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IL FOGLIO quotidiano Redazione e Amministrazione: Via Vittor Pisani 19 – 20124 Milano. Tel 06 589090.1 Sped. in Abb. Postale - DL 353/2003 Conv. L. 46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO DIRETTORE CLAUDIO CERASA ANNO XXIV NUMERO 37 MERCOLEDÌ 13 FEBBRAIO 2019 - e 1,80 y(7HB1C8*QLQKKS( +}!"!?!#!% La Rivoluzione islamica ancora ci tormenta: ricordate l’omicidio del giornalista ebreo Farzami? Fa parte delle 860 penne perseguitate Roma. Poliglotta, coltissimo, spirito europeo (era nato in Svizzera), Simon Farzami era un’istituzione fra i giornalisti iraniani. Faceva lo stringer per il Daily Telegraph, firmava sul Journal de Teheran (chiuso subito dai khomeinisti) ed era il numero due dell’ufficio della France Presse nella capitale iraniana. Farzami si rifiutò di abbandonare il paese nel 1979, quando Khomeini lanciò la sua Rivoluzione islamica. Diceva che a settant’anni non avrebbe retto all’angoscia dell’esilio. Adesso, grazie a un dossier di Reporter senza frontiere (Rsf) presentato a Parigi con la Nobel Shirin Ebadi, proprio men- tre in Iran si celebrano i 40 anni della Repubblica islamica, sappiamo che Farzami è stato giustiziato dopo un processo di sette minuti. Aveva la “colpa” di essere ebreo (“sionista”, in gergo rivoluzionario). Farzami compare fra gli 860 nomi di giornalisti processati, arrestati, imprigionati e in molti casi giustiziati in Iran tra il 1979 e il 2009. Un archivio realizzato da Rsf grazie ad alcuni whistleblower del regime. C’è il nome della giornalista irano- canadese Zahra Kazemi, uccisa in carcere, accanto a quello del blogger Omid Reza Mir Sayafi, che si è tolto la vita dietro le sbarre. C’è il principale scrittore e giornalista dissidente, Ali Akbar Saidi Sirjani, morto sotto tortura, reo di sostenere che gli iraniani avevano una tradizione preislamica di rispet- to dei diritti individuali e di lotta contro la tirannia. C’è Saeed Soltanpour, portato via dal regime durante la propria festa di nozze e il Cui cadavere fu riconsegnato il giorno dopo alla moglie. Era stato accusato di “fare guerra ad Allah”, giudicato e fucilato, tutto in sole dodici ore. C’è Rahman Hatefi, romanziere e giornalista, gli aprirono le vene durante l’interrogatorio e lo lasciarono morire dissanguato. C’è Mehdi Shokri, ucciso con due pugnalate agli occhi perché aveva scritto una poesia che derideva la tesi ufficiale secondo cui l’immagine dell’ayatollah Khomeini era apparsa in cielo. Il segretario generale di Rsf, Christophe Deloire, ha detto che il gruppo ha passato mesi a controllare i casi documentati. Oltre ai giornalisti, Rsf sciorina la cifra di 61.900 prigionieri politici dagli anni Ottanta. Ci sono anche le prove del massa- cro del 1988 in cui quattromila dissidenti furono giustiziati per ordine di Khomeini. L’Iran ha sempre negato che un simile massacro abbia avuto luogo. Tecnicamente, Siamak Pourzand non è stato ucciso. Si è buttato dal sesto piano della sua casa a Teheran. Era il decano del giornalismo iraniano, accusato di “propaganda contro il sistema islamico”, scriveva per i Cahiers du Cinema e venne interrogato e torturato nonostante avesse settant’an - ni. E di penna si continua a morire sotto il “moderato” presidente Rohani. Come Hashem Shabani, poeta iraniano giustiziato con l’ac - cusa di essere “un nemico di Dio”. Aveva scritto prima dell’e- secuzione: “Per sette giorni mi hanno urlato: ‘Stai facendo la guerra ad Allah. Non è abbastanza per morire?’”. 1979-2019, quarant’anni di Rivoluzione islamica che continua a tormen- tare l’occidente, Israele e il popolo iraniano. Pochi giorni fa, gli ayatollah hanno mandato alla forca un altro cittadino accusato di omosessualità. Si calcola che tra quattro e seimila omosessuali sino stati giustiziati dall’Iran in questi ferali quarant’anni di rivoluzione islamica e di appeasement occi- dentale. Scalpo cardinale E’ vicina la riduzione allo stato laicale di McCarrick. Un messaggio chiaro in vista del summit sugli abusi Sbandate americane Le neoelette nel partito dem vorrebbero cacciare Trump ma cominciano a creare problemi Scene da uno splatter L’isolamento diplomatico dell’Italia spiegato con il flop di Conte a Strasburgo Il vuoto attorno al premier durante la sua prima volta al Parlamento europeo e l ’analisi di un discorso che scontenta tutti Sorrisi e un solo applauso Il no alla Tav non è questione di numeri ma di visione del mondo. Essere complici dei professionisti del no significa scommettere sulla decrescita, sul complottismo, sullo sfascio. Appello per ribellarsi contro l’oscurantismo sovranista: si firma qui I costi senza benefici del governo No Tav La Giornata * * * In Italia L’ITALIA CHIEDE ELEZIONI LIBERE IN VENEZUELA. Il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, ha riconosciuto ieri alla Camera la legittimità dell’Assem - blea nazionale venezuelana. Il ministro ha ribadito che “Maduro non è un leader le- gittimo e i cittadini devono scegliere il suo successore in modo democratico”. La riso- luzione sul Venezuela è stata approvata con 266 voti a favore e 205 contrari. Rodrigo Diamanti, uno degli emissari di Guaidó a Roma, ha detto che “le parole di Moavero sono molto importanti”. (editoriale a pagina tre) *** Il M5s attacca Bankitalia. “Vogliamo esprimerci sui nomi dei vertici. Non ab- biamo paura di toccare i poteri forti”, ha scritto il M5s sul Blog delle stelle. *** Guy Verhofstadt attacca Conte. “Per quanto tempo sarai un burattino mosso da Salvini e Di Maio?”, ha domandato a Stra- sburgo il capogruppo dell’Alde al premier italiano. *** Borsa di Milano. Ftse-Mib +1,12 per cen- to. Differenziale Btp-Bund a 270 punti. L’euro chiude in ribasso a 1,13 sul dollaro. S arebbe tutto molto più semplice e forse persino più rassicurante se fosse solo una questione di efficienza, se fosse solo una que- stione di numeri, se fosse solo una questione di convenienza, se fosse solo una questione di semplice risparmio. Sarebbe tutto più sem- plice se dietro al no del Movimento 5 stelle, e del governo, all’Alta velocità Torino-Lione ci fosse solo un tema legato alla differenza tra i benefici e i costi. Sarebbe tutto più semplice se fosse così e se fosse questo il vero tema della commissione voluta dal ministro Toni- nelli sulla Torino-Lione. Ma purtroppo le ra- gioni che spingono i principali azionisti del governo dello sfascio a fabbricare da mesi fa- ke news sull’alta veloci- tà nascono da qualcosa che è molto più grave e più pericolosa di una semplice analisi su co- sti e benefici. Non è una questione di numeri: è una questione di ideo- logia, è una questione di visione, è una que- stione del mondo che si ha in mente per costrui- re il futuro dei nostri fi- gli. Il no del Movimento 5 stelle all’alta velocità, e la scelta della Lega di Matteo Salvini di consi- derare il sì all’alta velo- cità come un valore ne- goziabile, sono un no al- l’interno del quale si condensano buona par- te degli irrisolti proble- mi del nostro paese. C’è la legittimazione della politica del no come collante identitario di una forza politica. C’è la tendenza a trasformare la chiusura in un mo- dello culturale necessa- rio per proteggersi dal- la globalizzazione. C’è la propensione a tra- sformare l’isolamento in una virtù e non in un vizio di una grande economia. C’è la propen- sione a trasformare l’immobilismo nell’unica forma di legalità consentita. C’è la tentazione di fare delle grandi opere potenziali occasio- ni di corruzione e non potenziali occasioni per alimentare la crescita. C’è l’incapacità di considerare l’internazionalizzazione di un paese come una fonte di opportunità e non come una fonte di problemi. C’è la volontà di affermare il principio che la globalizzazione va governata non dando la possibilità a chi è piccolo di diventare grande ma facendo di tutto per far restare piccoli, anche chi avreb- be voglia di diventare più grande. C’è tutto questo, c’è la dottrina della decrescita infeli- ce, c’è l’ignoranza di chi non capisce l’impor - tanza che avrebbe l’entrata in funzione di un’Alta velocità che darebbe la possibilità al- l’Italia di avvicinarsi ancora di più all’Euro - pa, collegando Milano a Parigi in 4 ore e mez- za, a Barcellona in 6 ore, a Londra in 7, con gli ovvi impatti che avrebbe tutto ciò per tutta la filiera turistica. C’è la stoltezza di chi non ca- pisce che le grandi opere sono leve per gene- rare occupazione, per far aumentare la quali- tà dello sviluppo di un paese, per garantire il benessere delle prossime generazioni. C’è la miopia di chi considera il futuro come un luo- go da incubo. C’è l’incompetenza di chi non capisce che per la settima economia più grande del mondo non è secondario ma è vita- le lavorare all’integrazione economica con un continente come l’Europa da cui dipende il 60 per cento del nostro export e del nostro import. C’è tutto questo, naturalmente, ma nell’ideologia infelice della decrescita mor- tale, con molti costi e zero benefici, c’è anche un altro punto che spesso viene dimenticato dai professionisti della paura, che nascondo- no le proprie ideologie tetre dietro numeri apparentemente neutrali. Un punto molto importante spiegato per tempo da un grande docente di economia all’Università di Berke- ley, Enrico Moretti, in un libro magnifico pubblicato anni fa da Mondadori, “La nuova geografia del lavoro”. In quel saggio Moretti spiega perché l’Italia per non diventare un insieme di città e di- stretti industriali in declino lento ma irre- versibile ha la necessi- tà assoluta non di iso- larsi ma di aprirsi an- cora di più all’Europa. Moretti ricorda che nella nuova economia dell’innovazione il successo di un’azienda o di una città non di- pende soltanto dalla qualità dei suoi lavora- tori, ma anche dall’e- cosistema produttivo in cui è inserita e ricor- da un elemento impor- tante che non troverà mai spazio in nessuna analisi su costi e bene- fici di una grande ope- ra. “Parte della spere- quazione di reddito tra i lavoratori altamente specializzati e quelli generici – scrive Mo- retti – è oggi riconduci- bile a differenze nella propensione a muo- versi: se le persone con un grado di istruzione meno elevato avessero maggiore disponibili- tà a trasferirsi in città con occasioni di lavoro più consistenti, l’ineguaglianza di reddito si ridurrebbe notevolmente. Il fatto di essere meno mobili rende i lavoratori meno istruiti più esposti alla disoccupazione”. Essere con- tro le grandi opere significa anche questo. Si- gnifica essere a favore della decrescita. Si- gnifica non fare di tutto per trasformare il fu- turo in un luogo di grande opportunità. Il fu- turo dell’Italia nel mondo, la sua idea di Europa, di sviluppo, di crescita, di lavoro, di industria, di economia dipende anche dal- l’Alta velocità. Chiudersi non vuol dire pro- teggersi, vuol dire isolarsi, vuol dire fuggire dal mondo, vuol dire combattere contro la realtà. E chi sceglie di essere complice degli oscurantisti sceglie semplicemente di essere complice dello sfascio dell’Italia. E’ il mo- mento di un manifesto per la crescita, di un manifesto per la Tav, di un manifesto contro i professionisti del no. Un manifesto contro chi sceglie di barattare il futuro del paese per uno zero virgola nei son- daggi. Per firmarlo, se volete, scrivete qui: [email protected]. Strasburgo. Nella cabina di vetro, a un pas- so dal bar, i parlamentari europei fumano, e scherzano. “Oggi arriva il vostro presidente del Consiglio”, dice Davide Casa, deputato maltese del Ppe. E David Sassoli, del Pd, vice- presidente del Parlamento: “Sei contento?”. E l’altro, ironico: “Se siete contenti voi…”. Giuseppe Conte attraversa il tappeto rosso che lo introduce nel Palazzo del Parlamento di Strasbur- go e nel giro di qualche ora riceve la conferma di quello che in teoria era venuto a impedire, d’accordo con il presidente Sergio Mattarel- la e giocando di sponda con il ministro degli Esteri Enzo Moavero: l’isolamento di- plomatico dell’Italia. La missione non ha funzionato. Manfred Weber, il capogruppo del Ppe, mette subito in chiaro l’umore diffuso: “Se la cresci- ta è bassa in Italia è responsabilità vostra”, dice a Conte. “Non siete nemmeno in grado di mettervi d’accordo sulla Tav, malgrado ci sia- no dei trattati firmati con la Francia. Siete ca- paci di violare gli accordi. Non sembrate nem- meno in condizione di fare le riforme, perché l’unica cosa che si vede è la crescita del debito pubblico”. Conte sapeva di scendere in un campo com- plicato. Ma forse nemmeno lui pensava fosse così complicato. Il presidente del Consiglio arriva a Stra- sburgo intorno alle 15 con un nutrito seguito romano, una decina di persone: assistenti, consiglieri diplomatici e militari. Incontra il capo della Commissione Juncker, che – questa è la versione italiana – gli avrebbe detto, all’in - circa: “Caro Giuseppe confidiamo nel tuo la- voro”. Ma questa, appunto, è la versione italia- na. Poi c’è infatti il film splatter che va in scena dentro l’Aula di Strasburgo. Un martellamen- to che dà la misura della distanza che si sta scavando tra il nostro paese e il resto dell’U- nione. Alle 17 Conte prende la parola e parla fino alle 18 circa. Ma dice pochissimo. Quasi nulla. Nulla sulla politica estera europea, sul collocamento dell’Italia, sull’euro… Il presi- dente dell’Europarlamento Antonio Tajani, lunedì, diceva: “Sarà interessante ascoltarlo visto che la posizione dell’Italia non è per così dire chiarissima su molti argomenti. Persino sul Venezuela di Maduro”. Se c’erano dubbi, se l’Italia dava l’impressione di balbettare, ec- co che l’impressione, dopo Conte, si è persino rafforzata. Così, nella grande Aula di Stra- sburgo, qualcuno sbadiglia. Dopo circa qua- ranta minuti, alla decima volta che Conte pro- nuncia le parole “popolo europeo” senza che però si capisca cosa intenda concretamente su questioni che non sono evanescenze retori- che, ecco che Nigel Farage, il leader dell’U- kip, il partito eurofobico britannico, si alza e si allontana con la