampini parla della Cina nei termini di “mondo dell’opaci-tà”, contrapposta agli USA che sono il “mondo della trasparenza”. Negli Stati Uniti infatti vi è un tale rispetto della professione del giornalista che molte cose sono istituzio-nalizzate, il sistema stesso è fatto per dare informazioni. In Cina invece l’imperativo categorico è dire il meno possibile o non dire; vige infatti la censura e le notizie che filtrano sono rigidamente controllate dal regime. Tuttavia, afferma Rampini, è possi-bile fare giornalismo non completamente soggetto al controllo del governo, chiara-m e n t e p e r v i e t r a s v e r s a l i . L’intervento volge al termine, tra poco Ram-pini lascerà spazio alle domande, ma prima ci suggerisce altre caratteristiche del mestie-re del giornalista. Fondamentale è la disci-plina del tempo, la capacità di sapersi dare delle scadenze e rispettarle. Bisogna però conservare la serenità e l’elasticità: il giorna-lista suggerisce una sorta di “ginnastica mentale per capire il trapasso”. Quando si è recato in viaggio a Pechino gli è stato offerto di alloggiare in un meraviglioso e super ac-cessoriato hotel nella zona più moderna e occidentalizzata della città. Rampini si è però rifiutato, preferendo abitare in una casa nella zona della città vecchia, un hu-tong. Così facendo è potuto entrare in con-tatto con la mentalità cinese e la popolazio-ne, facendo incontri assolutamente unici: ci racconta infatti del barbiere quasi centena-rio che ha conosciuto, un ometto alto poco più di un metro e venti e che aveva vissuto decenni di storia cinese. Sono molte le domande nell’ultima mezz’o-ra, sembra che Rampini abbia risvegliato l’entusiasmo dell’uditorio; la curiosità è ancora tanta, c’è chi vuole sapere di altri compagni di viaggio stravaganti o celebri, chi gli domanda che percezione abbia avuto, in quanto italiano all’estero, del senso di inferiorità che l’Italia prova nei confronti del resto dell’Europa. Il relatore, con tono paca-to e divertito, risponde a tutte le domande, e quando il tempo finisce è forte la sensa-zione che ci sarebbe ancora molto da dire. Esco dall’aula magna piena di entusiasmo, sembra che la voglia di viaggiare e di cono-scere di quest’uomo sia stata contagiosa. Mi auguro che sia stato così anche per il resto dell’uditorio, ma a giudicare dagli sguardi contenti, un po’ meno grigi di com’erano all’inizio della serata, direi proprio di sì. Gaia De Luca

Vita quotidiana di un reporter in viaggio

ANNO VI — NUMERO I I

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ATTUALITÀ PAGINA 5 D ICEMBRE 2011

rava. Ad un certo punto non sentendo più la sua voce ho aperto gli occhi preoccupa-ta, fortunatamente stava bene, anzi stava benissimo, aveva un sorriso meraviglioso. Davanti a noi c’era un buffissimo ragazzo, o meglio un buffissimo pagliaccio, vestito e truccato a dovere con un piccolo man-dolino tra le mani. Iniziò a suonare una canzoncina molto allegra e ci fece tanto ridere e divertire quando cacciò via quella donna delle pulizie che voleva interrom-perlo, a noi tanto antipatica. Nel momen-to in cui se ne andò, da un lato ero molto triste perché ci aveva fatto passare del tempo in allegria, dall’altro ero e sono contenta di sapere che al mondo esistano persone così. Molto spesso, quando riflet-to, penso di non fare per gli altri tutto quello che invece potrei fare. La mattina

attraversiamo tutti quanti via Beroldo, varchiamo la porta d’ingresso del nostro Liceo, ascoltiamo gli insegnati, prendiamo appunti, andiamo a casa e trascorriamo gran parte del nostro tempo immersi nei vocabolari di latino e greco, a fare conti ma-tematici, ad immedesi-marci nei pensieri filo-sofici. Quando abbiamo finito di studiare e ci rimane del tempo deci-diamo di dedicarlo a noi stessi, uscendo con i nostri amici, andando a bere qualcosa, a ve-dere un film al cinema, a comprare quel vesti-to visto nella vetrina

giorni prima. Sicuramente tutto questo è giusto, anzi giustissimo, è bello, anzi bellis-simo, ma sto scrivendo per assicurarvi che occuparsi degli altri è meraviglioso. Il mio invito è quello a riflettere sempre su quanto sia preziosa una buona salute, su quanto sia bello, ma soprattutto non scontato, stare bene, non soffrire, poter andare a scuola e non conoscere gli ospe-dali. Purtroppo ci sono tante persone che non hanno ricevuto il dono di una buona salute, ci sono tanti bambini che giorno dopo giorno stanno sdraiati in quei lettini bianchi e fissano i corridoi grigi o con gli animaletti dipinti; perché non possiamo smettere di considerarli estranei e iniziare ad andare a trovarli portando loro un sor-riso? Non ci possono fare del male, ma noi possiamo portare loro un gran bene.

Alessandra Ceraudo

amici dei bambini, che curandoli permetto-no loro di stare meglio e condurre una vita più serena. Molto spesso, però, i dottori non bastano a sanare quella tristezza che si accumula giorno dopo giorno nelle piccole creature e allora intervengono delle perso-ne meravigliose: i pagliacci. Uomini e don-ne di varie associazioni di volontariato si recano nei reparti degli ospedali, in parti-colar modo in quello di pediatria, a portare un sorriso ai malati. Travestiti da pagliacci, da personaggi famosi dei cartoni attraver-sano quei grigi corridoi, quelle tristi corsie facendole diventare lo sfondo di un mondo fatato, il meraviglioso bosco dove transita-no Biancaneve e i sette nani, l’arcobaleno splendente davanti al quale giocano i pa-gliacci. Vestiti nel modo più buffo possibile entrano nelle varie stanze e trovano il mo-

do per far sorridere tutti anche i più soffe-renti, anche i bambini, ormai ragazzi, che magari potreste pensare non si lascino più rallegrare da un pagliaccio. Se ci tengo particolarmente a scrivere questo articolo, a trattare questo argomento è proprio per la mia grande devozione e l’immensa stima che nutro nei confronti di queste persone. Voi carducciani pensereste mai, se state soffrendo, che un pagliaccio possa entrare nella vostra stanza di ospedale e far ridere e distrarre voi così come sta facendo ridere e distrarre un bambino di due anni? Io inizialmente non lo credevo possibile, ero contenta in ospedale della presenza di queste persone ma non pensavo a quindici anni di potermi divertire grazie a loro. La mia idea venne smentita; una mattina in-torno alle nove tentavo di dormire nono-stante avessi accanto un bambino di sei anni tenero quanto pestifero che mi tortu-

U n titolo probabilmente poco chia-ro a prima vista, un titolo che mi piacerebbe facesse riflettere. Iniziamo con una domanda: che

cos’è la corsia? A quale corsia mi riferisco? Sto parlando di quei lunghi corridoi, molto grigi e tristi se l’edificio non è ancora stato ristrutturato, molto belli e pieni di animaletti dipinti sui muri, se ristrutturati. Allora cosa si affaccia su questi corridoi? Chi è costretto a fissare il muro grigio o il muro allegro? Su questi infiniti corridoi si affacciano tante piccole stanze, all’interno ci sono bambini, creature innocenti che stanno male, passa-no le loro giornate in quei letti tanto bianchi quanto tristi. Su questi infiniti corridoi, però, non si affacciano solo le tante piccole stanze ma anche numerosi volti, i volti dei genitori che piangono per la preoccupazione e non hanno il coraggio di farsi vedere dai loro bambini. Ora abbiamo capito cos’è la corsia, quel luogo dove pas-sano le infermiere con i carrelli pieni di medi-cine e medicazioni, quel luogo dove i bambini, se possono, camminano e trascor-rono le loro giornate, quel luogo che la sera, quando non hai son-no, ti trasmette un senso di paura, di vuoto, di prigione. Questo è un reparto di pediatria di un ospe-dale. La mattina i bambini sono sottopo-sti ad analisi e visite specialistiche, pranza-no, trascorrono il pomeriggio con qualche visita dei parenti, cenano e dormono. Tutto sommato può sembrare una vita normale. A questo proposito voglio condividere con voi un’esperienza; un giorno una compagna di classe della cara persona che condivideva con me la stanza in ospedale, venne a tro-varla e le disse che lei, stando lì in ospedale, era più fortunata perché non doveva andare a scuola ed essere interrogata. Ora arriva la parte più interessante, la risposta della mia amica: “Tu sai che se sto qui in ospedale è perché sto male e soffro?” Già, nella nostra descrizione della giornata che un bambino trascorre in ospedale, ci siamo dimenticati questo dato di fondamentale importanza, quanto stiano male i bambini, quanto sia ostacolata la loro infanzia (in caso di proble-mi seri), quanto sia triste e anche traumati-co un lungo periodo trascorso in ospedale. Figure fondamentali sono i dottori, spesso

Un sorriso in corsia

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CRONACHE CARDUCCIANE PAGINA 6

Riposa in pace, Mario

C’è un nuovo carducciano a scuola. Si chia-ma Mario. Ne parla molto il Collettivo. Non è nessuno, ma è come se fosse tutti. E’ insie-me un’accusa, una provocazione, ma soprat-tutto una sfida. Mario appartiene più al mondo dei morti che a quello dei vivi: è qua-lunquista e disinteressato, vive con indiffe-renza e apatia gli eventi che riguardano la scuola e il mondo esterno, la sua ragion di (non)vita sono gli otto in greco e in latino, anche se spesso e volentieri si accontenta di un misero e debole sei, le ciambelle del bar e gli intervalli coi compagni. Creatura spen-sierata e superficiale, ha bisogno di cambiare, ha bisogno di essere sveglia-to, di essere richiamato all’interesse, al fervore, alla vita. “Il Carducci è morto!”: nella bara non c’è tutto l’istituto, ma solo Mario. Al suo funerale il prete dirà: “Non è che era stu-pido, solo non si applica-va, era distante!”. In que-sto consiste la sfida: Ma-rio siamo un po’ tutti noi, carducciani sterili e vuoti, che abbiamo bisogno di vivere. O forse di nascere per la prima volta. Ritratto di Mario

Ma non sono soddisfatto, voglio vedere Mario coi miei occhi: osservarlo, studiarlo, giudicarlo. Il ‘sentito dire’ non mi acconten-ta. Allora lo cerco, mi guardo attorno e ne traccio un identikit. Non è Mario, ma Gianna – siamo o no una scuola in prevalenza femminile? –: viene dalla periferia ed è una studentessa zelante e diligente, fiera dei suoi studi classici. E’ di indole gioviale, spesso frivola, sempre pron-ta a scherzare e a divertirsi. Eppure il brio e l’effervescenza del suo temperamento si contrappongono alla torpida accidia della sua vita intellettuale: gli eventi del mondo circostante la trapassano senza che se ne accorga, le attività studentesche sono un’oc-casione per scampare alle interrogazioni, gli eventi di attualità sono solo inchiostro sulle pagine dei quotidiani. La sua misera cultura generale - chiusa entro i ristretti orizzonti dell’apprendimento scolastico – , le scarse doti critiche e la poca elasticità mentale ne fanno un individuo profondamente disinte-ressato, incapace di identificarsi in un’ ideo-logia politica o credo religioso. Semplice-mente non gliene importa.

