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Il salto

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Fabio Sparapani, giallo

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Libro: 14,50 euro (dal 16 dicembre 2011) e-book (download): 9,99 euro e-book su CD in libreria: 9,99 euro

FABIO SPARAPANI

II LL SS AA LL TT OO

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IL SALTO Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Fabio Sparapani ISBN: 978-88-6307-xxx-x

In copertina: Immagine fornita dall’Autore

Finito di stampare nel mese di Dicembre 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

“Alla resa dei conti,

ci sarà sempre il passato. Non c’è che lui, il passato:

il presente non si ferma mai abbastanza, e il futuro

è sempre solo un’ipotesi. In fatto di tempo, la devi dar

vinta al passato. Ti acchiappa sempre, alla fine”.

(Martin Amis)

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“Il mare non è mai stato amico dell’uomo. Tutt’al più è stato complice della sua irrequietezza”.

(Joseph Conrad)

Appena scese dall’auto, si sentì avvolgere da un’ondata di calore e il sudore gli corse velocemente per tutto il corpo. Si tolse la giacca di lino scuro e allentò il nodo della cravatta, ma fu un refrigerio solo momen-taneo, perché la camicia bianca gli si era attaccata alla pelle come un serpente vischioso. I due uomini che lo avevano scortato fin lì gli passarono la valigia, mentre lui teneva stretta in mano la borsa di lavoro, dalla quale non si era mai separato durante il tragitto. «Dottore, l’uomo laggiù è il pescatore che la porterà a destinazione» disse in uno stentato italiano la guardia del corpo, indicando col dito un vecchio che attendeva sulla banchina del porto. Poco distante da loro, l’autista salutò con un cenno del capo e si rimise alla guida. «Per qualsiasi problema, questo è il numero di telefono al quale potrà rintracciarmi» e gli passò un foglietto stropicciato. «Ah, bene. Vada pure. Grazie.» L’altro salutò con un cenno del capo e risalì nell’auto, che Cavani seguì con lo sguardo mentre ripartiva sgommando tra la folla del piccolo por-to. «È lei il dottor Cavani?» «Sono io.» «Piacere, Nikos Elmas. Sono stato incaricato di portarla a destinazio-ne.» «Piacere, Guido Cavani» rispose cordialmente, mentre il vecchio gli porgeva la mano e con l’altra gli prendeva la valigia. «Oh, non serve. Grazie.»

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«No, no. Faccio io. La barca è quella là» e indicò una vecchia lancia di una decina di metri. «Non è nuova, ma tiene bene il mare» aggiunse vedendolo perplesso. «Ah, per me, nessun problema.» «Mare calmo, oggi» disse il vecchio, mentre gli teneva ferma la passe-rella dell’imbarcazione. «In meno di mezz’ora saremo a destinazione. Si accomodi qui, sotto il tendalino, che starà più fresco.» Accese il motore, che partì al primo colpo, mentre l’altro si sistemava seduto. «È sempre così caldo qui?» «Oh, anche di più. Ed è appena maggio. La stagione promette bene. A lei piace il mare?» fece il vecchio mentre si staccavano dal porto. «Sì, ci vado appena posso. Dà fastidio se fumo un sigaro?» «No, no. Fumo anch’io ogni tanto.» «Ne vuole mezzo?» «Non me lo faccio dire due volte.» «Allora glielo taglio» e prese il suo taglierino, smezzando il toscano. «Le dispiace se lo fumo più tardi? «Per me, lo fumi quando vuole.» «Grazie» e prese il sigaro, infilandoselo in un taschino della camicia «vedrà che non si troverà male nell’isola. È un posto semplice, dove si può stare tranquilli.» «Be’, per quello che devo fare…» «Pensa di trattenersi molto?» L’altro lo guardò a lungo senza rispondere, mentre aspirava lentamente dal sigaro. «Dipende da quanto lavoro troverò. Lei sa perché sono qui, no?» disse, fissando il vecchio intento al timone. «Me l’ha detto il delegato.» «E chi sarebbe questo delegato?» «Una specie di sindaco, incaricato dal sindaco dell’isola più grande di amministrare il paese.» «Immaginavo che sarebbe venuto pure lui insieme a lei.» «Avrà avuto un impegno improvviso. Chissà.» «Ha molto da fare.» «Sa com’è.» «Uhm…»

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Seguì un lungo silenzio, rotto dallo stridio di un gabbiano che sfiorava l’acqua. Non si vedeva più il pontile del molo ed erano in mare aperto. Il sole cuoceva il fasciame della barca, che sembrava friggere per il ca-lore. Ogni tanto arrivavano vampate di caldo dal vano motore. «Conosceva Mario Giacchi?» fece Cavani con voluta noncuranza, men-tre si rimboccava le maniche della camicia. I suoi occhi fissarono im-provvisamente quelli del vecchio. «In paese ci conosciamo tutti. Non arriviamo a cento abitanti.» «Che tipo era?» «Be’, io lo conoscevo così; un saluto, due parole e via.» «Che vita faceva, almeno, me lo sa dire?» «Una vita tranquilla, ritirata. Molto discreto con tutti. Un signore, se posso dirlo.» «Già» e riaccese il sigaro, che si stava spegnendo «comunque, sarà pur stato in confidenza con qualcuno?» «Era gentile con tutti, questo sì, ma è difficile dire se fosse proprio ami-co di qualcuno. Non credo avesse nemici, per quello che si può capire. Ma, scusi, mi sta già interrogando? Vale?» Si beccò una risata per risposta. «Vale, vale! Ma non è un interrogatorio. Sono due chiacchiere. E poi, il delegato non le ha detto nulla?» «Sì, ma è che non sono abituato a tante domande e mi sento in imbaraz-zo.» «Eppure a sentirla non si direbbe, signor Elmas.» «Dottore, mi dia del tu. Non si preoccupi. Qui mi chiamano tutti Nikos. È meglio. Io, senza offesa, preferisco darle del lei.» «Perché?» «Perché lei è un magistrato e sta indagando.» «E va bene. Allora, Nikos» e lo guardò interrogativamente. «Nikos» fece il vecchio a testa alta. «Nikos» riprese l’altro, annuendo lentamente. La lancia procedeva tranquilla sull’acqua che mandava riflessi d’argento. Una brezza leggera si stava alzando. «È da molto che vivi qui?» «Quanti anni mi dà, dottore?» Cavani lo scrutò con attenzione, abbassando un po’ gli occhiali da sole e inquadrò meglio un vecchio magrissimo, di altezza sotto la media, oc-

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chi scuri e vivaci, semicalvo, con una corona di ciuffi bianchi ai lati della testa. «Non saprei… Sessantacinque?» «Settantaquattro!» fece l’altro con una punta di orgoglio. «Complimenti! Ma questo non spiega il tuo perfetto italiano.» «Sono sardo e il mio vero nome è Nicola. A nemmeno ventuno anni ero di stanza a Rodi, Marina Militare. Dopo l’otto settembre riuscii ad ab-bandonare la compagnia, o meglio quello che ne rimaneva, e mi diressi verso altre isole fino ad arrivare a questa. È un reato?» «No, anzi!» «Mi feci una vita qui. Mi sposai con una greca e sono vissuto di pesca in santa pace. Mi vanto di non aver sparato un solo colpo di fucile con-tro i greci. E questo loro lo sanno.» «Altri non sono stati fortunati come te.» «Già. Ma parecchi sono stati anche stupidi o forse erano convinti di qualche cosa. Io no.» Il vento stava leggermente rinforzando. «Dottore, posso chiederle se è sposato?» «Me lo hai appena chiesto. No, non sono sposato» rispose Cavani ri-dendo. «Male. Quanti anni ha?» «Prova a indovinare.» Il vecchio si mise a sbirciarlo con un occhio chiuso, come se prendesse la mira, e lo vide alto, coi capelli neri che si preparavano alla fuga, tirati indietro, qua e là filettati di bianco, con qualche ruga di espressione in viso. «Una quarantacinquina?» «Ahi, sono proprio messo male! Quarantadue.» «Va bene anche così. Comunque, alla sua età qui sono tutti sposati e con figli.» «Pure! Quante disgrazie!» interloquì ridendo Cavani «tu hai figli, Ni-kos?» «Scusi, vado a vedere di sotto. Mi sembra che il motore batta male. Torno subito.» Nikos ricomparve sul ponte dopo meno di un minuto. A Cavani non sfuggì che aveva gli occhi lucidi. «Nell’isola vivete tutti di pesca?» chiese dopo qualche tempo, giusto per cambiare discorso.

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«Tutti proprio, no. Ma siamo tutti un po’ pescatori, quando serve.» «Turismo ce n’è?» «Solo da pochi anni, ma è ancora scarso. Sa, i collegamenti sono diffi-cili.» «Me ne sto accorgendo… Manca molto per arrivare?» «Tra dieci minuti ci saremo. Ha fretta?» Cavani si strinse nelle spalle, allargando le braccia. «Impari una cosa: in Grecia chi ha fretta non trova buon tempo, almeno nelle isole come questa.» «È un consiglio per le indagini?» ribatté ironico Cavani. «Perché, lei quando lavora cambia ritmo?» «Questa è proprio buffa!» «È la prima volta che viene in Grecia, vero?» «Sì.» «Allora, capirà, dottore. Capirà.» Adesso l’isola era visibile all’orizzonte, con una striscia di basse case multicolori addossate a una collina rocciosa battuta dal sole. Nikos si-stemò l’imbarcazione al pontile con un attracco all’inglese, molto prati-co per il salto a terra del magistrato. «Il dottore è servito. Alla valigia penso io.» Cavani scese a terra un po’ spaesato. Poca gente osservava dalla vicina taverna, appoggiata agli schienali delle sedie impagliate. Qualcuno sa-lutò Nikos con un gesto del braccio. Un gatto fece alcuni scatti qua e là al primo passo del magistrato, per poi rintanarsi fra alcune reti da pesca poco lontane. «Scappa, scappa. Tanto dopo interroga pure te!» fece Nikos, rivolgendo poi lo sguardo verso Cavani, che scosse la testa, borbottando sottovoce. «Il dottor Cavani?» disse un uomo, avanzando con l’indice puntato. Cavani si girò e, prima di rispondere, l’altro già gli aveva stretto la ma-no fra le sue, accennando un goffo inchino. «Gheorghios Panos. Sono il delegato.» «È arrivato» ammiccò Nikos al magistrato. Cavani sfilò la sua mano da quelle sudate del delegato, accennando una secca presentazione formale. «Sono onoratissimo di averla qui in paese. Mi scusi se non sono venuto a riceverla prima, ma ho avuto un’urgenza improvvisa.» «Nessun problema. C’era Nikos a prendermi.»