sua cravatta rosa fosfore- scente. E’ come un segnale di tana libera tutti. Conte non è un sovranista ma non è nemmeno europeista. Lascia intendere concetti che so- no l’opposto di quello che dicono Di Maio e Salvini, ma non lo dice mai davvero. Rimane perennemente sospeso tra l’indiretto e il su- perficiale. Così in Aula c’è persino chi si ad- dormenta. Mario Borghezio, parlamentare della Lega, seduto tra gli unici che applaudo- no (una sola volta), si scava con meticolosità le narici. Sassoli ride, si alza in piedi, cerca conforto nei colleghi del Pse. Goffredo Betti- ni, che fu la mente del veltronismo, raccoglie a tulipano le cinque dita della mano destra e altalena il pugno in funzione digito-interro- gativa. Simona Bonafè, che gli sta accanto, al- larga le braccia. Distrutta. Intanto, Guy Ve- rhofstadt, capo dei liberali olandesi, prende la parola, in italiano: “Amo l’Italia e mi fa ma- le vedere la sua degenerazione politica. E’ il fanalino di coda dell’Unione. I veri capi del governo sono Di Maio e Salvini, capaci di po- sizioni spesso antieuropee e talvolta odiose nei confronti di altri paesi dell’Unione. E’ l’I- talia che ha impedito all’Unione di prendere posizione sul Venezuela di Maduro. E questo è stato possibile perché il governo italiano agisce sotto la pressione di Putin e del Cre- mlino”. Boom. Per Conte questa visita è stata un disastro. Il contrario dell’operazione di- plomatica che forse era stato chiamato a com- piere. (Salvatore Merlo) Roma. E’ imminente la riduzione allo stato laicale del fu cardinale Theodore McCarrick, l’ex potente arcivescovo di Wa- shington al quale il Papa aveva tolto la porpora la scorsa estate confinandolo in un luogo appartato e vietandogli di cele- brare in pubblico. Da stabilire il giorno dell’annuncio, ma la decisione è presa. Lo scorso ottobre il Vaticano, anche in rispo- sta alle bordate dell’ex nunzio apostolico negli Stati Uniti, mons. Carlo Maria Viga- – che accusava Francesco di aver sem- pre saputo della condotta “vivace” di Mc- Carrick, comprese le notti romantiche con i seminaristi in villini fronte oceano – fa - ceva sapere che sul conto del presule sta- va indagando. E pazienza se dall’esame degli archivi e delle testimonianze fosse emerso qualche scheletro ben nascosto nell’armadio: “La Santa Sede è consapevo- le che dall’esame dei fatti e delle circo- stanze potrebbero emergere delle scelte che non sarebbero coerenti con l’approc - cio odierno a tali questioni. Tuttavia, come ha detto Papa Francesco, seguiremo la strada della verità, ovunque possa portar- ci. Sia gli abusi sia la loro copertura non possono essere più tollerati e un diverso trattamento per i vescovi che li hanno commessi o li hanno coperti rappresenta infatti una forma di clericalismo mai più accettabile”. Un doppio messaggio A meno di dieci giorni dal vertice vati- cano convocato dal Pontefice per stabilire linee d’azione comuni per contrastare la piaga degli abusi sessuali da parte di ec- clesiastici, il vegliardo McCarrick rappre- senta lo scalpo perfetto da mostrare intra ed extra moenia. Al mondo si fa sapere che comportamenti come quelli del già ab- bondantemente riverito arcivescovo non saranno più tollerati, alla chiesa si dà una sorta di allerta: questo capiterà a chi infi- lerà la sporcizia sotto il tappeto. Pensare però che la riduzione allo stato laicale del quasi novantenne emerito di Washington risolva la questione sarebbe sbagliato. Argomenti da discutere, nel mini Sinodo di tre giorni (dal 21 al 24 febbraio prossi- mi), ce ne sono parecchi, e sono tutti deli- cati, tant’è che per gestire l’Aula il Papa ha richiamato dalla pensione padre Fede- rico Lombardi, garanzia assoluta di so- brietà, serietà e umiltà: di sicuro non darà spazio (almeno all’interno della sala) alla spettacolarizzazione di un evento che co- munque già ha su di sé aspettative altissi- me, quasi fosse una gigantesca opera di lustracija pubblica della chiesa decisa a chiedere perdono per i propri peccati. Il giorno stesso dell’apertura dell’assem - blea, poi, uscirà in contemporanea in ven- ti paesi Sodoma, libro di Frédéric Martel che si annuncia come “un’inchiesta scon- volgente sulla comunità gay più numerosa e potente al mondo: il Vaticano”. Roba forte, visto che trattasi – si legge nei bol- lettini di lancio – di un volume che “aiuta a capire la guerra contro Papa France- sco”. Che non sarebbe più prerogativa esclusiva dei conservatori dediti alla messa in latino ma anche degli omoses- suali che odierebbero Bergoglio. Che pe- rò era stato premiato come “uomo dell’an - no” nel 2013 dalla rivista lgbt The Advoca- te proprio per la sua vicinanza a quella comunità – d’altonde il “Chi sono io per giudicare un gay?” aveva fatto il giro del mondo, che s’era però dimenticato di cita- re il resto della frase pronunciata da Francesco, che confermava quanto scritto nel catechismo della chiesa cattolica. As- sicurate al raduno dei presidenti delle conferenze episcopali nazionali, come da prassi, anche le derive pettegole e pruri- ginose, con nomi di “potenti nemici del Papa” che sarebbero membri attivi di questa lobby. (Matteo Matzuzzi) New York. Cominciano a vedersi i limiti della nuova ondata democratica uscita dalla vittoria alle elezioni di metà manda- to a novembre. Lo scopo dichiarato delle nuove leve è terminare la presidenza di Donald Trump, ma per ora rischiano di fornire ai repubblicani nuove armi e nuo- vi argomenti che saranno usati contro di loro durante la campagna elettorale. Lu- nedì lo staff di AOC, Alexandria Ocasio- Cortez, si è scusato e ha detto che il testo del Green New Deal che circola da giove- dì scorso non è quello definitivo, è soltan- to una bozza che non va presa come fosse scritta nella pietra. Il Green New Deal è un pacchetto di misure per combattere il climate change nei prossimi dieci anni sponsorizzato con molta enfasi da AOC e presentato come l’unica soluzione al pro- blema del surriscaldamento del pianeta. Non è vincolante, ma è subito diventato una trappola per i candidati democratici alle presidenziali 2020 a causa del cari- sma esercitato da AOC sui potenziali elet- tori. “La lotta contro il surriscaldamento del pianeta è il movimento per i diritti civili di oggi”, aveva detto la neoletta du- rante la presentazione e si riferiva alla lunga campagna per annullare le diffe- renze tra bianchi e neri in America. Se questa è la premessa, si capisce perché molti democratici sono a disagio. Se non appoggi il pacchetto rischi di passare per retrogrado e conservatore e anche com- plice di un disastro – che fai, resti fuori dalla nuova lotta per i diritti civili? – ma se lo appoggi di fatto rischi il suicidio po- litico perché ti stai di fatto legando a un programma vastissimo che include molti punti ingenui o drastici, così slegati dalla realtà da assomigliare alle promesse di Trump. Il Green New Deal contiene un po’ di tutto – anche tasse ai più ricchi e una riforma della sanità che così dovreb- be diventare pagata dal governo – e molte misure che potrebbero scatenare lo scet- ticismo o la rabbia degli elettori. Per esempio contro i lavoratori nei settori ri- tenuti inquinanti. Insomma, c’è il perico- lo che il Deal sia una replica della mano- vra tentata dal governo in Francia, che ha tassato il carburante in nome dell’ecolo - gia e si è trovato con i gilet gialli nelle strade. (segue a pagina quattro) DI DANIELE RAINERI A un intellettuale di valore co- me Ernesto Galli della Loggia, che aveva preso la bambola di votare i babbei a cinque stelle, avevo fatto un’errata apertura di credito, avevo pensato, se non che avrebbe fre- quentato una scuola politica, che avrebbe letto almeno un libro di Angelo Panebian- co. E niente. Questo numero è stato chiuso in redazione alle 20.30 GIUSEPPE CONTE Nel Mondo E’ ARRIVATA LA SENTENZA SU EL CHAPO GUZMÁN: “COLPEVOLE”. La giu- ria della Corte federale di Brooklyn ha emesso la sentenza all’unanimità. Rimarrà in un carcere di massima sicurezza fino a quando non verrà annunciata la pena. (articolo a pagina due) *** I leader catalani a processo. Gli imputati sono 12, tra cui gran parte del governo loca- le che nel 2017 organizzò il referendum in- dipendentista. Gli avvocati della difesa hanno parlato di processo “politico” e ne hanno chiesto l’annullamento. *** Mark Kelly si è candidato con il Partito democratico al Congresso per l’Arizona. L’ex astronauta è sposato con Gabrielle Giffords, ex parlamentare democratica. Trump ha detto di “non essere contento” dell’accordo sul confine negoziato dai lea- der del Congresso per evitare lo shutdown. (editoriale a pagina tre) *** E’stato chiuso il “Selmayr gate”: la nomi- na di Martin Selmayr a segretario generale della Commissione non ha rispettato le leg- gi europee. DI GIULIO MEOTTI Modello Chabarro Su Bankitalia Di Maio ricorda quel colombiano che voleva abbattere il portone di Palazzo Koch a calci e pugni Roma. Il piano del M5s nello scontro con la Banca d’Italia sembra ideato da Torres So- ban Sebastian Chabarro. Non si tratta di uno stratega o di un guerrigliero sudamericano, ma di un giovane colombiano che lo scorso anno ha tentato il colpo del secolo: svaligiare l’oro custodito nel caveau di Palazzo Koch. In questo modo. Nella notte di Pasqua, Chabar- ro scavalca il cancello di Via Nazionale, salta di sotto e si dirige a passo svelto verso il porto- ne, che tenta di abbattere a calci e pugni fin- ché non viene portato via dai carabinieri. Il livello di elaborazione strategica nell’ag - gressione alla Banca d’Italia è lo stesso, ma le conseguenze per il paese rischiano di essere ben più serie. (Capone segue a pagina quattro) Toninelli in analisi Ridurre il traffico sulle autostrade non conviene. Così il dossier di Ponti smentisce il programma green del M5s Roma. “E’ paradossale, ma è proprio co- ”, conferma Francesco Ramella, uno dei cinque tecnici che hanno lavorato all’ana - lisi costi-benefici voluta dal ministro Toni- nelli. E il paradosso sta qui: nel fatto, cioè, che le conclusioni del dossier sulla Tav cu- rato dal professor Marco Ponti portano ad affermare che è sconveniente, per la collet- tività, qualsiasi progetto infrastrutturale che punta a trasferire il traffico dalla gom- ma alla rotaia. Assurdo in senso assoluto. Ma ancora di più se a sventolare questo do- cumento sono gli esponenti di un partito che, da sempre, fa dell’ecologismo e della transizione alla green economy le sue ban- diere preferite. (Valentini segue a pagina quattro) Putinismo e dottrina Il consigliere Surkov pubblica un manifesto sull’algoritmo russo alternativo a quello occidentale Roma. Nel 2006 Vladislav Surkov aveva fat- to parlare un po’ di sé. Aveva teorizzato il con- cetto di una “democrazia sovrana”, una for- ma di governo diversa, distante da quelle che lui definisce le “illusioni occidentali” di po- ter vivere in uno stato democratico. Per lui, autoproclamatosi ideologo del Cremlino, tendenza molto diffusa in Russia, la democra- zia è finzione e in questo starebbe la superio- rità della Russia che non ha mai creduto nel- la finzione e Vladimir Putin è un presidente che ha reso felice la nazione senza la pretesa di incastrare il sistema politico russo in una forma democratica. Nel 2006 Viktor Orbán non era ancora il politico che conosciamo ora, era più liberale e credeva nell’Europa, non era ancora arrivato a teorizzare la sua “democrazia illiberale”, concetto astratto e incompatibile che ha attratto molti naziona- listi, sovranisti e militanti delle destre estre- me. La “democrazia illiberale” è sorella del- la “democrazia sovrana”, d’altronde l’Unghe - ria guarda più a Mosca che a Bruxelles, lo ha confermato Orbán lo scorso anno in un di- scorso per commemorare l’anniversario del- la rivoluzione ungherese del 1957 quando con una similitudine forzata, stridente e astorica ha detto che Budapest, che ieri combatteva contro i carri armati sovietici, oggi combatte contro l’Ue. Nel lungo articolo che Surkov ha pubblicato sul quotidiano Nezavisimaya Ga- zeta – che pubblichiamo nell’inserto II – volto a giustificare e a elevare il putinismo, c’è un fatto: la constatazione che dall’Ungheria alla Repubblica ceca, dall’Italia agli ambienti frontisti della Francia, quello che Surkov chiama “l’algoritmo politico russo” è diven- tato davvero attraente per l’occidente rima- sto “senza profeti”. (Flammini segue nell’inserto II) Garante, insulti, galera L e patrie galere erano sovente posti non commendevoli an- che prima del televoto, ma la de- riva del parlare perché si ha la bocca, incattivita dal clima generale, cioè usare la bocca solo per mordere e sputare, è riuscita a peggiorare anche il clima delle patrie galere. Succede che esiste un Garante nazionale per i diritti dei detenuti, istituito dopo che la sen- tenza europea Torreggiani aveva posto sotto gli occhi di tutti le condizioni di molti, non tutti, gli istituti carcerari ita- liani. Bene, anzi male, succede che il Garante dei detenuti, professor Mauro Palma, tra l’altro uno dei fondatori del- l’Associazione Antigone, abbia pubbli- cato uno scritto in cui dà conto, in modo documentato e critico, delle condizioni dei detenuti in regime di 41 bis. E che per averlo fatto, cioè per aver esercita- to le sue funzioni, sia stato coperto da insulti, e da minacce, da parte di opera- tori del carcere, anche attraverso gli or- gani informativi ufficiali di un sindaca- to della polizia penitenziaria. Frasi co- sì: “Ma vaffanculo delinquente legaliz- zato”, “Lui dovrebbe andare al 41 ter”, “Garante di delinquenti”, “Sei un fan- go”, “Anche tu che li difendi dovresti essere chiuso”, “Prendete questo ga- rante e mettetelo una settimana in mez- zo a queste persone”, “Vai a lavorare come si deve”, “Pancio Villa per i de- linquenti”. E a Pancio (sic) Villa dei de- linquenti ci fermiamo, ma si potrebbe andare avanti. E forse non sarà colpa del televoto. Ma di una politica che con- sidera il carcere solo come una discari- ca senza uscita, senz’altro sì. CONTRO MASTRO CILIEGIA - DI MAURIZIO CRIPPA