Mario non esiste

Ma niente: non riesco ancora a vederlo, a trovarlo. Di questa figura nessuno sembra sapere molto: si ha solo qualche suo tratto vago e fumoso che gli conferisce un’aura di indecifrabile consistenza. Questo mio ritrat-to sembra piuttosto una caricatura informe e astratta di mille volti diversi: un nulla che ha la sembianze sparse di un tutto. Anziché rappresentarci tutti, Mario non è nessuno. E’ come se non ci fosse nessun Mario. Ed è proprio così. Inquadrare in un fantomatico “personaggio medio” centinaia di anime che popolano

uno stesso ambiente è un gioco intellettua-le ma fuorviante. In un’immensa tavolozza di colori non troveremo mai una tonalità in grado di rappresentare e riassumere tutte le altre. Non esistono uomini medi in nessu-na realtà umana, piccola o grande che sia: esiste solo una molteplicità di individui, ognuno con la propria storia, il proprio mondo, la propria vita, che per la loro ete-rogeneità non possono essere ridotti ad uno stereotipo o una caricatura valida per tutti loro. Mario è il risultato di quest’errore di lin-guaggio e di giudizio: una banale macchiet-ta in cui confluiscono tendenze e caratteri-stiche comuni a molti carducciani, ma che di fatto non significa né dimostra niente. Dovrebbe permetterci di vedere negli occhi le persone attorno a noi e invece ci rende drammaticamente ciechi. Mario non esiste e non può esistere. Ora Mario è morto. Ma per davvero. Mario, il fantasma

Ma ora mi rivolgo a te lettore, perché hai saputo capire e non capire. Finché Mario era tra noi tu non esistevi, perché ti immedesimavi in lui. Ma ora che Mario non c’è più che cosa rimane? Rimani

tu, con il tuo nulla, il tuo vuoto, il tuo Mario. Mario è il simbolo di una certa decadenza morale di quanti non riescono a dare un significato alle proprie azioni e un princi-pio ai propri pensieri. Dalla sua metafori-ca morte emerge la necessità per l’indivi-duo di colmare un vuoto di senso nel vivere quotidiano. Mario è morto perché la sua è una vita vacua, insipida: un’intera esistenza fon-data su una carenza di significato e di sostanza. Più che il riflesso del disinteres-se e della superficialità, Mario è un rifiu-

to, un nulla, un vuoto, è la conseguenza della mancanza di un punto di vista, di un’idea, di un senso. La sua famigerata morte non è un singolo evento che lo separa di colpo dalla vita, ma una lenta erosione che lo trascina nel baratro del più profondo nichilismo. E’ il trascorrere una vita senza credere in niente, sommersi dalla polvere di cose futili e vane. Le lancette del tempo gira-no a vuoto quando la vita non ha un senso.

Tu lettore questo lo sai bene, lo vivi ogni giorno sulla tua pelle. Tu muori ogni gior-no proprio come Mario: non riesci a dare un senso al tuo quotidiano e così vivi una vita dedicata a se stessa, priva di un valo-re che la legittimi. Mario è una maledizione, perché dall’al-dilà perseguita e terrorizza noi altri, che siamo biologicamente vivi, ma spiritual-mente morti. Fa annichilire tutti, il più possibile: addormenta, anestetizza, atro-fizza. E così cresce della gente limitata, conclusa, prigioniera, già mezzo cadave-re, quindi impotente. Il potere azzerante di Mario è in proporzione all’impotenza altrui. Per sfuggire a questo nulla l’unica cosa che puoi fare è vivere una vita autentica, non una vita dedicata a se stessa, ma a qualcosa che la riempia. Dedicare i propri anni ad arti, mestieri, ideali, pensieri, valori, ricordi, imprese, creazioni, perso-ne. Questo è il vero richiamo al fervore e alla vitalità, il vero rimedio contro la mor-te. Se non trovi un’alternativa a Mario, in quella bara ci sarai tu. Mario vivrà. E il funerale sarà il tuo.

Jacopo Malatesta

Necro-Elogio di Mario

ANNO VI — NUMERO I I

Page 7: L'OblòSulCortile_2011fDicembre

OblogoniaOblogoniaOblogoniaOblogonia CRONACHE CARDUCCIANE PAGINA 7

Q uanti di voi sanno quali eventi, quali guerre fratricide, quali sacri-fici vi furono, ai tempi dell’Oblògo-nia, perché ora voi possiate tenere

tra le vostre mani queste pagine? Il Carducci nacque nel 1932. Negli anni ’40 si formò il primo giornale studentesco, per forza di cose fascista, ‘La voce dello studente’. Lustri più tardi sorse ‘Mr. Giosuè’, negli anni ’70 ‘La Ghigliottina’, poi ‘Neopoli’, ‘Odi barbare’, ‘Voci di corridoio’ e, nel 2002, ‘La Finestra Sul Cortile’, madre affettuosa dell’odierno Oblò.

La Finestra usciva periodicamente in mattoni da 28 pagine, ricchissima e florida, finché, nel 2002, non si esaurirono i fondi stanziati dalla scuola. Dopo tre anni di doloroso silen-zio e proteste, l’editoriale del Febbraio 2005 proclamò la “fine della schiavitù”.

L’anno dopo La Finestra fu definitivamente riesumata dalla misteriosa figura di Elettra, caporedat-trice: il gior-nale riflette-va la volontà di quegli studenti cui non piaceva il mortorio della scuola, e che cerca-vano dispe-r a t a m e n t e echi ai colpi che batteva-no in quell’o-bitorio che era il Carducci. La Finestra apriva dibattiti, denunciava (quell’anno ci furono decine e decine di furti) e conduceva inchieste (dobbiamo proprio alla Finestra/Lorenzo Rossi le nostre porte nuove ai piani bassi: prima erano di legno, vecchie e rotte, né si aprivano né si chiudevano), proponeva inces-santemente spunti e stimoli creativi, però con scarsi risultati.

Poi Elettra si diplomò. Lasciò l’anno dopo il testimone a Gabriele Merola, che decise di riformare il giornalino dalle fondamenta. Lo mise a dieta, per aumentarne la frequenza, appellandolo ‘Oblò’ perché più piccolo, e tale rimase, fino ad oggi.

Per la questione delle porte, non del tutto sostituite, Martina La Stella scrisse una lette-ra aperta sull’ultima pagina del numero di Dicembre, denunciando la mancanza di dia-logo con il DS, che costò due mesi di stop e trattative. Ci fu un caso giornalistico di cen-sura. In seguito il DS impose un rigido statu-to, tuttavia il giornale continuò a essere pub-blicato. Francesco Zaffarano curò l’impagina-zione e fondò il blog, nacquero rubriche co-me il ‘Dottor Sesso’, ‘Radio Voi’ (Il mio crice-

to si chiama Topo), e decollarono i dibatti-ti.

Nel 2007/2008 i fondi finirono, e l’Oblò fu costretto a tornare in Presidenza. I soldi costarono ulteriori restrizioni, al che alcuni redattori proposero l’autofinanziamento. La maggioranza votò contro, e quelli si distaccarono fondando Satura Lanx, semi-mensile autofinanziato di “satira e cazzeg-gio”.

L’accoppiata 2008/2009, frizzante come fuochi d’artificio, vide l’Oblò, condotto dal binomio Riva-Serranò, protagonista dei fatti eclatanti di quei tempi. Raccontò la proposta del DDL Gelmini, le proteste ac-cese, le guerre intestine, le scissioni e gli estremismi, l’occupazione dell’Istituto. La Redazione di Vittorio Riva attuò e pubblicò le temutissime pagelle ai professori, che sconvolsero i già allora fragili equilibri in-

terni, fecero dimettere in lacrime una pro-fessoressa, pro-vocando l’ira funesta di molte altre.

L’Oblò capitanò lo scandalo gior-nalistico de ‘I 7 Savi di Fausto Melotti’, ritrovati in uno scantinato da alunni e pro-fessori, immorta-lati con fotogra-

fie quasi uniche dall’ex redattore Mattia Serranò. Con la splendida definizione di ‘intrattenimento intelligente’ l’Oblò riusci-va a fare cronaca vera e divertire al con-tempo. Tra scandali e denunce riusciva a tener testa ai suoi due concorrenti: Satura Lanx e The Fool, altro simpatico secessioni-sta, ‘sopravvissuto’ nell’Oblò tramite le pagine finali di questo libellus e la presenza di colei che scrive, ultimo baluardo della resistenza Fooliana. Satura e The Fool mo-rirono con il finire dell’anno scolastico, in desolante penuria di denaro.

L’anno seguente, il 2009/2010, vi fu una grande redazione tra potenze (io vi parteci-pai, quintaginnasiale, come portaborse pagata in nero), in cui si decisero le sorti dei tre giornalini. Una votazione oligarchica preferì la stipulazione di un trattato di pace perpetua. La Dieta dell’Aula Studenti, dell’-Ottobre 2009, riunificò definitivamente le stampe carducciane sotto un unico nome, il più illustre di tutti –L’Oblò. Molti di voi forse non ricordano quei tempi. L’Oblò era magro e smunto, provato dalla guerra civi-le, malato, raschiava il fondo della fossa

dell’oblio. Era più morto che vivo. Il più grande numero, di 12 pagine, invece che uscire il 22 Dicembre uscì a Gennaio, presentandosi con un ‘Buon Natale!’. Gli eventi più rilevanti dell’anno, Cogestione e Sit-In in verde, causa di intimidazioni, vennero però raccontati lo stesso dalla guarente Cronaca Carducciana.

E poi venne il 2010/2011, e c’eravate quasi tutti: avete assistito, e partecipato, alla rinascita del Giornalino. Abbiamo avuto il coraggio di tentare un folle volo, cioè interessare il lettore, venirgli incon-tro, facendo, lo ammetto, anche manovre demagogiche: abbiamo tentato un primo, enorme, concorso fotografico; la casella di posta è stata letteralmente intasata dalla grinta di voi Carducciani, che avete reagito con una gioia inaspettata ad un richiamo naturale alla libertà, alla parteci-pazione. L’Oblò, travolto dall’euforia che ci aveva rapiti, ha continuato ad espan-dersi. La redazione aumentava in pro-gressione geometrica, le pagine di quat-tro in quattro, finché non si toccò il tetto delle 24: spero che i futuri redattori, con ancora più forza, possano superarlo e migliorarlo, quando noi non saremo più a scuola.

Ed eccoci a noi, figli ed eredi di tutte le parole d’inchiostro che sono passate di qua, nipoti dei pensieri di migliaia di car-ducciani che hanno calcato i nostri ban-chi. Penso spesso a chi è passato di qui, e magari ha detto la sua sul Giornale. Emi-lio Tadini avrebbe potuto essere il Capo Vignettista, Valerio Onida il redattore dello statuto del giornale. Mario Monicel-li avrebbe diretto le riprese dell’intervista ai candidati e della Sfilata dei Ronci...

Ma con che presunzione ci definiamo Redattori! E chi saremo mai, noi, quattro cani, che ci prendiamo la briga di portare avanti questa tradizione, questa briciola di storia, con umile orgoglio?

Come l’epos antico, questi racconti si tramandano di redattore in redattore: ora il segreto che li celava è spezzato.

Avete sotto mano il frutto di decenni di fermento giovanile, di storia.

E continuiamola, insieme.

Eleonora Sacco

D ICEMBRE 2011

A tutti i Carducciani che scrissero e scriveranno sul Giornale Scolastico.

Ps: ringrazio di cuore le fonti dell’Oblogonia. Primo fra tutti il mio caro amico Mattia Serranò, che ha passato tanti pomeriggi a scuola per raccontarmi queste storie. Poi Antonella Montanaro, che mi ha saputo dare i giusti contatti. Vittorio Riva, che mi ha dato tanti consigli, stimoli e idee, un sabato pomeriggio in un caffè vicino a via Malpighi. E infine un enorme grazie a Lorenzo Rossi, che mi ha trasmesso, nelle ore di chiacchierate, l’amore per le vicende passate, e mi ha aiutato a ricapitolare tutto, raccontandomi con minuziosità e precisione impressionanti ogni fatto per filo e per segno.