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«Già» fece il delegato, senza guardare il vecchio «avrei voluto ospitarla in casa mia, ma poi ho pensato che sicuramente le avranno prenotato una stanza alla pensione Dìmitra.» «Vorrei dare un’occhiata alla casa di Giacchi. È possibile, no?» disse Cavani rivolto a Nikos. «Poso la valigia a casa mia e andiamo subito, se il delegato è d’accordo.» «Andiamo!» aggiunse gelido Cavani. Nikos s’infilò in una porta a una decina di metri dal pontile, mentre il delegato sudava copiosamente e una larga chiazza gli bagnava la cami-cia azzurra, che aveva il colletto chiuso da un’assurda cravatta rossa a rombi multicolori. «Lo perdoni. È un pescatore e non sa come ci si comporta.» «Dov’è la casa?» lo interruppe secco il magistrato. «Per di qua, quasi in fondo al paese. La vede? È quella bianca a due piani. Al secondo piano, precisamente» e allargò il braccio con gesto deferente, come a fare strada. Cavani iniziò a camminare spedito, senza curarsi del delegato che gli parlava con frasi sconnesse e sgrammaticate. Nikos li raggiunse che e-rano arrivati alla porta in basso. «Come vede, il lucchetto è a posto» disse trionfante il delegato. «Già. La chiave l’ha lei?» «Sì» sussurrò il delegato. «Allora apra. La chiave la lasci pure a Nikos.» Nikos soffocò una risata, coprendosi la bocca. Entrarono in un piccolo andito scuro di pochi metri, dal quale partiva una corta rampa di scale strette che dava alle stanze della casa. Salirono con Nikos che faceva strada. Appena salite le scale, il vecchio si affrettò ad aprire un finestrone che dava sul porto. «Giacchi viveva qui da solo?» fece Cavani rivolto al delegato. «Sì, ma a volte veniva la donna delle pulizie» rispose l’altro con un sor-riso ebete. «E allora?» «Ma se ne andava sempre prima di pranzo, dopo aver pulito» mormorò Panos con un filo di voce, volgendo lo sguardo a Nikos in cerca d’aiuto.

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Cavani sbuffò, allargando le braccia e scuotendo la testa. Nikos, intan-to, stava aprendo tutte le finestre della casa e fasci di luce raggiungeva-no qua e là il corridoio e le altre stanze. «Ha da accendere?» fece Cavani, mostrando il sigaro spento. «Non fumo, grazie» rispose il delegato con gli occhi smarriti, mentre l’odore acre del suo sudore impregnava sempre più l’aria della stanza. «Ma io sì! Be’, non occorre che lei resti qui.» Il delegato rimase impalato con gli occhi stralunati. «Può andare!» ripeté Cavani, scadendo le sillabe a voce alta. «Allora, vado. La saluto.» «Buongiorno» e già il magistrato si era diretto alla ricerca di Nikos, che stava continuando ad aprire finestre, porte e pertugi. «Nikos! Dove sei? Basta!» gli urlava Cavani divertito. «Sono qua» e spuntò da una porticina laterale, lo sguardo stralunato, mentre si scuoteva la polvere dalle braccia. Intanto Cavani girava per l’appartamento, apprezzandone le piccole dimensioni e la disposizione delle stanze. «Senti, Nikos. Secondo te, il delegato ci è o ci fa?» «Posso rispondere liberamente?» Cavani allargò le braccia. «Ci è, ci è! Ma all’occorrenza ci fa pure!» «Ah, elementare, mio fido Watson!» apprezzò Cavani con l’indice in aria. «Non capisco.» «Mi sa che hai proprio ragione.» «Eh!» si rallegrò l’altro. «No!» esclamò Cavani, battendo le mani in un gesto di sorpresa. «Cosa c’è?» fece Nikos inseguendolo. «Guarda.» «E allora?» «Non vedi? Una libreria! Ci saranno centinaia di libri, forse migliaia! E non mi avevi detto niente!» «E che ne sapevo che fosse così importante per lei!» Intanto Cavani aveva aperto un’anta del mobile, sfiorando con le dita gli sportellini lavorati con sapienti intarsi a nido d’ape. «È stupenda! E ci sono pubblicazioni rarissime di classici in italiano.» «E che si aspettava? Greco?» «Ma questo è un paradiso!»

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«Mario passava molto tempo a leggere.» Cavani si voltò verso Nikos, sorpreso della delicatezza con cui aveva pronunciato quelle parole. «Giacchi, intendi.» L’altro annuì in silenzio, a testa bassa. «Eravate amici, vero?» Nikos serrò le labbra. Aveva gli occhi umidi. Si girò di colpo, scompa-rendo verso il piccolo corridoio, per sottrarsi alla vista di Cavani. Il magistrato lo raggiunse solo dopo che l’altro ebbe terminato di soffiarsi il naso. «Mi scusi.» «Guarda che non c’è niente di male.» «Prima non gliel’ho detto, perché…» «Lascia stare. Non ha nessuna importanza.» «Io volevo bene a Mario.» Cavani lo rassicurò, battendogli affettuosamente le mani sulle spalle. «Sai cosa stavo pensando, Nikos?» «No. Cosa?» «Mi stabilirò qui.» «Qui?» «Sì. La casa mi piace. È defilata rispetto al molo. Ha poche stanze, quelle giuste per me.» «E, soprattutto, c’è la libreria.» «C’è la libreria, c’è una bella doccia pulita e c’è pure un cucinino con tutto quello che serve. Ho visto anche una caffettiera di quelle di una volta.» «Mario adorava il caffè italiano.» «E c’è pure la musica!» esclamò indicando una vecchia radio a modu-lazione di frequenza. «Sì, è vero. Ma non starebbe più comodo in una pensione? Lì non do-vrebbe pensare a niente.» «Ma qui posso riflettere in pace» lo interruppe sereno Cavani, fissando-lo dritto negli occhi. «Forse ha ragione lei. Solo che allora devo provvedere a far pulire la casa. Se mi dà un paio d’ore, gliela faccio trovare a posto.» «Va bene. Io intanto mi vado a bere qualcosa alla taverna. Magari pri-ma mi scelgo un libro. Che ne dici di Dante?»

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«Per me va bene, tanto se lo legge lei. Ah, una cosa ancora dottore. Le dispiace se chiamo una donna che conosco, per fare le pulizie?» «Benissimo. Chiama chi vuoi.» «Glielo dico, perché è una donna che ha bisogno.» «Bisogno di che?» si voltò Cavani. «Di soldi, dottore, di soldi. Ma che va a pensare?» «Io? A niente! Che devo pensare! Bastano questi?» e gli fece scivolare delle dracme in mano. «Sì, grazie. Vanno bene. Le faranno comodo. Sa, Helèna ha una bam-bina costretta su una carrozzella.» Cavani, che stava riponendo il portafogli, aggiunse altre carte da mille dracme. «È troppo.» «No, prendile. Come si chiama la bambina?» «Efi.» «Non può guarire?» «Ha un male strano al cervello e non può né muoversi né capire.» «Cerebrolesa.» «Mi pare. Anche Mario usava un termine simile.» «Mario ha aiutato Helèna?» Seguì un lungo silenzio. Si sentivano solo le cicale che frinivano al sole del primo pomeriggio. «Mario aiutava tutti quelli che avevano bisogno.» Nikos guardò fisso il magistrato. «Ora vado, dottore. La chiamerò quando sarà tutto pronto. Alla valigia penserò io. Lasci pure la casa aperta. Se non le dispiace, prendo io le chiavi e tra cinque minuti al massimo sarò qui con Helèna. Se vuole andare, vada tranquillamente, tanto, in questi giorni, se qualcuno voleva entrare, lo avrebbe già fatto, no? Allora, a più tardi. Ah, non dimentichi la sua borsa. Gliel’ho messa sopra il letto.» Cavani lo sentì scendere le scale. Rimase soprappensiero e riuscì a salu-tarlo solo quando l’altro era già fuori. Si avviò lentamente verso l’uscita e fu abbagliato dal sole, i cui raggi lo raggiungevano con la forza dei calci di un mulo. «Accidenti! Ma picchia sempre così da queste parti?» mormorò, mentre si rimetteva gli occhiali da sole.

