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La città ‘altra’. Interpretare e trasmettere l'identità dei luoghi tra restauro e riqualificazione urbana The “other” city. Interpreting and transmitting the identity of places between restoration and urban redevelopment ALDO AVETA, RENATA PICONE La macrosessione si propone di affrontare, attraverso le lenti delle discipline storico- critiche e del restauro, tematiche relative a siti urbani caratterizzati da fattori identitari legati alla storia sociale, economica, religiosa, ecc., che li hanno fatti identificare quali ‘città altre’, fortemente caratterizzate. Si tratta, ad esempio, dei luoghi della limitazione delle libertà personali, di missioni, fondazioni o comunità religiose generatrici di vere e proprie enclave culturali, di aree industriali oggi dismesse che hanno alterato, non solo fisicamente, la città stratificata. In tale quadro si vogliono approfondire anche i temi della riqualificazione urbana, della mutazione degli usi e dell'immagine di settori urbani e architetture, connesse anche ai fenomeni migratori, e le questioni inerenti il fenomeno della gentrification, da affrontare sia dal punto di vista storico, sia da quello delle future dinamiche urbane. Through the lenses of historical-critical and restoration disciplines, the macro-session aims to address topics related to urban sites characterized by identity factors linked to social, economic, religious, history, which has led them to identify as "other cities", strongly characterized. These are, for example, the places of limitation of personal freedoms, missions, foundations or religious communities, that have generated real cultural enclaves; the places of dismal industrial areas, that have altered the stratified city not only physically. In this context, we want to consider in depth the issues of urban regeneration, mutation of uses and the image of urban sectors and architectures, also related to migratory phenomena, and issues relating to the phenomenon of gentrification, both from the historical point of view and that of future urban dynamics.

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  • La città ‘altra’. Interpretare e trasmettere l'identità dei luoghi tra restauro e riqualificazione urbana

    The “other” city. Interpreting and transmitting the identity of places between restoration and urban redevelopment ALDO AVETA, RENATA PICONE

    La macrosessione si propone di affrontare, attraverso le lenti delle discipline storico-critiche e del restauro, tematiche relative a siti urbani caratterizzati da fattori identitari legati alla storia sociale, economica, religiosa, ecc., che li hanno fatti identificare quali ‘città altre’, fortemente caratterizzate. Si tratta, ad esempio, dei luoghi della limitazione delle libertà personali, di missioni, fondazioni o comunità religiose generatrici di vere e proprie enclave culturali, di aree industriali oggi dismesse che hanno alterato, non solo fisicamente, la città stratificata. In tale quadro si vogliono approfondire anche i temi della riqualificazione urbana, della mutazione degli usi e dell'immagine di settori urbani e architetture, connesse anche ai fenomeni migratori, e le questioni inerenti il fenomeno della gentrification, da affrontare sia dal punto di vista storico, sia da quello delle future dinamiche urbane.

    Through the lenses of historical-critical and restoration disciplines, the macro-session aims to address topics related to urban sites characterized by identity factors linked to social, economic, religious, history, which has led them to identify as "other cities", strongly characterized. These are, for example, the places of limitation of personal freedoms, missions, foundations or religious communities, that have generated real cultural enclaves; the places of dismal industrial areas, that have altered the stratified city not only physically. In this context, we want to consider in depth the issues of urban regeneration, mutation of uses and the image of urban sectors and architectures, also related to migratory phenomena, and issues relating to the phenomenon of gentrification, both from the historical point of view and that of future urban dynamics.

  • Aree urbane dismesse e tematiche di rigenerazione urbana: le città

    ‘industriali’

    Brownfield sites and urban regeneration issues: the urban 'industrial' cities

    ALDO AVETA, RAFFAELE AMORE

    Tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del Novecento, in molte città europee e italiane aree del tessuto storico o limitrofe a questo sono state oggetto di imponenti trasformazioni per realizzare i primi insediamenti di tipo industriale. Si è trattato di scelte che hanno comportato modifiche funzionali, ma anche economiche e sociali. Dunque, si sono create vere e proprie ‘citta’ nel centro urbano consolidato, ‘altre’ rispetto a quanto per secoli si era

    stratificato. A distanza di quasi un secolo, con la successiva delocalizzazione delle attività che vi si svolgevano, per tali aree si sono resi e i rendono necessari progetti di riqualificazione urbana tendenti alla loro reintegrazione nelle dinamiche urbane. Partendo da tali considerazioni, la sessione vuole accogliere contributi e ricerche incentrati sullo studio delle diverse politiche adottate – in Europa e in Italia – per la riconversione di tali aree industriali urbane, con particolare attenzione alla promozione di dialoghi, relazioni e consensi da parte delle comunità.

    Between the end of the 19th and the first decades of the 20th century, entire parts of

    European and Italian cities were radically transformed to create industrial sites. It has led to

    important functional, economic and social changes in these areas and in the neighboring

    places. This is how real 'industrial sites' were born in consolidated urban centers, 'others' as

    compared to the stratified historical cities. Nearly a century afterwards – with the subsequent

    relocation of the industrial activities that took place – these sites require some urban

    redevelopment projects aimed at their reintegration into urban dynamics. Based on these

    considerations, the session will welcome contributions and research focused on the study

    of the various policies adopted in Europe and in Italy for the conversion of these urban

    industrial areas, with particular attention to the promotion of dialogues, relationships and

    consensus on the part of the communities.

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    La Città Altra

    Storia e immagine della diversità urbana: luoghi e paesaggi dei privilegi e del benessere, dell’isolamento, del disagio, della multiculturalità

     

    Rivedere l’immagine della città sul fiume. Riflessioni visive sulle riqualificazioni urbane fluviali negli ultimi quarant’anni in Europa Review the image of the city on the river. Visual reflections on development projects in the last forty years in Europe TEODORA MARIA MATILDA PICCINNO Sapienza Università di Roma Abstract Il presente intervento intende evidenziare come le trasformazioni materiali ed immateriali della città pre e post-industriale attraversata dal fiume, siano state la causa e contemporaneamente l’effetto dei progetti di riqualificazione dei lungofiumi in Europa dagli anni Novanta dello scorso secolo fino ad oggi. The paper aims to demonstrate how the material and immaterial transformations of the pre and postindustrial city crossed by the river, were the cause and at the same time the effect of the redevelopment projects of the riverside in Europe from the 90’s of the last century until today. Keywords Fiume, città, immagine. River, city, image. Introduzione Raccontare l’immagine della città sul fiume, significa leggere la sua immagine – dipinti e fotografie – prendendo come punto di vista privilegiato proprio l’elemento naturale. Nel corso della storia molte città hanno mantenuto l’intimo e vitale rapporto con il fiume che le attraversa, ed esse di sono aperte sul fiume quando quest’ultimo è navigabile, portatore di ricchezza, salubre e protetto dalle inondazioni. In questo caso, la linea d’acqua ha assunto anche un ruolo determinante nell’«abbellimento della città sul piano simbolico, rappresentativo, politico» [Dubbini 2002, 52]. Oggi la situazione è mutata radicalmente: da una parte a quel rapporto positivo si è sovente sostituita una totale dimenticanza, che provoca incuria verso gli spazi che corrono lungo il fiume; dall’altra nel contempo, è maturata la consapevolezza di recuperare la presenza del fiume all’interno dei tracciati urbani. Dagli anni Ottanta ad oggi, il pensiero progettuale ha riposto particolare attenzione ai fronti urbani fluviali, divenendo laboratori di sperimentazione. Molti casi europei di rigenerazione fluviale, testimoniano, difatti che quando ciò avviene, si ottengono risultati in grado di influire significativamente sugli assetti delle città e, ancor più di consentire un graduale miglioramento economico e della qualità dell’ambiente urbano. Nel corso del tempo proprio quest’ambito di città ha subito consistenti trasformazioni, in special modo durante la Rivoluzione Industriale, le quali hanno portato ad un differente ruolo delle acque: accanto alla progressiva importanza quale fonte di energia è avvenuta una conseguente perdita del ruolo infrastrutturale a discapito della nuova via ferrata. Da una parte nel corso del Novecento i fiumi, soggetti al processo di industrializzazione, sono stati intaccati nella loro natura di risorsa ecologica. Gli spazi in prossimità dei corsi d’acqua hanno lasciato posto a opere di manutenzione e risanamento urbano per limitare il rischio idrologico e contrastare il degrado ambientale causato degli scarichi industriali. Il processo di depauperamento degli spazi fluviali si è sviluppato fino agli anni Ottanta quando proprio

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    TEODORA M.M. PICCINNO

     

    gli stessi spazi fluviali sono divenuti la fonte di rinnovo ambientale per molte città e, per tale motivo, oggetto di ricerca architettonica. Dall’altra la perdita di funzione dei porti e degli attracchi fluviali ha permesso una riconversione degli stessi in spazi pubblici dialoganti con il fiume. I fronti e le rive, venivano fruiti, ad esempio a Parigi, come luoghi di ritrovo e di incontro all’interno di un sistema di parchi e piazze, sia artificiale che naturale. Parallelamente a queste due interpretazioni dal Nord Europa si è fatta strada, fra gli anni Sessanta e gli anni Settanta, la tendenza a sviluppare l’attività turistica lungo i fiumi, volta alla riscoperta del territorio e improntata sulla sostenibilità ambientale ed economica. Le vie d’acqua hanno iniziato dunque a cooperare con le altre infrastrutture creando una rete di relazioni umane e commerciali che ha portato allo sviluppo di una pianificazione urbana e territoriale fondata su strategie di recupero delle geografie locali e degli itinerari fluviali. Il processo di riuso della risorsa fiume ha condotto altresì ad un miglioramento della qualità della città e ad una crescente sensibilità ecologica, sostenuta inoltre da un crescente apparato normativo in materia di Ambiente dagli anni Settanta e in materia di Acque dagli anni Novanta. In definitiva l’immagine della città ha finito per essere valorizzata e recuperata non solo lungo il fiume, ma anche attraverso i suoi fronti urbani, i quali hanno portato all’interno del territorio urbano un racconto visivo originale grazie a un lungo processo di trasformazioni materiali ed immateriali.

    1: Joseph Mallord William Turner, Pioggia, vapore e velocità, 1844, olio su tela, Londra, National Gallery.