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Lutto al Carducci

Il Carducci (h)a ‘L’ultima parola’Il Carducci (h)a ‘L’ultima parola’Il Carducci (h)a ‘L’ultima parola’Il Carducci (h)a ‘L’ultima parola’

PAGINA 8 CRONACHE CARDUCCIANE

A morire al Carducci non sono sola-mente i ragazzi del primo piano con l’inno “IL CARDUCCI E’ MORTO”, ma anche l’orchestra della scuola. Infatti

il 23 novembre di quest’anno è morta l’orche-stra del Carducci. Dopo anni di crescita e miglio-ramento che hanno raggiunto il culmine il 14 maggio scorso presso l’Audito-rium G. Mahler di Milano, nella rassegna musica-le “Giovani e giovanissimi in concerto”, i no-stri musicisti sono stati costretti a sopprimere l’orchestra. Una specie di suicidio obbligato insomma. Ma partiamo dall’inizio.

L’orchestra del Carducci nasce due anni fa su proposta dell’ex carducciano Martin Nicastro, maturato nel 2011, che insieme ad un altro vecchio carducciano, Michele Shafi, decide di dar inizio al progetto. Inizialmente è una piccola

e normale orchestra scolastica, che con il passare del tempo si trasforma in un vero e proprio complesso musicale, con archi, legni, ottoni e percussioni. Famosa per i suoi con-certi in aula magna in occasione degli open-

day, in pale-stra durante la cogestione e nelle classi prima di Nata-le, ha riempito nuovamente di gloria il Carducci pro-prio nel mag-gio scorso, e s i b e n d o s i ne l l ’A u di to -rium.

All’inizio dell’anno, con la ripresa del proget-to, Martin si propone come collaboratore di Shafi, chiedendo per entrambi una modesta paga. Mentre la richiesta di Shafi viene ac-colta, quella di Martin no, non solo per moti-vi economici. Non riconosciuto e “bandito” dalla scuola, Martin sceglie di abbandonare definitivamente l’orchestra. I ragazzi riman-

gono così da soli con Shafi, che, per quanto esperto e qualificato, è difficilmente gestibi-le senza l’aiuto e la mediazione di Martin.

Nonostante i diversi tentativi di convivenza tra i ragazzi e il loro insegnante, la situazione continua ad essere insostenibile, tanto che, in data sopra indicata, a causa della totale assenza dei componenti del complesso, Shafi si dimette e l’orchestra dichiara così la sua morte.

È forse opportuno che un’attività scolastica, che per ben due anni ha animato la vita del nostro liceo e ha incrementato l’interesse di molti studenti per la musica, scompaia per un’incomprensione con la Dirigenza e senza la minima preoccupazione da parte degli studenti?

I nostri musicisti hanno in progetto una pro-testa di sensibilizzazione: un piccolo concer-to in cortile. L’idea è dimostrare che ogni lavoratore, giovane o vecchio che sia, ha il diritto di essere pagato e riconosciuto e che ogni studente, in questo caso musicista o meno, ha il dovere di interessarsi alla vita (ed alla morte) della scuola che frequenta.

Alessandra Venezia

ANNO VI — NUMERO I I

“Ultima parola” è un talk-show presentato da Gianluigi Paragone che va in onda tutte le setti-mane su Rai2 in seconda serata, nel quale, al classico dibattito di politici e giornalisti, viene affiancato un pubblico attivo composto soprat-tutto da giovani e giovanissimi che aprono la discussione a stimoli concreti. Laura Vitale Lollo, di 5E, ha avuto modo di par-tecipare a tre puntate di questo programma e per questo abbiamo ritenuto interessante porle qualche domanda su ognuna di esse. La prima puntata a cui hai partecipato è stata

“Il digestivo. Poi il conto.”. Su cosa ti sei trova-

ta a discutere e come hai avuto modo di inter-

venire?

- In realtà per me la prima puntata è stata al-quanto traumatizzante, perché credo affrontas-se una miriade di argomenti in maniera superfi-ciale, saltando di palo in frasca circa tematiche che invece avrebbero meritato una puntata a sé stante. Inoltre mi ha infastidito molto il servizio riguardante i giovani e il mondo del lavoro. Non so chi lo abbia realizzato, ma spero che fosse qualcuno totalmente privo di esperienza perché era zeppo di luoghi comuni. La sintesi era che, ovviamente, la disoccupazione giovanile è do-vuta al fatto che nessuno vuole più fare lavori come mungere mucche o alzarsi alle 4 del mat-tino per fare il pane. Per carità, che i settori sopracitati non riscuotano tanto successo tra i giovani è un dato di fatto, ma non si può fare di tutta l'erba un fascio, e inoltre se i giovani fan-no un certo corso di studi ottengono delle com-petenze in determinati settori, e non in altri. Tra l'altro era palese che si volesse dare un'im-

magine negativa delle nuove generazioni, dato che gran parte degli intervistati era com-posta da persone raccattate in bar/altri locali in maniera totalmente casuale. La successiva puntata si intitolava

“L’arroganza del potere”. Come si è svolto il

confronto? Hai trovato un divario molto am-

pio tra le opinioni del pubblico e quelle dei

politici?

- La puntata era molto improntata sui diritti dei lavoratori e impresari, ovvero del fatto che spesso gli operai si ritrovano a dover firmare contratti ai limiti della legalità pur di lavorare e portare a casa qualcosa, o dei piccoli e medi impresari che, soffocati dai debiti, sono co-stretti a ipotecare casa (o in casi estremi ad andarsene). In realtà questo programma pun-ta molto sul contrasto destra/sinistra, infatti sia ospiti che pubblico sono divisi a seconda della fazione per cui simpatizzano. In sintesi posso dirti che tutti, in maniera anche diversa, sentono il peso della crisi, anche se dalla fazio-ne di destra si guardava agli operai in cassa integrazione con forte scetticismo, come dei furboni che vogliono solo fare doppi lavori in nero. Purtroppo quando il discorso si è focaliz-zato più sulla classe politica il discorso è dege-nerato, perché in Italia c'è un numero spropo-sitato di gente che gode di privilegi e percepi-sce stipendi da sogno con tassi di assenteismo in Parlamento agghiaccianti, oppure che pre-sentano un disegno di legge all'anno per far vedere che lavorano. Leggi ovviamente inutili. L’ultima è stata “Si salvi chi può” riguardo

alla globalizzazione e allo stato della politica

attuale. Come si è mosso il dibattito all’in-

terno di un argomento così ampio?

- La puntata riguardo la globalizzazione è stata decisamente la migliore fino ad ora, e il perchè è semplice: era quella che sembra-va meno un talk show. Ospiti decisamente competenti (Osca Giannino e Fausto Berti-notti) che hanno espresso le loro opinioni -su più punti tra l'altro concordanti- in ma-niera civile e pacata, senza cercare di na-scondersi dietro astruse cavillosità quando venivano poste loro delle domande. Proba-bilmente questo è stato dovuto anche al fatto che si parlasse molto di economia, un campo in cui se non si hanno le competenze, specialmente in questo periodo, si capisce ben poco. Si sono analizzate le cause della crisi e il ruolo che l'euro e le leggi legate alla sua immissione sul mercato abbiano avuto. Chiaramente si è parlato anche molto del governo Monti, e di come dovrà far fronte alle leggi che si sarebbero dovute fare negli anni passati. Inoltre si è parlato anche della crisi dal punto di vista dell'Inghilterra e di eventuali proposte di superamento della crisi da parte di diversi economisti inglesi. Che cosa ti è rimasto di questa esperienza?

La consiglieresti?

-Nonostante il genere di programma sia spesso volutamente fazioso (specie per gli interventi del pubblico) affronta temi di attualità invitando in studio persone compe-tenti, e quindi è indubbiamente un'esperien-za interessante.

Chiara Conselvan

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PAGINA 9 CRONACHE CARDUCCIANE D ICEMBRE 2011

Novembre/Dicembre

L’altissima percentuale di preferenze ricevute da questa rubrica-esperimento mi ha forte-mente motivata a scrivere un sequel, che vi presento con gioia e mano tremante.

A dir la verità, questo primo, grandissimo scatto non mi è stato inviato all’indirizzo e-mail. L’avevo visto per caso, tempo fa, e non ero più riuscita a dimenticarmene. Artefice è Francesca Motta di 5F, pluripremiata ai con-corsi fotografici, con la sua Nikon D5000 e un ottimo 18-105mm VR.

La foto è all’aperto, senza una luce diretta; anche se le tonalità di grigio sono piuttosto fredde, il movimento e l’espressione concen-trata, appassionata del ragazzo (Martin Nica-stro, ex rappresentante della Consulta e fon-datore dell’Orchestra Carducciana) contribui-scono a ‘scaldare’ l’atmosfera, rendendola molto dolce, romantica e, per i più sensibili o innamorati, commovente.

L’elemento di forza della foto, molto decen-trato forse per enfatizzare il movimento e il ‘suono’ visivo dello strumento, e per non scadere nel banale, è il violino-uomo, perfet-tamente a fuoco e in risalto grazie ai contrasti

del bianco e nero. A livello generale, il mo-vimento della foto tende verso destra, oltre il limite del formato 10x15, come se il sog-getto volesse volare via sulle note della musica: il busto e il capo del ragazzo sono inclinati e quasi paralleli all’archetto del violino, per ‘suonare’ anche con il corpo e regalare un forte effetto visivo, intensifi-cando il pathos del momento. Le ombre si impongono pacatamente, nascondono quasi la metà destra del volto, intensificano le piccole zone scure che compaiono al corrugarsi della fronte, al tendersi del collo, nelle pieghe della giacca e nella scollatura della maglietta, risaltano i tagli del violino.

Francesca ha usato l’impostazione manua-le, per poter controllare razionalmente ogni singolo aspetto dello scatto. I 640 ISO indicano le condizioni di scarsa luminosità. I 90mm ci suggeriscono la distanza della fotografa dal soggetto, piuttosto breve; il diaframma non minimo ma comunque basso, 5.6, è dovuto sia appunto alle esi-genze luminose, sia alla necessità di far spiccare il soggetto con una bassa ma non eccessiva profondità di campo, ottenendo un suggestivo effetto sfumato sullo sfondo,

che non distrae l’attenzione dal nucleo emotivo dello scatto, il Martin-violino.

La scelta più difficile è stata sicuramente il tempo: né troppo lungo, per evitare un effetto mosso eccessivo, né troppo breve, per evitare l’effetto “congelato” e una foto troppo buia. Francesca ha scelto 1/100, che le ha fatto ottenere un effetto di movimento naturale e spontaneo, una luminosità equilibrata, ombre marcate ma gentili.

Come immagino si sia desunto dalla svioli-nata lusingante, questa foto mi ha lascia-ta senza parole: è riuscita a rappresenta-re, nel modo più dolce e passionale possi-bile, l’unione amorosa del musicista con il suo strumento.

Detto ciò, gambe in spalla e fotografate!

Eleonora Sacco

Hai fatto una bella foto? Man-

dala a [email protected] con nome, cognome, classe e dati EXIF: potresti vederla pubblicata sul-l’Oblò!