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Si diresse a passi lenti verso la taverna sul molo con la giacca appoggia-ta sulle spalle e, nell’altra mano, L’Inferno di Dante, che non bruciava più di quell’incredibile sole di maggio. Entrò nel patio della taverna, immerso tra basse tamerici, una delle qua-li era centrale rispetto ai tavoli. Si sedette con piacere proprio sotto la pianta dove c’era l’unico tavolino apparecchiato. Qua e là tra il fogliame il sole filtrava più morbido, addolcito da una brezza incostante e tiepida. Era lì da qualche tempo quando si accorse di un’ombra di lato. «Una birra e qualcosa da mangiare, per favore» disse volgendosi appe-na, ma senza guardare veramente. «Amstel o Heineken?» «È indifferente: la più ghiacciata che ha.» Finalmente si decise ad alzare lo sguardo e vide una donna piuttosto al-ta, vestita con una tunica di cotone nero, pieghettata in fondo e con lo scollo a semiluna. I capelli corvini erano mossi e lunghi fino alle spalle. Emanava una forza dignitosa, come un antico orgoglio, che Cavani a-veva già percepito dalla voce sicura e rotonda. Le sue labbra erano car-nose, ma non volgari. Gli occhi nerissimi guardavano dritto e colpivano il centro del cuore. Non aveva trucco e le forme del viso e del corpo sembravano ancora più nette e naturali, assolutamente perfette. Sarebbe potuta sembrare una scultura, se non fosse stata percorsa da un velo di sudore, fresco e pulito, che le rendeva la pelle scura e scintillante come quella di una pantera. Era bellissima, ma di una bellezza strana, di quel-le che non danno tregua, non tranquillizzano e che possono sfuggire appena si chiudono gli occhi. Si muoveva dondolando lentamente il capo, la mano destra a sfiorare il tavolo. «Le tengo nello stesso frigorifero. Facciamo Amstel: ne ho di più… Addirittura L’Inferno! Come se non bastasse quello che ci tocca vive-re!» fece mentre dava una veloce pulita al tavolo. Cavani la osservava inebetito. Cercava d’indovinare l’età della donna, ma era difficile. Alcuni tratti la facevano ritenere non oltre i venticin-que, trenta anni, ma certe sicurezze di comportamento e due leggere ru-ghe d’espressione potevano indurre far sospettare un’età più matura. Era stupenda, avesse avuto anche cent’anni. «Le piace la feta?» «Mi è sempre piaciuta!»

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«La vuole semplice o con origano e olio?» «Cosa?» «La feta. Cos’altro?» «Cos’è?» fece Cavani, sempre più inebetito. «Ma se mi ha appena detto che le piace!» «Forse non ho capito bene.» «La feta è un formaggio di capra, tipico della Grecia: lo sanno tutti. Meno lei, a quanto pare» sottolineò ironicamente. «Vada per la feta.» «Anche perché adesso non ho nulla sul fuoco. Le porto un po’ di pane? Almeno quello, sa cos’è?» aggiunse con voce dolce. Cavani non rispose e continuò a fissarla. «Allora, le porto un po’ di pane. Lei è il magistrato, vero?» riprese sor-ridendo. «Sostituto procuratore Cavani» fece alzandosi. «Se fa le indagini come ordina da mangiare, chissà che confusione avrà in testa!» e si diresse verso la cucina. All’improvviso si voltò proprio sulla porta, scansando con un braccio le stelle filanti di metallo che pendevano dallo stipite superiore. «Ah, dimenticavo: io sono Dìmitra» e gli rivolse uno sguardo in cui il sorriso si stava spegnendo al tono della voce, come se, da dentro, qual-cuno soffiasse su una candela. Cavani rimase a guardare la porta ormai vuota, con i fili di metallo che dondolavano sempre più lentamente e si riassestavano con un tintinnio in dissolvenza. Spaginò distrattamente il libro che aveva con sé, ma gli era passata la voglia di leggere. Tirò fuori un toscano e dovette alzarsi, riparandosi dietro alla tamerice, per accenderlo bene. Intanto Dìmitra era tornata con in mano la birra ghiacciata, il formaggio e un cestino di pane. «Mi è rimasto il pane col sesamo. Spero le vada bene.» «Benissimo!» rispose Cavani a voce alta. «Quanto entusiasmo!» fece Dìmitra con un largo sorriso, mentre se ne tornava dentro. «Lo sa che avrei dovuto dormire qui?» riprese l’altro giusto per prose-guire il discorso. «Addirittura!» sorrise maliziosamente la donna. «Veramente il delegato mi aveva detto che…»

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«Dal delegato non accetto né ordini né consigli. Comunque non mi ha detto nulla. Ovviamente, se vuole pernottare qui, non ha che da dirlo» lo interruppe bruscamente la donna. «Il fatto è che ho già dato disposizione di pulire la casa di Giacchi. Mi sistemerò lì. Mi spiace» fece Cavani piuttosto imbarazzato. «Nessun problema, ma se ha bisogno di qualcosa da me, per favore, non si rivolga al delegato.» «Va bene. Non le è molto simpatico, vero?» riprese, fissandola attenta-mente. «No, ma neppure a lei, mi è parso» rispose seccamente. «E come può dirlo?» replicò incuriosito il magistrato. «Be’, da come l’ha trattato prima sul molo, non si direbbe che le ispiri una grossa considerazione.» «Ma se lei neanche c’era!» fece sorpreso Cavani. «In quest’isola viviamo tutti stipati come sardine in una scatoletta. Tut-to il paese la stava aspettando e quelli che si sono fatti vedere al molo erano solo le poche sardine già nel piatto.» «Ah!» «Tra dieci minuti saprei anche dirle se Helèna le ha messo le lenzuola col bordo a fiori o quelle gialline.» «Glielo saprò dire» interloquì sgomento Cavani. «Spero per lei che siano quelle a fiori.» «Perché?» «Perché quelle gialline un tempo erano bianche.» Cavani rimase interdetto. «Non si preoccupi. Helèna è una persona pulita e la biancheria la lava bene!» aggiunse divertita. «Quant’è?» fece Cavani, mettendo sollecitamente mano al portafoglio. «Il primo pasto è gratis. Ospitalità greca o pubblicità, faccia lei. Mangi con calma e lasci pure tutto sul tavolo, quando avrà finito. Io me ne va-do a fare una doccia.» Il magistrato era sempre più stupito. «Non si senta in obbligo per così poco. Pagherà la prossima volta. Tan-to ci rivedremo, no?» e gli si avvicinò per allontanare una mosca dal piatto, mostrando la generosa scollatura. «Parla molto bene l’italiano» tentò goffamente l’altro, mentre lei se ne stava andando.

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Dìmitra si girò, guardandolo di lato, e lo squadrò come se lo vedesse per la prima volta. «Kalispèra, signor magistrato» e scomparve velocemente dentro casa. «Dio, che imbecille! Ma come ho fatto a dire quella scemenza proprio alla fine! Oddio, di sciocchezze troppe ne ho dette» mormorò Cavani «… beh, mangiamo. Eh, buonanotte! Mi si è scaldata la birra e la mo-sca sta sul formaggio!» Sbuffò sconsolato. Prese del pane e lo masticò lentamente, apprezzan-done il sapore. Tirò dal sigaro, che era spento. Continuò a mangiare e, prima di andarsene, adocchiò la mosca che si era scansata su un lato del tavolino a pulirsi le ali. Prese il tovagliolo e la colpì in pieno con un colpo secco. Insieme alla mosca volarono via la bottiglia di birra e le posate. Cavani si chinò a raccogliere tutto, ma, rialzandosi, picchiò con la testa su uno spigolo del tavolino. Imprecò con voce strozzata, proprio mentre Dìmitra iniziava a cantare una ballata greca da sotto la doccia. Si voltò per capire da dove prove-nisse la voce e scorse, dietro ai rami alti della tamerice, un finestrone celeste, rettangolare, semiaperto, che lasciava intravedere il lato di un comodino. «Di solito sono gli uomini a fare la serenata!» Cavani si voltò di scatto e vide Nikos che era sulla strada del moletto, proprio davanti all’ingresso della taverna. «Vedo che ha fatto la conoscenza di Dìmitra.» «Sono venuto a mangiare un boccone.» «Non deve mica giustificarsi. Dicevo così per dire.» Cavani lo raggiunse. «Non sta dimenticando niente?» «Vuoi sfottere?» «Dottore, ha dimenticato il libro!» Cavani tornò con la borsa e il libro. «Eccomi qua con L’Inferno. Contento?» «Per il paradiso si sta attrezzando, eh?» ammiccò il vecchio. «Nikos, quando la smetterai di prendermi in giro!» «Voleva essere una battuta» rispose mortificato. «L’ho capito!» fece Cavani, prendendolo sottobraccio e sorridendo di nascosto. «Sono passato per dirle che la casa è a posto e che Helèna la ringrazia molto per quanto le ha dato.»

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«Bene. Sai, Nikos, quest’isola comincia a piacermi» fece convinto. «L’isola, eh?» «E dagli!» e fece la mossa di mollargli un buffetto sulla testa pelata. Il sole aveva smorzato i suoi raggi e avvolgeva l’isola con una luce più morbida. In alto, le ultime case del paese avevano colori pastosi e le lo-ro sagome rompevano a tratti la brezza che si era levata. «Stanotte si dormirà abbastanza freschi. A proposito, le coperte pesanti potrà trovarle nel cassettone più basso dell’armadio.» «Ah, bene, anche se non credo mi serviranno.» «Helèna le ha messo un po’ di spesa nel frigorifero, nel caso volesse mangiare in casa.» «Sì, penso che farò così.» «È stanco, vero?» «Mah, neanche tanto. Comunque, devo andare a casa, farmi una doccia e riordinare i miei appunti di lavoro. Fra l’altro, dovrò prendere contatto con il medico legale per domani.» «È tutto a posto. Domani alle dieci sarà alla cappella del cimitero.» «E tu come lo sai?» «Andrò a prenderlo io con la barca e poi lo aiuterò anche per la cassa e le altre incombenze.» Cavani lo guardò interrogativamente. «Vede, dottore, in questo paese io faccio un po’ di tutto. Di norma, pe-sco e porto i pochi turisti in barca, ma quando serve mi adatto e faccio altri lavori. Anche il becchino, quando capita.» «Stavolta non sarà piacevole.» «Non lo è mai.» «Be’, un conto è seppellire, un altro è riesumare; e poi, insomma, si tratta di un amico.» «Dei resti, dottore. È diverso.» «Non so nemmeno io perché sto facendo questi discorsi. Forse sono davvero stanco.» «No, che c’entra. È che dentro alle casse sono tutti uguali. Io di Mario ho dei ricordi così vivi che non sarà una bara a farmeli scappare. E poi, alla mia età, non ho più paura della morte.» «Allora ci lasciamo qui. Ci vedremo domani al cimitero» fece Cavani, ormai sulla porta di casa. «Preferirei dicesse soltanto che ci vedremo, senza specificare tanto» e fece degli strani scongiuri.