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    1. L’ involuzione della città sul fiume fra Settecento e Novecento Il fiume, gli spazi che corrono lungo di esso e i suoi fronti risentirono in primis della forte industrializzazione ottocentesca e poi della crescita urbana e della conseguente pianificazione novecentesca. Le cause di questo fenomeno non a caso vanno ricercate nella Rivoluzione Industriale in cui le acque dei fiumi delle città europee si trasformarono in fonti energetiche per la produzione industriale o in canali di scolo, perdendo così il loro carattere identitario e la loro natura di risorsa energetica. Numerosi sono i dipinti fra Settecento e Ottocento da cui si può evincere un nuovo assetto del paesaggio fluviale alterato dalla presenza delle prime fabbriche, che legano la loro produzione allo sfruttamento della risorsa idrica. La Vista di Coalbrookdale di William Williams (il dipinto è presente nel collage della figura 2 ed è quello del 1777), ad esempio, dipinta al mattino e al pomeriggio, risente di questo processo che si sarebbe sviluppato in tutta Europa da lì in poi. Il tracciato fluviale è scomparso in ambedue le rappresentazioni nella fitta vegetazione e nei fumi degli edifici della cittadina dalla nascente vocazione industriale; si tratta di un insediamento che contende spazio alla natura e ospita all’interno dei suoi fabbricati i primi impianti di ferro. Con l’avanzare della tecnologia a servizio di tutte le attività, le rive fluviali sono oggetto di sfruttamento anche al di fuori del nucleo per l’opportunità di offrire «i loro spazi alle nuove funzioni, alle economie, alle attività della vita quotidiana» [Dubbini 2002, 52]. In questo dipinto, come in tutti quelli dell’epoca, però si sente la mancanza dell’animazione umana all’interno della scena; questa scelta da parte degli artisti non è difatti casuale. Si tratta di un cambiamento non solo dal punto di vista della tecnica pittorica ma anche nella scelta dei soggetti; le tele infatti non sono più animate dalle figure che vivevano il fiume, come si poteva notare nelle Vedute del Bellotto oppure nei quadri dei fiamminghi (Vermeer o van Goyen). L’uomo in questo senso è sostituito dalla macchina nell’utilizzo quotidiano del fiume nel contesto urbano. Muta così radicalmente la percezione del fiume, il quale sta perdendo il suo ruolo infrastrutturale con l’avvento della ferrovia in una realtà urbana – quella ottocentesca – che tende ad organizzarsi secondo parti specializzate, funzionalmente, per effetto spaziale della divisione del lavoro. La configurazione della città industriale instaura così un nuovo tipo di centralità nei luoghi caratterizzati da maggiori servizi, dove è presente la concentrazione di produzione ed investimenti. L’organizzazione di questo paesaggio urbano esprimeva il conflitto gerarchico tra le classi sociali riverberando la subordinazione sociale e spaziale di una parte della città sull’altra. Si crea una spaccatura sociale che si ripercuote sulla forma della città: grossi quartieri commerciali senza abitazioni sono racchiusi dai quartieri operai degradati e sovraffollati. Questi quartieri sono costruiti vicino agli opifici investiti dai fumi della produzione industriale, provocando anche l’inquinamento dei canali e dei fiumi. Il mutare di tutte le relazioni e le attività interne alla città con il fiume e l’avvento della ferrovia sanciscono la separazione tra l’elemento naturale e la vita di città. L’aumento della popolazione, l’incremento della produzione e la meccanicizzazione dei sistemi produttivi, inoltre, «cambiano la quantità e la qualità, forse per la prima volta dopo il XIII secolo» [Benevolo 1999, 161] del sistema urbano ed insediativo europeo. Il tipo di città teorizzato da Guidoni per il periodo preindustriale, ossia quella che vedeva la città attestare il suo abitato e i suoi ponti sulle rive del fiume, i quali si protendevano in una più ampia prospettiva geografica piuttosto che urbana, trova il suo totale esaurimento nell’Ottocento. Lo sviluppo industriale risulta difforme e le città europee iniziano a trovare una propria identità costitutiva, diversa l’una dall’altra. In questo contesto di cambiamento si trovano le cause della riflessione da parte della pratica progettuale che da circa quarant’anni hanno preso come autentico laboratorio l’ambito fluviale della città attuando processi di rinnovo urbano.

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    2: Collage di dipinti fra Settecento e Ottocento di città sul fiume.

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    2. La contrapposizione all’immagine nella storia Le acque, trasformandosi in fonti energetiche per la produzione industriale o in canali di scolo, persero il loro carattere identitario e la loro natura di risorsa ecologica. Il loro inquinamento, dagli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento, rappresentò una delle preoccupazioni maggiori da tenere sotto controllo. Si delineò così una mappatura del degrado ambientale a causa di una tendenza diffusa a dimenticare il patrimonio dell’acqua e i benefici che essa apportava, e si trasferì l’attenzione sugli impianti in cui essa sarebbe stata incanalata. Questa pratica dell’ingabbiamento del fiume è all’origine del rischio idrogeologico e delle esondazioni, a causa della prevedibile e naturale rivalsa del fiume sulle imposizioni artificiali a cui fu sottoposto. Le acque, i canali naturali e i fiumi, furono talvolta deviati e allontanati dal tessuto urbano, talvolta intubati sottoterra, snaturando la morfologia non solo naturale ma anche urbana. Da qui si aprì un diffuso processo di inquinamento delle acque e per molte città il fiume, gli spazi, i fronti e il loro patrimonio industriale divennero evanescenti ricordi del passato. Il consumo di enormi quantità di carbone e di combustibili fossili alla fine dell’Ottocento, inoltre, ha generato un inquinamento atmosferico senza precedenti. Solo dopo i due conflitti mondiali questo tema ebbe un forte richiamo sulla popolazione mondiale mentre, fra gli anni Ottanta e gli ultimi anni Novanta, la legislazione ambientale di ogni stato ha cominciato a normare le questioni ecologiche fino al comune traguardo del Protocollo di Kyoto nel 1997 dedicato ai cambiamenti climatici per il forte inquinamento. Il processo di riuso delle vie d’acqua conduce ad un miglioramento della qualità della vita ed a una crescente sensibilità ecologica ed ambientale, accompagnata da una maggiore domanda di opportunità ludiche lungo gli spazi fluviali, che ha portato allo sviluppo di un’attenta pianificazione urbana e territoriale fondata su strategie di recupero delle geografie locali e degli itinerari fluviali originari. Questi ultimi difatti rientrano nelle attività turistiche e nel più ampio concetto di turismo fluviale che considera i corsi d’acqua con un ruolo consolidato nel tempo e radicato nella cultura e negli usi dell’uomo: dal trasporto, all’approvvigionamento idrico, come fonte di alimentazione e come elemento ricreativo. Parallelamente alla diffusione della nuova forma di turismo e alla ritrovata coscienza ambientale, sin dagli anni Ottanta i fiumi, spazi generatori del territorio naturale e della forma urbis, hanno avuto un peso determinante nella ricomposizione delle città europee attraverso la riqualificazione dei manufatti e degli spazi di loro pertinenza. Nel contesto fluviale, il patrimonio architettonico assume un ruolo articolato e complesso per la sfida di coinvolgere e strutturare all’interno della sua progettazione le diverse componenti – politico-gestionali, ambientali, sociali ed economiche – che intervengono nei processi di valorizzazione turistica del territorio relativo al fiume. Inteso nella sua accezione turistica il fiume si rivela quindi come un forte motore da una parte per l’attivazione economica ed infrastrutturale, dall’altra per il supporto delle dinamiche di pianificazione architettoniche in grado di rivitalizzare in maniera esponenziale l’economia di un territorio. Nei grandi piani d’insieme delle città europee, gli interventi si sono spostati dalla costruzione di nuovi assi infrastrutturali alla ricostruzione e valorizzazione dell’antica asta fluviale che con i suoi annessi spazi riconnette le polarità urbane, come in area francese i casi di Parigi e Lione, in area iberica di Madrid e di Valencia, o in area tedesca di Francoforte, di Dusseldorf e di Amburgo.

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    3: Collage di immagini di città europee sul fiume dopo gli interventi di rigenerazione degli anni Novanta del Novecento.

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    3. La riscoperta delle aree lungo il fiume nel Novecento È proprio quindi nel paesaggio che si può individuare l’elemento di analogia e parallelamente di successo, confrontando alcune città fluviali europee, seppur differenti per dimensione, popolazione o tipologia. Tra i fattori comuni che contribuiscono al successo degli interventi di rigenerazione di queste città si può individuare:

    - il valore strategico per lo sviluppo urbano delle aree dei fronti urbani fluviali, che rispondevano al bisogno della città di trovare spazi di qualità per l’uomo. In questo senso i manufatti dell’archeologia industriale, si prestavano ad ospitare nuove funzioni culturali e ricreative, contro l’edificazione e il consumo ulteriore di suolo. Dagli anni Novanta, a Londra, nella zona dei Docklands, si sono attuati interventi di riqualificazione di manufatti di epoca post-industriale ed interventi per rendere praticabili e percorribili lungo il fiume chilometri di rive, lungo la sponda meridionale del Tamigi, prima difficilmente accessibili e comunque destinate ad attività commerciali e portuali. La dismissione di tali funzioni ha permesso di rendere agibili moli e banchine, creando nuovi percorsi, passeggiate e luoghi di sosta;

    - la localizzazione delle aree fluviali dismesse funge un ruolo determinante per la loro rigenerazione. Le aree che durante la Rivoluzione Industriale si collocavano all’innesto fra la città e la campagna; negli anni Novanta del Novecento, si trovavano invece a diretto contatto con il nucleo della città. I primi interventi urbani ad Amburgo furono attuati con la creazione di una nuova parte di città: Hafenstadt. Dopo il primo recupero del complesso medievale dei magazzini, l’amministrazione comunale volle attuare un prolungamento del tessuto cittadino antistante il centro storico sulle rive dell’Elba, vicino al porto, e favorire un mix funzionale. A zone residenziali si alternano zone per uffici. Il quartiere di Hafenstadt fece da cerniera fra le due parti della struttura urbana, le quali fino ad allora erano nettamente separate: la parte più antica del centro storico e la parte più commerciale del porto;