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The tree of lifeThe tree of lifeThe tree of lifeThe tree of life

PAGINA 10

M iei cari carducciani, "Inglourious Revie-wers" è tornata an-che questo mese con

una buona dose di recensioni e spe-culazioni pseudo-filosofiche. Largo spazio alle riflessioni personali, quin-di, in quanto due dei tre film presen-tati compensano la mancanza di una

trama particolarmente articolata con un alto tasso di spunti più o meno visibili. Il primo, in particolare, "The Tree of Life" di Malick, è stato definito dalla critica "il nuovo '2001: Odissea nello Spazio'" per il suo im-patto visivo e per il modo in cui il regista tratta una tematica come quella del rapporto tra uomo e Dio. E se "American Beauty", vuoi per la colonna sonora ormai riutilizzata

dappertutto, vuoi per alcune scene en-trate nel nostro immaginario collettivo, non ha bisogno di presentazioni, nem-meno l'italiano "This Must Be the Place" di Sorrentino necessita di un'introduzio-ne particolare, tanto è recente. Ricordo infine che è possibile inviare commenti, critiche, brevi recensioni o quant'al tro al l ' indir izzo cine-

[email protected]. Scrivete, scrivete, scrivete!

Dario Zaramella (Doris)

ANNO VI — NUMERO I I C INEMA

D elicatissimo, puro e naturale, spontaneo; il quinto film di Ter-rence Malick è un distillato della vita per immagini semplici, sim-

boli, contrasti, suoni primordiali, dialoghi con Dio.

Da cogliersi nell’essenza generale, il film è incentrato sul rapporto filosofico Uomo-Dio, sull’accostamento fonico, cromatico, concettuale dei due enti.

“Dov’eri tu quando io gettavo le fondamen-ta della terra?” (Giobbe 38:4-11)

Candida e linda, pura e umile, la madre (Jessica Chastain) spiega ai tre figli, sottovo-ce, l’esistenza di una via della Grazia e di una della Natura; le sue lunghe riprese nella natura incontaminata la rendono simile ad una Ninfa, consentendole di incarnare, con il suo alone semidivino, il ruolo della fede in un Dio-Sole universale, creatore, che si ri-bella ai confini impostigli dalle dottrine religiose, sebbene la pellicola sia evidente-mente ambientata in un contesto prote-stante.

Il padre (Brad Pitt), rigido e dalla severità militare, odiato dai figli, rappresenta la ra-gione umana che cerca supporto morale alle sue azioni nella religione, andando spesso in chiesa, ma con l’arroganza del self-made man. Cerca di crescere i figli inse-gnando loro a tirar pugni, a vantarsi dei loro traguardi, a sfruttare la terra per il progres-so dell’uomo, a cercare sempre il successo sociale e lavorativo, a inseguire l’american dream delle auto e dei brevetti anni ‘50.

La madre educa i figli nel rispetto della na-tura, insegnando loro l’attenzione ai piccoli

gesti: particolarmente efficaci sono le riprese, a tratti volutamente ‘artigianali’, che colgono alla sprovvista lo spettatore inseguendo i personaggi, proponendo inquadrature insolite e originali, emotiva-mente molto cariche, che calcano la pro-spettiva particolare-universale, eviden-ziando l’analogia proporzionale tra Uomo e Dio.

La vicenda tragica vede la morte del figlio secondogenito. Con un lungo flash-back il figlio maggiore rivisita la sua infanzia, da adulto (Sean Penn), ricordandola con gli occhi di bambino.

Alle emozioni semplici e mutevoli dell’uo-mo, raffigurate a tratti rapidi ma marcati sui difetti e sulle sofferenze, si contrap-pone la potenza invincibile e maestosa del Dio creatore, che divampa in meravi-gliosi e terribili fenomeni naturali, cui Malick dedica una consistente parte del film (la ‘Genesi’).

Frequentissime sono le domande, che ricevono risposta solo tramite immagini e suoni naturali, sussurrate a Dio, mai no-minato. La trama umana, molto semplice e legata al mondo dell’infanzia, anche grazie alle riprese in effetto ‘pellicola’ e ai colori sbiaditi, è connotata da forte fragi-lità e sofferenza: eppure proprio lì emer-ge l’appassionata idea di Bello nei gesti degli uomini.

‘L’albero della vita’ vanta un grande no-me alla direzione della fotografia, valoriz-zante i contrasti simbolici del film, grandi interpreti del silenzio e dei sussurri, musi-che suggestive, una grande regia, sempli-ce ma densa, che richiama quella concen-

trata e pensata di Kubrick.

Le uniche due pecche sono la durata (138 minuti, che originariamente erano addirittu-ra 480…) e una scena della Genesi in cui compaiono alcuni dinosauri, decisamente fuori tema e luogo, oltre che terribilmente dissonanti con la linea grafica del film.

Un’originale poesia cinematografica esisten-ziale da non perdere.

Ps. Meglio al cinema che in streaming: all’A-pollo (Duomo M1, M3) tutti i Martedì e Gio-vedì c’è la rassegna ‘Rivediamoli’, fino al 29 Marzo, a 2,50€ (per chi è sempre senza sol-di, come me).

Eleonora Sacco

CITAZIONE DEL MESE

"Io sto qui col naso ben ficcato nella terra e ci sto fin dall'inizio dei tempi, ho coltivato ogni sensazione che l'uo-mo è stato creato per provare. A me interessava quello che l'uomo deside-rava e non l'ho mai giudicato, e sai perché? Perché io non l'ho mai rifiuta-to nonostante le sue maledette imper-fezioni! Io sono un fanatico dell'uomo, sono un umanista... probabilmente l'ultimo degli umanisti. Chi, sano di mente, Kevin, potrebbe mai negare che il ventesimo secolo è stato intera-mente mio? Tutto quanto, Kevin! Ogni cosa! Tutto mio! Sono all'apice, Kevin! È il mio tempo questo! È il nostro tem-po!" [Satana; L'Avvocato del Diavolo]

Doris

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PAGINA 11

L 'esordio come regista del britannico Sam Mendes non sarebbe potuto essere più vincente: 5 premi Oscar per un film che, con un'azzeccata

armonia tra satira e dramma, ha proposto una personale ma molteplice analisi della società borghese dell'America di fine anni '90. Nel fare ciò si sofferma proprio sul con-cetto di "bellezza", che, declinato nelle sue varie accezioni, rappresenta il filo conduttore attorno al quale si dipana la vicenda. Il mio entusiasmo non è dettato tanto dalla trama, sulla quale mi soffermerò solo per poco, quanto dalla maestria con cui le tecniche registiche (insistenza su determinati partico-lari, scene al rallentatore, inquadrature più o meno claustrofobiche) sono state poste al servizio della sceneggiatura, potenziandone di fatto il messaggio. La trama, come dicevo, benché valida, è piuttosto semplice: si segue la routine di Lester, un impiegato di mezza età, di sua moglie Carolyn e della figlia sedi-cenne Jane; in seguitò entreranno in scena i loro vicini di casa, tra cui un ex colonnello ossessionato dal rigore militare e il figlio,

Ricky, dal carattere ambiguo; poi ancora Angela, l'amica sessualmente disinibita di Jane. Le vicende di questi e di altri perso-naggi si incrociano in un crescendo di fine analisi psicologica, che non sarebbe, pe-rò, così intrigante se solo non pendesse, sin dall'inizio, una "dichiarazione di mor-te" sulla testa di uno dei personaggi. In-fatti il protagonista, Lester, ci racconta in un unico flashback gli avvenimenti prece-denti alla sua morte, che avverrà inevita-bilmente alla fine del film. Questa rivela-zione preliminare non toglie l'effetto sorpresa, come si potrebbe pensare, ma mette lo spettatore in una condizione, sì, di attesa, ma anche di serenità, in quanto sa già cosa aspettarsi dal finale. Ed è co-me se il regista, con questo, ci avesse voluto sussurrare: "rilassati, e goditi ciò che c'è nel mezzo", perché quelle due ore che intercorrono tra la dichiarazione ini-ziale e la prevedibile fine delineano con maestria il percorso di crescita di Lester, che, da uomo represso e imprigionato nel grigiore della routine, grazie all'impulso

sessuale provocatogli dalla vista di Ange-la, inizia un processo di riscatto sociale e psicologico. La "bellezza" del titolo è inizialmente desiderio sessuale, per Lester come per la moglie; in seguito, però, il concetto verrà sviluppato fino a includere, ad e-sempio, l'amore di un padre per la figlia, o l'attaccamento di Ricky alla natura e a tutto ciò che c'è di bello in essa. C'è da dire che molte tematiche sono appena accennate nel film, che spesso si limita a suggerire riflessioni allo spettatore attra-verso espedienti quali l'insistenza sul simbolo della rosa rossa, presente in sva-riate scene con significati di volta in volta interpretabili, o l'utilizzo di scelte croma-tiche differenti in base allo stato psicolo-gico del protagonista. Questa pluralità di spunti rende il film tanto difficile da sin-tetizzare in mezza pagina, quanto affasci-nante da analizzare, senza per questo essere pesante.

Dario Zaramella

American BeautyAmerican BeautyAmerican BeautyAmerican Beauty

D ICEMBRE 2011 C INEMA

"A volte c'è così tanta bellezza nel mondo che non riesco ad accettarla... Il mio cuore sta per franare."

This Must Be The PlaceThis Must Be The PlaceThis Must Be The PlaceThis Must Be The Place "Il problema è che passiamo troppo velocemente dall'età in cui diciamo 'farò così' a quella in cui diremo 'è andata così'"

C heyenne è stato una rockstar nel passato. All’età di 50 anni si ve-ste e si trucca come quando saliva sul palcoscenico, e ora

vive agiatamente, grazie alle royalties, con la moglie Jane a Dublino.

La morte del padre, con il quale non aveva più alcun rapporto, lo spinge a tornare a New York. Scopre così che l’uomo aveva un’ossessione: vendicarsi per un’umilia-zione subita all'interno di un campo di concentramento. Cheyenne decide di pro-seguire la ricerca dal punto in cui il genito-re è stato costretto ad abbandonarla, ini-ziando così un viaggio attraverso gli Stati Uniti.

“And you’re standing here beside me/I love the passing of time/Never for mone-y/Always for love /Cover up and say good-night/Home – is where I want to be/But I guess I’m already there/I come home – she lifted up her wings/Guess that this must be the place” (“E tu sei qui vicino a me/Amo lo scorrere del tempo/Mai per denaro/ Sempre per amore/Copriti ed augura la buonanotte/ Casa- è dove voglio essere/Ma mi sa che ci sono già/ Vengo a

casa-lei ha sollevato le ali/Sento che que-sto dovrebbe essere il posto”.) Il testo della canzone dei Talking Heads che dà il titolo al film, e che riveste un ruolo di primo piano in una delle scene più importanti e intense, rappresenta una sorta di sintesi di questa opera in cui Sor-rentino mostra l’intimo percorso di vita di questo particolare personaggio.

Cheyenne, rocker ormai in disarmo, che gode ancora dei frutti economici della sua celebrità è un uomo che quotidianamen-te si trasforma in maschera, quasi avesse bisogno di aggrapparsi a quel passato di gloria che ora non rinnega ma rifugge.

Accanto a lui, da 35 anni, una donna soli-da che sa essere una sorta di sorridente argine alla sua pacata depressione. Al suo fianco un costante peso: che sia il carrello della spesa o il trolley da viaggio, Cheyen-ne si trascina dietro un bagaglio di situa-zioni irrisolte, prima fra tutte la dinamica dei rapporti con la figura paterna.

Cheyenne/John Smith è un Edward mani di forbice dei nostri giorni, un essere u-mano che il padre ha creato e, al contem-

po, limitato, trasmettendogli inconscia-mente un’ossessione che il figlio scoprirà di avere solo dopo la sua morte. Il castel-lo in cui Edward/Cheyenne si è rinserrato è il suo aspetto esteriore, che lo lega all'amato/odiato passato e al contempo lo separa dal presente.