IL FOGL IO - University of Arizona...Ali Akbar Saidi Sirjani, morto sotto tortura, reo di sostenere che gli iraniani avevano una tradizione preislamica di rispet-to dei diritti individuali

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    DIRETTORE CLAUDIO CERASAANNO XXIV NUMERO 37 MERCOLEDÌ 13 FEBBRAIO 2019 - e 1,80

    y(7HB1C

    8*QLQKKS

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    La Rivoluzione islamica ancora ci tormenta: ricordate l’omicidio del giornalista ebreo Farzami? Fa parte delle 860 penne perseguitateRoma. Poliglotta, coltissimo, spirito europeo (era nato in

    Svizzera), Simon Farzami era un’istituzione fra i giornalistiiraniani. Faceva lo stringer per il Daily Telegraph, firmavasul Journal de Teheran (chiuso subito dai khomeinisti) ed era

    il numero due dell’ufficio della France Presse nella capitaleiraniana. Farzami si rifiutò di abbandonare il paese nel 1979,quando Khomeini lanciò la sua Rivoluzione islamica. Dicevache a settant’anni non avrebbe retto all’angoscia dell’esilio.Adesso, grazie a un dossier di Reporter senza frontiere (Rsf)presentato a Parigi con la Nobel Shirin Ebadi, proprio men-tre in Iran si celebrano i 40 anni della Repubblica islamica,sappiamo che Farzami è stato giustiziato dopo un processo disette minuti. Aveva la “colpa” di essere ebreo (“sionista”, in

    gergo rivoluzionario).Farzami compare fra gli 860 nomi di giornalisti processati,

    arrestati, imprigionati e in molti casi giustiziati in Iran tra il1979 e il 2009. Un archivio realizzato da Rsf grazie ad alcuniwhistleblower del regime. C’è il nome della giornalista irano-canadese Zahra Kazemi, uccisa in carcere, accanto a quellodel blogger Omid Reza Mir Sayafi, che si è tolto la vita dietrole sbarre. C’è il principale scrittore e giornalista dissidente,Ali Akbar Saidi Sirjani, morto sotto tortura, reo di sostenereche gli iraniani avevano una tradizione preislamica di rispet-to dei diritti individuali e di lotta contro la tirannia. C’èSaeed Soltanpour, portato via dal regime durante la propriafesta di nozze e il Cui cadavere fu riconsegnato il giorno dopoalla moglie. Era stato accusato di “fare guerra ad Allah”,giudicato e fucilato, tutto in sole dodici ore. C’è Rahman

    Hatefi, romanziere e giornalista, gli aprirono le vene durantel’interrogatorio e lo lasciarono morire dissanguato. C’è MehdiShokri, ucciso con due pugnalate agli occhi perché avevascritto una poesia che derideva la tesi ufficiale secondo cuil’immagine dell’ayatollah Khomeini era apparsa in cielo. Ilsegretario generale di Rsf, Christophe Deloire, ha detto che ilgruppo ha passato mesi a controllare i casi documentati.Oltre ai giornalisti, Rsf sciorina la cifra di 61.900 prigionieripolitici dagli anni Ottanta. Ci sono anche le prove del massa-cro del 1988 in cui quattromila dissidenti furono giustiziatiper ordine di Khomeini. L’Iran ha sempre negato che unsimile massacro abbia avuto luogo.

    Tecnicamente, Siamak Pourzand non è stato ucciso. Si èbuttato dal sesto piano della sua casa a Teheran. Era ildecano del giornalismo iraniano, accusato di “propaganda

    contro il sistema islamico”, scriveva per i Cahiers du Cinemae venne interrogato e torturato nonostante avesse settant’an -ni. E di penna si continua a morire sotto il “moderato”presidente Rohani.

    Come Hashem Shabani, poeta iraniano giustiziato con l’ac -cusa di essere “un nemico di Dio”. Aveva scritto prima dell’e-secuzione: “Per sette giorni mi hanno urlato: ‘Stai facendo laguerra ad Allah. Non è abbastanza per morire?’”. 1979-2019,quarant’anni di Rivoluzione islamica che continua a tormen-tare l’occidente, Israele e il popolo iraniano. Pochi giorni fa,gli ayatollah hanno mandato alla forca un altro cittadinoaccusato di omosessualità. Si calcola che tra quattro e seimilaomosessuali sino stati giustiziati dall’Iran in questi feraliquarant’anni di rivoluzione islamica e di appeasement occi-dentale.

    Scalpo cardinaleE’vicina la riduzione allo stato

    laicale di McCarrick. Un messaggiochiaro in vista del summit sugli abusi

    Sbandate americaneLe neoelette nel partito dem

    vorrebbero cacciare Trump macominciano a creare problemi

    Scene da uno splatter

    L’isolamento diplomaticodell’Italia spiegato con ilflop di Conte a StrasburgoIl vuoto attorno al premier durante la sua

    prima volta al Parlamento europeo el’analisi di un discorso che scontenta tutti

    Sorrisi e un solo applauso

    Il no alla Tav non è questione di numeri ma di visione del mondo. Essere complicidei professionisti del no significa scommettere sulla decrescita, sul complottismo,sullo sfascio. Appello per ribellarsi contro l’oscurantismo sovranista: si firma qui

    I costi senza benefici del governo No Tav La Giornata* * *

    In Italia

    L’ITALIACHIEDE ELEZIONI LIBEREIN VENEZUELA. Il ministro degli Esteri,Enzo Moavero Milanesi, ha riconosciutoieri alla Camera la legittimità dell’Assem -blea nazionale venezuelana. Il ministro haribadito che “Maduro non è un leader le-gittimo e i cittadini devono scegliere il suosuccessore in modo democratico”. La riso-luzione sul Venezuela è stata approvatacon 266 voti a favore e 205 contrari.

    Rodrigo Diamanti, uno degli emissaridi Guaidó a Roma, ha detto che “le paroledi Moavero sono molto importanti”.

    (editoriale a pagina tre)* * *

    Il M5s attacca Bankitalia. “Vogliamoesprimerci sui nomi dei vertici. Non ab-biamo paura di toccare i poteri forti”, hascritto il M5s sul Blog delle stelle.

    * * *Guy Verhofstadt attacca Conte. “Per

    quanto tempo sarai un burattino mosso daSalvini e Di Maio?”, ha domandato a Stra-sburgo il capogruppo dell’Alde al premieritaliano.

    * * *Borsa di Milano. Ftse-Mib +1,12 per cen-

    to. Differenziale Btp-Bund a 270 punti.L’euro chiude in ribasso a 1,13 sul dollaro.

    Sarebbe tutto molto più semplice e forsepersino più rassicurante se fosse solo unaquestione di efficienza, se fosse solo una que-stione di numeri, se fosse solo una questionedi convenienza, se fosse solo una questione disemplice risparmio. Sarebbe tutto più sem-plice se dietro al no del Movimento 5 stelle, edel governo, all’Alta velocità Torino-Lione cifosse solo un tema legato alla differenza tra ibenefici e i costi. Sarebbe tutto più semplicese fosse così e se fosse questo il vero temadella commissione voluta dal ministro Toni-nelli sulla Torino-Lione. Ma purtroppo le ra-gioni che spingono i principali azionisti delgoverno dello sfascio a fabbricare da mesi fa-ke news sull’alta veloci-tà nascono da qualcosache è molto più grave epiù pericolosa di unasemplice analisi su co-sti e benefici. Non è unaquestione di numeri: èuna questione di ideo-logia, è una questionedi visione, è una que-stione del mondo che siha in mente per costrui-re il futuro dei nostri fi-gli. Il no del Movimento5 stelle all’alta velocità,e la scelta della Lega diMatteo Salvini di consi-derare il sì all’alta velo-cità come un valore ne-goziabile, sono un no al-l’interno del quale sicondensano buona par-te degli irrisolti proble-mi del nostro paese. C’èla legittimazione dellapolitica del no comecollante identitario diuna forza politica. C’è latendenza a trasformarela chiusura in un mo-dello culturale necessa-rio per proteggersi dal-la globalizzazione. C’èla propensione a tra-sformare l’isolamentoin una virtù e non in unvizio di una grande economia. C’è la propen-sione a trasformare l’immobilismo nell’unicaforma di legalità consentita. C’è la tentazionedi fare delle grandi opere potenziali occasio-ni di corruzione e non potenziali occasioniper alimentare la crescita. C’è l’incapacità diconsiderare l’internazionalizzazione di unpaese come una fonte di opportunità e noncome una fonte di problemi. C’è la volontà diaffermare il principio che la globalizzazioneva governata non dando la possibilità a chi èpiccolo di diventare grande ma facendo ditutto per far restare piccoli, anche chi avreb-be voglia di diventare più grande. C’è tuttoquesto, c’è la dottrina della decrescita infeli-ce, c’è l’ignoranza di chi non capisce l’impor -tanza che avrebbe l’entrata in funzione diun’Alta velocità che darebbe la possibilità al-l’Italia di avvicinarsi ancora di più all’Euro -pa, collegando Milano a Parigi in 4 ore e mez-za, a Barcellona in 6 ore, a Londra in 7, con gliovvi impatti che avrebbe tutto ciò per tutta lafiliera turistica. C’è la stoltezza di chi non ca-pisce che le grandi opere sono leve per gene-rare occupazione, per far aumentare la quali-tà dello sviluppo di un paese, per garantire ilbenessere delle prossime generazioni. C’è lamiopia di chi considera il futuro come un luo-

    go da incubo. C’è l’incompetenza di chi noncapisce che per la settima economia piùgrande del mondo non è secondario ma è vita-le lavorare all’integrazione economica conun continente come l’Europa da cui dipendeil 60 per cento del nostro export e del nostroimport. C’è tutto questo, naturalmente, manell’ideologia infelice della decrescita mor-tale, con molti costi e zero benefici, c’è ancheun altro punto che spesso viene dimenticatodai professionisti della paura, che nascondo-no le proprie ideologie tetre dietro numeriapparentemente neutrali. Un punto moltoimportante spiegato per tempo da un grandedocente di economia all’Università di Berke-

    ley, Enrico Moretti, inun libro magnificopubblicato anni fa daMondadori, “La nuovageografia del lavoro”.In quel saggio Morettispiega perché l’Italiaper non diventare uninsieme di città e di-stretti industriali indeclino lento ma irre-versibile ha la necessi-tà assoluta non di iso-larsi ma di aprirsi an-cora di più all’Europa.Moretti ricorda chenella nuova economiadell’innovazione ilsuccesso di un’aziendao di una città non di-pende soltanto dallaqualità dei suoi lavora-tori, ma anche dall’e-cosistema produttivoin cui è inserita e ricor-da un elemento impor-tante che non troveràmai spazio in nessunaanalisi su costi e bene-fici di una grande ope-ra. “Parte della spere-quazione di reddito trai lavoratori altamentespecializzati e quelligenerici – scrive Mo-retti – è oggi riconduci-

    bile a differenze nella propensione a muo-versi: se le persone con un grado di istruzionemeno elevato avessero maggiore disponibili-tà a trasferirsi in città con occasioni di lavoropiù consistenti, l’ineguaglianza di reddito siridurrebbe notevolmente. Il fatto di esseremeno mobili rende i lavoratori meno istruitipiù esposti alla disoccupazione”. Essere con-tro le grandi opere significa anche questo. Si-gnifica essere a favore della decrescita. Si-gnifica non fare di tutto per trasformare il fu-turo in un luogo di grande opportunità. Il fu-turo dell’Italia nel mondo, la sua idea diEuropa, di sviluppo, di crescita, di lavoro, diindustria, di economia dipende anche dal-l’Alta velocità. Chiudersi non vuol dire pro-teggersi, vuol dire isolarsi, vuol dire fuggiredal mondo, vuol dire combattere contro larealtà. E chi sceglie di essere complice deglioscurantisti sceglie semplicemente di esserecomplice dello sfascio dell’Italia. E’ il mo-mento di un manifesto per la crescita, di unmanifesto per la Tav, di un manifesto contro iprofessionisti del no. Un manifestocontro chi sceglie di barattare il futurodel paese per uno zero virgola nei son-daggi. Per firmarlo, se volete, scrivetequi: [email protected].

    Strasburgo. Nella cabina di vetro, a un pas-so dal bar, i parlamentari europei fumano, escherzano. “Oggi arriva il vostro presidentedel Consiglio”, dice Davide Casa, deputatomaltese del Ppe. E David Sassoli, del Pd, vice-presidente del Parlamento: “Sei contento?”.E l’altro, ironico: “Se siete contenti voi…”.Giuseppe Conte attraversa il tappeto rossoche lo introduce nel Palazzodel Parlamento di Strasbur-go e nel giro di qualche orariceve la conferma di quelloche in teoria era venuto aimpedire, d’accordo con ilpresidente Sergio Mattarel-la e giocando di sponda conil ministro degli Esteri EnzoMoavero: l’isolamento di-plomatico dell’Italia. Lamissione non ha funzionato.Manfred Weber, il capogruppo del Ppe, mettesubito in chiaro l’umore diffuso: “Se la cresci-ta è bassa in Italia è responsabilità vostra”,dice a Conte. “Non siete nemmeno in grado dimettervi d’accordo sulla Tav, malgrado ci sia-no dei trattati firmati con la Francia. Siete ca-paci di violare gli accordi. Non sembrate nem-meno in condizione di fare le riforme, perchél’unica cosa che si vede è la crescita del debitopubblico”.

    Conte sapeva di scendere in un campo com-plicato. Ma forse nemmeno lui pensava fossecosì complicato.