    - il patrimonio fluviale, eredità delle precedenti funzioni portuali e industriali, che si dipana lungo il fronte urbano sul fiume, viene ripristinato; ciò consente la conservazione del carattere originario e dell’identità del luogo. Nel Settecento Bordeaux era uno dei maggiori porti commerciali per l’esportazione di vino e divenne il principale polo coloniale francese per i commerci; successivamente ha subito numerose modificazioni divenendo in un primo tempo sistema industriale, ed in seguito un vero e proprio elemento di cesura tra la città e il fiume. Ciò che ha spinto la città a rinnovarsi è stata proprio la volontà di ritrovare un’identità lungo gli spazi in via di dismissione dopo l’era industriale. Si è voluto quindi ridefinire un nuovo sistema urbano che ridonasse alla comunità spazi pubblici e luoghi di ritrovo, attraverso un sistema eterogeneo di numerosi elementi (acqua, luci, ombre, natura) e materiali diversi. Questa rilettura ha portato ad una ricucitura tra il fiume e la città, superando l’immagine, consegnata dalla storia del luogo, di spazio portuale ormai in disuso;

    - il contatto diretto con l’acqua, che dopo due secoli di oblio, è stata rivalutata, ritrovando la sua accezione positiva di risorsa, anziché quella negativa di ostacolo. Lo spostamento dell’alveo del Turia a Valencia dalla sua originaria collocazione, ad esempio, ha costituito un’importante opera di addomesticamento del paesaggio, non solo per la risoluzione dei problemi legati alla regimazione delle piene, ma anche per le profonde trasformazioni del tessuto urbano e dell’immagine della città. Il progetto per la città di Valencia rappresenta un episodio singolare di trasformazione del paesaggio urbano. La variazione della struttura urbana legata all’alveo originario e la conseguente definizione di un nuovo paesaggio, non più strettamente legato all’acqua ma alla sua memoria, rappresentano gli esiti e gli effetti fisici, sociali e culturali più rilevanti del complesso intervento ai quali si aggiungono anche i

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    risultati ottenuti in termini idraulici. Questo progetto, che mette in luce la memoria storica del luogo, è stato poi il volano per altri interventi che in generale hanno toccato le rive del fiume. Il progetto proposto da Riccardo Bofill, di realizzare un bosco urbano all’interno della città voleva far emergere la continuità delle relazioni fra il fiume e la stessa; in particolare voleva evidenziare le caratteristiche della naturalità dell’alveo;

    - il valore iconico e simbolico delle aree che corrono lungo i fiumi e i suoi fronti urbani. La trasformazione dell’area della Rive Gauche, a Parigi, si estende dal Museo d’Orsay fino al Museo del Quai Branly. Quest’intervento è stato fortemente voluto dalla municipalità francese per far rivivere le rive della Senna e per contrastare la pausa urbana creata dal traffico stradale fra la città e il fiume. Una lunga passeggiata di 2,5 km ha come obiettivo quello di riproporre gli spazi lungo le rive per valorizzare l’immagine della città sul fiume, una icona per la capitale francese.

    4. Chaz Hutton ,A map of every city, 2013. 1. Il centro. Molte persone in tiro; 2. Zona che un tempo era figa ma che ora è piena di locali scadenti e gente ubriaca; 3. Zona che i turisti amano e che gli abitanti locali odiano; 4. Ex zona industriale, ora piena di tristi appartamenti a basso prezzo; 5. Strada nota per il traffico devastante. Odio questa strada; 6. Ponte orrendo odiato da tutti; 7. Ponte iconico amato da tutti; 8. Zona in cui gli abitanti descrivono quelli che stanno a sud del fiume come dei cretini; 9. Zona figa che i vostri genitori avrebbero evitato negli anni Ottanta; 10. Quartiere etnico dove i bianchi vanno per il cibo; 11. Zona dove si trasferiscono gli amici che vogliono comprare casa; 12. Quel parco meraviglioso che purtroppo è un filo troppo lontano; 13. Zona in cui ti importa di andare solo perché c’è l’IKEA; 14. Zona in cui si trasferiscono i tuoi amici che non vedrai più, perché è troppo lontana e i loro figli sono fastidiosi; 15. Zona con un parco magnifico ma senza locali o pub o anche solo della vita; 16. Zona in cui gli abitanti descrivono quelli che stanno a nord del fiume come degli hipster; 17. Zona con quel quartiere nuovissimo e orrendo; 18. L’enorme e disprezzabile centro commerciale, che però ospita l’Apple Store più vicino.

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    Conclusioni Ogni città fluviale, presa in considerazione rappresenta un caso specifico che deve essere trattato con cautela. Gli interventi sopraccitati costituiscono difatti, indirizzi progettuali, che hanno portato ad esiti apparentemente simili. Rigenerare gli spazi fluviali, significa lavorare sull’intersezione e sulla sovrapposizione fra elementi dissimili – la città e l’acqua – partendo dall’ascolto del luogo e dalla pluralità delle voci in atto nel discorso urbano. La similitudine di intenti di intervenire sugli spazi fluviali va ricercata però nelle trasformazioni avvenute durante la Rivoluzione Industriale. Analizzando lo sviluppo urbano di molte città europee, investite dall’avvento macchinista, lo stesso Benevolo affermò che per la prima volta il sistema urbano ed insediativo europeo cambiò dopo la Rivoluzione tanto da produrre nuovi sistemi di città con una propria identità costitutiva, diversa l’una dall’altra. Una identità, che oggi, attraverso approcci di rigenerazione urbana fluviale, si è persa. L’avvento della Modernità ha giocato un ruolo fondamentale sul conseguente sviluppo delle città europee. Prendiamo il caso significativo di Roma. Il Tevere come la sua città non è stato investito dalle spinte rivoluzionarie, che nel bene e nel male, hanno prodotto una evoluzione lungo i fiumi. Ad una fase di disinteresse verso l’elemento naturale, dovuta alla dismissione delle sue funzioni fra Ottocento e Novecento, si è alternata una fase di rivitalizzazione verso le aree fluviali in molte città europee investite dalla Modernità negli ultimi anni del Novecento fino ad oggi, tramite approcci progettuali apparentemente simili. Sono esempi, modelli, codici, di cui si possono interpretare gli esiti attraverso il rimando ai progetti da cui sono stati desunti, in quanto tutti questi progetti partono da una causa comune: il diverso ruolo dell’acqua che ha avuto nella Rivoluzione Industriale e i conseguenti effetti sulla struttura urbana. Gli esiti, però sono infiniti, come infinite sono le configurazioni dello spazio, dei luoghi, dell’orografia dei fiumi. Forse la città attuale dopo due secoli, sente l’esigenza di un ritorno a modelli, a tipi di città sul fiume, quasi come quella teorizzata da Guidoni per gli insediamenti urbani pre-industriali, che si sviluppano secondo assetti simili o apparentemente tali fra di loro. Nell’aumentata complessità delle città attraversata dal fiume, è forse bene ricercare codici e paradigmi, elementi che fissino il disordine urbano e la natura mobile del fiume. Solo, «rivedendo nel passato, nelle strutture della città, nelle immagini che abbiamo visto, nel nostro paesaggio, e relazionandoci con un presente possiamo distinguere: verificare, smascherare, per poi progettare un paesaggio» [Ghirri, 1997, 32]. Bibliografia BASILICO, G., MORPURGO, G., ZANNIER, I. (1980). Fotografia e Immagine dell’architettura. Bologna: Grafis Industrie Grafiche. BENEVOLO, L. (1999). La città nella storia d’Europa. Bari: Editori Laterza. BENJAMIN, W. (1966). L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Einaudi: Torino. BOCCHI, R. (2011). Fiume e città: così lontani, così vicini. Geografia, morfologia e relazioni spaziali, in «Archi: rivista svizzera di architettura, ingegneria ed urbanistica». CAMPUS, E. (2007). Il fiume nella città: una rete di esperienze a confronto. Firenze: Firenze University Press. CASTELLANI, V. (2000). Civiltà dell’acqua. Roma: Editoriale Service System. CASTRIA MARCHETTI, F., CREPALDI, G. (2003). Il paesaggio nell’arte. Electa: Milano. CHOAY, F. (2008). Del destino della città. Firenze: Alinea. DAMIEN, M.M. (2001). Le tourisme fluvial. Paris: Presses Universitaires de France. DE SETA, C. (1996). Città d’Europa. Iconografia e vedutismo dal XV al XVIII secolo. Electa: Napoli. DUBBINI, R. (2002). Geography of the Gaze. Urban and Rural Vision in Early Modern Europe. Chicago: The University of Chicago Press. FERRARI, L. (2005). L’acqua nel paesaggio urbano: letture, esplorazioni, ricerche, scenari. Firenze: Firenze University Press.

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    TEODORA M.M. PICCINNO

     

    GHIRRI, L. (1997). Niente di antico sotto il sole. Scritti e immagini per un’autobiografia. Torino: SEI. GILBERTO, O. (1989). L’acqua nel paesaggio urbano, in «Folia di Acer: rivista di architettura del paesaggio, cultura dell’ambiente e informazione editoriale», n.4, Varese: Il Verde Editoriale. L’Europa Moderna. Cartografia urbana e vedutismo (2002), a cura di C. de Seta, D. Stroffolino. Napoli: Electa Napoli. MUMFORD, L. (1961). The city in History, New York: Harcourt, Brace and World. PICCINNO, T.M.M. (2016). The river as enviromental heritge. Critical considerations for sustanible development of a natural resource. Lisbona: Green Line Institute. RYKWERT, J. (2002). L’idea di città, Milano: Adelphi Editore.