Sean Penn è straordinario nel disegnare, ancorandolo alla realtà, un personaggio che potrebbe ad ogni inquadratura dis-solversi nel grottesco o nella caricatura. Quest’uomo che fa di tutto per essere riconosciuto, e nonostante ciò nega per-vicacemente con tutti la propria identità, ha la complessità di quelle figure che si imprimono con forza nell’immaginario cinematografico. Un personaggio che, anche se lo nega (“Non sto cercando me stesso. Sono in New Mexico, non in In-dia”), compie un lungo viaggio per (ri)trovare un posto dentro di sé.

This Must Be The Place è un film di Paolo Sorrentino. Con Sean Penn, Frances McDormand, Eve Hewson, Harry Dean Stanton.

Chiara Mazzola

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PAGINA 12 ANNO VI — NUMERO I I

Per non morire di mafiaPer non morire di mafiaPer non morire di mafiaPer non morire di mafia

CULTURA

M afia. La nube di oscurità che sovrasta l’Italia da molti, troppi anni. Ci sono stati, ci sono e ci saranno sempre

uomini che vogliono ripristinare il sole della libertà per tutti noi. Persone come Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, Antonino Ca-ponnetto,Tommaso Buscetta, Totuccio Con-torno, Pietro Grasso. Pietro Grasso, l’uomo che sarebbe dovuto morire nell’attentato a Borsellino, se solo quest’ulti-mo non avesse voluto aspettare la moglie per partire insieme. Così l’attuale p r o c u r a t o r e nazionale anti-mafia conserva ancora il bigliet-to dell’aereo di linea di quel fatidico giorno. Grasso: il giudice del maxiprocesso antima-fia del 10 febbraio 1986, già magistrato di Barrafranca a 24 anni. Uomo d’altri tempi, che ha colto cosa conta nella società odier-na. Ebbene sì, un mezzo che un tempo era semplice intrattenimento oggi diventa ciò che spaventa i sicari più spietati. In un’in-tervista pubblicata su SiciliaOnLine dice che la stampa deve parlare sempre di tutto ciò che riguarda la mafia. Ma deve essere in grado di farlo senza far diventare i boss mafiosi dei miti a cui ispirarsi. Sbaglio che spesso vediamo nelle attuali fiction, dopo le quali il procuratore farebbe seguire dei dibatti con i giovani.

Ottimo spunto da sostituire anche a pro-grammi come Porta a Porta o Matrix, ag-giungerei io. Così Pietro Grasso ha scritto il libro “Per non morire di mafia” e ne ha fat-to anche uno spettacolo teatrale, per i più pigri come me (non preoccupatevi dopo aver visto lo spettacolo, l’esigenza di legge-re il libro vi sovrasta). Monologo che riesce a farci sentire sempre di più quanto la ma-fia sia insita, sotto la pelle di ciascuno di noi. Spesso mi sembra che essendomene andata dalla Puglia, le organizzazioni mafio-se siano una realtà lontana anni luce. La Sicilia appare davvero come una fetta di Africa quando ne sento parlare al tg. Solo alcuni libri mi han-no riavvicinato a questa stupenda regione che ho visitato soltanto una volta. Ero mol-

to piccola, sapevo qualcosa sulla mafia ma non molto. Eppure non riuscivo a intravede-re nulla che avesse a che fare con essa, nonostante mi continuassi a ripetere di non dire tutto quello che pensavo come al mio solito o di guardare per più di 10 secondi la stessa persona.

Leonardo Sciascia ha detto: "Forse tutta l'Italia sta diventando Sicilia... A me è venu-

ta una f a n t a s i a , l e g g e n d o sui giornali gli scandali di quel g o v e r n o regionale: gli scienzia-ti dicono che la linea della pal-ma, cioè il clima che è

propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno... La linea della palma... Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato... E sale come l'ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l'Ita-lia, ed è già oltre Ro-ma..." (Il giorno della c i v e t t a ) . Durante lo spettacolo l ’ a t t o r e Sebastiano Lo Monaco racconta la vita di Grasso, descrivendone soprattutto gli a-spetti più meravigliosamente umani.

Ci racconta un uomo che, andando a com-prare una tuta per il figlio, si trova davanti un figlio di mafioso condannato a 8 anni durante il maxiprocesso che lo saluta dicen-dogli “Dottore, non mi riconosce? Ci siamo

incontrati al maxiprocesso, lei era stato un po’ cattivello con me. Fortu-natamente dopo ho trovato un giudi-ce più bravo, che dopo 2 anni mi ha fatto uscire veloce veloce“. Il maxi-processo, per cui lui e l’ormai amico Borsellino insieme a tanti altri si sono tanto penati, sembra essere un gros-so buco nell’acqua. Ma ogni volta

che si fa anche un solo, piccolo passo per

annientare la mafia non è mai invano. Durante i primi anni ottanta, la Seconda guerra di mafia aveva imperversato a tal punto che il boss dei Corleonesi Salvatore Riina decimò le altre famiglie mafiose, e centinaia di omicidi vennero commessi, inclusi quelli di diverse autorità di alto profilo come Carlo Alberto Dalla Chiesa, capo dell'antiterrorismo che aveva arre-stato i fondatori delle Brigate Rosse nel 1978. Il suo omicidio è stato collegato all'assassinio di Aldo Moro e alla cosid-detta strategia della tensione. Il crescen-te sdegno dell'opinione pubblica per que-sti omicidi diede la spinta necessaria a magistrati quali Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a provare a colpire efficace-mente un'organizzazione criminale più radicata nell'isola. Questo processo deve aver intimorito davvero molto la mafia se nel corso dell’atto giudiziario un poliziot-to calabrese ha annunciato la minaccia di una “guerra dei mandarini”.

Questa fantomatica guerra ha creato il panico in aula tanto che mentre i volti giudiziari più noti facevano proposte co-miche su come difendersi (la proposta di Grasso: usare il codice penale come una racchetta da tennis), il poliziotto calabre-

se comunica che il rischio di rivolta è stato sedato. Han-no costretto gli imputati a mangia-re tutti i mandarini nei cestini.

Pietro Grasso so-stiene di non esse-re più in trincea ma di combattere die-tro le scartoffie. Ciononostante è

ancora costretto a girare con la scorta e a temere per la vita dei propri figli. Raccon-ta anche che quando ha tentato di fare una “fuitina” con la moglie, in moto, la moto gli è stata requisita e mai più resti-tuita. Spesso la vita scolastica ci sommer-ge di bambagia che rende la vista offusca-ta da milioni di filtri, diversissimi tra loro.

Non dobbiamo mai dimenticare che la nostra formazione serve anche per com-battere tutto ciò che non ci piace nel mondo. Fichte diceva che l’intellettuale è tale solo se lo è all’interno della società e che “Libero è solo colui che vuole rende-re libero tutto ciò che lo circonda”. Qua-lunque cosa accada,specchiatevi nella verità, sempre!

Maria Rosa Miccoli

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PAGINA 13 D ICEMBRE 2011

P er un pomeriggio all’ insegna dell’arte e della musica, noi giovani e inesperte reporter ci siamo recate in via Turati 34 al

Palazzo della Permanente (tranquilli, non ha nulla a che fare con i parrucchie-ri). E sì, dobbiamo ammetterlo, ci aveva allettato molto la prospettiva di gustare del buon bacon croccante accompagna-te dalla musica dei Beatles, ma i nostri sogni son stati brutalmente infranti quando all'entrata della mostra, perdo-nate l’ignoranza, abbiamo scoperto che Bacon era un artista! Quindi, munite di cuffie (comprese nel modico prezzo di 4 euro), ci siamo im-merse nel mondo dell’arte moderna pop-rock. Appena entrate siamo state accolte da uno struzzo di ferro, di cui ancora ci è poco chiara la ragion d’esse-re. Ma siamo state subito confortate dalle note di “Roll over Beethoven” di Chuck Berry e da un cartellone esplicati-vo sul quale c’era scritto che la mostra “Da Bacon ai Beatles” era un insieme di

arte pop inglese, realismo esistenziale italiano e nouvelle figuration francese. Questa volta perdoniamo noi la vostra ignoranza! In poche parole quest’arte è caratterizzata da immagini scomposte e sovrapposte, ritagli e gesti liberi che rappresentano pienamente il pensiero degli anni ’60 e del rock.

Dopo aver superato la sala dello struzzo, la nostra attenzione, così come il nostro cuo-re, è stata catturata da una gigantografia di Jim Morrison, che è una figura rilevante per tutta la durata del percorso.

Durante la mostra si trovano riferimenti espliciti al concetto di pacifismo incentrati soprattutto sulla guerra del Vietnam. Ad esempio il quadro che rappresenta la can-tante Joan Baez sulle note della stessa Joan che intona “C’era un ragazzo…” di Gianni Morandi e l’imponente bandiera america-na coperta da frammenti di corpi umani dipinta da William Utermohlen, accompa-gnata dalla chitarra di Jimi Hendrix che suona l’inno americano con sottofondo di bombe che esplodono, pezzo che esibì a Woodstock.

L’opera più famosa della mostra è la coper-tina del celebre album dei Beatles, Sergent Peppers, firmata Peter Blake. In questa si possono riconoscere i volti personaggi famosi dell’epoca tra cui Charlie Chaplin e Marilyn Monroe. CURIOSITA’: sono stati omessi i volti di Hitler per ovvie ragioni e di Gandhi perchè avrebbe potuto compro-mettere la vendita in India.

La mostra si conclude con l’ inizio degli

anni ’70, data di cui si ricordano le tragiche

morti di Janis Joplin e Jimi Hendrix e lo

scioglimento dei Beatles. Ciò che più carat-

terizza e colpisce della mostra è la perfetta

armonia che si forma tra musica ed arte.

Chiara Guastamacchia e Alessandra Sale

DA BACON AI BEATLES

“sex, art & rock’n’roll”

CULTURA

Percorso di 35 min, per chi pensa che andare alle mostre sia palloso.