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«Ah, e tu saresti quello che non ha paura!» «Non è paura. Piuttosto, sa dov’è il… luogo?» «Non è in fondo al paese, a sinistra, verso il mare?» Nikos annuì, volgendo lo sguardo verso il punto indicato. «Domani farà più caldo di oggi» disse rivolto al magistrato. «Stanotte sarà fresco; domani sarà caldo. Mi stai facendo le previsioni del tempo?» «Lei s’intenderà di diritto, ma io sono pescatore.» «Ho capito, mi vestirò più leggero.» «Non è solo questo. Col caldo certe sensazioni diventano più forti.» «Quali sensazioni?» «Guardi, dottore, che domani mattina non andrà a fare una passeggia-ta!» «E allora?» «Dorma bene e mangi poco. In particolare, domani faccia una colazione molto leggera.» «Cos’è, mi trovi già ingrassato per un po’ di feta?» «Se vuole scherzare, faccia pure, ma lo dico per il suo bene.» «Alludi alla riesumazione?» Nikos allargò le braccia con una smorfia eloquente sul viso. «Ti ringrazio, ma non sai quante volte mi è toccato dover assistere ad autopsie o fare dei sopralluoghi. Nel mio mestiere è normale.» «Lo immagino, ma forse era tutta roba fresca.» «Nikos, non stiamo mica parlando di frutta!» «Appunto! Non è la stessa cosa vedere un cadavere ben conservato o un altro che è di una quindicina di giorni, e che per giunta è stato pure in acqua.» «È vero, ma non preoccuparti. So cosa mi aspetta.» «Sto solo cercando di aiutarla a non sottovalutare la cosa.» «Tranquillo, Nikos. Ti prometto che sarò bravo.» «Allora non mi resta che salutarla. Queste sono le chiavi. Dorma bene.» «Buonasera Nikos e grazie di tutto. Sei stato davvero prezioso» fece Cavani, stringendogli la mano con forza. Nikos si staccò con un breve sorriso e prese la strada verso casa. A me-tà del breve cammino si fermò ad accendere il mezzo toscano che gli aveva dato il magistrato quand’erano in barca. Intanto Cavani si era ac-ceso anche lui mezzo toscano sulla soglia di casa. Si fermò un attimo a

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guardare verso il mare e vide in lontananza la pelata di Nikos, sormon-tata dalle lente volute di fumo che il sigaro acceso lasciava in alto. Quando salì le scale di casa non poté fare a meno di apprezzare l’odore di pulito che proveniva dall’andito; al piano superiore era tutto in per-fetto ordine e il finestrone della sala, semichiuso da un gancio fissato sul suo tratto più lungo, lasciava entrare gli ovattati rumori del paese e l’aria che stava smorzando il calore feroce delle prime ore pomeridiane. Entrando in cucina notò il vasetto di fiori di campo messo al centro del-la tavola. Helèna aveva pensato proprio a tutto. Tirò fuori dal frigorife-ro una bottiglia d’acqua fresca e ne bevve avide sorsate, continuando poi ad aspirare dal mozzicone di toscano le ultime stentate tirate. In camera da letto era tutto in ordine. Helèna gli aveva addirittura di-sfatto la valigia e sistemato abiti e camicie nell’armadio. Cavani aprì la doccia, ne regolò la temperatura su livelli appena tiepidi e si spogliò con lentezza. Quando entrò, il primo getto d’acqua finì di spegnergli il toscano, che tenne ostinatamente fino alla fine. Uscì fis-sandosi alla cintola il grosso telo di cotone bianco che Helèna gli aveva messo in bella vista su una rientranza scavata nella parete. Si buttò sul letto così com’era, voltandosi sulla sinistra per scoprire che dal finestrone aperto si vedeva uno scorcio di mare. La brezza marina lo sfiorava con leggerezza. “Tanto non dormo” pensò placidamente. Si risvegliò che era scuro, il cielo ondulato dalle luci dei pochi lampioni della breve passeggiata fino al porto. Si sentiva addosso dei piccoli, piacevoli brividi di fresco. Si rivestì in fretta, canticchiando tra i denti un pezzo rock di tanti anni prima, simulando una folle rullata di batteri-a. Girava per la casa con padronanza, come se fosse la sua da sempre, e riusciva a trovare le cose che gli servivano, neanche le avesse lasciate lui in quel modo. Accese la radio e captò dalle onde medie una musica lontana. Era stato fortunato: Duke Ellington aveva appena attaccato Mood Indigo. Dal frigorifero prese un pezzo di saganàki duro e una birra, che accom-pagnò con il pane che era sul tavolo. Mangiò così, in piedi, mentre gi-rava per la casa, avvolta dalle morbide note della tromba di Harold “Shorty” Baker.

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Tornò verso la radio per centrare meglio la stazione e si sedette sulla comoda poltrona dello studio, proprio di fronte alla libreria, dopo aver acceso la luce della lampada a stelo. Si alzò con l’idea di lavorare. Aprì la sua borsa da lavoro che aveva la-sciato sopra il letto, ne tirò fuori il computer portatile e un dischetto e tornò verso lo studio, non senza aver prima razziato un’altra birra, sta-volta ben ghiacciata, che aprì e si passò sulla fronte. «Ad Helèna!» esclamò soddisfatto alzando la bottiglia, dalla quale bev-ve lunghe, lente sorsate avviandosi verso lo studio. Appena ebbe varcato la soglia della stanza, gli cadde il dischetto dalle mani; si chinò a raccoglierlo proprio accanto alla sterminata libreria e fu colto da un tuffo al cuore. Sulla destra, di fianco a lui, tra gl’intarsi a nido d’ape, scorse un libro che conosceva assai bene per averlo regalato tanti anni prima a Carlo Vittori, suo compagno di banco al liceo classi-co. Aveva gli occhi umidi e le mani tremanti quando aprì lo sportellino basso che teneva custodito, quasi nascondendolo, La linea d’ombra di Conrad, con la copertina in brossura rigida color pervinca, perfettamen-te conservata. Posò computer e dischetto sullo scrittoio dello studio e sedette in pol-trona, in preda a un’eccitazione che lo imperlava di sudore freddo. Aprì il libro e scoprì la dedica: “A Carlo, perché i tuoi prossimi anni siano ricchi di avventure sul ma-re. Guido”. Sfogliò lentamente le pagine e, fatalmente, si fermò sull’ultima vuota, che era ingrossata da uno strano segnalibro interno in cartone leggero. Fu scosso da un fremito d’emozione quando lesse, datato marzo 1994, appena due mesi prima, lo scritto di una mano adulta: “Al mio amico Guido, fratello d’avventure, l’unico che forse potrà ar-rivare a leggere e capire queste parole”. Sotto, trovò queste misteriose rime: Lo troverai tra i miei il libro da cercare. Lo inseguono altri sei, ma non ti preoccupare.

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Questa era una traccia, la prima da quando era arrivato. Il suo vecchio amico Carlo gli stava parlando per enigmi, come spesso usava fare con lui ai tempi del liceo. Rilesse più volte lo scritto, si concentrò più che poté, ma non venne a capo di nulla. S’innervosì, perché capiva che quella notte non avrebbe chiuso occhio, almeno fino a quando non fosse riuscito a trovare la soluzione. I libri, a migliaia, gli stavano di fronte muti e severi, ma lui li vedeva come piccoli gnomi che lo deridevano e lo invitavano ora qua ora là, sviandolo continuamente. «Sarà un Dumas. No… Allora, un Dickens o magari Kafka» e, mentre ipotizzava la possibile preda, si precipitava a controllare l’immancabile fiasco. «È inutile: così non risolvo nulla. Devo riflettere con calma» e andò ad aprirsi un’altra birra ghiacciata. Si affacciò al balconcino del finestrone che dava sulla passeggiata del porto. La radio gracchiava e gli mandava canzoni greche e, come lui, perdeva continuamente la frequenza. Il paese era silenzioso e non c’erano più passanti. Guardò l’ora: era quasi l’una dopo mezzanotte e non aveva sonno. C’era pure il rischio che non si svegliasse in tempo per l’autopsia. «Le dieci!» si disse lamentoso «ma non avrebbero potuto fissarla nel pomeriggio, col fresco? E come mi sveglio?» Si alzò sbuffando, perché si era ricordato di una vecchia sveglia circola-re, di quelle satinate anni cinquanta, che troneggiava sul frigorifero del-la cucina. Andò a prenderla. Funzionava. Regolò la suoneria alle otto e trenta e la piazzò sul comodino accanto a sé. Cercò di prendere sonno ma, nonostante la fresca brezza notturna che filtrava dagli ampi interstizi del finestrone, non riusciva a chiudere oc-chio. Oltretutto la sveglia martellava la sua testa con ticchettii che sem-bravano colpi di mannaia. Non era mai riuscito a dormire con una sve-glia vicino e di certo non ci sarebbe potuto riuscire proprio quella notte; così spostò l’infernale arnese dietro alla parete della camera da letto, in un punto in cui il tic-tac quasi non si sentiva. Si rituffò sul letto, ormai caldo, e allungò le mani sulla birra. Era finita, ma non ebbe tempo di lamentarsi. Un altro nemico si stava approssi-mando, svolazzando minacciosamente nel buio della stanza. Imprecan-do, si alzò, accese la luce, e cominciò la bonifica della stanza a colpi di

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asciugamano. Dopo un quarto d’ora di lotta accesa, constatò la presenza di due punture e di cinque decessi delle odiose zanzare. Per premiarsi andò a prendersi una birra, ma dovette accontentarsi di una bottiglia d’acqua fresca. Prima di ritornare a letto deviò verso lo studio e prese improvvisamente dalla libreria Tre uomini in barca. Ac-qua, ovviamente. Lo ripose con una buffa smorfia, si diede uno schiaf-fetto leggero e minacciò con l’indice teso i libri, mentre si allontanava a ritroso. «Domani vi leggo tutti!» Restò fermo sulla soglia, come ad attendere un’impossibile reazione al-le sue parole. Fortunatamente era solo e poté spegnere la luce, inter-rompendo la ridicola esibizione, anche se gli rimase l’impressione che quei libri gli stessero ridendo alle spalle.