    Il presidente del Consiglio arriva a Stra-sburgo intorno alle 15 con un nutrito seguitoromano, una decina di persone: assistenti,consiglieri diplomatici e militari. Incontra ilcapo della Commissione Juncker, che –questaè la versione italiana –gli avrebbe detto, all’in -circa: “Caro Giuseppe confidiamo nel tuo la-voro”. Ma questa, appunto, è la versione italia-na. Poi c’è infatti il film splatter che va in scenadentro l’Aula di Strasburgo. Un martellamen-to che dà la misura della distanza che si stascavando tra il nostro paese e il resto dell’U-nione. Alle 17 Conte prende la parola e parlafino alle 18 circa. Ma dice pochissimo. Quasinulla. Nulla sulla politica estera europea, sulcollocamento dell’Italia, sull’euro… Il presi-dente dell’Europarlamento Antonio Tajani,lunedì, diceva: “Sarà interessante ascoltarlovisto che la posizione dell’Italia non è per cosìdire chiarissima su molti argomenti. Persinosul Venezuela di Maduro”. Se c’erano dubbi,se l’Italia dava l’impressione di balbettare, ec-co che l’impressione, dopo Conte, si è persinorafforzata. Così, nella grande Aula di Stra-sburgo, qualcuno sbadiglia. Dopo circa qua-ranta minuti, alla decima volta che Conte pro-nuncia le parole “popolo europeo” senza cheperò si capisca cosa intenda concretamente suquestioni che non sono evanescenze retori-che, ecco che Nigel Farage, il leader dell’U-kip, il partito eurofobico britannico, si alza esi allontana con la sua cravatta rosa fosfore-scente. E’ come un segnale di tana libera tutti.Conte non è un sovranista ma non è nemmenoeuropeista. Lascia intendere concetti che so-no l’opposto di quello che dicono Di Maio eSalvini, ma non lo dice mai davvero. Rimaneperennemente sospeso tra l’indiretto e il su-perficiale. Così in Aula c’è persino chi si ad-dormenta. Mario Borghezio, parlamentaredella Lega, seduto tra gli unici che applaudo-no (una sola volta), si scava con meticolositàle narici. Sassoli ride, si alza in piedi, cercaconforto nei colleghi del Pse. Goffredo Betti-ni, che fu la mente del veltronismo, raccogliea tulipano le cinque dita della mano destra ealtalena il pugno in funzione digito-interro-gativa. Simona Bonafè, che gli sta accanto, al-larga le braccia. Distrutta. Intanto, Guy Ve-rhofstadt, capo dei liberali olandesi, prendela parola, in italiano: “Amo l’Italia e mi fa ma-le vedere la sua degenerazione politica. E’ ilfanalino di coda dell’Unione. I veri capi delgoverno sono Di Maio e Salvini, capaci di po-sizioni spesso antieuropee e talvolta odiosenei confronti di altri paesi dell’Unione. E’ l’I-talia che ha impedito all’Unione di prendereposizione sul Venezuela di Maduro. E questoè stato possibile perché il governo italianoagisce sotto la pressione di Putin e del Cre-mlino”. Boom. Per Conte questa visita è stataun disastro. Il contrario dell’operazione di-plomatica che forse era stato chiamato a com-piere. (Salvatore Merlo)

    Roma. E’ imminente la riduzione allostato laicale del fu cardinale TheodoreMcCarrick, l’ex potente arcivescovo di Wa-shington al quale il Papa aveva tolto laporpora la scorsa estate confinandolo inun luogo appartato e vietandogli di cele-brare in pubblico. Da stabilire il giornodell’annuncio, ma la decisione è presa. Loscorso ottobre il Vaticano, anche in rispo-sta alle bordate dell’ex nunzio apostoliconegli Stati Uniti, mons. Carlo Maria Viga-nò – che accusava Francesco di aver sem-pre saputo della condotta “vivace” di Mc-Carrick, comprese le notti romantiche coni seminaristi in villini fronte oceano – fa -ceva sapere che sul conto del presule sta-va indagando. E pazienza se dall’esamedegli archivi e delle testimonianze fosseemerso qualche scheletro ben nascostonell’armadio: “La Santa Sede è consapevo-le che dall’esame dei fatti e delle circo-stanze potrebbero emergere delle scelteche non sarebbero coerenti con l’approc -cio odierno a tali questioni. Tuttavia, comeha detto Papa Francesco, seguiremo lastrada della verità, ovunque possa portar-ci. Sia gli abusi sia la loro copertura nonpossono essere più tollerati e un diversotrattamento per i vescovi che li hannocommessi o li hanno coperti rappresentainfatti una forma di clericalismo mai piùaccettabile”.

    Un doppio messaggioA meno di dieci giorni dal vertice vati-

    cano convocato dal Pontefice per stabilirelinee d’azione comuni per contrastare lapiaga degli abusi sessuali da parte di ec-clesiastici, il vegliardo McCarrick rappre-senta lo scalpo perfetto da mostrare intraed extra moenia. Al mondo si fa sapere checomportamenti come quelli del già ab-bondantemente riverito arcivescovo nonsaranno più tollerati, alla chiesa si dà unasorta di allerta: questo capiterà a chi infi-lerà la sporcizia sotto il tappeto. Pensareperò che la riduzione allo stato laicale delquasi novantenne emerito di Washingtonrisolva la questione sarebbe sbagliato.Argomenti da discutere, nel mini Sinododi tre giorni (dal 21 al 24 febbraio prossi-mi), ce ne sono parecchi, e sono tutti deli-cati, tant’è che per gestire l’Aula il Papaha richiamato dalla pensione padre Fede-rico Lombardi, garanzia assoluta di so-brietà, serietà e umiltà: di sicuro non daràspazio (almeno all’interno della sala) allaspettacolarizzazione di un evento che co-munque già ha su di sé aspettative altissi-me, quasi fosse una gigantesca opera dilustracija pubblica della chiesa decisa achiedere perdono per i propri peccati. Ilgiorno stesso dell’apertura dell’assem -blea, poi, uscirà in contemporanea in ven-ti paesi Sodoma, libro di Frédéric Martelche si annuncia come “un’inchiesta scon-volgente sulla comunità gay più numerosae potente al mondo: il Vaticano”. Robaforte, visto che trattasi – si legge nei bol-lettini di lancio – di un volume che “aiutaa capire la guerra contro Papa France-sco”. Che non sarebbe più prerogativaesclusiva dei conservatori dediti allamessa in latino ma anche degli omoses-suali che odierebbero Bergoglio. Che pe-rò era stato premiato come “uomo dell’an -no” nel 2013 dalla rivista lgbt The Advoca-te proprio per la sua vicinanza a quellacomunità – d’altonde il “Chi sono io pergiudicare un gay?” aveva fatto il giro delmondo, che s’era però dimenticato di cita-re il resto della frase pronunciata daFrancesco, che confermava quanto scrittonel catechismo della chiesa cattolica. As-sicurate al raduno dei presidenti delleconferenze episcopali nazionali, come daprassi, anche le derive pettegole e pruri-ginose, con nomi di “potenti nemici delPapa” che sarebbero membri attivi diquesta lobby. (Matteo Matzuzzi)

    New York. Cominciano a vedersi i limitidella nuova ondata democratica uscitadalla vittoria alle elezioni di metà manda-to a novembre. Lo scopo dichiarato delle

    nuove leve è terminare la presidenza diDonald Trump, ma per ora rischiano difornire ai repubblicani nuove armi e nuo-vi argomenti che saranno usati contro diloro durante la campagna elettorale. Lu-nedì lo staff di AOC, Alexandria Ocasio-Cortez, si è scusato e ha detto che il testodel Green New Deal che circola da giove-dì scorso non è quello definitivo, è soltan-to una bozza che non va presa come fossescritta nella pietra. Il Green New Deal èun pacchetto di misure per combattere ilclimate change nei prossimi dieci annisponsorizzato con molta enfasi da AOC epresentato come l’unica soluzione al pro-blema del surriscaldamento del pianeta.Non è vincolante, ma è subito diventatouna trappola per i candidati democraticialle presidenziali 2020 a causa del cari-sma esercitato da AOC sui potenziali elet-tori. “La lotta contro il surriscaldamentodel pianeta è il movimento per i diritticivili di oggi”, aveva detto la neoletta du-rante la presentazione e si riferiva allalunga campagna per annullare le diffe-renze tra bianchi e neri in America. Sequesta è la premessa, si capisce perchémolti democratici sono a disagio. Se nonappoggi il pacchetto rischi di passare perretrogrado e conservatore e anche com-plice di un disastro – che fai, resti fuoridalla nuova lotta per i diritti civili? – mase lo appoggi di fatto rischi il suicidio po-litico perché ti stai di fatto legando a unprogramma vastissimo che include moltipunti ingenui o drastici, così slegati dallarealtà da assomigliare alle promesse diTrump. Il Green New Deal contiene unpo’ di tutto – anche tasse ai più ricchi euna riforma della sanità che così dovreb-be diventare pagata dal governo – e moltemisure che potrebbero scatenare lo scet-ticismo o la rabbia degli elettori. Peresempio contro i lavoratori nei settori ri-tenuti inquinanti. Insomma, c’è il perico-lo che il Deal sia una replica della mano-vra tentata dal governo in Francia, che hatassato il carburante in nome dell’ecolo -gia e si è trovato con i gilet gialli nellestrade. (segue a pagina quattro)

    DI DANIELE RAINERI

    A un intellettuale di valore co-me Ernesto Galli della Loggia,che aveva preso la bambola divotare i babbei a cinque stelle,

    avevo fatto un’errata apertura di credito,avevo pensato, se non che avrebbe fre-quentato una scuola politica, che avrebbeletto almeno un libro di Angelo Panebian-co. E niente.

    Questo numero è stato chiuso in redazione alle 20.30

    GIUSEPPE CONTE

    Nel Mondo

    E’ ARRIVATA LA SENTENZA SU ELCHAPO GUZMÁN: “COLPEVOLE”. La giu-ria della Corte federale di Brooklyn haemesso la sentenza all’unanimità. Rimarràin un carcere di massima sicurezza fino aquando non verrà annunciata la pena.

    (articolo a pagina due)* * *

    I leader catalani a processo. Gli imputatisono 12, tra cui gran parte del governo loca-le che nel 2017 organizzò il referendum in-dipendentista. Gli avvocati della difesahanno parlato di processo “politico” e nehanno chiesto l’annullamento.

    * * *Mark Kelly si è candidato con il Partito

    democratico al Congresso per l’Arizona.L’ex astronauta è sposato con GabrielleGiffords, ex parlamentare democratica.

    Trump ha detto di “non essere contento”dell’accordo sul confine negoziato dai lea-der del Congresso per evitare lo shutdown.

    (editoriale a pagina tre)* * *

    E’ stato chiuso il “Selmayr gate”: la nomi-na di Martin Selmayr a segretario generaledella Commissione non ha rispettato le leg-gi europee.

    DI GIULIO MEOTTI

    Modello ChabarroSu Bankitalia Di Maio ricorda quelcolombiano che voleva abbattere il

    portone di Palazzo Koch a calci e pugni

    Roma. Il piano del M5s nello scontro con laBanca d’Italia sembra ideato da Torres So-ban Sebastian Chabarro. Non si tratta di unostratega o di un guerrigliero sudamericano,ma di un giovane colombiano che lo scorsoanno ha tentato il colpo del secolo: svaligiarel’oro custodito nel caveau di Palazzo Koch. Inquesto modo. Nella notte di Pasqua, Chabar-ro scavalca il cancello di Via Nazionale, saltadi sotto e si dirige a passo svelto verso il porto-ne, che tenta di abbattere a calci e pugni fin-ché non viene portato via dai carabinieri.

    Il livello di elaborazione strategica nell’ag -gressione alla Banca d’Italia è lo stesso, ma leconseguenze per il paese rischiano di essereben più serie. (Capone segue a pagina quattro)

    Toninelli in analisiRidurre il traffico sulle autostrade

    non conviene. Così il dossier di Pontismentisce il programma green del M5s

    Roma. “E’ paradossale, ma è proprio co-sì”, conferma Francesco Ramella, uno deicinque tecnici che hanno lavorato all’ana -lisi costi-benefici voluta dal ministro Toni-nelli. E il paradosso sta qui: nel fatto, cioè,che le conclusioni del dossier sulla Tav cu-rato dal professor Marco Ponti portano adaffermare che è sconveniente, per la collet-tività, qualsiasi progetto infrastrutturaleche punta a trasferire il traffico dalla gom-ma alla rotaia. Assurdo in senso assoluto.Ma ancora di più se a sventolare questo do-cumento sono gli esponenti di un partitoche, da sempre, fa dell’ecologismo e dellatransizione alla green economy le sue ban-diere preferite. (Valentini segue a pagina quattro)

    Putinismo e dottrinaIl consigliere Surkov pubblica un

    manifesto sull’algoritmo russoalternativo a quello occidentale

    Roma. Nel 2006 Vladislav Surkov aveva fat-to parlare un po’ di sé. Aveva teorizzato il con-cetto di una “democrazia sovrana”, una for-ma di governo diversa, distante da quelle chelui definisce le “illusioni occidentali” di po-ter vivere in uno stato democratico. Per lui,autoproclamatosi ideologo del Cremlino,tendenza molto diffusa in Russia, la democra-zia è finzione e in questo starebbe la superio-rità della Russia che non ha mai creduto nel-la finzione e Vladimir Putin è un presidenteche ha reso felice la nazione senza la pretesadi incastrare il sistema politico russo in unaforma democratica. Nel 2006 Viktor Orbánnon era ancora il politico che conosciamoora, era più liberale e credeva nell’Europa,non era ancora arrivato a teorizzare la sua“democrazia illiberale”, concetto astratto eincompatibile che ha attratto molti naziona-listi, sovranisti e militanti delle destre estre-me. La “democrazia illiberale” è sorella del-la “democrazia sovrana”, d’altronde l’Unghe -ria guarda più a Mosca che a Bruxelles, lo haconfermato Orbán lo scorso anno in un di-scorso per commemorare l’anniversario del-la rivoluzione ungherese del 1957 quando conuna similitudine forzata, stridente e astoricaha detto che Budapest, che ieri combattevacontro i carri armati sovietici, oggi combattecontro l’Ue. Nel lungo articolo che Surkov hapubblicato sul quotidiano Nezavisimaya Ga-zeta – che pubblichiamo nell’inserto II – voltoa giustificare e a elevare il putinismo, c’è unfatto: la constatazione che dall’Ungheria allaRepubblica ceca, dall’Italia agli ambientifrontisti della Francia, quello che Surkovchiama “l’algoritmo politico russo” è diven-tato davvero attraente per l’occidente rima-sto “senza profeti”. (Flammini segue nell’inserto II)

    Garante, insulti, galeraLe patrie galere erano soventeposti non commendevoli an-che prima del televoto, ma la de-riva del parlare perché si ha la

    bocca, incattivita dal clima generale,cioè usare la bocca solo per mordere esputare, è riuscita a peggiorare anche ilclima delle patrie galere. Succede cheesiste un Garante nazionale per i dirittidei detenuti, istituito dopo che la sen-tenza europea Torreggiani aveva postosotto gli occhi di tutti le condizioni dimolti, non tutti, gli istituti carcerari ita-liani. Bene, anzi male, succede che ilGarante dei detenuti, professor MauroPalma, tra l’altro uno dei fondatori del-l’Associazione Antigone, abbia pubbli-cato uno scritto in cui dà conto, in mododocumentato e critico, delle condizionidei detenuti in regime di 41 bis. E cheper averlo fatto, cioè per aver esercita-to le sue funzioni, sia stato coperto dainsulti, e da minacce, da parte di opera-tori del carcere, anche attraverso gli or-gani informativi ufficiali di un sindaca-to della polizia penitenziaria. Frasi co-sì: “Ma vaffanculo delinquente legaliz-zato”, “Lui dovrebbe andare al 41 ter”,“Garante di delinquenti”, “Sei un fan-go”, “Anche tu che li difendi dovrestiessere chiuso”, “Prendete questo ga-rante e mettetelo una settimana in mez-zo a queste persone”, “Vai a lavorarecome si deve”, “Pancio Villa per i de-linquenti”. E a Pancio (sic) Villa dei de-linquenti ci fermiamo, ma si potrebbeandare avanti. E forse non sarà colpadel televoto. Ma di una politica che con-sidera il carcere solo come una discari-ca senza uscita, senz’altro sì.