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    Prospettive per una rigenerazione urbana strategica e consapevole del tessuto industriale di Novara Visions for a strategic and conscious urban regeneration of the industrial fabric of Novara GIULIA ROSATI Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio del Politecnico di Torino Abstract Il contributo si propone di analizzare le trasformazioni, prossime o in corso di attuazione, delineate dagli strumenti urbanistici per la città di Novara. Considerando l’evidente disomogeneità fra il tessuto del nucleo storico e quello dell’espansione ottocentesca, si vuole valutare l’impatto di tali trasformazioni per comprendere se queste saranno in grado di integrarsi con armonia al tessuto esistente o se contribuiranno a enfatizzare l’attuale incapacità di dialogo fra le diverse parti della città. The research explores the future or the ongoing transformation, set by the urban planning tools, for Novara. Looking at the clear heterogeneity between the urban fabric of the historical core and that of the XIX century expansion, the aim is to evaluate the impact of such transformation in order to understand if they will harmoniously integrate into the urban fabric of the city or if they emphasize the current contrast between the different part of the city. Keywords Rigenerazione urbana, margini, tessuto industriale. Urban regeneration, border, industrial fabric. Introduzione Novara, collocata nel territorio piemontese in posizione strategica, è da sempre considerata punto di snodo tra le Alpi e la Pianura e tra Torino e Milano. Presenta un centro storico denso, dai limiti chiari e ben definiti, caratterizzato da molti monumenti architettonici realizzati e decorati da grandi artisti. A partire dal XIX secolo, grazie alla conformazione pianeggiante del territorio e all’abbondante presenza di acqua, iniziò lo sviluppo del tessuto produttivo della città, che si infittì maggiormente a partire dal 1854, quando fu realizzata la stazione e le linee ferroviarie di collegamento con Torino, Milano, Arona e Genova, che aprirono le porte per il commercio internazionale con Svizzera e Francia. Percorrendone le vie ci si imbatte in quartieri dove le aree dedicate all’industria sono oggi abbandonate a un lento degrado: enormi spazi a cui non è stato dato un nuovo volto in questi anni di contrazione economica. Eppure, gli strumenti urbanistici delineano un futuro grandioso per la città, qualificandola come il più importante polo logistico del nord-ovest e come ‘Città della scienza e della salute’, in compresenza con la sede dell’Università del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro. La preoccupazione è che tali trasformazioni vengano gestite senza prestare la dovuta attenzione all’immagine che andrebbero a conferire alla città, già frammentata in una Novara antica e in una Novara industriale, dove il dialogo fra le parti è ridotto ai minimi termini e l’effetto dell’irregolare e incontrollato sviluppo urbano del XIX secolo pregiudica un’apparenza altrimenti

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    gradevole. Per queste motivazioni il presente contributo prende forma a partire dall’analisi storica della città, si concentra poi sugli effetti della rivoluzione industriale e sulla nascita dei grandi quartieri dedicati a questa vocazione e si conclude con ragionamenti sulle attuali disposizioni urbanistiche del Piano Regolatore Generale. 1. Dalla formazione del nucleo antico fino alle soglie del XVIII secolo Novara è situata nella pianura padana su un rialzo alluvionale isolato tra i corsi dell’Agogna e del Terdoppio; attorno alla sua fondazione vi sono opinioni contrastanti, tuttavia molti storici concordano nello scrivere che «I Galli, che per l’unanime testimonianza degli storici latini furono i primi ad abitare l’Insubria, avranno scelto a preferenza luoghi elevati, e su quelli costrutte le loro misere capanne. Ciò posto, è assai verosimile che il facile colle, sul quale siede Novara, sia stata una delle loro prime dimore» [Morbio 1979, 6]. È possibile invece affermare con sicurezza che nell’anno 665 di Roma, Novara venne proclamata dal Senato colonia latina: ancora oggi si può leggere nel tessuto urbano la traccia dell’organizzazione dell’accampamento romano, con la sua matrice generatrice di cardo e decumano, rappresentati dagli attuali corsi Mazzini e Cavour e dai corsi Cavallotti e Italia. Di forma quadrilatera, era cinta da fortificazioni demolite nel X secolo e sostituite nel 1553 dagli imponenti Bastioni, voluti da Carlo V per rendere Novara una piazzaforte militare a difesa dei suoi domini lombardi. Questo intervento vincolò per due secoli l’espansione topografica e demografica della città e provocò la distruzione degli undici sobborghi che in epoca rinascimentale erano sorti a corona del nucleo antico, oltre le mura medievali. Distruzione che non si limitò unicamente alle case, generando nella città una condizione di sovraffollamento, ma provocò anche la perdita di numerose chiese, fra cui la basilica di San Gaudenzio, d’origine paleo-cristiana. Nonostante Morbio ci racconti che «Prima del secolo XVI Novara presentava un aspetto truce e guerriero. Tutt’attorno le erano di difesa una grossa ed alta muraglia, con tagliata; […]. Sette ruinosi ponti di legno davano adito alle porte della città, chiamate di S. Maria, Porta nuova, di s. Luca, s. Gaudenzio, di Cantalupo, s. Stefano, e di s. Agabio. L’interno ne era sparuto e meschino» [Morbio 1979, 232], in realtà essa vantava entro le mura numerose chiese di epoca romanica e una notevole stratificazione di stili architettonici. La mappa catastale mostra come il tessuto edificato fosse denso e disordinato nel XVIII secolo a causa delle riedificazioni sul sedime delle abitazioni preesistenti, necessarie per contenere gli abitanti stipati entro i bastioni: le strade, chiamate contrade, erano strette e irregolari, per la maggior parte prive di selciato, chiamate guasti o rugete se molto anguste [Frasconi 1995, 55]. Fu la Commissione d‘Ornato, istituita nel 1807, ad impostare un articolato lavoro, simile a quello realizzato a Torino per via Garibaldi, che prevedeva il raddrizzamento e l’ingrandimento dei principali assi stradali, in particolare del cardo e del decumano, al fine di fare ordine nell’intricata rete viaria; essa promosse anche numerosi altri interventi che contribuirono a conferire a Novara la veste di città borghese di cui il Casalis scriverà descrivendola come «civilmente fabbricata; e vi si vedono non poche leggiadre e comode case, sontuosi palazzi e splendide botteghe gentilmente accomodate al gusto di quelle che si vedono nell’opulenta Milano» [Casalis 1843, 100].

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    1: Antenore Gianzini, La mappa catastale di Novara relativa all’anno 1724 [Coppo, Oliaro 1983, 23] 2. L’opera di Antonelli fra architettura e urbanistica Gli anni del regno di Carlo Felice prima e di Carlo Alberto poi, salito al trono nel 1831, sono stati fondamentali per il dinamico sviluppo della città, con i primi lavori per la demolizione dei bastioni, seguiti da una serie di riforme che diedero un forte impulso al settore agricolo e fecero nascere le prime attività industriali. Cominciò anche la costruzione della grande infrastruttura ferroviaria che avrebbe reso Novara punto di snodo e centro di una rete capillare diramata in tutto il nord Italia; la prima linea fu la Genova-Alessandria-Novara-Arona, seguita da altre cinque nel giro di un decennio [Cirri 2011, 23]. Mentre si demolivano i bastioni, ai margini del centro storico presero vita gli interventi più importanti della prima metà dell’Ottocento, come l’ampliamento dell’Ospedale Maggiore e la realizzazione della Caserma Perrone, in quella fascia di edificato che ospiterà tutti i grandi contenitori monofunzionali del settore militare, sanitario e di servizio. Anche Alessandro Antonelli contribuì ad alcuni di questi cambiamenti, realizzando la Cupola della riedificata Basilica di San Gaudenzio, ma

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    soprattutto firmando il progetto di lottizzazione delle aree liberate dall’ingombro delle mura, completamente demolite nel 1837, che cedettero il posto a edifici privati corredati da spazi verdi e all’infrastruttura deputata a gestire il traffico di circonvallazione attorno al nucleo storico. A quel punto, priva di vincoli, la città cominciò a espandersi lungo le direttrici di una matrice radiale, seguendo le preesistenti strade che uscivano dalle porte della cinta daziaria, provocando una forte variazione nella trama urbana, tanto che i nuovi isolati, fin dalla prima timida crescita registrata nella Pianta della Città di Novara del 1858, si presentavano con orientamento e dimensioni ben diverse da quelli del centro storico.

    2: Giovanni Bellotti, Paolo Gaudenzio Rivolta, Pianta della città di Novara [Coppo, Oliaro 1983, 64] La zona a sud della città fu quella che inizialmente crebbe di meno, per via della presenza delle fornaci per la produzione di elementi in argilla per l’edilizia, anche se l’Ufficio Tecnico

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    Comunale immaginava già un’espansione multidirezionale, utilizzando la presente carta per formularne lo studio [Coppo, Oliaro 1983, 65]. 3. Il volano della rivoluzione industriale e l’incontrollata espansione urbana Il Risorgimento si declina come un’epoca di grande fermento architettonico, tuttavia dal punto di vista economico è necessario attendere gli ultimi due decenni dell’Ottocento per imbattersi nelle avvisaglie del sostanziale mutamento che sconvolgerà i territori di tutta l’Italia, e non solo: nel 1881 l’introduzione dell’uso del vapore nei trasporti per terra e per mare «mutò drasticamente le ragioni di scambio tra agricoltura e industria a vantaggio di quest’ultima, che visse negli anni successivi una forte crescita» [Cirri 2011, 57]. I fattori che per Novara rappresentarono il motore per l’industrializzazione, concentrata nei settori meccanico, tessile, cartario, alimentare e manifatturiero, furono l’introduzione del vapore in campo industriale e l’apertura del Canale Quintino Sella, realizzato subito dopo il Canale Cavour [Capra 1962, 83-88]. Le attività industriali trovarono posto dove un tempo c’erano i sobborghi, sia per il facile accesso all’acqua e per il divieto di svolgere le attività più rumorose e inquinanti nel centro storico, sia perché dopo anni di stringente cerchiatura non era rimasto altro spazio per ospitare queste funzioni. La crescita economica fu addirittura anticipata da quella demografica: la popolazione del mandamento di Novara dal 1850 al 1900 passò da circa 29.000 abitanti a 58.600 [Biancolini 1988, 27], ma in quel momento cruciale qualcosa nel meccanismo di regolazione e controllo dell’espansione urbana si inceppò, provocando le conseguenze qui discusse. L’amministrazione non agì nei modi e con la rapidità necessaria a far fronte al forte boom industriale, demografico e residenziale, cominciando solo nel 1880 gli studi per la redazione del primo Piano Regolatore Generale, a partire da un rilievo topografico della città e dei dintorni [Coppo, Oliaro 1983, 12]. Il progetto vide la luce, dopo una travagliata vicenda, nel 1896: la Giunta Comunale, nonostante la bocciatura del Parlamento, che riteneva necessari studi più dettagliati, approvò la terza versione del Piano, le cui disposizioni erano relative soprattutto al centro storico, con interventi di sventramento e risanamento per migliorare le condizioni di igiene e decoro. Nel frattempo, come si può vedere del rilievo topografico del 1897 del Bonfantini, che presta particolare attenzione agli insediamenti sparsi attorno alla città, la crescita urbana si stava generando senza rispecchiare il rigore geometrico del progetto dell’amministrazione, in cui si legge il tentativo quasi completamente fallito di trovare una connessione con il tessuto storico. Non a caso, giacché le premesse al piano rivelano che la volontà era di separare «nettamente la ‘città’ dal ‘sobborgo’: non si tratta di un ragionamento di carattere meramente operativo, volto a distinguere il suolo da assegnare allo studio di piani distinti, come stabilisce la legge, ma del disegno di due città, dove la linea daziaria divide l’insediamento degli ‘abbienti’, […] e quello dei ‘proletari’» [Gramigni 1997, 135]. Nemmeno i due piani successivi saranno in grado di raccogliere la sfida per il controllo della forma della città. Quello del 1909 era indirizzato sia alla gestione della rete viaria dei sobborghi, a cui ormai era impossibile applicare cambiamenti per renderla più conforme alle direttrici del centro storico, sia all’area nord-orientale dove erano localizzati i comparti industriali e ai quartieri residenziali realizzati ex-novo per gli operai che lavoravano in periferia; quello redatto in epoca fascista invece attuò interventi piuttosto consistenti sul centro storico, adducendo a motivazioni di ordine igienico-sanitario, alla necessità di decongestionare il traffico e a quella di trovare spazi pubblici per celebrare con nuovi grandiosi edifici l’imponenza del regime. Nemmeno il Piano del 1963 sarà davvero in grado di fare fronte alle esigenze della città, che

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    di fatto continua a crescere sotto input divergenti, con i quartieri periferici che si qualificano come enormi spazi dedicati all’edilizia popolare, che in nessun caso può dirsi di qualità.