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“Mandare le barche in mare… / Per me la lontananza è più vicina del luogo presente”.

(Mario de Sà-Carneiro)

Si svegliò con un rimbombo che gli riempiva la testa. La sveglia stava squillando con un suono roco, ma Cavani stentò a realizzare dove si trovasse. Scivolò dal letto trascinandosi dietro il lenzuolo di cotone e, inciam-pando più volte, raggiunse la sveglia sul pavimento del corridoio, arre-standone la suoneria dopo qualche goffo tentativo. Erano le otto e trenta e aveva preso sonno solo da poche ore; un sonno agitato, attraversato da ricordi deformati, come lampi improvvisi, che diventavano luci multicolori e si perdevano poi in un imbuto scuro, dal quale riemergevano intrecciati gli uni agli altri in un ordine incompren-sibile. La scuola, le partitelle di calcio, le interrogazioni, i quadri scolastici gli si erano affastellati in un caleidoscopio disordinato e assurdo, in cui si ripeteva monotonamente un incubo. Un pallone rimbalzava in un’aula scolastica e colpiva la lavagna, dietro alla quale spuntava il capo bef-fardo di Carlo, che rideva in faccia al professore di latino. Questi, infe-rocito, lo puniva facendo scattare una leva che comandava una botola aperta sul vuoto, in cui Carlo precipitava con un urlo terribile. Nudo e sudato, Cavani arrancò in cucina e si attaccò a una bottiglia d’acqua minerale. Dopo che ebbe placato la sete, preparò la moka e si diresse in bagno. Interruppe la doccia quando si accorse che il caffè stava venendo su. Lo tolse dal fuoco e completò la doccia fredda, che lo svegliò quasi completamente. Si rase con cura e bevve finalmente il caffè tiepido, proprio come lo preferiva, inzuppandoci distrattamente un biscotto secco. Prese della marmellata di ciliegie direttamente dal vaset-to di confetture e, aiutandosi con un cucchiaino, ne finì la metà. Si sen-tiva come un lunedì prima di andare a scuola e la cosa non gli piaceva.

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Avrebbe voluto che quella mattina fosse già passata. Era attraversato da una sottile inquietudine e si sentiva solo, in balìa di qualcosa di sgrade-vole che stava per catturarlo. Decise che l’appuntamento con il medico legale gli imponeva giacca e cravatta. Si stava annodando un perfetto scappino e pensava alle parole che Carlo gli aveva lasciate scritte sul libro. Lo avevano ossessionato per tutto il dormiveglia notturno, popolandogli buona parte degli incubi. Continuava a cercare la soluzione; “…lo inseguono altri sei…”, ma chi fossero quei maledetti sei, ancora non lo aveva capito. Quelle parole erano una traccia sicura per dare una svolta alle indagini e, a quel pun-to, sarebbe dovuto rimanere altri giorni sull’isola. Avrebbe informato la Procura della necessità di prolungare la sua permanenza per qualche tempo ancora. Già, ma il telefono c’era in quell’isola o sarebbe dovuto ricorrere a Nikos per farsi accompagnare con la barca in qualche altro posto dove poter chiamare? Scese le scale, chiuse a chiave il portoncino di casa e si sentì avvampa-re. Il sole bruciava come d’estate. Anche su questo Nikos aveva avuto ragione. S’incamminò senza fretta verso il cimitero, sbirciando qua e là per trovare un telefono. Scorse un piccolo slargo sulla destra, a una de-cina di metri dalla sua casa. Tra qualche bassa tamerice polverosa face-vano capolino due sbiadite insegne, una delle quali raffigurava un tele-fono e l’altra una busta. Entrò, affrettando il passo, proprio mentre sta-va uscendo una vecchia con una sporta della spesa. Si trovò in una stanza piuttosto grande, molto fresca rispetto all’esterno. Dietro al ban-cone c’era una donna sui trentacinque anni, mora, con i capelli lisci a caschetto. «Scusi, parla italiano?» «Lo capisco abbastanza bene. Buongiorno.» «Buongiorno. Dovrei telefonare con urgenza in Italia.» «Mi dispiace, ma la linea ci sarà non prima delle dieci.» «Accidenti!» «Se vuole, può telegrafare. Mi lascia il messaggio e lo trasmetterò ap-pena possibile.» «Sarebbe una cosa un po’ riservata…» «Be’, non c’è molta scelta, dottore.» «Sa chi sono?» fece stupito Cavani. «Si meraviglia? Siamo così pochi qui in paese e non succede mai nien-te.»

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«Be’, quasi niente. In ogni modo, sembra che mi conoscano tutti.» «Io mi chiamo Maria… Maria Levìdi.» Cavani annuì sempre più stupefatto, le mani appoggiate al bancone e il corpo leggermente proteso in avanti. «Be’, mi ha convinto, signora Maria.» «Veramente, sarei signorina…» «Bene, signorina Maria, potrebbe cortesemente favorirmi carta e pen-na?» Scrisse in stampatello il messaggio e, piegatolo in due, lo diede alla donna. «Posso leggerlo?» fece quella con assoluto candore. «Mi raccomando, discrezione!» «Non dubiti, per quello che si può in un’isola come questa.» «Divento pazzo!» «Lo viene a ritirare lei o glielo mando da Nikos?» «Alla faccia della discrezione! Lo ritirerò io stesso.» La donna rise piano, coprendosi la bocca. «Oh, faccia come le pare, purché lo trasmetta entro oggi!» e le lasciò un migliaio di dracme sul bancone. «Sono troppe! Non ho il resto. Mi pagherà con calma.» «Ma in questo paese nessuno vuole mai essere pagato?» fece meravi-gliato Cavani, riprendendo il denaro. La donna lo guardò incuriosita e allargò le braccia. «Scusi. Ci vediamo più tardi, così potrò pagarla.» «Buon’autopsia!» lo salutò gentilmente la donna. «Sa pure questo!» sbottò Cavani, allargando le braccia in un gesto d’assoluta resa. La donna lo seguì con lo sguardo fino a quando il magistrato scompar-ve dietro al fusto della tamerice accanto all’entrata, poi aprì il messag-gio da telegrafare, lo lesse, aggrottò le sopracciglia, guardò verso l’uscita, come se sperasse in un ritorno di Cavani, e scrollò le spalle con un breve, silenzioso sorriso. «Tutto qui?» mormorò, usando come ventaglio il messaggio che aveva in mano. Fu distolta da una voce che proveniva dall’interno. «La puntura è pronta?»

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«Vengo, mamma, vengo!» e lentamente si avviò dietro a una tenda fio-rata, che la inghiottì lasciando di lei il calpestio, sempre più lontano, delle pantofole sulle scale. Cavani, intanto, si stava dirigendo senza fretta all’appuntamento col medico legale. Era in anticipo e deviò volutamente verso l’interno del paese, percor-rendo una breve salita che lo portò a una sparuta fila di case, semina-scoste da quelle antistanti il piccolo porto, disposte qua e là tra cespugli di mirto, rocce, e tamerici basse e rinsecchite. Le abitazioni, tutte in bu-gnato bianco all’esterno, sembravano intruse fra quella natura, tanto più strane per i colori variopinti dei balconi e dei tetti, in netto contrasto col verde polveroso degli alberi che segnavano la via. Sarebbero potute sembrare disabitate, se non ci fossero stati diversi sec-chi di vernice e trementina, assi di legno e attrezzi da lavoro a popolare la stradina. Cavani notò che tutte le abitazioni erano state rinfrescate di biacca da poco tempo e che i balconi e i tetti erano anch’essi risistemati a nuovo o con lavori in corso. Salì ancora per un po’ fino a scorgere l’ultima fila di case, in tutto so-miglianti alle precedenti, come fossero state costruite dalla stessa mano. Una vecchia stava richiudendo una persiana e gli fece un cenno di salu-to silenzioso, che Cavani ricambiò allo stesso modo. Il sole picchiava sempre più forte e così si tolse la giacca, proprio men-tre scorgeva dall’alto il cimitero, dove notò qualche persona con delle pale in mano. Intanto, al molo stava attraccando la lancia di Nikos, dentro alla quale Cavani avvistò un altro uomo, probabilmente il medico legale. Era l’ora di scendere e iniziò a farlo, anche se controvoglia. Si fermò a rinfrescarsi a una fontanella poco distante, dalla quale uscì un’acqua freschissima, non senza essersi prima sincerato della sua potabilità con un isolano di passaggio, che lo tranquillizzò con un inequivocabile ge-sto della mano. Arrivò al piccolo cimitero che gli altri erano già sul posto. Fu Nikos a salutarlo da lontano con un cenno del capo e Cavani si diresse verso di lui, rimettendosi la giacca, quando all’improvviso si vide sbarrare il passo dal delegato, che lo ossequiò con una stretta di mano e un inchi-no, per poi lasciare il campo a una figura di tutt’altra distinzione: un