    CONTRO MASTRO CILIEGIA - DI MAURIZIO CRIPPA

  • ANNO XXIV NUMERO 37 - PAG 2 IL FOGLIO QUOTIDIANO MERCOLEDÌ 13 FEBBRAIO 2019

    LA CONDANNA DEL NARCOTRAFF ICANTE MESS ICANO

    Il processo pirotecnico del Chapo è stato una telenovela dell’orroreMilano. Per molti anni, più di due decen-

    ni a essere precisi, Joaquín Guzmán Loera,conosciuto come El Chapo, il più potentenarcotrafficante del mondo, è stato una figu-ra mitologica, un criminale feroce con cuisoltanto i grandi jihadisti islamici comeAbu Bakr al Baghdadi, il capo dell’Isis, po-tevano competere. Miliardario finito nellacelebre lista di Forbes; imprenditore genia-le capace di muovere droga attraverso unasupply chain intercontinentale; signore del-la guerra che per anni ha messo a ferro efuoco il Messico, in uno scontro strada perstrada con l’esercito che ha provocato – sonostime, probabilmente ottimistiche – cento -mila morti; fuggiasco capace di scappareper ben due volte dalle carceri di massimasicurezza del suo paese, in maniere cosìoscure che nessuno sa davvero se è fuggito

    di nascosto (versione ufficiale della primaevasione: dentro a un carrello per la bian-cheria) oppure se è uscito dalla porta prin-cipale, ossequiato dal direttore del peniten-ziario come un gran signore; eroe popolareper migliaia di messicani e latinoamericanidiseredati, il Chapo è un mito criminale eun’icona pop. Tutti sanno che la prossimastagione di “Narcos”, la famosissima seriedi Netflix, sarà interamente dedicata a lui.

    Quando nel 2016 i messicani lo arrestaro-no per la terza volta, decisero di mangiarsil’orgoglio nazionale e di estradarlo subito inAmerica, senza processarlo per i crimini in-finiti che aveva commesso in patria: era l’u-nico modo per evitare che scappasse anco-ra. Il processo si è aperto tre mesi fa, a Broo-klyn, e tutti si aspettavano uno spettacoloorrifico e affascinante. Il Chapo non li ha

    delusi.I giornalisti messicani e gli esperti di nar-

    cotraffico latinoamericano hanno osservatocon sconcerto e un po’ di divertimento il rac-capriccio dei loro colleghi statunitensi, chein tre mesi hanno accumulato titoli su titoliscandalizzati. Davvero il Chapo uccideva isuoi nemici con pasti avvelenati? Davvero inostri treni merci, i nostri tombini, perfino inostri jalapeños erano stati riempiti di dro-ga dal cartello di Sinaloa? Davvero il Chapodrogava e stuprava ragazzine minorenni co-me passatempo abituale e diceva che per luiera come prendere le “vitamine”? Davverola sua rete di politici corrotti era così estesada arrivare fino alla presidenza del Messi-co? (Quest’ultima è un’accusa gravissimapronunciata da un testimone, ovviamentenon ha fondamento e non ci sono prove).

    Durante i tre mesi di un processo pirotec-nico e terrificante il Chapo ha dato spettaco-lo e ha partecipato a quasi tutte le udienze,con sua moglie Emma Coronel sempre pre-sente. Si sono visti attori famosi (compresoquello che interpreta il Chapo stesso su Net-flix, per “studiare”), vecchie amanti che an-cora dicono di adorare il gran narcos, e cri-minali con decine di vite sulla coscienza so-no stati ascoltati come testimoni. Duranteun’udienza, il Chapo e sua moglie Emmahanno indossato, lui tra gli imputati e lei trail pubblico, lo stesso completo elegante ros-so.

    Ieri la giuria del tribunale di Brooklyn hagiudicato il Chapo colpevole di tutti i diecireati di cui è stato accusato. Probabilmentesarà condannato all’ergastolo.

    Eugenio Cau

    I L NULLA IN VERS I CHE NON R ISCHIANO NULLA

    Lo strano caso di Magrelli, il poeta che non esiste e si fa il sangue amaroA: Ho visto che è uscito un libro su Magrel-

    li.B: Davvero? Io non l’ho visto.A: E’ uscito da poco.B: Com’è possibile?A: E’ possibile eccome.B: Tu dici? Io non credo. Può anche essere

    reale, ma non è possibile. Il filosofo dell’esse -re Emanuele Severino dice che il nulla nonesiste.

    A: Vuoi dire che Magrelli non esiste? Che èil nulla?

    B: Non esageriamo. Esiste come individuo,ma è un nulla come poeta. Uno dei tanti, ben-ché in campo poetico sia il più noto e il piùperfetto, il più notevole e rappresentativo deimolti poeti nulli.

    A: Se è un nulla come può essere rappre-sentativo?

    B: Il punto è proprio questo. Proprio per ilsuo nulla Magrelli è amato, è apprezzato epiace. Sei un ingenuo. Non sai che il nullapiace più del qualcosa?

    A: Tu sei sempre vanitosamente parados-sale.

    B: Può essere. Ma sto solo constatandoqualcosa. In poesia, come in diverse altre co-se, non c’è bisogno di esistere per avere l’ap -provazione e per essere perfino amati.

    A: Forse si tratta dell’amore di chi non rie-sce ad amare niente di preciso, niente cheesista.

    B: Questo è un altro problema. E anche unbel problema. Ama dei singoli nulla chi temeo sente di essere un nulla imperfetto. Così laperfezione di un altro nulla lo attira, lo con-forta, lo consola.

    A: Ancora una volta esageri… Si può amaresolo qualcosa.

    B: Sì, ma per farlo si deve essere qualcosa ese sei qualcosa rischi sempre qualcosa. Soloil nulla non rischia nulla. Il nulla non c’èniente che lo neghi e lo minacci. Prova a nega-re il nulla se ci riesci…

    A: E’ vero. Sembra che in poesia, qui da noi,si possa esistere senza discussione, senza

    dubbi e senza riserve solo essendo un nulla. Ilnulla non ha attributi criticabili. A rigore (locredo perché l’ho provato) Magrelli non puòneppure essere letto sebbene sulla cartacompaiano dei segni neri. Però può esseretradotto perché per tradurlo non c’è bisognodi pensare cosa dice. Basta il traduttore auto-matico, si traduce da sé. E’ pretradotto, comesi dice “precotto” di certi alimenti.

    B: Vedo che ci stai arrivando. Oggi l’atto dileggere poesia è diventato un mistero. Il letto-re di poesia, dai più sprovveduti fino ai do-centi universitari di letteratura contempora-nea, credono di leggere poesie soprattuttoquando sulla pagina c’è il meno possibile, c’èun niente da leggere. Solo così si spiegano iloro insensati “mi piace”, i loro inconsulti ok.Quanto più un autore di poesie va vicino a untale niente, tanto più loro si sentono sereni eal sicuro. Si entusiasmano del loro non averletto. Leggere infatti per loro sarebbe noioso.Un fastidio, un problema.

    A: Vuoi dire che Magrelli elimina il fasti-dio di leggere?

    B: Certo. Nel fare questo ha un talento na-turale. Togliere fastidi a lettori che preferi-rebbero non leggere eppure leggono, signifi-ca fargli capire una cosa fondamentale per illoro equilibrio psichico e la loro pace menta-le. Quando questi lettori di poesia vedono chesulla pagina c’è un nulla scritto e che il poetanon c’è o è una immancabile silhouette sonosoddisfatti, si tranquillizzano.

    A: Se pensi questo vuoi dire che in veritàquesti lettori di poesia preferirebbero, senzasaperlo, che la poesia non ci fosse. O meglio cifosse in forma di nulla.

    B: Mi congratulo con te. Vedo che mi staisuperando. Magrelli è il trionfo dei lettori chesi entusiasmano, che si appagano solo se ve-dono che è il niente da leggere che si chiamapoesia…

    A: …ovvero pagine scritte né comprensibi-li né incomprensibili, né buone né cattive, né

    oscure né chiare, né bianco né nero… Insom -ma niente a cui appigliarsi per formulare ungiudizio.

    B: Infatti Magrelli è il poeta del Né-né.A: E’ una buona formula. Però come la met-

    tiamo con il fatto che sia Magrelli che Arnal-do Colasanti, autore del libro su di lui, insi-stano tanto sul “sangue amaro”….

    B: Cioè?A: Sì. Magrelli insiste sul fatto che lui “si fa

    il sangue amaro”.B: Io credo che quello del sangue amaro sia

    il solo contenuto mentale, emotivo, metafori-co che Magrelli è riuscito a inventare. Ma èappunto un’invenzione. Non è vero niente. E’una piccola esibizione che gli serve per finge-re un’esistenza. Lo dice per essere compatitonel caso che gli capiti qualcosa.

    A: E cosa può capitargli?B: Può capitargli che qualcuno si accorga

    di quello che è o non è, e lo dica. Allora lui sifa il sangue amaro.

    A: E’ solo così che lui esiste? Come indivi-duo che si fa il sangue amaro perché c’è qual-cuno, anche uno solo, che non lo crede unpoeta?

    B: Sì, è così. Lui esiste solo per questo.A: Questo somiglia all’“essere per la mor-

    te” di Heidegger.B: Più o meno. Magrelli esiste facendosi il

    sangue amaro perché teme come la morte chequalcuno veda in lui il nulla.

    A: Ma allora siamo a Leibniz quando parladi questo mondo come del “migliore dei mon-di possibili”: sia per Magrelli che per i pochiche dicono che è un nulla, perché dicendoquesto gli permettono di farsi il sangue ama-ro, cioè gli offrono l’unica possibilità di esi-stere.

    B: E’ così. Magrelli e chi dice di lui che è unnulla messi insieme fanno il migliore deimondi possibili.

    P.s.Ho assistito di persona a questo dialogo e

    per realistica onestà l’ho trascritto.Alfonso Berardinelli

    I L D IZ IONARIO D I MEANO E LE R ISATE DA SOVRANISMO DELLA MODA

    Oh capperone! Quando l’Italia fascista litigava con gli “orridi francesismi”Milano. Siamo moderatamente sicuri che,

    essendo cadute in disgrazia le pellicce, anchein questi giorni di guerra diplomatica fra Ita-lia e Francia non sentiremo parlare di nuovodi topi muschiati, cioè di pantegane, al postodel francese rat musqué. Una nuova autar-chia lessicale ci sembra un rischio remoto, epoi il francese non si studia quasi più. Però, incaso voleste procurarvi una copia del “Com -mentario Dizionario Italiano della Moda diCesare Meano”, pubblicato nel 1936, premia-to dal Minculpop nel 1938, in cui si suggeriva-no le traduzioni alle parole entrate nell’usocomune come chaperon, dormeuse o renard,vi basterà cercare con un po’ di attenzione frale bancarelle di Porta Portese o da un certorigattiere antiquario di libri che gravita fraChiavari e La Spezia, specialista di militariae pubblicazioni fasciste. Il Dizionario costarelativamente poco, circa 30-35 euro, perchévenne stampato in decine di migliaia di co-pie, per favorirne la massima diffusione.Meano aveva un compito preciso: far spariregli “orridi francesismi”, insieme con una cul-tura democratica che, sebbene non fosse pro-prio millenaria come oggi dice Di Maio, eracomunque abbastanza potente da instillare ilgerme della ribellione all’assolutismo in tut-ta Europa. Compresa la Napoli del nostro DiMaio dove, come tanti radical chic sanno, larivoluzione del 1799 finì in episodi di canni-balismo e con la povera Eleonora de FonsecaPimentel impiccata senza mutande e con la

    camiciona larga, per gaudio del popolo e del-la sua ferocia.

    Il Commentario Dizionario pubblicato nel1936 aveva scopi in apparenza miti, ma inrealtà puntava in alto, cioè a scalzare una vol-ta per tutte dalle zuccone disfattiste e dalleriviste di moda “inchinate a Parigi”l’idea chegli usi e i costumi francesi fossero preferibiliai nostri, e le sartorie di rue Boissy d’Anglas odi rue Cambon di livello infinitamente supe-riore a quelle di via Durini a Milano o di viaPo a Torino. Dunque, se alle sartorie venivaimposto l’uso di “bellezze nazionali” alte almassimo un metro e sessantacinque per 65chilogrammi, alle riviste e alle famiglie veni-

    va suggerita una neolingua, spesso malamen-te o ridicolmente tradotta dall’idioma d’Ol -tralpe. Ma se si poteva ridere dello chaperontradotto in “capperone”, su certe definizionidi origine mista e dalle quali gli infiniti lega-mi fra la cultura italiana e francese balzava-no all’occhio, la faccenda si faceva spinosa.Prendete per esempio il sostantivo maschile“pantalone”. Meano suggeriva di usare al suoposto “l’italianissima definizione di calzo-ne”. Ma il pantalone indicativo francese di in-dumento maschile in realtà si riferiva, in si-neddoche, alla maschera veneziana di Panta-lone, personaggio principe della Commediadell’Arte che, dal Rinascimento in poi, aveva

    allietato le corti di Francia, e che a sua voltaera un alterato di “Pantalemene”, dal geniti-vo greco “pantos”, tutto, ed “elemon”, miseri-cordioso: insomma indicava un brav’uomodalle tasche ampie, secondo i termini che an-che adesso Matteo Salvini evoca (“paga Pan-talone”). Districarsi fra millenni non di de-mocrazia, ma di storia congiunta e di accon-ciature scambiate per lettera e a mezzo dibambole di legno, le Pandore, era insommadifficilissimo. I francesismi più o meno or-rendi ammantavano però di grazia certe vo-mitevoli realtà che l’autarchia rese evidenti.Blindate oltre confine le pellicce di lusso, diorigine russa, canadese, americana, i sarti fa-scisti, con i loro estensori lessicali, dovetteroinfatti rendere attraenti quel che si trovavain Italia e nel suo povero impero. Spariti i re-nard, i chinchilla, i visoni, rimanevano il la-pin, che ancora ancora si poteva tradurre inconiglio senza sentirsi torcere le budella, epoi tutta l’infinita schiera di topi, ratti, gatti,cani eritrei che, all’improvviso, diventaronodesiderabilissimi, elegantissimi, profumatis-simi. “Donne, fate contenti i mariti”, e vestite-vi di lanital e scarpe di cartone pressato. Il fi-lato di caseina, in effetti, è tornato da poco dimoda. Si spera però che fra i cascami dellaBrexit non si finisca per litigare anche conTheresa May. Per l’esecutivo gialloverde, do-ver rinunciare allo “speech che ho parlato adHarvard” potrebbe essere un brutto colpo.

    Fabiana Giacomotti

    Mongolia, Austria, Italia. Filmda festival declinati secondo irispettivi caratteri nazionali

    PREGHIERAdi Camillo Langone

    Credevo di esserne e-sente e per una vita i librili ho buttati, o regalati o venduti, senzapensarci due volte. Credevo di esserneesente ma alcuni sintomi mi avvisano chesto incubando la bibliofilia. Comincio acredere che l’antropocentrismo e l’euro -centrismo e il maschiocentrismo si pos-sano ormai reperire solo nelle librerieantiquarie. Che i migliori libri sulla cac-cia siano fuori catalogo. Che racconti eromanzi con protagonisti virili siano fuo-ri mercato, in attesa di diventare fuori

    legge. In uno studio bibliografico di Vi-cenza sono riuscito a procurarmi una co-pia ingiallita de “I magnasoéte” (i man-giatori di civette) di Virgilio Scapin: “Las-ciopa è un simbolo del potere dell’uo -mo sulla donna (tasi fémena se no te sba-ro con la s-ciopa) della sicurezza dellafamiglia e delle proprietà (se vien i ladrighe sbaro con la s-ciopa)”. Chi parla piùun simile dialetto? Chi usa più lo schiop-po come scettro? Chi mangia più civette?Chi scrive più, chi pubblica più libri delgenere? Sia lodata la bibliofilia, malattianecessaria: soltanto i vecchi libri supera-no le nuove censure.