    3: Giovanni Bonfantini, Piano Regolatore di Novara e sobborghi del 1891 e Pianta di Novara e dintorni [Coppo, Oliaro 1983, 75-76] 4. Prospettive per il futuro Secondo alcuni la crescita economica generata nel novarese dall’industria non ha mai raggiunto i livelli immaginati e negli anni in cui ha iniziato a subire una contrazione dovuta all’incalzare della crisi, la città ha cominciato a elaborare un progetto per sfruttare al meglio la sua posizione geografica di nodo infrastrutturale. Viene così avviato il processo di realizzazione del Cim, il Centro Intermodale Merci, già inserito nel Piano Particolareggiato Esecutivo varato nel 1987 e concluso solo nel 2011. Il Cim si colloca oltre il perimetro dell’espansione urbana, lì dove erano stati localizzati gli stabilimenti industriali, per le stesse motivazioni in precedenza esplorate e, in questo caso, anche per la possibilità di collegamento con la tangenziale e l’autostrada A4. Esso vanta due interporti, uno a est della tangenziale, nell’area del terminal RFI Novara Boschetto, e l’altro a ovest della città, per una superficie totale occupata di quasi 2.000.000 m2. I dati del flusso merci che transitano annualmente nel Centro sono assolutamente positivi e generano quasi subito un progetto di ampliamento, tanto che l’attuale Piano Regolatore, varato nel 2003 e aggiornato nel 2017, individua ben cinque degli undici ambiti tematici di sviluppo direttamente connessi alla sua espansione. Al Cim dovrebbe essere anche collegato un Polo Tecnologico, pensato per mettere a sistema il mondo della produzione con quello della ricerca scientifica nel settore della chimica, in cui Novara si era distinta agli inizi del XIX secolo. In aggiunta a queste politiche l’amministrazione ha investito molto nel progetto ‘Città della scienza e della salute’, che prevede la creazione di un vero e proprio Centro Integrato di Servizi nell’area sud-est, dove attualmente si trova la Piazza d’Armi.

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    4: Individuazione delle aree soggette a trasformazione su sovrapposizione di Google Earth. Le ultime analisi effettuate dal Comune hanno evidenziato una contrazione demografica che ha determinato l’esigenza di ripensare le strategie di sviluppo. Negli ultimi 60 anni la superficie coperta dal tessuto urbano è cresciuta del 50%, raggiungendo il valore di 1.700 ettari; il centro storico è completamente saturo mentre l’espansione ottocentesca ha ancora margini di intervento. «La città di Novara deve quindi iniziare a programmare anche una seria riqualificazione di aree dismesse o abbandonate: l’ex Centro Sociale di Viale Giulio Cesare, le ex caserme, l’ex macello comunale, la zona di Sant’Agabio e quella che sarà l’area del vecchio ospedale, a seguito della realizzazione della nuova Città della Scienza e della Salute, vanno considerate vere e proprie opportunità di innovazione e rilancio e di ricchezza futura» [Comune di Novara 2017, 20]. Teoricamente questi sono alcuni degli interventi che servirebbero a valorizzare il patrimonio industriale e le aree attualmente abbandonate, in blu nella fig.4, ma fino ad ora l’amministrazione non è riuscita a realizzarli anche se già inseriti nel PRG del 2003, in parte sicuramente a causa del grande dispendio di fondi che una rigenerazione così vasta comporterebbe. Conclusioni Novara non è certamente la sola città ad aver subito un processo di industrializzazione e a trovarsi oggi a gestire la tendenza inversa, giacché gli studi sul concetto di patrimonio industriale e le numerose pubblicazioni recenti lasciano intendere che il fenomeno è diffuso a scala globale: basti pensare al fatto che, da analisi condotte dal Politecnico e dall’Università di Torino, all’inizio degli anni 2000 la stima delle aree industriali dismesse in Italia era di

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    200.000.000 di metri quadrati; sono passati quasi vent’anni e questo valore non può che essere cresciuto, visto che la crisi del comparto industriale non si è arrestata. I casi virtuosi di recupero sono relativi solo agli stabilimenti più importanti delle grandi città (Lingotto a Torino, Bicocca a Milano, Fiat-Fondiaria a Firenze, etc), assieme a qualche intervento minore che si configura ancora come extra-ordinario. La mancanza di attività delle amministrazioni su queste aree non è certa la sola causa ad avere determinato una così grande difficoltà di riutilizzo, ma è corredata da molteplici concause afferenti ad una pluralità di responsabili, talune intrinseche alla natura stessa degli oggetti [Barbieri 1998, 22]. La vera sfida per la loro la completa reintegrazione deve partire più da lontano: queste aree non possono essere lette separatamente dal contesto e trattate come episodi a cui vengono applicati ragionamenti puntuali, ma è necessario gestire queste trasformazioni a scala urbana globale, delineando progetti capaci di tenere insieme più tasselli del tessuto industriale, pena la creazione di nuove discontinuità all’interno della città. Il tema del margine, inteso alla micro e alla macro scala, è di fondamentale importanza per Novara: la traccia dei bastioni che per quasi tre secoli l’hanno racchiusa è una traccia ancora oggi molto forte, che ha creato due diversi volti della città, caratterizzati da una forte disomogeneità del costruito; questo può tuttavia diventare un valore aggiunto per le future trasformazioni, facendo coesistere «la tensione verso una continuità di rapporti, che è alla base dell’idea stessa di città, e quella verso una ricchezza ed articolazione dei ruoli che escluda qualunque pericolo di continuità amorfa e omogenea, senza vita» [Cortesi, Mazzocchi 1997, 31]. La preoccupazione è che l’attuale gestione della pianificazione urbana non sia pensata secondo una visione complessiva della città ma funzioni per parti, dove le componenti su cui vi è più possibilità di realizzare interventi non sono quelle del tessuto urbano già costruito e dismesso, ma quelle a margine dell’espansione novecentesca, e che questo possa generare non solo l’ennesima frattura nella morfologia della città, ma soprattutto la continua saturazione di aree libere a discapito di un mancato riutilizzo dello spazio esistente. Tema questo di fondamentale importanza per il futuro del nostro territorio, considerando che negli ultimi 50 anni si sono ‘consumati’ circa 7 m2 di terreno al secondo: è ormai chiaro che bisogna arrestare questo continuo processo di cementificazione del suolo e di sprawl delle città, che soprattutto nell’area della Pianura Padana sta portando alla generazione di un’enorme megalopoli lineare, da Torino a Venezia, senza soluzione di continuità fra un centro abitato e l’altro. Leven in un saggio del 1979 parlava della diversità fra i diversi scenari della città spiegando che «il carattere distintivo della città del Duemila rispetto alla città contemporanea consisterà soprattutto nel fatto che, mentre le vecchie metropoli erano plasmate dall’organizzazione spaziale dei bisogni della produzione, i nuovi insediamenti saranno determinati principalmente da requisiti spaziali coerenti con i processi di consumo di beni e servizi» [Curti 1988, 47]. La conoscenza che abbiamo oggi ci deve far di ripensare all’uso di schemi predeterminati per l’espansione della città, che non possono più essere applicati in maniera asettica con il pericolo di fossilizzare le forme di sviluppo a concetti rigidi e inflessibili, quando l’intera configurazione della società moderna è basata su un dinamismo fin pure eccessivo. Molte città, fra cui Novara, non hanno ancora fatto questo passo in avanti e il rischio è quello che la consapevolezza giunga troppo tardi, che non si adoperino strumenti urbanistici in grado di fare fronte ai reali bisogni della città, focalizzandosi invece sulla risoluzione di problemi a ‘spot’. Questo impoverirebbe ancora di più questa città contesa fra agricoltura e industria dismessa, dove oltre il semicerchio degli stabilimenti industriali troviamo un contesto paesaggistico caratterizzato dalla sterminata distesa delle risaie che hanno come sfondo prospettico il deciso profilo delle Alpi.