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anziano signore dai capelli bianchi, di alta statura e singolare magrezza, che gli strinse la mano a lungo. «Lei è il dottor Cavani, vero? Sono Aris Mavròpoulos, il medico legale. È davvero un grande onore conoscerla. La sua fama è arrivata fin qui. Anche se da lontano, ho seguito le sue ultime inchieste e, mi creda, so-no ammirato dal suo coraggio e dalla sua capacità.» «Mi sopravvaluta. Cerco solo di fare il mio dovere» rispose Cavani vi-sibilmente imbarazzato.» «E le pare poco in un periodo come questo?» «La ringrazio ancora, dottore, ma adesso veniamo a noi.» «Certamente» riprese il medico, che poi prese Cavani sottobraccio, al-lontanandolo dagli altri «dottor Cavani, volevo avvisarla che l’autopsia sarà molto cruda. Se la sente di assistere? Se vuole, può limitarsi a una visione sommaria: pochi secondi e al resto penserò io. In fondo, non è strettamente necessario che lei sia presente per l’intera durata dell’ispezione della salma.» «No, grazie. Assisterò. L’ho pretesa io e sono venuto qui anche per questo.» «Spero non si sia offeso. Non era mia intenzione…» «Assolutamente, dottore. Stia tranquillo, non ci saranno problemi. Piut-tosto, crede di poter essere in grado di stabilire l’identità del cadavere e le modalità della morte?» «Dopo l’autopsia saprò essere più preciso, ma ritengo improbabile po-ter esaudire la seconda richiesta con certezza. Per la prima, conto di riu-scirci in pochi giorni. L’esame del d.n.a. e le fotografie che prenderò dell’apparato dentale mi aiuteranno e potrò confrontare i dati con quelli che lei mi ha fatto avere dalla sua Procura.» «Dunque, ha ricevuto tutto il materiale?» «Sì, certo, e l’ho esaminato con la massima attenzione. Tra due giorni, al massimo, dovrei saperle dire se il morto sia effettivamente Mario Giacchi.» «O Carlo Vittori» incalzò Cavani. «Già. Ma, quanto al resto, sarà molto più difficile dare risposte sicure.» «Capisco. Vogliamo iniziare?» Il dottor Mavròpoulos annuì e si avviò all’interno della piccola cappella mortuaria, dove intanto era stata deposta la bara. Alcuni degli inser-vienti stavano fumando fuori, parlando ad alta voce. Erano appoggiati

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alle pale e conversavano del più e del meno, come fossero a casa loro o alla taverna del paese. «Signori, questa non è una scampagnata!» fece brusco il magistrato, ri-volgendosi loro. Nikos fu subito pronto a spiegare ai suoi compagni il rimbrotto di Ca-vani e quelli si appartarono sotto una tamerice più lontana, proseguendo i loro discorsi e continuando a fumare. Nikos si avvicinò al magistrato con un fascio di verdura in mano. «Sono steli di mirto. Li ho presi per lei.» «Ti sembra questo il momento dei regali?» «Prenda almeno un mirto e lo tenga sotto il naso. L’aiuterà a sentire meno l’odore… Anzi, li prenda tutti, mi dia retta, e una volta dentro si metta anche questa mascherina. Quando staremo per aprire la cassa, la chiameremo.» Cavani ubbidì senza discutere oltre. Prese la mascherina e raccolse il mirto che Nikos gli aveva lasciato su un basso muretto sbrecciato. Sbir-ciò dentro alla cappellina con ansia crescente. Il delegato lo osservava gelido a pochi metri, con un sorrisino di compatimento. Cavani cercò di darsi un contegno, ma si accorse che era madido di su-dore sotto la giacca. Si allentò il nodo della cravatta, ma senza alcun refrigerio. Ripensava alle raccomandazioni di Nikos sull’opportunità di un buon sonno e di una colazione leggera e avrebbe voluto avergli dato ascolto, ma ormai era tardi. Un cenno di Nikos, affacciatosi all’uscio della cappella mortuaria, gli fece capire che il momento era arrivato, così s’incamminò per raggiun-gerlo, a passi lenti e pesanti come i rintocchi di una campana alla setti-mana santa. «Prego!» lo incalzò falsamente sussiegoso il delegato, che lo seguì su-bito dopo. Cavani entrò nella cappellina, immersa nell’ombra, con le due inferriate laterali che consentivano solo l’ingresso di luce riflessa. Lì per lì ebbe una piacevole sensazione di fresco, che svanì non appena scorse la bara su un tavolo disadorno in pietra. Attorno c’erano il medico legale con gli strumenti da lavoro e Nikos, che a un cenno di Mavròpoluos iniziò a togliere le viti che serravano il coperchio della bara. Il delegato, intanto, si era appoggiato al muro interno e osservava la scena con profondo di-stacco.

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«Non mi pare ci sia bisogno della sua presenza, signor Panos, a meno che non intenda dare una mano a Nikos» fece Cavani con tono sbrigati-vo, scostandosi la mascherina dalla bocca. Il delegato uscì lentamente, sfidando Cavani con lo sguardo. Prima d’infilare la porta, si fermò di fronte al magistrato e gli sistemò il nodo della cravatta, stringendolo molto forte. «Scusi, ma è un po’ calato…» Cavani gli prese le mani, tirandogliele giù lentamente, con l’altro che faceva resistenza. Sembravano due galli da combattimento pronti per la prima beccata. Le vene del collo di Cavani pulsavano all’impazzata, ma alla fine ebbe ragione dell’opposizione del delegato e, con un ultimo sforzo, riportò le braccia di Panos in basso. «Non si permetta più!» sibilò con voce bassa e rabbiosa. «Volevo solo aiutarla a mettersi in ordine!» ribatté l’altro con tono tra l’ironico e il minaccioso. «Lei sarà stato pure delegato da qualcuno per le sorti di questo sciagu-rato paese, ma io non le ho dato deleghe per la cura della mia persona! E con me, se lo rammenti bene, tenga sempre le mani a posto! Adesso, può andare… fuori!» urlò infine Cavani. Il delegato, rosso in volto per l’umiliazione, si avviò all’uscita; sulla soglia si girò verso i tre e rivolto a Cavani ringhiò qualche insulto in greco e finalmente se ne andò, proseguendo fino a uscire dal cimitero. Cavani si allentò il nodo della cravatta, il suo scappino ridotto ormai a un ammasso informe di stoffa, chinandosi a raccogliere gli steli di mirto cadutigli in terra, e guardò gli altri due con il volto ancora teso per la rabbia. Nikos lo osservava con ammirazione, annuendo buffamente, mentre il dottore era rimasto a bocca aperta, con le mani già guantate per l’autopsia. «Scusate» fece Cavani. «Veramente saremmo noi a doverci scusare. Posso assicurarle che gli abitanti di quest’isola non sono certo così. Ha fatto bene a rispondergli a tono. Preferisce se rimandiamo di un po’ l’autopsia?» lo rassicurò Mavròpoulos. «No, no. Già vi ho fatto perdere troppo tempo. Procediamo pure e scu-satemi ancora.» «Per carità!» interloquì Nikos «Quali scuse! Gli sbruffoni vanno messi al loro posto!»

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Il dottore guardò Nikos sbalordito per poi sorridere silenziosamente. Cavani rimproverò il pescatore con un breve cenno, anche se avrebbe voluto ringraziarlo e Nikos lo capì perfettamente quando vide il magi-strato fargli l’occhiolino, mentre si rimetteva la mascherina. Il medico fece cenno a Nikos di ultimare le operazioni per l’apertura della cassa, indicando a lui e a Cavani di mettersi le mascherine protet-tive, ma entrambi lo avevano già fatto. Cavani aggiunse discretamente qualche ramo di mirto a solleticargli il naso, nel tentativo di stordirsi con quell’odore. Svitato l’ultimo bullone, la cassa fu scoperchiata da Nikos, che subito si ritrasse inorridito con un’esclamazione di disgusto. Il morto era lì, gonfio e sfatto, una massa informe, purulenta e maleodo-rante. L’aria della cappellina s’impregnò rapidamente di un sentore dolciastro e nauseabondo, in cui odori e colori si mescolavano in un in-sieme repellente. «Tutto bene, signori? Dottor Cavani, gliel’avevo detto che non sarebbe stato un bello spettacolo. Se la sente ancora di assistere?» Cavani annuì velocemente, sventolando il mirto, quasi a coprirsi la vi-sta. Mavròpoulos, intanto, iniziò l’autopsia con distacco assolutamente professionale. «Non mi pare ci siano dubbi sul fatto che il corpo sia stato immerso in acqua e che abbia ricevuto dei colpi sulla testa e in varie altre parti. Ve-rificherò più tardi l’eventuale presenza di rotture ossee, che, a vista, mi sembrano comunque molto probabili. Nonostante l’avviata putrefazio-ne, negli strati intatti dell’epidermide si nota un’imponente idratazione, pelle imbiancata e raggrinzita e la mancata connessione con gli strati profondi, tanto che, a un semplice tocco, si distaccano con facilità lar-ghe membrane, lasciando nudo il derma sottostante» e, così dicendo, Mavròpoulos interveniva direttamente sul cadavere. «La presenza di vaste masse saponose è un’ulteriore conferma dell’immersione del corpo in acqua. Ora procederò per verificare l’avvenuto annegamento in acqua salata. Come lei saprà, dottor Cavani, l’acqua di mare, ipertonica, provoca il passaggio di plasma e proteine dai capillari sanguigni verso gli alveoli e sarà facile verificarlo allar-gando la cavità toracica, del resto semiaperta per effetto delle combina-zioni gassose e degli urti cui è stato sottoposto il corpo quand’era in ac-qua.»