    Film da festival, ancora film dafestival, declinati secondo i rispettivicaratteri nazionali. Dalla Mongolia arrivalo “yurta movie” – definizione di un

    critico ignoto ma geniale – intitolato“Öndög” (vuol dire “uovo”). Il registaWang Quan’an ha vinto un Orso d’oro nel2007 con “Il matrimonio di Tuya”,conosce perfettamente la ricetta. Grandispazi, fascinosi paesaggi, tramainesistente, tempi rilassati, tramonti equalche spruzzata di assurdo. Telefonicellulari, parabole satellitari, staccosull’agnello sgozzato per preparare lacena. I fari di un’auto illuminano il buio –scena che piace tantissimo ai direttoridella fotografia – e rivelano il cadavere diuna donna. Un giovane poliziotto hal’ordine di vegliarlo, i lupi dei dintornisono famelici (alla stazione di poliziadevono sgelare il corpo, primadell’autopsia). Ascolta “Love me Tender”di Elvis Presley, balla, beve, si accoppiacon la mandriana scaccia-lupi chevorrebbe tanto un figlio.

    Dall’Austria arriva “Der Boden unterden Füßen”-“La terra sotto i suoi piedi”.Dirige Marie Kreutzer, una delle setteregiste in gara quest’anno (intanto anchela Berlinale ha sottoscritto il documento“50/50 by 2020”, vale a dire parità tramaschi e femmine, nei ruoli artistici,dirigenziali e organizzativi, entro l’anno2020). Sembra incredibile: il filminquadra la solita algida biondina incarriera, infelice come sempre sono alcinema le biondine in carriera. Va nelparco a correre di prima mattina enessuno mai l’aspetta nella casa bianca eacciaio. Fa il classico mestiere delleinfelici biondine in carriera: consulenzeper la riorganizzazione aziendale, chevuoi dire, più o meno, “licenziamenti”.L’avvertono che la sorella ha tentato ilsuicidio mandando giù un centinaio dipillole. E su questo tema la registapigramente conduce il suo film, lasciandoil finale apertissimo.

    Dall’Italia arriva “La paranza deibambini”, che il regista ClaudioGiovannesi ha tratto dal romanzo diRoberto Saviano (nelle sale da oggi). Ilmarchio di fabbrica funziona comecalamita per il pubblico di riferimento –altri “argomenti di vendita”, come silegge sulle schede che propongono ailibrai le novità in uscita, non se nevedono. E’ il genere di film che funzionabenissimo per l’esportazione (al mercatointerno sono destinate le commedie, finoa esaurimento del pubblico – le ideedegli sceneggiatori sono esaurite da unpezzo, guardare per credere “Modalitàaereo” di Fausto Brizzi).

    Altra ricetta collaudata per piacere aicritici, Claudio Giovannesi l’aveva giàseguita in “Fiore” (uscito nel 2017 eambientato in un carcere minorile).Primo ingrediente, i ragazzini – qui sonoparecchi, meno caratterizzati che sullapagina. Secondo: l’ambiente povero edegradato del sud. Terzo: la malavita cheattira più della scuola e prometteguadagni facili. Quarto: una madre che siammazza di lavoro. Quinto: il dialettostretto con i sottotitoli. Sesto: mobilidorati in quantità, tappezzerie vistose, uncontrabbasso porta-liquori. Settimo: undettaglio che susciti nello spettatoretenerezza verso gli apprendisti criminali(il posto da sogno dove amoreggiare, nonsono i Caraibi bensì un resort aGallipoli).

    “Paranza” sta per gruppo armato, oltreche per i pesciolini accecati dalla luceche rimangono nella rete. I ragazzini“resi ciechi dal consumismo” – sempre lìstanno le colpe, nella felpa e nel paio discarpe nuove – si danno da fare nel rioneSanità, momentaneamente sguarnito dicamorristi adulti. Attori presi dallastrada, come nel neorealismo che non siriesce mai ad archiviare. Potrebbescapparci un premio.

    Mariarosa Mancuso

    BERLINO 2019

    E’una facoltà innata. Per la primavolta un’equipe di neuroscienziatiitaliani lo ha dimostrato. Lo studio

    Milano. Quanti volti umani può ciascunodi noi riconoscere e identificare? Pensia-mo a familiari, parenti, amici, colleghi,tante persone famose. L’ordine di grandez-za è di alcune migliaia. Il riconoscimento èpraticamente immediato e, cosa curiosa,accurati esperimenti di laboratorio hannomostrato che il brevissimo tempo che ci oc-corre per riconoscere un volto noto è so-stanzialmente lo stesso di quello che ci oc-corre per decidere che un volto è per noinuovo, cioè si tratta di una persona maivista prima. Curioso, perché si sarebbe so-spettato che la decisione di estraneità diun volto dovesse essere il risultato di unrapido esame di tutti i volti a noi noti e laconclusione che il volto che ora abbiamo difronte non è nessuno di questi. Ma così nonè. L’identificazione e la non-identificazio-ne vanno di pari passo, quasi istantanea-mente.

    Da tempo si sapeva che questa specialefacoltà percettiva e cognitiva, radicalmen-te diversa dalla lenta e laboriosa costruzio-ne di expertise equivalenti per altre forme(quadri, panorami, modelli di auto o moto esimili) ha precisi correlati neuronali. Alcu-ni neuroscienziati cognitivi (una minoran-za) avevano suggerito che il riconoscimen-to dei volti fosse solo un esempio, appunto,di expertise, maturata nel tempo, fin daquando eravamo piccoli e tanto già ci inte-ressava identificare i volti. Altri (una mag-gioranza) sostengono, invece, che si trattidi un modulo innato. Ne era seguito un di-battito scientifico, sulle pubblicazioni spe-cializzate. Ebbene, da oggi, il dibattito ces-sa e i modularisti e innatisti vincono senzadubbio. In un lavoro che esce oggi sui pre-stigiosi atti dell’Accademia Statunitensedi Scienze (Proceedings of the NationalAcademy of Sciences US – in breve PNAS),un gruppo di neuroscienziati italiani, delCIMEC (Centro Interdipartimentale Men-te/Cervello, del’Università di Trento a Ro-vereto) e dell’Università di Padova, mostrache il riconoscimento dei volti è già pre-sente poche ore dopo la nascita.

    Chiedo al responsabile del gruppo di ri-cerca, professor Giorgio Vallortigara, dispiegarci l’essenza di questa importantescoperta. Mi dice: “Abbiamo registrato l’at -tività cerebrale di una popolazione di neo-nati sani tra 1 e 4 giorni di vita mentre os-servavano dei volti stilizzati e altre imma-gini fisicamente equivalenti, presentaticon una stimolazione lenta e periodica.Grazie a questo protocollo innovativo ab-biamo misurato per la prima volta la rispo-sta corticale alla percezione di volti in ognineonato. Sorprendentemente, la base ana-tomica di tale risposta coinvolge in granparte le stesse aree specializzate nell’ela -borazione dei volti negli adulti. Questo ri-sultato suggerisce che alla nascita la cor-teccia cerebrale sia molto più organizzatadi quanto assunto in precedenza, e conten-ga già una via preferenziale all’elaborazio -ne dei volti, permettendo ai neonati il rapi-do sviluppo dell’interazione sociale conchi si prende cura di loro”. Gli chiedo co-me questa scoperta cambi le carte in tavoladi una diatriba che ha qualche anno di vi-ta. “Era noto che i neonati, nonostante laloro ridottissima esperienza visiva, mo-strano un orientamento preferenziale perle facce già pochi minuti dopo la nascita.La teoria ad oggi più popolare assumevache la corteccia cerebrale dei neonati fos-se troppo immatura e indifferenziata peravere un modulo corticale specializzatoper i volti, e che questa preferenza fossedeterminata da alcune strutture sottocorti-cali evolutivamente primitive. L’attivazio -ne cerebrale associata alla preferenza peri volti nei neonati non era però mai statamisurata”.

    Immancabile, la mia domanda se, inte-resse scientifico a parte, possano esserciapplicazioni pratiche. Vallortigara rispon-de: “Una potenziale importante applica-zione di questo risultato potrebbe riguar-dare lo studio dell’autismo. Una ricerca re-cente del mio laboratorio ha mostrato che ineonati con familiarità (alto rischio geneti-co) di autismo si orientano meno verso lefacce rispetto ai neonati non a rischio. Larisposta elettrofisiologica ai volti identifi-cata in questo studio potrebbe perciò costi-tuire unbiomarker neurale per l’indivi -duazione di indizi precoci dell’autismo”.

    In materia di riconoscimento dei volti, ilmodulo sottostante può essere colpito se-lettivamente, provocando un grave specifi-co difetto chiamato prosopoagnosia. Questisoggetti ci vedono perfettamente altrimen-ti, ma non possono riconoscere i volti, nem-meno dei familiari e dei parenti. La neuro-scienziata cognitiva olandese Beatrice deGelder, alcuni anni fa, ha pubblicato unrisultato che ha dell’inverosimile. Esami-nando a Tilburg una popolazione di proso-poagnosici, ha determinato che, senza ren-dersene conto, possono identificare benis-simo le espressioni facciali (gioia, disgusto,ira, aggressività) dei volti che, si badi bene,non riescono a vedere come volti. Parreb-be impossibile, ma è proprio così. La spie-gazione è che il modulo cerebrale per ilriconoscimento delle espressioni dei voltiè distinto da quello per il riconoscimentodei volti. Vicino a questo, ma distinto. Unodei tanti, affascinanti paradossi della mo-dularità della mente e del cervello.

    Massimo Piattelli Palmarini

    PICCOLA POSTAdi Adriano Sofri

    Qualche sera fa ho guardato latelevisione tenacemente. Ho guar-

    dato 8 e ½, che è per me oggetto di inter-rogativi, perché mi pare che abbia con-tribuito a spalancare la strada al disa-stro politico e civile che Gruber e Pa-gliaro non possono apprezzare, e perciòavevo immaginato che ne evadessero etornassero in Europa. Però mi ha messodi buonumore una signora di spirito,che si chiama Marianna Aprile e de-v’essere famosa, e dice cose intelligen-ti. Così ho continuato con Formigli ePiazza pulita, aperta da GiampaoloPansa. C’è un governo terrorista, ha det-to, l’Italia non è sull’orlo del baratro,ma ci è già dentro. C’era una certa im-barazzata benevolenza nello studio. Ri-presa la parola, Pansa si è augurato cheun argine venga da un governo di tecni-ci sostenuto da militari, e l’imbarazzo siè sciolto. L’aveva sparata così grossache tutti sono sembrati sollevati, e an-ch’io, la parte peggiore di me, contentadi essere scampata all’accordo conPansa. La parte migliore di me, secondome, si è invece rammaricata di quel ri-svolto tecnico-militare, perché sul ba-ratro sono piuttosto d’accordo. Sullaquestione dell’orlo del baratro o del ba-ratro tout-court i vecchi come Pansa ecome me sono piuttosto sbrigativi, nonavendo molto tempo per vedere comeva a finire, e temono che sia andata giàa finire. In studio, Antonio Padellaro hadetto che le cose non stanno così. Hadetto che è solo “intrattenimento”.

    BORDIN LINEdi Massimo Bordin

    Dopo l’ennesimo, e più cla-moroso, lapsus inevitabilepensare a Freud, anche sescontato. Giuseppe Conte ci haabituato a un eloquio a voltestentato, affaticato fino al tormento. Nulla ache vedere con gli sfondoni pronunciati colsorriso sulle labbra dal capo politico che loha insediato a Palazzo Chigi. L’avvocato eprofessore l’italiano lo sa. Se dice congiuntoinvece di fratello, se a volte fatica a trovare laparola giusta, sembra dare l’impressione dichi cerca in realtà di interpretare un ruolo,di trovarsi una parte. Autoproclamarsi pre-sidente della Repubblica è stata l’indicazio -ne, certo involontaria, di un problema politi-co che appassiona i retroscenisti. Possibileche Conte pensi davvero di poter essere il ca-talizzatore di quella terza forza che sempre

    più si delinea all’interno del governo? Su al-cuni giornali si descrivono alcuni ministricome vicini più al Colle che a uno dei duepartiti di maggioranza e si guarda allo stranoaggregato composto da Tria, Moavero, Savo-na, e forse qualche altro, con simpatia o al-meno speranza. Sarà Conte a traghettare iparlamentari in sofferenza del M5s fuori dalmovimento per restare al governo? L’occhiu -to Fatto quotidiano, in qualche titolo e som-mario, è arrivato a sospettarlo da tempo ma èdifficile, al di là di ogni giudizio, considerarepossibile uno scenario del genere. Sarebbeun remake del governo Monti e sullo sfondonon potrebbe che esserci una specie di“Scelta civica” in salsa populistico-tecno-cratica, con la candida pochette rettangolareal posto del loden come dress code. Razio-nalmente non si vede come potrebbe funzio-nare. In ogni caso, se pure fosse, i “lapsus” siintensificherebbero alla vista del Truce.

    Riconoscere i voltiYurta movie

    I L L IBRO D I G IOVANNI Z ICCARDI SULLE “TECNOLOGIE PER IL POTERE”

    Così le “camere dell’eco” hanno ammazzato l’arte della persuasioneRoma. Imbruttirsi su Internet è politica-

    mente efficace, perché tutto ciò che creasentimenti polarizzati funziona, in quest’e-poca di berciatori professionisti, di lotta edi governo. E’ il motivo per cui la “Bestia”di Matteo Salvini, o meglio di Luca Morisi,attira migliaia di like e condivisioni. Il pro-blema è che un eccesso di polarizzazioneconduce a una progressiva estremizzazionedi tutto il dibattito pubblico, con conse-guenze non banali per la natura stessa del-la democrazia.

    Il professor Giovanni Ziccardi analizza imeccanismi di distorsione dei processi po-litici dovuti all’impatto dei social networkin un libro in uscita per Raffaello Cortinaeditore il prossimo 21 febbraio: “Tecnolo -gie per il potere”. “I social network sonodiventati lo specchio e l’essenza, allo stessotempo, della politica attuale. Sono il luogodove risiedono i dati degli elettori che inte-ressano ai partiti – compresi quelli più inti-mi – e che sono trattati con sofisticati stru-menti di analisi. Sono anche il luogo verso

    il quale i partiti veicolano in primis le lorocomunicazioni, l’ambito più importante diqualsiasi altro mezzo di comunicazione og-gi esistente”. I social network dunque han-no trasferito nella politica, praticata e co-municata, anche le dinamiche di auto-con-ferma che si verificano nelle echo chambersdi Internet. Se è vero che su Facebook eTwitter cerchiamo sentimenti polarizzantie ciò che ci rassicura, evitando qualsiasi ti-po di confronto, allora anche in politica si èportati a ripetere la stessa dinamica di au-to-rassicurazione: si cerca soltanto ciò checonferma le nostre idee senza coltivare al-cun dubbio. La questione rilevante, attornoalla quale ragionare, è che cosa succedequando lo scoprono i politici e i loro staffelettorali che oggi hanno a disposizione tut-ti gli strumenti per analizzare il sentimentdell’elettorato di cui parla Ziccardi nel suolibro: banalmente gli spin doctor avrannopiù armi a disposizione per farti vedere unmondo che sembra fatto su misura per te,solo perché grazie ai big data i candidati e i

    partiti politici sanno effettivamente un sac-co di cose sull’elettore.