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    Bibliografia BARBIERI, C.A. (1998). Una risorsa il cui utilizzo resta difficile e complesso: alcune considerazioni, in Sguardi sui vuoti: recenti ricerca del Dipartimento Interateneo Territorio sulle aree industriali dismesse, a cura di E. Dansero, A. Spaziante, C. Giaimo, Torino: Politecnico e Università di Torino, pp. 21-25. BAROSIO, M. (2009). L’impronta industriale, analisi della forma urbana e progetto di trasformazione delle aree produttive dismesse, Milano, FrancoAngeli. CAPRA, R. (1962). Novara, Novara, Istituto Geografico de Agostini. CASALIS, G. (1843). Dizionario geografico storico-statistico-commerciale degli stati di S. M. il re di Sardegna, volume XII, Bologna, Forni. CENSIS (2003). Un modello di governance per la Provincia di Novara: indagine Censis sulle attese degli stakeholders locali. Milano: Franco Angeli. CIRRI, P. (2011). Risorgimento a Novara: lo sviluppo della città nell’Ottocento. Novara: Interlinea. COGNASSO, F. (1971). Storia di Novara. Novara: Lazzarelli. COMUNE DI NOVARA (2017). Strategia urbana di sviluppo integrato per l’attuazione dell’asse VI “Sviluppo Urbano Sostenibile”. Novara. CURTI, F. (1988). La diffusione intra-regionale della dismissione industriale: tendenze e scenari, in Il recupero di aree industriali dismesse in ambiente urbano, a cura del Dipartimento di Scienze del Territorio del Politecnico di Milano, pp. 29-63. FRASCONI, C. F. (1995). Topografia antica di Novara e suoi sobborghi, in Bollettino storico per la Provincia di Novara, Novara, 86, n.2, pp. 581-844. GRAVINELLI, C. (1975). Novara e Antonelli: lo sviluppo urbanistico di Novara nell’ottocento e l’opera di Alessandro Antonelli. Novara, Archivio di Stato. Il secolo di Antonelli: Novara 1798-1888, a cura di D. Biancolini, Novara, Istituto Geografico de Agostini, 1988. L’evoluzione della forma urbana di Novara dalle origini al piano regolatore del 1936, a dura di M. Gramigni, Milano: Edizioni Angelo Guerrini e Associati, 1997. MORBIO, C. (1969). Storia della città e della diocesi di Novara. Bologna: Arnaldo Forni Editore. Novara: l’evoluzione urbanistica attraverso l’iconografia storica, a cura di A. Coppo, A. Oliaro, Novara: Comune di Novara, 1983. PAOLI, P. (1997) La città oltre: il progetto delle trasformazioni. Firenze: Alinea. SPAZIANTE, A. (2006). La riconversione delle aree dismesse: la valutazione, i risultati. Milano: FrancoAngeli. Fonti archivistiche Novara. Archivio di Stato. Dono Società Storica Novarese, 1: Antenore Gianzini, La mappa catastale di Novara relativa all’anno 1724. Novara. Archivio di Stato. Disegni. L. 20: Giovanni Bellotti, Paolo Gaudenzio Rivolta, Pianta della città di Novara. Novara. Archivio di Stato. Disegni. L. 25: Giovanni Bonfantini, Piano Regolatore di Novara e sobborghi del 1891. Novara. Archivio di Stato. Disegni. L. 26: Giovanni Bonfantini, Pianta di Novara e dintorni. Sitografia http://www.ssno.it/html/ar06.htm (aprile 2018) https://www.comune.novara.it/it/amministrazione/amministrazione-trasparente/pdf/strategiaUrbanaSviluppoIntegrato.pdf (aprile 2018) http://www.lastampa.it/2017/05/24/novara/santagabio-primo-atto-della-rinascita-il-comune-punta-su-industria-e-logistica-9yYiZuf598kGiedRpGWIyM/pagina.html (aprile 2018) http://www.impresedilinews.it/novara-investe-nel-recupero-delle-ex-caserme/ (aprile 2018) http://www.ingegneri.info/news/ambiente-e-territorio/consumo-di-suolo-la-normativa-aggiornata-regione-per-regione/ (aprile 2018) http://www.ilsole24ore.com/art/impresa-e-territori/2017-05-31/l-interporto-novara-cresce-e-aumentano-societa-insediate-150606.shtml?uuid=AEOATTWB&refresh_ce=1 (aprile 2018) http://www.otinordovest.it/progetti/interporto_di_novara_c_i_m__spa__potenziamento (aprile 2018)

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    Interventi di rigenerazione urbana nella città di Torino: il caso di Barriera di Milano Urban regeneration interventions in Turin: the case of Barriera di Milano MANUELA MATTONE Politecnico di Torino Abstract Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, le zone periferiche della città di Torino sono state oggetto di significativi cambiamenti legati all’insediamento di edifici industriali. Nel corso degli ultimi decenni, la graduale delocalizzazione delle attività produttive e il conseguente venir meno delle funzioni per le quali essi erano stati originariamente costruiti, ne ha determinato la progressiva dismissione. Sebbene taluni di essi siano stati in tutto o in parte demoliti, o siano tuttora in attesa di una nuova destinazione d’uso, alcuni edifici industriali sono stati sottoposti, nell’ambito di progetti di rigenerazione urbana, a interventi che ne hanno proposto un nuovo utilizzo. Between the nineteenth and the twentieth century, the outskirts of Turin underwent significant changes due to the establishment of industrial buildings. Over the last few decades, the gradual relocation of production activities and the consequent loss of the functions for which these complexes had originally been built have led to their gradual disposal. Although some of them have been totally or partially demolished (or are still waiting for a new use) some industrial buildings have undergone adaptive-reuse interventions within urban regeneration projects. Keywords Patrimonio industriale, rigenerazione, progettazione partecipata. Industrial Heritage, regeneration, participated planning.   Introduzione A partire dagli anni ottanta del secolo scorso, la graduale delocalizzazione delle attività produttive ha determinato la progressiva dismissione di una consistente porzione del patrimonio industriale presente nelle zone periferiche dei centri urbani. Luoghi originariamente caratterizzati da un grande fervore produttivo si sono progressivamente trasformati in siti che, ormai totalmente privi di vitalità, versano oggi in condizioni di pressoché totale abbandono e avanzato degrado. Si tratta dei cosiddetti brownfields, luoghi dal notevole impatto territoriale, sino a pochi anni fa per lo più considerati e trattati alla stregua di inutili scarti produttivi. Sebbene connotati da forti potenzialità, molti dei siti industriali dismessi non venivano infatti percepiti come risorse di cui avvalersi in virtù né della loro stessa esistenza, né dell’elevata capacità di trasformazione che li connotava e che rendeva possibile ipotizzarne un riuso per attività anche molto differenti rispetto a quelle per le quali erano stati concepiti. Essi sono stati dunque in tutto o in parte demoliti, limitando gli interventi conservativi a pochi isolati lacerti che, senza più legami con il contesto nel quale sono inseriti e ormai incapaci di comunicare le relazioni che originariamente intercorrevano tra quanto rimasto e la fabbrica scomparsa, risultano oggi privi di significato (fig. 1). Sino agli anni novanta del Novecento, agli impianti dismessi veniva di fatto riconosciuto solo un valore fondiario e, pertanto, sotto la spinta di valutazioni di carattere economico, molte delle aree industriali dismesse «anziché essere

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    assunte come formidabile occasione strategica di riequilibrio urbano e di ridisegno della città» [Magnaghi, Paloscia 1992, 60] sono state rimosse per lasciare il posto a nuovi manufatti architettonici o destinate a ospitare attività commerciali o terziarie, senza prestare attenzione alle reali esigenze dei luoghi e soprattutto delle persone che di tali spazi avevano fruito e che avrebbero continuato a fruire. Sovente, laddove tuttora permangano i resti di un patrimonio industriale ormai dismesso, alle situazioni di forte degrado architettonico e urbano si sommano sovente anche problematiche di natura sociale. Infatti i quartieri, che originariamente ospitavano gli stabilimenti produttivi e gli operai che in essi trovavano impiego, in molti casi accolgono oggi sia quella fascia di popolazione che nel corso degli ultimi anni ha maggiormente risentito della crisi economica, sia comunità di stranieri giunti in territorio italiano con i recenti flussi migratori. Si tratta dunque di luoghi connotati da incuria e scarsa vivibilità, legata alla difficile convivenza di persone dagli usi, costumi e tradizioni spesso radicalmente differenti, «dove la povertà diventa il brodo di coltura per le economie criminali (come lo spaccio della droga) e quindi la proliferazione della criminalità organizzata» [Cellamare 2017, 55].

    1: Ditta Venchi - U.N.I.C.A., Torino. I pochi lacerti dello stabilimento produttivo conservati nell’intervento che ha previsto il recupero di una piccola porzione dell’intero complesso (Foto di Manuela Mattone, 2010).

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    Nel corso degli ultimi anni, il maturare di una maggiore consapevolezza circa il valore in termini sia storico-culturali e identitari, sia energetici di tali beni, sommato al contestuale esaurirsi delle capacità edificatorie delle aree urbane, ha portato a una sempre più diffusa adozione di politiche che prevedono la loro riconversione e reintegrazione nelle dinamiche urbane [Vigliocco 2013, Bullen Love 2010]. Un nuovo modo di percepire i manufatti industriali, non più assimilati a «focolai di degrado e di devianza sociale, bensì riconosciuti come patrimonio culturale» [Preite 2013, 64] e risorse architettoniche, ha determinato differenti approcci e modalità di intervento su di essi. Riconosciutene le potenzialità, si è dato avvio a operazioni che, attraverso la loro riattivazione, hanno inteso sia favorire la generazione di esternalità positive, sia dare un futuro al nostro passato. [Alvarez Areces 2011, Vigliocco 2015]. Oggi, sempre più diffusi sono dunque gli interventi che tentano di coniugare l’obiettivo della conservazione con quello della rigenerazione assumendo come modello l’«interactive planning» [Preite 2013, 67] che prevede l’attivazione di un processo decisionale di tipo cooperativo e pluralistico nel quale all’autorità pubblica spetta il compito di indirizzare e coordinare le proposte avanzate dai differenti attori coinvolti. Il presente contributo intende approfondire quanto recentemente verificatosi nel quartiere Barriera di Milano a Torino, ove l’intervento di recupero di parte dello stabilimento Incet costituisce un’interessante testimonianza di questo nuovo modo di intendere il patrimonio industriale, e di operare su di esso.  1. Il quartiere Barriera di Milano a Torino: dallo sviluppo industriale alla dismissione All’indomani del trasferimento della capitale del neonato stato italiano da Torino a Firenze, la città di Torino attraversa un periodo di grave crisi economica, dal quale riesce a risollevarsi a partire dagli ultimi anni dell’Ottocento grazie al considerevole sviluppo economico e soprattutto industriale di cui è protagonista. Essa, grazie a un’espansione industriale dal ritmo particolarmente sostenuto che la porta ad assumere un ruolo di supremazia nei confronti di città quali Milano e Genova che l’avevano preceduta in questo processo, si dimostra capace di «darsi una nuova identità» e di «rinverdire i suoi lontani ed effimeri fasti di capitale» [Castronovo 1995, 27]. Come sottolineato da Valerio Castronovo, «l’alba del nuovo secolo [svela] così una città in gran parte inedita, non più appartata e dimessa, ma proiettata verso traguardi sempre più ambiziosi. A trasformare da cima a fondo la vecchia capitale subalpina in una città all’avanguardia, per tanti versi pioneristica, [è] l’eccezionale performance dell’industria metalmeccanica, e in particolare il successo di un settore, come quello dell’automobile, in cui l’innovazione tecnica si [sposa] con la perizia artigiana, e la passione per il moderno si [combina] con il gusto per l’eccentrico» [Castronovo 1995, 28]. Le attività produttive vengono localizzate nelle zone periferiche della città, in un primo momento in prossimità dei corsi fluviali, in modo da poter sfruttare la forza motrice dell’acqua per il funzionamento dei macchinari, per poi svincolarsi da questi grazie all’avvio del processo di elettrificazione particolarmente attivo nella città di Torino (che rende disponibile l’energia elettrica a prezzi decisamente contenuti in virtù di politiche portate avanti dal Comune e dall’Azienda Elettrica Municipale) e al contemporaneo estendersi della rete ferroviaria [Castronovo 1995; Gabert 1964; Pavese 2007]. «Au Nord […], le long de la Doire Ripaire, et encore plus loin de part et de l’autre de la Stura di Lanzo, les rues s’enchevêtrent et le ciel s’oscurit: des nuages de fumées coupissent, particulièrement denses en hiver et en automne, saisons pendant lesquelles les fumées se mêlent aux brumes des fontanili et des rizières. Les hautes cheminées signalent les Ferrire,