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Cavani era concentrato nel non osservare il cadavere, ma le parole del medico glielo rendevano più visibile e orribile della vista. Un sudore freddo lo irrorava dappertutto. Sentiva il suo corpo come se avesse in-nestate mille cannelle e, purtroppo, le maledette stavano buttando acqua tutte in quell’istante. Si sforzò di pensare ad altro e passò in rassegna la sorpresa che gli die-de il trenino elettrico che trovò a sei anni sotto l’albero di Natale, la prima confessione da don Sesto, il calcio di rigore che parò da bambino nella finalina delle quinte, la volta che si appartò con Nadia dietro alla siepe dei giardini pubblici. Le provò tutte per distrarsi, ma fu inutile. La stanza cominciò a girargli intorno con il povero corpo del morto a gal-leggiare pericolosamente sulla sua testa, colandogli liquidi pestilenziali. Per un attimo ancora vide Nikos avvicinarsi e parlargli, ma lui captava solo rimbombi. Uscì come se avesse visto il diavolo, le mani premute sulla bocca. Rag-giunse a stento, qualche metro più in là, una bassa siepe vicino a una tomba e vomitò tutto quello che aveva per poi proseguire con quello che non credeva di avere. Nikos lo raggiunse e lo vide combattere con gli ultimi conati. «Dottore, si appoggi a me!» e così dicendo lo prese sotto un braccio, sollevandolo da terra. Cavani si appoggiò a Nikos senza neanche guardarlo. Aveva gli occhi di fuori e si sentiva fradicio di sudore. Le gambe gli tremavano per lo sforzo e si buttò seduto sulla prima lastra tombale che gli capitò. «Nikos, se non muoio adesso non morirò più!» «È passata, dottore. È passata.» «Dio mio, che schifo… e che figura!» «Ma quale figura! A che va a pensare! Piuttosto, si sente meglio?» «Sì, sì, va meglio… adesso torno dentro.» «Ma che è matto! Non si preoccupi. Il dottore sta finendo; anzi, vado a tranquillizzarlo. Lei mi aspetti qui.» «E chi si muove!» fece Cavani con un filo di voce, ripulendosi la bocca e la giacca con un fazzolettino di carta. Passò del tempo, non molto, e Nikos uscì nuovamente dalla cappellina, dirigendosi a passo spedito dal magistrato. «Dottore, Mavròpoulos ne avrà ancora per una decina di minuti. Mi ha pregato di dirle se vuole attenderlo da Dìmitra. La raggiungerà lì appe-na possibile.»

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«Sì, è un’idea.» «Eh, direi! Si è raccomandato che stia al fresco, ma di non bere cose troppo fredde. Be’, insomma, non è un ragazzino. Se la sente di andare da solo?» «Certo. Mi sento già meglio. Vado subito.» Nikos lo osservò mentre s’incamminava fuori dal cimitero con passo lento, poi se ne tornò ad aiutare il medico per le ultime incombenze. Cavani, la giacca sulle spalle e la cravatta ridotta a un misero cencio, respirava a pieni polmoni l’aria salmastra del giorno, irregolarmente mitigata da qualche refolo di vento che sorgeva improvviso da sud. Si sentiva sempre meglio, il sudore ormai riassorbito, con la testa di nuovo in funzione a cercare collegamenti sull’identità del morto e sulle moda-lità del fatto, che non gli risultavano chiare. Intanto aveva raggiunto la taverna ed era entrato dall’arco a muro che immetteva nel cortiletto. Si sedette sotto la solita tamerice, praticamente lasciandosi cadere sulla sedia impagliata, e appoggiò la testa sul tavolo, raccogliendola fra le braccia. Avvertì una presenza, ma quando alzò gli occhi ebbe la sorpre-sa di una limonata tiepida che gli stava giusto davanti. Si girò per cerca-re Dìmitra, ma scorse solo i filamenti di metallo della porta interna che dondolavano leggermente, come portati da una brezza delicata. Bevve senza fretta, apprezzando il gusto forte del limone appena zuccherato e si sentì subito meglio, con la bocca che finalmente gli riservava un sa-pore ben diverso da quelli che lo avevano tormentato nell’ultimo quarto d’ora. «Ne vuole ancora?» Cavani si girò di lato e ammirò la bellezza semplice di Dìmitra, fasciata da una tunica verde chiaro. «Si sente meglio?» «Sì, grazie. È stata davvero gentile, ma mi spiega come ha fatto a sape-re che avevo bisogno di una limonata? Ah, già… in questo paese siete tutti sardine in una scatola, no?» «Ha buona memoria. Oppure può darsi che il suo aspetto fosse troppo eloquente, o che io sia una strega e indovini tutto.» «Le streghe sono brutte e fanno cose cattive. Ha mai pensato di essere una fata?» «Mah, come fata non mi ci vedo proprio!» e rise, scoprendo i denti bianchissimi «le porto un’altra limonata?» «Sì, grazie; magari, un po’ più fresca e meno zuccherata.»

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«Allora sta proprio meglio. Vuol dire che sono una strega» e se ne andò con il passo molle di una gatta. Dìmitra aveva appena scostato i coriandoli di metallo della sua soglia che Mavròpoulos arrivò e salutò Cavani con un cenno di sollievo. «La vedo molto meglio. Ha ripreso quasi il suo colorito. Dìmitra ha fat-to miracoli» aggiunse, accennando con lo sguardo al bicchiere vuoto. «Già. Il peggio è passato. Mi sono comportato come un ragazzino. Vor-rà scusarmi, dottore, non so come sia capitato.» «E come vuole che sia capitato? Il caldo, la tensione, il cadavere effet-tivamente molto malridotto. È dura per tutti, creda. Io ormai sono abi-tuato, ma non le nascondo che dopo le prime autopsie mi ero convinto di dover cambiare mestiere. Sapesse quanti svenimenti o malesseri! Poi ci si abitua, quasi senza accorgersene, e anche la morte, vista nel suo aspetto fisicamente più sgradevole, non sconvolge più e diventa un la-voro come un altro.» «Dottore, mi permette una domanda?» Mavròpoulos annuì con un gesto delle braccia. «Perché ha scelto questo lavoro? Voglio dire, lei è medico; perché non ha esercitato la professione normale?» «Vede, dottor Cavani, credo che siano le circostanze a decidere il più delle volte il destino di una persona. Io sono laureato in medicina, come mio padre e mio nonno. Più o meno, una tradizione di famiglia. Ho sempre avuto la passione delle lettere e degli studi classici, ma per noi Mavròpoulos la via era segnata e portava a un camice bianco e non ci fu modo per me di cambiare il corso delle cose. Altri tempi, forse. Io mi sono limitato a operare in un campo che semplicemente mi ha lasciato più tempo libero rispetto all’esercizio della medicina generica. Guada-gno bene, non benissimo, e posso dedicarmi alle mie letture e ai miei affetti. In fondo è stato un compromesso come tanti; non so dire quanto onorevole, ma credo dignitoso. Sono solo riuscito a liberare la strada per una figlia, che si è laureata in lettere antiche ad Atene ed è già un’archeologa di fama. L’altro figlio, un maschio, ha seguito le tracce di Esculapio, ma l’ha fatto per sua scelta ed è contento così. Io mi sono solo sforzato di non imporre nulla e sono felice di questo. Vede, nel mio mestiere godo di una buona reputazione e lo affermo senza suppo-nenza, dato che è quanto riferiscono gli altri, ma quello a cui tengo ve-ramente è di essere stato un padre migliore del medico legale. Almeno, è quanto spero.»

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«Sono convinto che lo sia stato e credo che siano le persone come lei a rendere il mondo migliore.» «Mi ha fatto davvero un grosso complimento, che non credo di merita-re, ma lo accetto molto volentieri, anche perché noi greci amiamo esse-re adulati.» «Non era adulazione, glielo assicuro. Posso offrirle qualcosa?» «Ah, no! Lei è mio ospite e offro io. Che figura mi fa fare con la tradi-zione ellenica? Qui da noi l’ospite è sacro fin da prima di Ulisse. Poi, all’occorrenza, lo ammazzavamo pure, ma solo dopo averlo rifocillato.» «Be’, allora accetto volentieri. Magari evitando, se possibile, la seconda parte dell’ospitalità.» «Per quello stia tranquillo; mi sono sempre imposto di non fare più di un’autopsia al giorno!» Dìmitra arrivò con un vassoio che i due ancora ridevano. Portava anche un rakì e un’acqua per Mavròpoulos. «Dìmitra conosce bene i suoi gusti.» «Quando posso, capito da queste parti, perché mi piace starmene tran-quillo a fare una partita a backgammon con Nikos o il pope.» «E vince?» «Con Nikos me la cavo, anche se è un osso duro; battere il pope, inve-ce, è un’impresa.» «È molto bravo?» «Userei un altro termine, assai meno elegante. Diciamo, allora, che quelle poche volte che sto per vincere si verifica sempre un’improvvisa incombenza: campane da sciogliere, l’ora delle preghiere, il malato da visitare. Del resto, caro Cavani, neanche gli imperatori sono riusciti a battere la chiesa; come può riuscirci uno che non ha neppure la voca-zione medica? Dico bene, Dìmitra?» «Ha sempre voglia di scherzare, dottore. Meno male che lo fa lei, altri-menti in questo paese le bocche servirebbero solo per mangiare e per dire maldicenze» e, così dicendo, sistemava i bicchieri sul tavolo. «Dìmitra ha la rara dote di abbinare la bellezza alla sensibilità. Sono qualità che insieme difficilmente fanno la felicità» fece Mavròpoulos rivolto a Cavani. «Dìmitra, ho detto qualcosa che ti è dispiaciuta? Non era mia intenzio-ne.» «Dottore, se mi facesse la corte, non so se saprei resisterle.»