    Il risultato è che per ottenere consensoattraverso i social network si è portati aberciare e a insistere su un pubblico che èsempre il solito, racchiuso in nicchie più omeno grandi. “Si tratta di una situazione ti-pica dei social network, nella quale ogniutente – nel caso che ci interessa, ogni elet-tore – è chiuso all’interno della sua cameradell’eco, nella quale finisce per sentiresempre di più, e con sempre più ridondan-za, proprio ciò che vorrebbe sentire”, scriveZiccardi. Il politico dunque cerca di co-struire una sorta di camera dell’eco senzaaver più intenzione di convincere l’eletto -re, soprattutto quello avversario; la politicanon è dunque più arte della persuasionema arte della profilazione. L’elettore nonva convinto, ma reso un bersaglio da analiz-zare attraverso un complesso sistema diraccolta dati, che in questi anni – come di-mostra il caso Cambridge Analytica – puòavere anche conseguenze molto pericolose

    per la salute della democrazia. Se è veroche tutto si tiene infatti, comunicazione po-litica, vita personale, pubblico e privato,non c’è più alcuna distinzione fra ciò che siè come privati cittadini, consumatori edelettori. L’elettore è trattato come un con-sumatore, scrive Ziccardi, come se gli si do-vesse vendere un Folletto. Per questo i poli-tici assumono esperti di marketing: il voto èdiventa un prodotto. Una democrazia basa-ta sulla dittatura dell’algoritmo inevitabil-mente non può essere sana. Ma anzi è facil-mente manipolabile. Conoscere per delibe-rare in questo caso, significa apprenderegrazie al libro di Ziccardi quali problemi cisiano dietro il possesso di un account Face-book, Twitter o Instagram. Avere una vitaonline comporta delle responsabilità untempo impensabili. Questo vale anche per ipolitici, dai quali ci si aspetterebbe mag-giore senso delle istituzioni. Invece, nellapolitica della polarizzazione, vince soprat-tutto chi grida, pensa male e parla male.

    David Allegranti

    INNAMORATO FISSOdi Maurizio Milani

    Domanda numero 9.Se un grande obeso chiede ilreddito di cittadinanza, ha di-

    ritto?Certo! Anche perché i centri per l’im -

    piego quando lo chiamano e gli propon-gono di fare il pony express lui accetta,ma è lo stesso navigator a dire: “No, staia casa”.

  • ANNO XXIV NUMERO 37 - PAG 3 IL FOGLIO QUOTIDIANO MERCOLEDÌ 13 FEBBRAIO 2019

    LIBRIDavide Sisto

    LA MORTE SI FA SOCIALBollati Boringhieri, 149 pp., 16,50 euro

    Se qualche anno fa ci fossimo imbat-tuti nel profilo Facebook di un de-funto, probabilmente avremmo storto ilnaso, disturbati dalla vitalità di quellepagine in nulla mutate dopo la mortedel suo proprietario (e protagonista).Avremmo biasimato chiunque postassemessaggi di commiato, e se qualche fa-migliare si fosse introdotto nel profiloper tenerlo attivo, il nostro fastidioavrebbe forse raggiunto il disgusto.Questo accadeva quando i social eranoconsiderati un mezzo tutt’al più ludico,una moda frivola in tutto stridente conil mistero della morte. Oggi che sonopercepiti come un ambiente vero e pro-prio, in cui chiunque, connesso o menoche sia, ha costruito un pezzo della pro-pria abitazione virtuale, le cose sono unpo’ cambiate. Davide Sisto, filosofoesperto di tanatologia, nel suo ultimosaggio La morte si fa social spiega neldettaglio come questi hanno cambiatola nostra percezione della morte e dellutto, non sempre in peggio.

    Oltre a essere diventati il più grandecimitero del mondo, è evidente che i so-cial si siano “raffreddati”, per usare l’e-spressione di Marshall McLuhan. Comesempre accade con l’introduzione di unnuovo medium, l’uomo e il mondo sonocambiati radicalmente, ma il medium siè a sua volta integrato senza soluzione dicontinuità nella nuova realtà e senzafarla precipitare nella direzione distopi-

    ca che la sua comparsa presagiva. Qual-cosa di ancora caldo, anzi bollente, neimeandri del digitale tuttavia rimane, e ilsaggio di Sisto dà ampio spazio alle in-venzioni che pretendono di ridefinire iconfini tra vita e morte, a metà tra unepisodio di “Black Mirror” e “Her” diSpike Jonze. Una volta ricreata la perso-nalità del defunto attraverso la sua esi-stenza digitale e le chat scambiate invita infatti, i modi per “resuscitarlo” conl’intelligenza artificiale e l’autoappren -dimento sono moltissimi: dagli ologram-mi ai bot di messaggistica. E quanto siainsano tenere in vita virtuale un mortonarcotizzando la propria sofferenza e ri-schiando di inceppare la naturale ela-borazione del lutto è evidente.

    Ma a parte questi isolati esperimentipost umani, quello della gestione delleeredità virtuali è un tema che riguardatutti e di cui sentiremo sempre più par-lare. Continuare a ritenere morte e digi-

    tale troppo scandalosamente distantiper poterne fare nel 2018 una riflessionerispettosa, più che il non aver ancoracapito il digitale (e con “The Game” diBaricco sembrano averlo capito pro-prio tutti) rivela di non voler fare i conticon la morte, che pure esiste da moltoprima.

    Dall’altro lato è vero che di fronte aprofili virtuali di defunti si corre il ri-schio di non essere in grado “di prende-re limpidamente coscienza del fatto chedietro… vi è realmente una vita umanagiunta al termine”. Scorrere pagine dis-seminate di messaggi di cordoglio colo-rati e cuoricini in reazione alla notiziadel decesso è un’esperienza surrealeche ha poco a che fare col disturbantesentimento del sacro. E questo pericoloSisto lo mette in conto.

    Ma è un’esperienza davvero così di-versa, viene da domandarsi, dal passeg-giare al Père-Lachaise di Parigi, sull’iso -la veneziana di San Michele o in un ci-mitero qualunque in cui non sia sepoltoun nostro caro? E’ difficile avvertire ilmistero della fine anche aggirandosi tramagnifiche sculture funerarie nel frini-re delle cicale. Anche fermarsi in unagiornata di sole davanti a un nome perpoi riprendere il cammino tra le lapidi,rivolgendo l’attenzione a tutte e nessu-na, non ci porta più vicini al percepirelo scandalo della morte, l’abisso del do-po. (Nicola Baroni)

    EDIT ORIALI

    Non si può essere neutrali sul VenezuelaL’equidistanza di Moavero tra Maduro e Guaidó è già una scelta di campo

    Ogni osservatore interpreta la posizio-ne dell’Italia sul Venezuela in mododiverso. Il vicepresidente del Partito po-polare europeo, Esteban González Pons,è stato l’ultimo ad accusare l’Italia diavere “sostenuto il dittatore venezuela-no Nicolás Maduro”. I delegati del presi-dente dell’Assemblea nazionale vene-zuelana, Juan Guaidó, che hanno trascor-so gli ultimi due giorni a Roma, hannoun’interpretazione opposta. L’attivistavenezuelano Rodrigo Diamanti ha dettoche “tutte le forze politiche in Italia, me-no una, hanno riconosciuto Guaidó comepresidente ad interim”. Il discorso allaCamera del ministro degli Esteri, EnzoMoavero Milanesi, ha collocato l’Italia nécon Maduro né con Guaidó. Tuttavia, lepremesse di Moavero sono le stesse deipaesi occidentali che hanno riconosciutoil leader dell’opposizione. Il ministro hadetto che non riconosce l’esito delle ele-zioni presidenziali del 2018, in cui Madu-ro è stato confermato presidente. Moave-ro ha precisato che l’Assemblea naziona-le del Venezuela, di cui Guaidó è presi-dente, è stata eletta in modo democratico.

    I deputati dell’opposizione hanno sottoli-neato la presunta incoerenza di Moavero:“Se riconosci l’Assemblea nazionale, co-me fai a non riconoscere il suo presiden-te?”. Il ministro degli Esteri ha dovutotrovare un compromesso forzato tra le di-verse posizioni di Lega e Movimento cin-que stelle. I deputati grillini hanno ripe-tuto che l’Italia deve restare estranea al-le vicende del Venezuela sulla base delprincipio di non ingerenza (che vale conMaduro, ma non con il francese Macron,come abbiamo visto). La Lega, invece, hadialogato con l’opposizione anti Maduro.Matteo Salvini ha ricevuto i delegati diGuaidó al Viminale e ha avuto un collo-quio telefonico con il leader dell’Assem -blea venezuelana. Moavero ha cercatouna sintesi tra due visioni opposte: il ri-sultato è un compromesso equidistantein cui ognuno prova a vedere quel chepreferisce. Ma mai come in questo casoessere equidistanti significa aver fattouna scelta: stare su un fronte politico piùvicino alla Russia, alla Cina, all’Iran, allaTurchia e meno vicino all’Europa, menovicino a chi difenda la libertà.

    Oltre l’occupazione totaleConsob e Bankitalia. Dove porta l’assalto grillino alle autorità indipendenti

    Cambiare i vertici, azzerarli se necessa-rio, serve anche a mandare un messag-gio ai risparmiatori traditi”. Così, con unpost sul Sacro Blog, il M5s conferma la lineasulla Banca d’Italia: mandare via chiunque,anche senza una specifica motivazione sog-gettiva. Solo per “mandare un messaggio”.A chi? Agli azionisti e obbligazionisti azze-rati delle banche saltate per aria, a cui incampagna elettorale è stata promessa la re-stituzione automatica e integrale dell’inve -stimento, anche se non è legalmente possi-bile. Si tratta quindi di un’altra “megaven -detta”, come quella già annunciata da Roc-co Casalino e messa in pratica contro idirigenti del Mef, contro i tecnici che nontrovano i soldi o non attuano le promesse ir-realizzabili della politica. Adesso tocca aLuigi Federico Signorini, solo perché il suomandato nel direttorio come vicedirettoregenerale di Via Nazionale è in scadenza,ma poteva capitare a chiunque: colpirneuno per educarne cento. Su questo punto, ilM5s è incredibilmente più esplicito, senzaalcun rispetto per la legge e la buona educa-zione istituzionale: “D’altra parte quello

    che vogliamo, come Governo del Cambia-mento, è solo di esprimerci sui nomi dei ver-tici di Banca d’Italia e Consob”. E ancora:“Abbiamo già espresso la nostra preferen-za per Consob, indicando una persona di in-negabile competenza come Paolo Savona.E’ il turno di Banca d’Italia”. Non si sa se inun’affermazione del genere prevalga piùl’ignoranza o la spregiudicatezza, perché algoverno non tocca indicare i nomi del diret-torio della Banca d’Italia, quello è un com-pito che per legge spetta al governatore e alConsiglio superiore a tutela dell’autonomiae indipendenza della Banca centrale. Ma illivello di sgrammaticatura istituzionale siera già visto con il caso citato di Consob, do-ve il governo non si è limitato a mettere alvertice dell’Autorità di vigilanza il ministroSavona (alla faccia dell’indipendenza), maha addirittura parlato di un ticket con Mi-nenna nel ruolo di segretario generale (unanomina che spetta alla Commissione, nellasua autonomia, e non al governo). Altro cheautorità indipendenti: se potesse questo go-verno nominerebbe anche autisti e uscieri.E’ questo il cambiamento.

    L’accordo prima dello shutdownI repubblicani non devono ascoltare Trump se vogliono tutelarsi

    In queste ore che precedono l’ultimatumdi venerdì stiamo assistendo – come in undocumentario sui grandi predatori – a unospettacolo naturale: i repubblicani avrannoabbastanza istinto di autoconservazioneper raggiungere un accordo con i democra-tici, evitare uno shutdown e presentarlo alpresidente Trump affinché, pur con il bron-cio, lo firmi? Oppure non avranno il corag-gio di firmare con i democratici un accordoche potrebbe dispiacere al capo, a Trump, equindi faranno ripiombare l’America inte-ra nell’incubo dello shutdown? Ricordiamotutti cosa è successo durante i trentacinquegiorni di shutdown, il più lungo nella storiadel paese, tra dicembre e gennaio: gli aero-porti cominciarono a chiudere perché ilpersonale della sicurezza restava a casa(del resto perché spendere i soldi per labenzina per andare a lavorare se non hai lostipendio?) e gli agenti dell’Fbi con più ri-sparmi in banca compravano generi ali-mentari per i colleghi che erano più scoper-ti. Furono settimane di totale mancanza di

    dignità per tutti i dipendenti statali – cheschiacciati da affitti e rate da pagare nonavrebbero potuto fisicamente resisteremolto di più. I repubblicani sanno che glielettori non sarebbero affatto felici e da-rebbero loro la colpa – e farebbero pure be-ne, perché è stato lo stesso presidenteTrump ad assumersi tutta la responsabilitàdentro lo Studio ovale davanti a giornalistie telecamere accese.

    Oppure i repubblicani potrebbero farsischiacciare dal timore di Trump, cheascolta non loro ma gli opinionisti di FoxNews – che lavorano per una società pri-vata e hanno poco da perdere – che conti-nuano a sostenere che senza il muro alconfine con il Messico l’intera presiden-za Trump sarebbe un fallimento. Perora le cose vanno in direzione di un ac-cordo da circa un miliardo di dollari epoco più per rafforzare la sicurezza lun-go il confine, e sarebbe una cifra inferio-re all’accordo che Trump ha stracciato adicembre.

    L’inutile regalo di quota 100, sfascia i conti e non risolve i problemiNON ABOLISCE LA LEGGE FORNERO, È A TEMPO E DANNEGGIA I GIOVANI CHE SARANNO COSTRETTI AD ANDARE IN PENSIONE PIÙ TARDIC’è una differenza sostanziale tra la quo-ta 100 di Salvini e il reddito di cittadi-nanza di Di Maio: per quanto quota 100 siaun provvedimento assai ingiusto (molto piùingiusto del reddito di cittadinanza che inprincipio redistribuisce a favore dei poveri)sarà sicuramente molto popolare. I criteridi accesso a quota 100 sono chiari, chi hadiritto andrà in pensione di corsa e chi nonne ha diritto non avrà molto da recriminare(per ora), anzi sarà contento per chi ci puòandare senza rendersi conto che tra qual-che anno a lui sbatteranno la porta in fac-cia. Per il reddito di cittadinanza vale ilcontrario: molti più saranno quelli che cre-deranno di aver diritto al nuovo sussidio(anche perché il governo in maniera stru-mentale così ha fatto credere) e molti saran-no quelli che rimarranno scontenti dopol’applicazione di una lunga gimcana di con-dizioni di accesso. Il reddito di cittadinanzaè molto più a rischio di fallimento di quota100, forse è anche per questo che voglionoforzare le norme per il rinnovo della gover-nance dell’Inps, hanno bisogno di piazzarequalcuno di molto fidato.