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    les usine de caoutchouc, les tannieres, les usines chimiques, et on peut encore repérer les larges toitures des filatures et les halles de montagne des usines de matériel électrique et de machines-outils. On peut noter d’ailleurs que bâtiments vieux et neufs se mêlent […]. La nuit se dressent dans le ciel les hauts emblèmes lumineux des plus grands noms de l’industrie italienne» [Gabert 1964, 2]. Così viene descritta da Pierre Gabert la zona nord di Torino, alla metà degli anni sessanta del secolo scorso. Questa aveva infatti visto, sin dalla seconda metà dell’Ottocento, l’insediamento di un numero crescente di attività manifatturiere (grazie alla presenza dei fiumi Dora e Stura e di numerosi canali da questi derivati), alle quali si erano aggiunte, nei primi decenni del Novecento, industrie di piccole e grandi dimensioni che si avvalevano dell’energia elettrica per il funzionamento dei macchinari. A metà del XX secolo, il territorio di Barriera di Milano appariva notevolmente trasformato; le borgate Monte Rosa e Monte Bianco avevano di fatto progressivamente perso la propria connotazione agricola, assumendo una dimensione urbana caratterizzata da un consolidato tessuto produttivo che avrebbe avuto un ruolo di primaria importanza nello sviluppo industriale della città [Castrovilli, Seminara 2004]. La Barriera di Milano è dunque sorta e si è sviluppata attorno alle fabbriche dove la presenza di un consistente numero di edifici destinati a ospitare la popolazione operaia aveva favorito l’instaurarsi e il progressivo consolidarsi di uno stretto rapporto tra territorio, cittadinanza e patrimonio industriale. Nel corso degli ultimi decenni del secolo scorso, la graduale delocalizzazione delle attività produttive e il conseguente venir meno delle funzioni per le quali tali complessi erano stati originariamente costruiti, ne ha determinato la progressiva dismissione. Alcuni di essi sono stati totalmente demoliti, per altri sono state attuate «operazioni di superficiale riqualificazione urbana che hanno cancellato le tracce della memoria passata per sostituirle con discutibili interventi di speculazione edilizia (residenziale o commerciale) o di maldestre dotazioni di opere pubbliche» [Spaziante 2016, 17]. Basti pensare ai numerosi interventi attuati in corrispondenza della Spina 3 e, più in particolare nei siti che originariamente ospitavano la Michelin e le Ferriere Fiat. Nell’ultimo decennio tuttavia, il periodo di profonda crisi che il nostro e molti altri Paesi stanno attraversando, unitamente a una crescente attenzione nei confronti del tema della sostenibilità, intesa come uso appropriato delle risorse non necessariamente energetiche, ma anche architettoniche e urbane, ha dato avvio all’elaborazione di progetti che, attraverso il recupero parziale o totale del patrimonio industriale dismesso, hanno inteso perseguire la rigenerazione di intere porzioni di città. Anche la Barriera di Milano ha visto di recente l’attuazione di interventi che si sono proposti di riqualificare tale territorio riattivando edifici industriali ormai da tempo inutilizzati e proponendone nuovi usi in accordo con quanto emerso da un confronto diretto con la popolazione che di questi stessi beni è, e sarà, diretta fruitrice. 2. Interventi di rigenerazione urbana in Barriera di Milano Quelle che per molto tempo sono state considerate come vere e proprie ferite nel tessuto urbano, piuttosto che occasioni da cogliere per il futuro sviluppo della città, vengono oggi sempre più percepite come risorse che non solo non dovrebbero più andare sprecate, bensì attraverso le quali si potrebbe cercare di offrire soluzioni ai problemi di vivibilità che affliggono interi settori urbani. Costituisce testimonianza di questo nuovo modo di concepire le aree urbane dismesse la Carta sulla rigenerazione urbana elaborata dall’AUDIS (Associazione Aree Urbane Dismesse fondata nel 1995), che si propone di definire i principi a cui fare riferimento sia nella definizione di programmi di trasformazione delle aree urbane dismesse o in via di dismissione, sia negli interventi di riqualificazione di quelle aree che, perduta la loro originaria

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    funzione, costituiscono oggi luoghi ricchi di potenzialità per la città e che potrebbero fattivamente contribuire al suo rilancio economico, sociale, urbanistico e ambientale [Maspoli, Spaziante 2016]. A partire dal 2000, il quartiere Barriera di Milano è stato sottoposto a interventi che, progettati con l’intento di contribuire alla riqualificazione di tale porzione di città, hanno previsto la parziale riconversione di edifici industriali da anni totalmente abbandonati e inaccessibili. In particolare, dal 2005, il programma Urban Barriera, in analogia con le iniziative comunitarie Urban (attuata in diversi paesi europei quali oltre all’Italia, l’Austria, la Francia, la Spagna, il Portogallo, la Germania, il Regno Unito) e Leader [Trapani 2016, Commissione Europea 2003], ha inteso avviare un processo di riattivazione del quartiere migliorandone le condizioni di vivibilità. Finanziato dalla Città di Torino, dalla Regione Piemonte e dalla Comunità Europea, esso ha previsto, in prima istanza, l’elaborazione di un Programma Integrato di Sviluppo Locale (PISL), articolato in 34 interventi e, a partire dal 2010, di un Progetto Integrato di Sviluppo Urbano (PISU). Il primo, redatto nell’ambito dell’accordo sottoscritto tra la Regione Piemonte e il Ministero dell’Economia e delle Finanze e il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, è scaturito, secondo quanto previsto dall’accordo di Programma Quadro, da un processo che ha visto il coinvolgimento dei soggetti direttamente interessati sia nell’interpretazione dei punti di forza e di debolezza del territorio, sia nella definizione di una strategia di sviluppo condivisa. Il Programma Integrato di Sviluppo locale ha contemplato l’attuazione di interventi materiali e immateriali. I primi hanno inteso riutilizzare spazi o manufatti abbandonati per destinarli a servizi per gli abitanti e/o ad attività per la valorizzazione del sistema locale. Quelli immateriali hanno viceversa previsto azioni indirizzate principalmente a creare condizioni tali da favorire un percorso di crescita della comunità locale il quale, attraverso la valorizzazione delle risorse localmente disponibili, mira ad attivare la coesione sociale, la partecipazione attiva della popolazione e a contrastare l’esclusione. Rientrano tra questi interventi le azioni volte al recupero di alcuni complessi industriali, quali l’ex-Incet e i Docks Dora, destinati ad assumere il ruolo di calamite urbane mediante l’offerta di servizi e attività attrattive per il territorio [Ires Piemonte 2017] (figg. 2-3).

    2 - 3: Docks Dora, Torino. L’ingresso principale dei Magazzini Docks Dora che, originariamente destinati allo smistamento di merci, sono chiamati ad assumere il ruolo di “calamite urbane” offrendo servizi e attività attrattive alla cittadinanza (Foto di Manuela Mattone, 2015).

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    Il più recente Programma Operativo Regionale, promosso con il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (POR FESR Piemonte 2007-2013), in linea con quanto avviato dal PISL, ha previsto lo stanziamento di fondi per la messa a punto del Progetto Integrato di Sviluppo Urbano (PISU) atto a coordinare e integrare progetti di recupero urbano, interventi di sviluppo economico, servizi sociali e culturali. Per quanto riguarda in particolare il progetto relativo all’ex-Incet, esso ha previsto il parziale recupero del fabbricato industriale che, previa bonifica e consolidamento strutturale, è stato destinato a ospitare un centro polifunzionale caratterizzato dalla presenza di una piazza interna parzialmente coperta – luogo di smistamento dei flussi, ma soprattutto di incontro – sulla quale si affacciano, da un lato, l’Open Incet, uno spazio dedicato alla promozione dello sviluppo d’impresa e, in modo particolare, dell’imprenditorialità giovanile, dall’altro EDIT (acronimo di Eat, Drink, Innovate Together), polo enogastronomico dove il cibo e la sua preparazione non vengono solo offerti alla collettività (in analogia a quanto avviene in centri quali Eataly), ma sono intesi come strumenti per favorire la reciproca condivisione (cucine e quanto necessario per la produzione di birre artigianali sono messi a disposizione di coloro che vogliono avvalersene) (figg. 4-5).

    4: Ex-Incet, Torino. La facciata della porzione del fabbricato industriale che attualmente ospita il polo enogastronomico EDIT. (Foto di Manuela Mattone, 2018).  

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    5: Ex-Incet, Torino. La piazza interna, asse distributivo e luogo di incontro su cui si affacciano l’Open-Incet e il polo enogastronomico EDIT. (Foto di Manuela Mattone, 2018). 