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«Oh, povera te! Ridotta a considerare un vecchio! Ma sono tutti ciechi in questo paese? Cavani, lei che dice?» «Il dottor Cavani non ha tempo per queste cose» chiuse Dìmitra con uno sguardo tagliente, mentre se ne andava. Seguì un imbarazzato silenzio con i due che bevevano con studiata len-tezza, accarezzando i bicchieri ed evitando di guardarsi. Cavani, spe-cialmente, si sentiva a disagio e tornò alla carica con l’indagine, anche per rompere quel silenzio che lo imbarazzava oltremodo. «Dottore, non ricordo se le ho chiesto quando potrà darmi i riscontri del suo esame.» «Entro i prossimi giorni, come le avevo già detto prima dell’autopsia. E dovrei essere preciso anche sulla prova del d.n.a., in modo che lei possa dissipare i suoi dubbi. Insomma, conto di darle una risposta definitiva sull’identità effettiva di Mario Giacchi.» «O di Carlo Vittori…» «Questo penso di poterlo stabilire con certezza.» «Come crede sia avvenuta la morte?» «Il povero Giacchi, o Vittori, potrebbe essere scivolato dall’alto della scogliera, come pure potrebbe essere stato colpito e quindi gettato in mare.» «E poi l’azione del mare ha fatto il resto.» «Neanche tanto in questo caso, perché in quest’isola le correnti spingo-no verso il porto con una certa velocità e, considerato che il mare era abbastanza calmo il giorno in cui fu ritrovato il cadavere del povero Giacchi, il corpo poté arrivare senza intoppi alla destinazione naturale. In condizioni di normalità, come quelle di quel giorno, un corpo può arrivare al porto in dieci ore al massimo e questo è provato dalle condi-zioni della salma, tutto sommato buone, che rilevai al momento del primo esame. A parte, ovviamente, la frattura cranica mortale.» «Per cui, o è caduto dall’alto o è stato spinto dall’alto; è da escludersi un malore in acqua o difficoltà nel nuoto.» «Credo proprio di sì. Giacchi era un nuotatore esperto e prudente e il sommario esame visivo dei principali organi interni mi porta a esclude-re infarti o deficit di altro tipo.» Per qualche attimo scese il silenzio tra i due. «So a cosa sta pensando, ma quella risposta non potrà averla da me. Non credo che riuscirò a dirle se i colpi ricevuti siano stati opera della scogliera, a seguito di una caduta dall’alto, o se siano stati inferti da

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qualcuno che poi si è sbarazzato del corpo. Quello che certamente saprò dirle è l’identità del morto, che poi è quello per cui ora lei è qua.» «Come sa, sono venuto per trovare conferma di una mia ipotesi legata a un filone d’inchiesta su tangenti e corruzioni, ma se m’imbattessi in un reato collegato non potrei non occuparmene.» I due rimasero silenziosi, l’uno di fronte all’altro, mentre Cavani pic-chiettava il bicchiere con i polpastrelli. «Sa, dottore, mi sta sorgendo un dubbio e vorrei che mi aiutasse a risol-verlo. Lei prima diceva che la salma che esaminò la prima volta era in condizioni accettabili.» «Glielo confermo.» «Più precisamente, in quali condizioni la trovò?» «Non vorrei farle rivivere la scena della cappellina. Posso dirle che il corpo si presentava completamente nudo e che…» «Nudo?» Cavani alzò uno sguardo sorpreso verso l’altro. «Nudo, sì.» «E non le sembra strano?» «Be’, come dicevo prima, l’azione del mare e tutto il resto.» «Questo in poche ore e con mare calmo? Mi sembra improbabile. Al-meno un paio di mutande o qualche brandello di vestito più resistente avrebbe dovuto esserci, non crede?» «In teoria può avere ragione lei, ma allora diventa sempre più debole l’ipotesi dell’omicidio. Perché spogliare un morto?» «Già, ma a questo punto, sarebbe determinante conoscere il luogo da dove il sedicente Giacchi si sarebbe buttato, anche per vedere se ci sia-no indumenti da qualche parte, perché non credo che sia potuto partire nudo per un eventuale suicidio. A meno che non sia partito nudo da ca-sa!» sdrammatizzò Cavani. «Ah be’, no di certo! Però, temo di doverla deludere. Si scordi di poter rintracciare dei vestiti sotto un sasso. Proprio la scorsa settimana l’isola è stata investita per intere giornate da venti fortissimi, capaci di scoper-chiare le tombe.» «Capisco. Per caso, lei non sa se Giacchi avesse qualche punto preferito dove andare al mare?» «Mah, tutti e nessuno. Quest’isola non ha una spiaggia vera e propria. Sono tutte rocce e anfratti e credo che i posti più impervi fossero pro-prio quelli preferiti da Mario, conoscendo la sua voglia di solitudine.»

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«Voglia di solitudine… non si finisce mai di conoscere le persone» commentò Cavani a voce bassa. «Come dice?» «No, niente. Ragionavo tra me e me. Scusi.» «Bene. A questo punto non mi resta che essere quanto più rapido possi-bile per il mio referto, ma prima di lasciarci mi permetta una raccoman-dazione personale.» «Prego, dica pure.» «Quand’eravamo nella cappella del cimitero, è capitato quell’alterco tra lei e il delegato. Non è certo mia intenzione difendere la causa del dele-gato, persona sicuramente sgradevole come poche, ma le consiglierei di provare a riappacificarsi. Spero non mi fraintenda, ma al posto suo mi sforzerei di trovare un punto d’incontro per avere rapporti il più possi-bile normali nel prosieguo della sua permanenza nell’isola. Panos è una persona influente ed è comunque un rappresentante della legge su quest’isola. Le dico con franchezza che potrebbe ostacolare molto il suo lavoro, magari facendo leva su amicizie altolocate in terraferma, di cui so che dispone. Segua il mio consiglio: cerchi un compromesso e non si faccia influenzare dall’antipatia. Forse non sono affari miei, ma temo che quel diverbio possa pregiudicare il corso d’indagini sicuramente molto più importanti di un fatto, di per sé spiacevole, ma, alla fine, di poco conto.» «Sì, forse ha ragione. Contatterò il delegato e cercherò di chiarire tutto. Quanto al resto, non si preoccupi. In questo lavoro mi sono imbattuto in centinaia di malfattori e di onesti e non di rado mi è capitato di consta-tare come i reati commessi siano stati casuali o frutto di un momento d’ira per parecchi colpevoli, forse più disgraziati che altro. Ho smesso presto di farmi guidare dalle simpatie o antipatie, se mai ne sono stato condizionato. Del resto, quasi sempre mi è capitato di dover riflettere più sulle parole dei colpevoli che sui sermoni degli onesti.» «Non possiamo ritornare ai santi, perché c’è assai più da imparare dai peccatori.» «Oscar Wilde, mi pare.» «Noto con piacere che i codici, come a me i libri di medicina, non le hanno intaccato il piacere o il ricordo delle buone letture.» «Sono un divoratore di libri, forse dovrei dire un malato. Spesso mi è capitato di perdere il sonno, anche se avevo giornate di lavoro impor-tanti che mi aspettavano.»

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«Capisco benissimo. Del resto, voi italiani ne avete da leggere. Oddio, anche noi greci non scherziamo, mi pare, ma rimpiango sempre il mio periodo di studi nel suo Paese, le visite alle grandi città d’arte e le tante letture di quegli anni. Adoravo, e adoro, i vostri poeti, non solo classici. Vado pazzo per Montale e Rebora. Che dire, poi, dei vostri narratori? Ho attraversato ogni riga di Pavese; mi sono cibato per anni di Piran-dello…» «Pirandello? Ma certo, Pirandello!» Cavani ebbe un sussulto e si alzò come una furia. «Si sente bene? Sì, ho detto Pirandello. Non avrei dovuto? «Dottore, lei è il mio salvatore! Mi scusi tanto, ma devo proprio andar via di corsa. Ci risentiremo, vero?» «Spero proprio di sì. Le farò avere il referto tramite Nikos, il che è co-me dire per posta urgente. Comunque, conto di ricapitare sull’isola e spero di trovarla.» «Non dubiti! Grazie di tutto!» e già Cavani aveva varcato l’arco della taverna, dirigendosi di corsa verso casa. Lungo il breve rettilineo del moletto travolse il povero Nikos, che gli aveva sbarrato il passo agitando un foglietto. «Dottore, che diavolo le prende? Ho qui la risposta che attendeva. L’ho avuta adesso da Maria.» «Che dice?» «Che può rimanere.» «E chi ti ha detto di leggerla?» «Se me lo ha chiesto lei!» «Ah, va bene. Dammela qua» fece strappandogliela di mano «scusami, ma vado di fretta.» «Eh, lo vedo!» Cavani già aveva ripreso a correre a perdifiato e con la mano destra stringeva il telegramma sgualcito, come non avrebbe fatto neanche il più sgraziato dei tedofori dell’era classica. Aprì il portoncino d’ingresso al termine di una corsa trafelata e si precipitò per le scale, che salì a tre per volta come quand’era ragazzo. L’eco della porta che si richiudeva per un colpo di vento lo colse che già cercava affannosamente quel ma-gico titolo tra i libri in penombra. Con un’esclamazione di gioia accolse Sei personaggi in cerca d’autore tra le mani, che freneticamente sfo-gliarono il volumetto in similpelle marrone fino a trovare, giusto alla

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pagina precedente l’inizio del testo, uno scritto del suo amico di un tempo. “Caro Guido, ora puoi dire di essere entrato nel mio mare. Hai capito come trovare le chiavi per aprire le porte e sciogliere l’enigma. Dovrai cercare, nell’ordine che ti darò, i giusti libri e le giuste pagine. Ti par-lerò con parole alte, ma tu sei in grado di capirle o, almeno, così ti ri-cordo. Non sperare di cercare alla rinfusa tra mille libri per ottenere quello che ti occorre: sarebbe fatica vana. Al massimo, potresti trovare tracce slegate, senza valore e utilità per le tue indagini. Alle parole strette dei codici dovrai sostituire quelle larghe del cuore. Buona fortu-na”. Poco sotto, Cavani si chinò a raccogliere il primo sassolino di un per-corso che non sapeva ancora quanto sarebbe stato lungo: Invano l’aria afferra chi non sa volare. Le sue ossa alla terra, il suo nome al mare. Respirò a fondo, inalando nei polmoni tutta l’aria che poteva. Si voltò verso il finestrone col petto gonfio come una vela tesa centrata dal ven-to. Trattenne il respiro fino a stordirsi. Era entrato nel mare del suo amico. FINE ANTEPRIMA CONTINUA…