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LA B IBLIOBUSSOLA ANNO VI — NUMERO I I

U no che di giovani se ne intende davvero è Alessandro D'Avenia. Biondissimo caso letterario 201-0 con il bestseller Bianca come il

latte rossa come il sangue, dal 2 di Novem-bre è tornato nelle librerie con la sua ultima fatica, Cose che nessuno sa. É la storia di Margherita, ragazza di 14 anni il cui padre se ne va di casa. Grazie a nuovi amici (il ragazzo più tenebroso della scuola, una compagna di banco sopra le righe, il profes-sore d'Italiano sognatore ma codardo) e vecchie conoscenze (la nonna, sinceramen-te uno dei personaggi più belli che io abbia mai trovato in un romanzo), Margherita, il cui nome in latino significa “perla”, troverà la forza per superare il dolore e mettersi alla ricerca del padre. É un romanzo potente, che scava in profondità nell'animo umano, alla ricerca della bellezza nascosta oltre il dolore. Le pagine scorrono veloci e sembrano ricama-te, per via del talento narrativo di D'Avenia, che riesce a infilare con la grazia del bravo cantastorie riflessioni e accenni quasi poeti-ci senza gravare sul risultato complessivo. La sensibilità dell'autore è avvolgente, pe-netrante, saggia, e per il cuore di chi soffre

queste pagine sono impregnate di consola-zione e speranza. Alla fine le lacrime saran-no inevitabili, ma è un pianto di liberazio-ne. Le storie di D'Avenia, banalizzate dalla critica come “letteratura per ragazzi”, sono tutte una meraviglia di talento espressivo e contenuti, e fanno riflettere un po' su tut-to. Spesso paragonato a Moccia e Giorda-no, D’Avenia si distingue radicalmente da questi due scrittori, evitando di rovinare le bellezze della vita passandole per banalità, e senza inciampare in un inutile e sterile pessimismo. La storia che racconta è uni-

versale, tocca con mano più realtà diverse; le sue storie d’amore sono fresche, gio-vani, passionali, e soprat-tutto vere e belle: niente bambinate alla Moccia. L’amore raccontato da D’A-venia è travolgente, e porta

da qualche parte; non si trastulla con vezzi inutili, e non scade in banalità asfissianti. E’ con questo stesso desiderio di scarnificare la realtà e di liberarla dagli angoscianti (e spesso falsi) luoghi comuni che D’Avenia ha il coraggio di vedere la gioia dietro il dolore, e di affermare con forza che soffri-re non è mai qualcosa di fine a se stesso, ma ci lascia nel cuore gli elementi per cre-

scere e dare alla luce la nostra personale “perla”, come fa Margherita. Senza anda-re a parare in una storia fuori dal comune o eccessivamente fantasiosa, ma usando come base d’appoggio vicende purtroppo molto vere e molto diffuse, lo scrittore offre uno sguardo di ampio respiro sul mondo, scardinando gli stereotipi. De-streggiandosi tra Coldplay, Arancia Mec-canica e Fight Club, i suoi adolescenti so-no un po’ più profondi, i suoi bambini un po’ più saggi, i suoi adulti un po’ meno sicuri di quel che la società di oggi vorreb-be far passare. Ci racconta di gente nor-male che armata di reale coraggio può scendere fino in fondo alle proprie paure. Con la sua voglia d’incantare un pubblico di ogni età e soprattutto con la capacità di far diventare realtà la bellezza di un so-gno, Cose che nessuno sa si afferma deci-samente come un piccolo capolavoro, un romanzo esistenziale senza paura e senza confini. Considerato anche l’ottimo ri-scontro di pubblico dal momento della sua pubblicazione, con questo secondo romanzo (targato Mondadori) D’Avenia si afferma come uno dei più interessanti e talentuosi scrittori contemporanei.

LA BIBLIOBUSSOLA

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“É un romanzo potente, che scava in profondità nell'animo umano, alla ricerca della bellezza

nascosta oltre il dolore”

É ric-Emmanuel Schmitt è filosofo, romanziere, drammaturgo e sceneg-giatore di successo. Oltre ad essere un raro caso di francese dotato di

autoironia, è decisamente uno dei migliori romanzieri in vita. Il suo romanzo che vi consiglio in questo numero dell’Oblò è O-scar e la Dama in Rosa, che in effetti sem-bra proprio un fiore: piccolo come un filo d’erba, meraviglioso come il sole. Pubblica-to da BUR, questo libricino ha la straordina-ria capacità di concentrare tutta la vita u-mana in un ammontare ridicolo di pagine, e di fulminare il lettore con la sua acutezza. Racconta la storia di Oscar, un bambino di dieci anni malato di cancro, a cui la miste-

riosa Nonna Rosa, infermiera dell’ospeda-le, propone di tenere un diario in cui ogni giorno lui proverà a immaginarsi dieci anni della sua vita. Schmitt è per primissima cosa un uomo intelligente, e conosce bene i segreti dell’animo umano. In Oscar e la Dama in Rosa c’è den-tro davvero tutto: fa ridere, fa piangere, spinge al largo l’immaginazione del letto-re, che proprio come Oscar si ritrova a viaggiare con la fantasia, destreggiandosi fra le meraviglie della vita che potrebbe essere, e i duri scogli della vita che è. Ma Schmitt non è un pessimista, tutt’altro9;

con magistrale ironia si spinge fra le paure e i luoghi comuni fossilizzati nel cuore dei suoi personaggi che, proprio come alcuni di noi spesso fanno, affrontano la realtà a

testa bassa, senza illumi-narla con la luce del cuo-re. Non vi anticipo nien-t'altro sulla storia di O-scar, ma vi prometto che vi farà tremare. Questo libricino è di un' intelli-

genza e di una bellezza sconvolgenti, e farebbe commuovere anche un sasso. Tempo di lettura: mezz'ora. E vi posso garantire che sarà una mezz’ora spesa davvero bene. Carlo Simone

B entrovati, cari lettori dell'Oblò! Questa nuova rubrica tratterà di narrativa contemporanea. L'idea nasce dal fatto che sono stufo di sentire ripetere i soliti tormentoni, sui giovani d'oggi “a cui non piace più leggere”. Sfido io ad amare la lettura, se nelle librerie si viene investiti da tanta di quella spazzatura da riempirci una discarica (poveri alberi...), e troppo spesso a scuola i romanzi non vengono fatti vivere come esperienze di incontro utili per crescere, ma come compiti odiosi, e di conse-

guenza, purtroppo, inutili. Questa rubrica ha l'ambizioso obiettivo di guidare quei ragazzi desiderosi di riscoprire le meraviglie celate nel forziere di un bel libro, e che non sanno dove volgere i loro passi. Per qualsiasi domanda, critica, approfondimento, che non si esiti a scrivere a [email protected].

COSE CHE NESSUNO SA

OSCAR E LA DAMA IN ROSA

“Fa ridere, fa piangere, spinge al largo l’immagi-nazione del lettore, che si ritrova a viaggiare con la

fantasia”

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D ICEMBRE 2011 CULTURA

Breve storia della Pixar Pixar nasce nel lontano '79 come Graphic Group, dipartimento grafico per lo sviluppo di software e hardware, all'interno della Luca-sFilm. Nello stesso anno Lucas, ideatore di Guerre Stellari, inizia una vivace collaborazione con Ed Catmull, basata sulla convinzione di entrambi che i computer fossero il futuro del cinema. Nell'’86 la Graphic Group cambia nome in Pixar, a seguito del suo acquisto da parte di Steve Jobs. Un volto fondamentale, prima all'in-terno della LucasFilm e poi nella Pixar, sarà John Lasseter (animatore, regista, sceneggiato-re produttore cinematografico, ndr). Nel 2006 la Pixar è stata acquisita dalla Disney, con la quale aveva collaborato fino ad allora nella realizzazione di tutti i lungometraggi, per la modica cifra di 7,4 miliardi di dollari. Attual-mente la Pixar ha sede a Emeryville, in Califor-nia (USA) ed è una delle maggiori case di anima-zione mondiali. L'importanza dei cortometraggi

e RenderMan Prima di ogni lungometraggio targato DisneyPixar, si assiste a spassosi cortometraggi, molti dei quali vincitori di Oscar, come Geri's Game o Pennuti Spennati. Ma perché non focalizzarsi solo sui lungometraggi? Inizialmente i corti erano mera sperimentazio-ne di nuove tecniche informati-che e palestra per nuovi disegna-tori e informatici. In principio, infatti, potevano essere animate solo semplici forme geometriche come cilin-dri, sfere, coni e cubi, che non permettevano di imprimere ai movimenti dei personaggi una fluidità tale da farli sembrare particolarmente realistici; ne è un chiaro esempio “The adventu-res of Andrè & Wally B.”, corto dell’'84 targato Lasseter, che permise agli sviluppatori della Pixar di imprimere le prime curvature nelle forme. Proprio grazie ai cortometraggi, la Pixar arrivò a sviluppare un software di randering che ancora oggi, insieme a Maya (altra tipologia similare di software informatici), è tra i più usati al mondo (es. Bussola d'Oro, Harry Potter, Transformers): il RenderMan. Alla base di questo processo, a cui si ricorre solo quando il film è quasi ultima-to, c'è un principio creativo che pone in primo piano la storia e i suoi personaggi. RanderMan è un lungo processo in cui per renderizzare ogni fotogramma – 1/24 di 1 secondo di proiezione- ci vogliono 6 ore circa. - (Cosa significa renderizzare? Scelgo la busta numero 3, non continuo e vi rimando a Wikipe-dia: generare un'immagine a partire da una descrizione matematica di una scena tridimen-sionale interpretata da algoritmi che definisco-no il colore di ogni punto dell'immagine.)

Come si crea un film Pixar. Un film passa attraverso 4 passaggi: sviluppo (della trama), pre-produzione (creazione del-l'ambientazione, modelli 3D), produzione (realizzazione vera e propria del film) e post-produzione (rendering,aggiunta di effetti spe-ciali e musica). Meet the Media Guru. In generale l'evento rappresenta una di quelle tappe che il nerd medio non può perdersi, perchè consiste in un programma di incontri che, a partire dal 2005, hanno interessato protagonisti internazionali della cultura digita-le al fine di creare un dibattito circa la nuove tecnologie e i loro risvolti in diversi settori. Quest'anno è stato il turno del rapporto tra animazione digitale /cinema, trattatosi il 21-/10 al Teatro Dal Verme. L'incontro ha avuto come protagonista John Lasseter, che con la sua tipica camicia hawaia-na è riuscito a fare pendere dalle sue labbra

l'intera sala, che era principalmente composta da studenti universitari interessati a lavorare nel campo di cui lui è un maestro indiscusso. Dopo una carrellata di tutti i cortometraggi realizzati da Pixar e Disney , compreso un lavoro realizzato da L. ai tempi dell'università dalle fosche atmosfere in stile Tim Burton, sono stati illustrati i metodi di lavoro del team Pixar. Pensate a un lavoro d'ufficio con operai chini sulle loro scrivanie e con le cornee bru-ciate a furia di stare di fronte a uno schermo. La Pixar è totalmente l'opposto, gli uffici sem-brano concepiti da menti disturbate e/o come quelle di un bambino della materna, giochi ovunque, ingenti statue raffiguranti i perso-naggi dei film, dipinti e disegni su ogni parete. Due ore sono volate tra interviste video a disegnatori, addetti a luci e ombre, etc. Spez-zoni di tutti i lungo/cortometraggi sono stati illustrati e commentati per giungere a una conclusione, la stessa che faceva da sottote-sto al titolo dell'incontro : L'arte sfida la tec-

nologia e la tecnologia ispira l'arte”. Altro elemento chiave è stata l'analisi della com-ponente ludico/cinefila. Tutti i film della Pixar sono saturi di citazioni che vanno dal cinema più classico (Sturges, Hitchcock, Kubrick) al panorama dell'animazione classi-ca orientale; tra L. e Miyazaki vige infatti un rapporto di reciproca stima e gli omaggi a quest'ultimo sono particolarmente presenti in Up e Toy Story 3. L'incontro si è poi concluso sulla scia di due aforismi : “Be wrong as fast as you can”, come invito alla ricerca della perfezione, e “Scegli qualcosa che ti piace davvero fare e non lavorerai mai un giorno nella tua vita” (Confucio). Non poteva mancare l'omaggio all'amico defunto : “Don't just do something, make it insanely great” (S. Jobs) Pixar: 25 anni di animazione In allestimento al Padiglione d'Arte Contem-

poranea dal 23/11/11 al 14-/2/12, la mostra si ripropone di analizzare, attraverso gli stru-menti della pre-produzione dei film Pixar, il rapporto tra esseri umani e macchine e la tendenza a voler raggiungere l'emulazio-ne perfetta del corpo umano. Ovviamente hanno avuto gran-de importanza non solo l'impie-go di luci e ombre, fondamenta-le in particolar modo nella crea-zione dei set virtuali, ma anche i riferimenti alle diverse atmosfe-re in cui i film sono ambientati : dall'arte francese degli anni '20 in Ratatouille alla Saul Bass anni '50 negli Incredibili. Ma il cinema d'animazione, con i vari storyboards, modelli in 3D e disegni, è considerabile come una forma d’arte?