    Si affiancano a tali interventi anche la realizzazione di strutture costruite ex novo, quali la stazione dei Carabinieri e una scuola infantile, destinate a rispondere a specifiche esigenze, rispettivamente in termini di sicurezza e fabbisogno di servizi, emerse dal diretto confronto con le persone che risiedono o lavorano nel quartiere. Il progetto, scaturito da un processo di continuo confronto con la comunità alla quale era rivolto, ha dunque inteso promuovere il riuso - ancorché parziale – del complesso industriale, offrendo alla cittadinanza nuovi spazi e nuovi luoghi per lo sviluppo di attività formative imprenditoriali e di svago che, favorendo l’aggregazione, intendono contribuire al superamento di divisioni e frizioni caratterizzanti il quartiere e a riattivare attività produttive artigianali che avevano visto nel tempo la loro progressiva sostituzione con altre non altrettanto qualificate (telefonia, trasferimento di denaro, ecc.). L’insediamento di nuove funzioni, il ripristino della componente produttiva, originaria vocazione di questo e di molti dei territori di periferia [Ermentini 2016, Cellamare 2017], la promozione del dialogo interculturale hanno di fatto reso possibile un effettivo incremento della qualità della vita degli abitanti. L’intervento attuato nell’ex-Incet ha messo il patrimonio industriale nella condizione di svolgere un ruolo attivo nel programma di rigenerazione urbana attuata attraverso di esso [Cossons 2000]. Tutto ciò ha certamente implicato una riformulazione degli obiettivi della conservazione

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    che non costituisce, in questo come in altri casi, una finalità assoluta, ma si integra in un sistema di plurimi obiettivi. Questa, ancorché strategica, viene pertanto ad essere «contemperata con il raggiungimento di altri obiettivi che impongono la ricerca di un punto di mediazione fra interessi economici e tutela dei valori storici» [Preite 2013, 71]. Il progetto di rigenerazione individua nella rivitalizzazione di complessi industriali dismessi, lo strumento mediante il quale perseguire la permanenza di suddetto patrimonio, la creazione di nuove occupazioni, lo sviluppo dell’innovazione e della socialità in contesti attualmente depressi

    Conclusioni Se è vero, come affermava Eugenio Battisti relativamente al patrimonio industriale, che non tutto può essere conservato e che valutazioni storico-culturali dovrebbero sollecitare ogni regione a «salvaguardare quei complessi grandi o piccoli, che costituiscono tappe essenziali della storia, o che sono monumenti unici non solo entro il contesto regionale, ma in quello nazionale e internazionale» [Battisti 1987], è altrettanto vero che, oggi più che mai, il recupero di questo patrimonio potrebbe/dovrebbe trovare stimolo anche in valutazioni di altro tipo, che tengano conto delle sue potenzialità latenti, della cogente necessità di contenere al massimo tanto lo spreco di risorse quanto la produzione di rifiuti e l’occupazione di suolo, delle esigenze espresse da coloro che vivono i territori con cui esso ha interagito in un passato più o meno prossimo. Conservare tutto il patrimonio industriale dismesso non è certamente pensabile, né auspicabile, tuttavia l’esame di quanto verificatosi nel quartiere Barriera di Milano pone in evidenza come i complessi industriali costituiscano, a tutti gli effetti, risorse da valorizzare e sfruttare per perseguire diverse finalità. Qualora opportunamente recuperate e riattivate, esse potrebbero infatti contribuire fattivamente sia alla preservazione dei valori culturali, identitari e di memoria che le caratterizzano, sia alla riqualificazione di quelle porzioni di città che, proprio a seguito della loro dismissione risultano ora fortemente degradate tanto a livello urbano e architettonico, quanto a livello sociale. Oggi la cittadinanza chiede con sempre maggiore forza di essere resa partecipe (e talvolta di divenire essa stessa protagonista) dei processi decisionali che orientano gli interventi condotti sui territori in cui essa stessa vive. Che si tratti di un monumento di dichiarato valore (si pensi ad esempio alla Cavallerizza di Torino), piuttosto che di un ex-cinematografo (quale il Louxor di Parigi) o di un complesso industriale dismesso, viene sempre più manifestato il desiderio di vedere questi beni nuovamente attivi e restituiti alla comunità. Modificare il modo di guardare e percepire il patrimonio industriale, riformulare gli obiettivi degli interventi e promuovere un processo partecipativo consentono alle azioni di recupero il perseguimento di esiti positivi in termini non solo culturali ed energetici, ma anche sociali ed economici. Abbandonato dunque lo status di “ferita urbana” che per lungo tempo ha connotato gli insediamenti industriali defunzionalizzati, essi possono ora essere proficuamente riutilizzati per innescare processi di rigenerazione urbana che risulteranno tanto più efficaci, quanto più saranno l’esito di un reale confronto con la popolazione messa in condizione di esprimere le proprie effettive esigenze.

    Bibliografia ALVAREZ ARECES, M.Á (2011). Conservación y restauración del patrimonio industrial en el ambito internacional, in «Abaco», n. 70, pp. 23-39. BATTISTI, E. (1987). Storia della tecnologia e storia della scienza: una rivoluzione da fare, in Archeologia industriale. Architettura, lavoro, tecnologia, economia e la vera rivoluzione, industriale, a cura di F.M. Battisti Milano, Jaca Book, 2001, pp. 267-277.

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    BULLEN P. A., LOVE, P.E.D. (2010). The rhetoric of adaptive reuse or reality of demolition: Views from the field, in «Cities», n. 27, pp. 215-224. CASTRONOVO, V. (1995). Un’antica sapienza di lavoro, in La città segreta. Archeologia industriale a Torino, a cura di B. Biamino, V. Castronovo, Torino: Edizioni del Capricorno, pp. 8-43. CASTROVILLI A., SEMINARA, C. (2004). Storia della Barriera di Milano 1852-1945. Torino: Officina della memoria. CELLAMARE, C. (2017), Città e autorganizzazione delle periferie Roma: Tor Bellamonaca e il lago della Snia Viscosa, in «Ananke», n. 82, pp. 54-60. COMMISSIONE EUROPEA (2003), Il partenariato con le città. L’iniziativa comunitaria URBAN (http://ec.europa.eu/regional_policy/sources/docgener/presenta/cities/cities_it.pdf). ERMENTINI, M. (2016), Milano: il rammendo del Giambellino. Le proposte del gruppo di lavoro G124 di Renzo Piano, in «Ananke», n. 79, pp. 26-29. GABERT, P. (1964), Turin ville industrielle. Parigi: Presses Universitaires de France. IRES PIEMONTE (2017), L’intervento di rigenerazione urbana dell’area ex Incet a Torino (www.regione.piemonte.it/fsc/vetrina_progetti, aprile 2018). MAGNAGHI, A., PALOSCIA, R. (1992), Per una trasformazione ecologica degli insediamenti. Milano: Franco Angeli. MASPOLI, R., SPAZIANTE, A. (2016), Fabbriche, borghi e memorie. Processi di dismissione e riuso post-industriale a Torino Nord. Firenze. Alinea. PAVESE, C. (2007), Il processo di elettrificazione tra Otto e Novecento, in Torino Energia, a cura di V. Ferrone, Torino: Archivio Storico della Città di Torino, pp. 175-220. Perspective on Industrial Archeology (2000). A cura di N. Cossons. Science Museum, London. PREITE, M. (2013), Rigenerazione urbana e patrimonio industrial in Europa, in La riconversione del patrimonio industriale. Il caso del territorio casalese nella prospettiva italiana ed europea, a cura di M. Ramello. Alinea, Firenze, pp. 65-75. PETRILLO, A. (2016), Genova, periferie estreme: il CEP di Prà oltre la condanna, in «Ananke», n. 79, pp. 46-51. PRESCIA, R. (2013), Umanesimo e città storiche, in Roberto Di Stefano. Filosofia della conservazione e prassi del restauro, a cura di A. Aveta, M. Di Stefano. Napoli, Arte Tipografica Editrice, pp. 276-280. Rigenerazione urbana, innovazione sociale e cultura del progetto (2016). A cura di R. Prescia, F. Trapani. Milano: Franco Angeli. SPAZIANTE, A. (2016). Il difficile significato del riuso del patrimonio industriale dismesso, in Fabbriche, borghi e memorie. Processi di dismissione e riuso post-industriale a Torino Nord, a cura di R. Maspoli, A. Spaziante, Firenze: Alinea, pp. 16-32. «TorinoClick», agenzia quotidiana del Comune di Torino, n. 172, venerdì 3 ottobre 2014, edizione delle ore 19.30 in (http://www.comune.torino.it/urbanbarriera/trasforma/riqualificazione-ex-incet---lotti-1-e-2, aprile 2018). TRAPANI, F. (2016), Rigenerazione urbana e innovazione sociale, in Rigenerazione urbana, innovazione sociale e cultura del progetto, a cura di, R. Prescia, F. Trapani, Milano: Franco Angeli, pp. 9-18. VIGLIOCCO, E. (2013), Riciclare l’architettura: l’archeologia industriale e i parchi di cemento, in «Labor & Engenho», v. 7, n. 1, pp. 29-42. VIGLIOCCO, E. (2015), Resi. Il riuso come pratica di riciclaggio applicata al patrimonio industriale, in Memoria, conservazione, riuso del patrimonio industriale. Il caso studio dell’IPCA di Ciriè, a cura di E. Romeo. Aiccia: Ermes, pp. 51-63. Sitografia http://www.edit-to.com/ (marzo 2018) http://www.comune.torino.it/urbanbarriera/progetto/index.shtml (marzo 2018) http://europa.eu.int/comm/regional_policy/index_it.html (marzo 2018)

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    Aree portuali dismesse, identità marittima e rigenerazione urbana: i casi studio di Genova, Napoli, Trieste Brownfield Port Areas, Maritime Identity and Urban Regeneration: Genova, Napoli, Trieste Case Studies MASSIMO CLEMENTE, ELEONORA GIOVENE DI GIRASOLE Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) - Istituto di Ricerca su Innovazione e Servizi per lo Sviluppo (IRISS) Abstract Il tema delle aree dismesse assume una specifica valenza nelle città di mare dove il porto è elemento primario della storia urbana e, allo stesso tempo, luogo della dismissione produttiva. Le città di mare nascono e si sviluppano attorno al porto che ne induce la morfologia e l’identità marittima. Il porto è parte integrante della città storica, le banchine erano il luogo degli scambi commerciali e delle relazioni umane. Città e porto coincidono, sul piano funzionale e identitario, fino alla seconda metà del ‘900 quando l’evoluzione del trasporto marittimo causa la specializzazione e la separazione del porto dalla città. Il passaggio successivo è la delocalizzazione, in tutto o in parte, delle funzioni portuali, abbandonando al degrado ambiti urbani storici e architetture di grande qualità. Le aree portuali dismesse hanno un forte valore storico-identitario e richiedono uno specifico approccio sia nella fase conoscitiva sia nella proposizione progettuale. Casi studio: Genova, Napoli, Trieste. Reuse of former industrial areas has a specific value in seaside cities where the port is a primary element of urban history but, at the same time, it was the place abandoned by productive activities. Seaside cities born and growth around the port – it induces their morphology and maritime identity. Port is integrant part of historical city and docks were the place of trade affairs and human relationships. City and port had coincided, by functional and identity point of view, until second half of 20th century when the evolution of maritime transport caused the specialization and separation of port from city. Delocalization of port functions, in whole or in part, was the next step. Historic urban areas and architectures of great quality were abandoned and decayed. Abandoned port areas have a strong historic-identity value and ask for a specific approach both to analyze them and to plan their regeneration. Case study: Genova, Napoli, Trieste. Keywords Aree portuali dismesse, identità marittima, rigenerazione urbana. Brownfield Port Areas, Ma