«Molti non sanno che la maggior parte degli artisti che lavorano in Pixar utilizzano i mezzi propri dell’Arte – il disegno, i colori a tempe-ra, i pastelli e le tecniche di scultura – come quelli dei digital media. La maggior parte delle loro opere prendono vita durante lo sviluppo di un progetto, mentre stiamo co-struendo una storia o semplicemente men-tre guardiamo un film. La ricchezza del patri-monio artistico che viene plasmato per ogni film raramente esce dai nostri studi, ma il prodotto finale – il lungometraggio – che raggiunge ogni parte del mondo, non sareb-be possibile senza questa fase artistica e creativa», ha detto Lasseter intervistato a riguardo. La mostra approda a Milano come anteprima europea e contiene oltre 500 opere, tra cui uno Zootropio di Toy Story e un ArtScape, installazione multimediale che sfrutta l’arte bidimensionale con un movi-mento tridimensionale simulato.

Laura Vitale

PIXARMANIA

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ANNO VI — NUMERO II PAGINA 16

U na qualunque domenica sera, mentre voi eravate su facebo-ok, a studiare intensamente per il fatidico lunedì, o a in-

gozzarvi per affogare il senso di colpa per aver passato tutto il giorno a poltrire nel cibo, noi, con molti altri carducciani, ab-biamo assistito ad un evento unico. L’ulti-mo tour che toccò Milano risale a circa diciott’anni fa. Già dalle due del pomerig-gio fiumi di gente si accalcavano di fronte all’entrata principale, che di lì a poco avrebbe ospitato una star mondiale dalla fama spropositata che ha fatto impazzire intere generazioni. Un’occasione imperdi-bile per tutti quelli che negli anni ’60 non hanno avuto l’opportunità di esserci. Due lunghissime file di persone aspettavano con ansia l’apertura dei cancelli. Il tempo sembrava non passare mai e per scaldare l’aria e la spessa coltre di nebbia si senti-vano cori di ragazzi che cantavano per lui: Paul McCartney. All’apertura dei cancelli l’agitazione prese il sopravvento, pensare che ogni passo verso l’entrata era un passo verso il pro-prio idolo creava un clima di eccitazione nell’aria. Raggiunto il proprio posto, or-mai il solo attimo da aspettare era la sua

entrata in scena. Improvvisamente la musi-ca che fino a quel momento aveva intratte-nuto la folla si fermò. Le luci si abbassaro-no, l’agitazione saliva. In quell’istante l’uni-co desiderio di tutti era che l’attesa si ac-corciasse, che lui salisse sul palco. Ed ecco final-mente, per la gioia di mi-gliaia di per-sone, l’amato artista dei Beatles attra-versare il palcoscenico con in mano il suo leggendario basso man-cino. Vestito in stile Beatles con camicia e bretelle, nonostante la sua età, suonò con un entusiasmo smisurato. Un mare di urla lo prese d’assalto. Per iniziare bene la sera-ta attaccò, insieme alla band che lo accom-pagnava, con la famosissima “Hello, Good-bye”. La musica riempiva l’atmosfera. Tutti canta-vano sulle più celebri note con infinita par-tecipazione, anche quando le canzoni non erano conosciute da tutti come quelle dei

Fab Four. Il pubblico si scatenava anche sul repertorio degli Wings, gruppo formato da Paul negli anni ’70, dopo lo scioglimento dei Beatles. Uno dei momenti più entusiasman-

ti fu sulla canzone “Live and Let Die”, con un’esplosione di giochi pirotecnici e un susseguirsi di botti e lingue di fuoco che sembravano incendiare il palco. Tra i brani finali, “Hey Jude” è stato forse il pezzo che ha coinvolto di più il pubblico e che è durato di più in tutto il concerto. La molti-tudine di fan, presa dal

ritmo incalzante, si è messa a cantare in coro il ‘nanana’ finale, come per richiamare il musicista, che intanto aveva lasciato il palco. Sono stati dei minuti emozionanti, non si sentivano nient’altro che le voci di tutti i presenti rimbombare nel Forum. Per concludere la serata, Paul e la sfrenata band hanno eseguito come bis tre straordi-narie canzoni: “Yesterday”, “Helter Skelter”, “Carry That Weight”. È stato bello vede-re persone così diverse unite dalla musi-ca.

Beatrice Sacco e Chiara Checchetto

Bretelle e basso mancinoBretelle e basso mancinoBretelle e basso mancinoBretelle e basso mancino

Peter Bjorn and John Questo mese il viaggio all’interno della musica indie comincia in terra scandinava, precisamente in Svezia. La band in que-stione, come facilmente intuibile, è com-posta da Peter Morén alla voce, chitarra e armonica, Björn Yttling al basso e alla pia-nola e John Eriksson alla batteria. Dopo che nel 2006 la rivista britannica NME pose il loro singolo Young Folks al secondo po-sto della classifica delle migliori canzoni dell’anno, i tre ragazzi di Stoccolma hanno pubblicato un nuovo album, “Gimme So-me”. Durante gli un-dici brani appare evi-dente come il gruppo abbia deciso di di-staccarsi dalle atmosfere più sperimentali, nonché meno riuscite a detta di molti, del precedente lavoro, per dar sfogo alle pro-prie chitarre, regalando un rock veloce, estremamente solare e con influenze pop che, senza troppo impegno, si fa piacere.

M83

E’ oramai il sesto album per questo afferma-to duo francese. Benchè il loro ultimo lavoro risalga al 2008, durante gli ultimi tre anni Nicolas Fromageau e Anthony Gonzalez non sono certamente rimasti con le mani in ma-no, ma hanno girato Europa e Stati Uniti tra stadi e festival, facendo da gruppo di spalla a

gente come Killers, Kings of Leon, Depeche Mode. Nel loro “Hurry Up We're Dreaming” la carne al fuoco è tanta, dato che si contano ventitue brani per un totale di un’ora e dodici minuti di ascolto. Strutturato come i con-cept album di una volta (intro, parte centrale, outro) tutti i brani sono legati dal tema dei sogni, e di come essi mutano in

base all’età del sognatore. Questa varietà tematica permette al duo di spaziare dall’e-lettronica ambient a quella più psichedelica, passando per il power pop e per lo shoegaze (genere musicale basato su un abuso di effet-ti della chitarra che arriva a creare un muro sonoro). Un album dunque molto corposo,

estremamente studiato e sudato, che farà la felicità di tutti coloro che ritengono che la musica elettronica non debba necessa-riamente essere ballat Lo Stato Sociale

Finalmente anche il panorama musicale italiano si ritaglia uno spazio all’interno della rubrica. In rappresentanza di esso questo mese c’è una band di Bologna, Lo Stato Sociale. I tre ragazzi romagnoli ave-vano esordito l’anno scorso con l’Ep auto-prodotto “Welfare Pop”, un misto tra elec-tro, pop e indie, contenente quella perla di canzone “Magari non è gay ma è aperto” nella quale si ironizzava su chi fosse gay, e chi invece lo sembrasse. Quest’anno hanno pubblicato il secondo Ep, “Amore Ai Tempi Dell’Ikea”. I brani sono mediamente brevi, i testi non si distinguono per particolare creatività, e le armonie non sono comples-se (eccezion fatta per Ikea, dove l’inseri-mento del sax si rivela una trovata quanto mai azzeccata), eppure la musica prende, e facilmente capiterà di trovarsi a cantare uno dei loro motivetti. Una band che forse potrà non piacere a tutti, ma che sicura-mente merita di essere ascoltata.

Luca Cassanego

L’Indie che non conosci

MUSICA

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D ICEMBRE 2011 PAGINA 17

D ev’essere verso la fine d’otto-bre, o l’inizio di novembre, fa un freddo biscio, fuori e talvolta anche dentro, si fa il cambio

dell’armadio e scorta di Ciobar, i tuoi amici riprendono a presentarsi a casa tua con la scusa del “passavo di qua, è tanto che non ci vediamo” quando in realtà stanno solo cercando di sopravvivere ai quattro gradi centigradi dell’esterno. Eppure tutto que-sto significa che l’inverno è alle porte, gli zampognari stanno già suonando quelle cornamuse tarocche e la nonna sta già pen-sando a cosa cucinare il giorno di Natale, in cui orde di parenti affamati reclameranno il loro cenone -per la nonna è sempre un piacere, tranquilli- e il nonno piazzerà i nipotini davanti alla tivù per-ché non disturbino il processo creativo al momento di ad-dobbare l’albero. Come ogni anno ci troviamo finalmente in un allegro periodo, da mol-ti chiamato natalizio, da alcu-ni ritenuto mirabolante, e per i più, tempo di stress fino alle allucinazioni. Qualche inguari-bile romantico pensa ancora alle caldarroste, alle luci, alle decorazioni, agli alberi e ai fenomenali presepi viventi. In realtà i presepi viventi sono la maggiore causa di disputa (saltuariamente risolta con coltelli) all’interno di oratori e simpatiche organizzazioni clericali: quale sano di mente vorrebbe mai passare tutta la serata ad alitare su un pic-colo pargolo con un travestimento da Sacro Bue? Ma lasciamo per un momento i buoi, gli asini e le pecorelle per preoccuparci del lato umano del Natale. Analizzatevi inte-riormente e quando avrete ripulito il vostro karma capirete cosa per voi significa davve-ro questa festività. Un valido motivo per restarsene in vacanza? E’ un giorno santo? Un’occasione per ingozzarsi a sbafo? Il pre-testo per presentarsi dai parenti più impro-babili pretendendo un regalo ricambiato dal nostro enorme affetto e dall’eterna nostra riconoscenza? Anche tutte le cose insieme magari, perché no, in fondo è a questo che serve il legame di sangue. An-che gli antichi Greci (per noi che ce ne in-tendiamo) la ξενία prevedeva uno scambio di regali per riconoscere il proprio ospite, e questo garantiva di avere sempre un allea-to sicuro. Ricordatelo quindi ai vostri geni-tori: onorate le degne tradizioni degli Anti-chi (fateglielo anche voi però ‘sto regalo).

Si parlava di stress natalizio: non può es-sere dato che dall’idea di dover uscire (sempre al freddo naturalmente), girova-gare per ore nei negozi più vari, e se si è fortunati capitare nel posto giusto e rice-vere l’illuminazione divina che vi porta davanti al regalo perfetto. In caso contra-rio si ricorrerà al solito ripiego, quale il libro di cucina alla zia, una copia a caso (ma da collezione!) del fumetto preferito di papà e qualcosa di vagamente inutile ai nonni. Fratelli e sorelle sono casi partico-lari: nel regalo c’è anche il personale inte-resse, infatti, se il sangue non mente, i beni di tuo fratello sono i tuoi, e questo vale anche per i regali. Un buon metodo per comprarsi qualcosa insomma. Quest’-

anno potrete finalmente regalare Relax ai vostri amici e parenti: vi basterà spiegare loro che il regalo non glielo fate proprio. In questo modo non dovranno sentirsi obbligati a ricambiare e gli risparmierete la fatica e lo stress che gli farebbero pro-babilmente spuntare un herpes. E per gli amici che insistono a mantenere viva la tradizione del regalo niente di meglio che qualcosa fatto da voi, in un momento di ispirazione tra una cioccolata calda con la panna e l’allestimento del presepe. In tal caso dei biscotti andranno benissimo. Si potrebbe parlare per ore delle possibilità di regalo che sono pressoché infinite: ci sono regali seri e pensati, regali utili, rega-li-scherzo, regali sorprendenti. La fine dell’autunno è anche un periodo denso di occasioni più o meno culturali: pare che mostre, concerti e serate impedi-bili si concentrino tra la fine di Novembre e l’inizio di Gennaio. Ci saranno talmente tante cose a cui pensare che nell’accom-pagnare diligentemente una serie infinita

di ragazze sfrenate alla Fiera dell’Artigiana-to (un locus tutt’altro che amoenus) ci si dimenticherà di impegni altresì importanti. Un altro dilemma natalizio riguarda senz’al-tro il come riuscire ad apparire un ragazzo modello e meritevole nel momento in cui ti trovi a tavola con decine di parenti che chiederanno immancabilmente come sta andando a scuola. A meno che tu non sia davvero il paradigma di ragazzo irreprensi-bile, sarà meglio adottare qualche strategia: innanzitutto evitare di parlare del fatto che non ce ne frega assolutamente di stare a tavola con le prozie, né ostentare l’uso smodato del cellulare per organizzare una festa di capodanno a base di alcol e incon-trollato casino. Ricordarsi anche che alle

feste con i parenti l’abito il monaco lo fa, eccome se lo fa. Per il colloquio con gli zii più simpatici è meglio prepa-rarsi un largo repertorio di battute e risposte sarcastiche per distrarli dai loro intenti indagatori. Andare in visita dai parenti vi a i u t e r à s i c u r a m e n t e a diventare ministri degli esteri: niente di migliore in-fatti esiste per esercitare la nostra arte della diplomazia. Ricorderemo senz’altro qual-che momento di imbarazzato silenzio quando si sfiora inno-centemente, tocca casual-mente, calpesta prepotente-

mente o si violenta incontrollatamente un tasto dolente. Evitare quindi di nominare la dieta della zia in tempi di cotechino, il gio-vane marito della figlia che ha tolto il di-sturbo e l’arrosto miseramente bruciato: in fondo sono tutti trascurabili inconvenienti! Sicuramente la nonna non ricorderà molto, ma ciò che le tornerà in mente non verrà trovato piacevole da tutti; è un’occasione come un’altra per imparare finalmente chi sia un genero, chi un cognato e chi la miste-riosa nuora. La suocera invece lo sanno tutti chi è. Chi non ha dei cugini della provincia che spuntano solo per il sacrosanto Natale? Con loro probabilmente ogni singola frase sarà una figura barbina: si consiglia un ripasso delle dinamiche familiari prima che il ceno-ne abbia e inizio e, in seguito, tragica fine. Un ultimo riguardo è dedicato alla questio-ne che da secoli ormai tormenta ognuno di noi: è meglio il pandoro o il panettone?

Anna Quattrocchi

Florilegio Natalizio

ANIMI RELAXATIO

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ANNO VI — NUMERO I I PAGINA 18

L a città di Milano detiene il record nazionale di violenze sessuali subite dalle donne.

Secondo le statistiche, nella capi-tale economica del paese più di una don-na al giorno viene violentata.

Il comune di Milano, presi in esame que-sti dati spaventosi, ha dato inizio nel 2007 ad una serie di incontri tutti al fem-minile per preparare le donne a preveni-re ma soprattutto ad affrontare le situa-zioni di pericolo.

Quest’iniziativa si è subito rivelata vin-cente, in quanto in 13 edizioni hanno aderito circa 1.300 donne. Si è riscontra-to che le violenze sessuali di strada sono diminuite dell’80% in quattro anni: dato che potrebbe in parte dipendere dai risultati del corso.

Visto l’alto tasso di partecipazione, il comune ha deciso di riproporre questo ciclo di sei edizioni, che sono partite in aprile e termineranno nel maggio dell’-anno entrante.

Il corso si sviluppa attorno a due livelli di interesse, la preparazione fisica e la preparazione tecnica.

La fase di preparazione fisica è pensata per migliorare le capaci-tà motorie delle parteci-panti, mentre la fase di preparazione tecnica, tenuta da esperti di arti marziali, intende inse-gnare alle donne i modi per contrastare un e-ventuale aggressore utilizzando esclusiva-mente tecniche di dife-sa.

L’iniziativa è totalmente gratuita ed è costituita da un totale di 9 incontri che si svolgono solitamente due volte a set-timana nella fascia oraria tra le 18.30 e le 20.00 presso i parchi Sempione e Montanelli nei mesi estivi, e presso la palestra di via San Marco 2 durante i mesi invernali.

Inoltre quest’anno il comune di Milano ha introdotto un nuovo corso, pensato per gli adolescenti, che presenta diverse modali-tà di approccio alle tecniche di difesa per-

sonale, più adatte alle parteci-panti minorenni.

Nonostante ciò questa bellis-sima iniziativa non viene pub-blicizzata a dovere; in molte scuole dell’hinterland milane-se (ma anche nella nostra) questo progetto non è stato nemmeno nominato, e di con-seguenza la maggior parte dei giovani non ne è al corrente.

Questo articolo vuole essere un modo per iniziare a promuovere questa importante iniziativa del comune nella nostra scuola, e per contribuire a diffondere un atteggia-mento di rispetto e salvaguardia nei con-fronti della donna.

Martina Calcaterra

G li anni passano, le generazioni si susseguono e tuttavia il mito, se così si vuole chiama-re, di Babbo Natale persiste.

Ci sono diverse tradizioni sulla storia e sulla nascita del personaggio natalizio più amato dai bambini (e non..): in Islanda addirittura si stima l’esistenza di 13 Babbo Natale, perché si risale alla tradizione dei 13 folletti dei doni di natale, che portano 13 regali a tutti i bambini che durante l’anno si sono comportati bene. Tuttavia il primo Babbo Natale per eccel-lenza è San Nicola, conosciuto principalmente in Europa: si racconta che il 6 Dicembre tra-sportasse i doni per i bambini buoni, in groppa ad un asino bianco o ad un cavallo e spesso accompagnato dal suo fidato gnomo ” Peter Il Nero”, che si occupava di punire i bambini che si era-no comportati male. Altro episodio di riferimento, risale al periodo di fondazio-ne dell’odierna New York, l’allora Nuova Amsterdam, quando appunto gli immi-

grati Olandesi si spostarono in e porta-rono con loro anche la loro tradizione, che comprendeva quella di san Nicola, nome che in olandese era Sinter Klass e che poi venne ripreso e trasformato dagli inglesi come Santa Claus. La descri-

zione fisica di Santa Claus si deve a Cle-ment Clarke Moore, che nel Dicembre1-823 pubblicò la poesia “The night befo-re Christmas”, dove delineava la sua barba lunga e bianca e la sua corporatu-

ra assai massiccia. Fu per la prima volta rappresentato con un abito rosso nelle cartoline di auguri natalizie del 1885, e questa immagine fu ben diffusa tramite la pubblicità della Coca-Cola realizzata da Haddon Sundblom nel 1931. Varie e diver-

se sono le leggende legate al pa-ciocco signore con la barba lunga e la pancia, ad esempio infatti gli Europei collocano la sua dimora (fabbrica di giocattoli e dormitori per gli elfi inclusi) in Lapponia, in-vece altre tradizioni - come quella degli Stati Uniti - collocano il suo luogo di residenza in Alaska (Polo nord) . Ogni anno tutti i bambini del mondo desiderano vedere Bab-bo Natale e utilizzano gli strata-gemmi più impensabili per arrivare al loro scopo; penso che credere in Babbo Natale non sia solo un desi-derio dei bambini ma anche degli adulti e dei ragazzi perché dona al

Natale quell’atmosfera di magia e fantasia che lo rende così piacevole.

Maria Calvano

Babbo NataleBabbo NataleBabbo NataleBabbo Natale

ANIMI RELAXATIO

DIFESA IN ROSA

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ANIMI RELAXATIO

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ANNO VI — NUMERO I I PAGINA 20

“Non sapevo che Lampugnano fosse un gulag”. Defra è sull’entrata del Gentileschi, oltre la densa nebbia spaesante fuori dalla metropolitana; una lunga fila dietro alla cattedra nell’atrio per farsi registrare, il foglio di nomina, non lo abbiamo, non im-porta; dentro, la grande aula, un po’ sgan-gherata, ma pregna di quell’aura misterio-sa, non sai ancora se benevola o contraria: è il respiro dell’istituzione. Organizzazioni rapidissime, lei si candida al sociale, lui con-sigliere; ne parlava così male, chi c’era sta-to, ma a me non sembra: sarà il periodo politico, sarà la reputazione della vecchia assemblea, ma qui non c’è nessuno con l’aria di non voler fare niente. Le votazioni, lo scrutinio, voto per voto, la voce tonante del segretario Chiapparino che enuncia i nomi, tutti quanti intorno, trepidanti, le mani cercano avambracci da stringere, e tutti che dicono “va beh, è solo un gioco”, con gli occhi sbarrati.

Finito tutto la tensione si scioglie, le mani si stringono a vicenda, la serietà che aveva aperto la disputa ne accompagna la fine;

l’insieme di persone diventa gruppo, ognu-no sceglie una delle tre grandi commissioni –Scuola, Sociale, Arte e Cultura- e inizia l’avventura.

Molti progetti sono stati proposti; l’arte sta nel trasformarli, come piccoli demiurghi, da idee astratte, modelli ante rem, a forme in re, cose fattibili, e non è semplice, non ci sono ancora arrivati soldi, la prof referente sostiene di dover piangere in turco per pre-notare il Gentileschi, comunicare tra cento persone è un casino, e ci si perde in conti-nui divagare.

Ma esserci dentro è un esercizio mentale formidabile, ti fa conoscere i meccanismi dell’amministrazione delle scuole, permette di ribellarsi, insieme ai rappresentanti delle altre consulte lombarde, quando al coordi-namento di novembre ti mostrano un video terrificante di studenti imbambolati di fron-te ad iPad, con la prof che non li guarda neanche in faccia, e di dire che noi studenti non vogliamo quei cosi, ma professori capa-ci, trattati con dignità e non sottopagati. Momenti emozionanti. Come in un sabato

pomeriggio, seduti in cinque sui due tavo-li all’ingresso dell’aula magna del Carduc-ci, a discutere delle proposte, dei fondi, per arrivare alle scuole private, alla diffe-renza e al concetto stesso di scuola pub-blica, di diritto all’istruzione, di stato e, in fondo, di democrazia.

La Consulta è sì un organo rappresentati-vo, è motore di organizzazione, come parlamento studentesco, è anello ada-mantino tra studenti e uffici scolastici, che non sono tribunali kafkiani, come può sembrare, ma persone, alcune estrema-mente aperte e incoraggianti, altre me-no, ma tutte disponibili e presenti. So-prattuto però, la Consulta è un incredibile veicolo del pensiero, del confronto, è il nodo che intreccia tutte le scuole, è la strada della consapevolezza di appartene-re a un tutto, e lo strumento per parteci-parvi. Chi la presiede non è che il servito-re di ogni studente. Perciò, mi inchino a voi. Buona giornata.

Eugenio Amato (Presidente CPS)

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U n nostro collega (redattore de “Il Caffè Macchiato”, Liceo Leonardo) e neoeletto Presidente della Consulta Provinciale degli Studenti, Eugenio Amato, ha accolto volentieri la nostra proposta di scrivere per “L’Oblò sul Cortile” una recen-sione sulle prime mosse e i primi propositi dell’organo che riunisce i rappresentanti degli studenti dell’intera Provincia di Milano. Ecco quindi le impressioni e la presentazione di Eugenio, che sembra nutrire nei confronti del “veicolo”, di

cui ha assunto con impegno la guida, una forte speranza e un interesse promettente.

Ringraziandolo per il suo contributo gli auguro un prospero mandato! Chiara Compagnoni