    Detto questo la relazione tecnica sullepensioni mette in evidenza alcune ingiusti-zie fondamentali di quota 100.

    1) Il provvedimento ha un evidente sapo-re elettorale: favorisce solo chi matura i re-quisiti nei prossimi tre anni, non abroga laLegge Fornero, che resta pienamente in vi-gore nell’ordinamento, ma introduce piut-tosto un nuovo sistema di deroghe e fine-stre temporanee di uscita anticipata. Nel2022 avremo quelli scontenti del fatto cheper loro la deroga è finita: come quelli che

    oggi giustamente si lamentano di chi in pas-sato è andato in pensione con 19 anni 6 mesie 1 giorno di contributi.

    2) Il provvedimento è riservato in larga

    parte a un segmento limitato e arbitraria-mente individuato di lavoratori: quelli natientro il 1959 con carriere contributive rego-lari (molto spesso nel settore pubblico). Re-stano esclusi i lavoratori giovani e le don-ne, con carriere tipicamente più disconti-nue e irregolari.

    3) In particolare saranno i giovani a paga-re, la relazione praticamente indica un rad-doppio del flusso “naturale di pensiona-mento” nei prossimi 3 anni con un milionein più di pensioni. Istat allo stesso tempoprevede una riduzione della fascia in età dilavoro del 19 per cento (al netto degli immi-grati) da qui al 2031. il debito implicito ècalcolato in 48 miliardi, sembra ovvio chein futuro o si sposterà molto in avanti l’etàpensionabile o si aumenteranno molto icontributi.

    4) Anche all’interno delle generazioniche possono accedere a quota 100 il benefi-cio delle pensioni anticipate è distribuitoin modo diseguale: a guadagnarci sonosempre gli stessi. Chi va in pensione consistema retributivo (cioè aveva 18 anni di

    contributi nel 1995) non perde nulla dal-l’anticipare la pensione, chi non è retribu-tivo ci perde molto di più e gli convieneaspettare i requisiti Fornero (a meno che

    non pensi di lavorare in nero).5) Dopo appena pochi giorni dall’entrata

    in vigore del decreto sono già arrivate oltre27 mila domande, a fronte delle 290 milamaggiori uscite anticipate stimate dal go-verno per tutto il 2019, se questo è il trend lestime andranno presto riviste. A pagare ilconto saranno come sempre i poveri cristi,per esempio con i 2 miliardi di fondi su cuic’è l’ipoteca dell’Ue: se si avvera la necessi-tà di tagli lineari compensativi la legge diceche si dovrà partire dai capitoli di spesa delministero del Lavoro sui quali sono finan-ziati gli interventi sociali e assistenziali. Ingenerale comunque tutta l’operazione è fi-nanziata con l’aumento dell’Iva nel 2020, el’Iva è una tassa notoriamente regressiva.

    6) Pare che la maggior parte delle pri-me domande siano di disoccupati (pareovvio, sono i più urgenti) per i quali peròc’è già la possibilità di prendere Ape socia-le. Se è così c’era bisogno di sfasciare i contipubblici per fare quota 100 per tutti? E poidove sarà la staffetta generazionale con l’as -sunzione di giovani se i pensionandi sono

    disoccupati?7) la pensione di cittadinanza non esiste,

    è solo l’applicazione delle norme del reddi-to di cittadinanza ai pensionati.

    8) fanno anche delle cose buone comebloccare adeguamento speranza di vita delrequisito contributivo a 42 anni e 10 mesi erinnovare opzione donna, tuttavia hannoun vizio molto grave: distolgono tutte le ri-sorse (anche quelle per il lavoro) a favoredelle pensioni: per esempio permettono diusare i fondi dei premi di produttività pergli anticipi pensionistici.

    Alla fine di questo regalo elettorale, sedurerà davvero i tre anni promessi vistol’andamento dei conti pubblici e della cre-scita del paese, tutti i problemi strutturalisaranno rimasti intatti. Bisognerà ripren-dere i discorso dai lavoratori gravosi e dal-la flessibilità in uscita strutturale. Se si ab-bandona l’idea di favorire chi ha carriereregolari si può concentrare la spesa su chi èin difficoltà o sulla flessibilità di uscita apagamento. In fin dei conti migliorando l’A-pe sociale (rendendolo più ampio e struttu-rale) e l’Ape volontario (facendone unapensione anticipata strutturale ma con ri-calcolo contributivo) si può fare molto sen-za sfasciare i conti pubblici. Basti pensareche nel 2017 nel settore privato quasi 1 la-voratore su 4 è uscito senza possedere i re-quisiti di pensionamento della Legge For-nero (circa 71 mila persone su 295 mila usci-te in totale) sfruttando i diversi “scivoli”normativi introdotti nella scorsa legislatu-ra anche all’esito del dialogo instaurato dalgoverno con i sindacati.

    Marco Leonardi

    La maggior parte delle prime domande è di disoccupati, per i quali però c’ègià la possibilità di prendere Ape sociale. Se è così, c’era bisogno di sfasciare iconti pubblici per fare quota 100 per tutti? Dove sarà la staffetta generazionalecon l’assunzione di giovani se i pensionandi sono disoccupati?

    Il consigliere dimesso, i guai del bodyguard e il piano B di MacronMilano. “Nessuno si dimette per un li-

    bro”, ha detto svelta la senatrice verdeEsther Benbassa, che fa parte della com-missione Giustizia dell’Assemblea nazio-nale francese, che ha un’inchiesta apertasul caso Benalla. A dimettersi è statoIsmaël Emelien, detto “Isma”, il consiglie-re speciale del presidente, EmmanuelMacron: in un’intervista al Point, Emelienha detto che lascerà il suo incarico – e ilsuo ufficio al secondo piano dell’Eliseo,che apparteneva a Macron quando era se-gretario generale aggiunto dell’allora pre-sidente François Hollande – a fine marzoperché sta scrivendo un libro-manifestosul progressismo e non sta bene che unoche lavora a così stretto contatto con ilpresidente pubblichi saggi di questo ge-nere. Per confermare questa versione –che più che una versione è evidentissimospin – ieri si è dimesso anche un altrocollaboratore di Macron, che sta scriven-do questo benedetto libro assieme a Eme-lien: si tratta del ventiseienne DavidAmiel, con formazione all’Ena e a Prince-ton, che scrisse la parte economica delprogramma presidenziale di Macron. “La -scerò l’Eliseo come Ismaël – ha detto

    Amiel al Point – per spiegare e difendereil nostro libro”. Amiel lavora nell’ufficiodi Alexis Kohler, che è segretario genera-le dell’Eliseo e che secondo voci insistentisarebbe pure lui in uscita (no, non per illibro).

    Di cosa tratta questo libro, questo “sag -gio dottrinale” sul progressismo, ne parle-remo prossimamente, intanto si sa che so-no circa 160 pagine frutto di un “lavorocertosino” da parte dei due autori. Ma almomento, l’unica cosa che importa è quel-lo che non sta dentro lo spin dell’Eliseo,cioè quanto e come un bodyguard – il ven-tisettenne Alexandre Benalla – può detur-pare una presidenza (una leadership, unacarriera: le guardie del corpo possono tut-to). L’affaire Benalla, di cui ora discute ilParlamento, è apparso fin da subito perquel che è: il lato oscuro della presidenza.Si è detto di tutto su questo bodyguard –basti sapere che Macron ha dovuto preci-sare che Benalla non è mai stato il suoamante – che è stato prima sospeso e poiallontanato dopo che è diventato pubblicoun video in cui picchiava un manifestanteil primo maggio scorso, ma le intercetta-zioni pubblicate dal sito Mediapart hanno

    svelato le coperture di cui godeva all’Eli -seo – non soltanto da parte di Macron, maanche di Brigitte e soprattutto di Emelien.Sarebbe proprio Benalla quindi il puntodi caduta del mondo legato a Macron, lamacronia, anche se molti altri sostengonoche il rapporto di fiducia tra Emelien eMacron – che lavorano insieme dal 2012, ehanno costruito insieme En Marche!, lacampagna presidenziale e l’agenda del-l’Eliseo – si sia spezzato proprio a causa diBrigitte: il libro pettegolissimo pubblicatoa fine gennaio da Plon, “Madame la prési-dente”, racconta l’esasperazione dei con-siglieri del presidente che si sono accortidi quanto sia influente Brigitte e non lareggono più (secondo una fonte anonima,Emelien vorrebbe tanto che la premièredame “morisse”, “sogna la notte come far-la scomparire”).

    Tra pettegolezzi e bodyguard invischia-ti (anche) con i russi, la fuoriuscita diEmelien ha avuto, libro o non libro, uneffetto tremendo sul presidente: se siscorrono i titoli dei giornali francesi siritrovano per lo più analisi allarmiste sul-la tenuta della macronia – poco tempo fa èandato via anche Sylvain Fort, un altro

    peso massimo dell’entourage di Macron. Idetrattori del presidente, che come si sasono molti sia in Francia (dentro e fuori igilet jaunes) sia nel resto del mondo (inItalia non parliamone), gongolano cinici,dicono che il modello francese sta crol-lando, per le forze esterne e per quelleinterne, non ha più punti d’appoggio – e isocial sono pieni di ammiccamenti penosiai fidanzatini di Macron che piano pianolo abbandonano (forse per avviare unacarriera politica in proprio, sostengonoalcuni).

    Il tempismo di queste dipartite – nel belmezzo della crisi dei gilet che ha perso loslancio iniziale ma non si esaurisce maidel tutto – non è certo favorevole al presi-dente francese, che pure con i suoi granddébat stava ricominciando a guidare i te-mi di discussione pubblica e a riconqui-stare popolarità. Ma tra chi gioisce e chi sidispera, c’è una terza via, che non credealla faccenda del libro, ma che vede co-munque un progetto: scrive il Monde cheil presidente sta ricostruendo la propriaimmagine, e lo fa con un rimpasto, soloche nessuno lo chiama così.

    Paola Peduzzi

    Versare il latte, non buttare la politicaLe difficoltà dei produttori sardi e la necessità di rispondere senza demagogia

    Le proteste dei pastori sardi, dramma-tizzate dal gesto del gettare il latte,niente di più innaturale per una cultura dipastorizia, e che ieri si sono estese anchealla Toscana, testimoniano una difficoltàoggettiva a far convivere le leggi di mercatocon la tutela di produzioni che mantengonoi caratteri tipici di una società preindu-striale. La produzione agricola nelle zonead alto sviluppo, in Europa come in Ameri-ca, è in qualche modo sovvenzionata da de-cenni. Si cerca un equilibrio tra costi e ri-cavi puntando sulla tecnologia e sulla stan-dardizzazione. Per la pastorizia, in partico-lare per quella tradizionale, però,l’apporto tecnologico nell’abbattimentodei costi di produzione è assai limitato,mentre le oscillazioni di mercato, soprat-tutto ora che i produttori di formaggio pun-tano ai ricchi mercati dell’America delnord, in questa fase richiedono molta pro-duzione a prezzi bassi. Questi prezzi perònon sono comprimibili al di sotto di un cer-to livello, che è quello raggiunto ora dal lat-te ovino. Ci sono inoltre produttori europeidell’est che, con un costo della vita inferio-

    re, possono esportare latte ovino a prezzibassi, il che, in barba a tutti i regolamentidell’origine controllata, inquina il merca-to. Il problema è reale e complesso (e nonriguarda, in assoluto, i soli ovini sardi, ben-sì tutto un comparto della nostra agricoltu-ra). Il momento, la vigilia delle elezioni re-gionali sarde, è propizio di dare una grandevisibilità alle proteste e a indurre le autori-tà politiche a intervenire. E’ bene che que-sto venga fatto in fretta, per evitare che siincancreniscano le contraddizioni. Ma lesoluzioni non possono essere semplicisti-che e demagogiche (Matteo Salvini ci si èbuttato subito, immemore di alcuni disastricausati quando la Lega, anni fa, difendeva iproduttori del nord nella disputa dellequote latte). Forse garantire meglio l’origi -ne del latte nei formaggi pecorini può av-vantaggiare sia i produttori sia i consuma-tori, e altre regole vanno valutate in sedeeuropea. Ma è appunto qui che il problemaposto dai pastori si fa politico: la mediazio-ne tra regole e mercato, necessaria, chiededi stare ai tavoli internazionali, non rove-sciarli. Di latte, se ne è già buttato troppo.

    La Cina vuole i porti italiani, Venezia firma per aumentare il trafficoRoma. La Cina sembra sempre più attenta

    a entrare per vie preferenziali nei porti ita-liani. E l’accelerazione viene soprattutto dalfatto che la congiunzione astrale favorevoleper siglare accordi strategici potrebbe nondurare ancora a lungo. Quello portuale è in-fatti il settore che più spesso viene paragona-to alla questione del 5G, almeno per quantoriguarda i dossier che valutano l’influenza diPechino nei paesi stranieri. Non è un caso senella proposta di legge sulla Golden powereuropea, di cui l’Italia era promotrice salvopoi un dietrofront del governo gialloverde,sia i porti sia le infrastrutture telefoniche ri-cadessero nell’ambito dello screening euro-peo sugli investimenti stranieri.

    Ieri è stato firmato ad Atene un memoran-dum d’intesa finalizzato “a potenziare i rap-porti e i traffici” tra il porto di Venezia equello del Pireo, controllato dal colosso pub-blico cinese Cosco. L’accordo, secondo ilpresidente dell’autorità di sistema portualedell’Adriatico settentrionale, Pino Musoli-no, “si somma alla collaborazione siglata ne-gli scorsi mesi con Cosco Shipping per un col-legamento settimanale Pireo-Venezia”, e

    serve a “dimostrare che lo sviluppo dei traf-fici richiede primariamente accordi com-merciali, ottimizzazione dei servizi e inter-venti infrastrutturali mirati”. Venezia, se-condo le mappe della Belt and Road Initiati-ve, è il punto di arrivo del mastodonticoprogetto infrastrutturale e d’influenza cine-se, lanciato nel 2014 dal presidente Xi Jin-ping, nella sua rete “marittima”. Un memo-randum d’intesa non è una cessione a Pechi-no, ma di certo un piccolo favore ai trafficiche partono dal Pireo. Su questo, Musolinoha un approccio serio e pragmatico. Il 16 di-cembre dello scorso anno su questo giornale,intervistato da Alberto Brambilla, Musolinodiceva: “Noi come Italia ed Europa non ab-biamo bisogno di finanziamenti cinesi, a noiinteressa semmai avere flussi commercialimaggiori, che anche i cinesi possono offrire,e aumentare i traffici nei nostri porti”. E poi:“E’ preferibile mettere le società pubblichein condizioni di lavorare meglio anziché pro-cedere a una privatizzazione dei porti condelle Spa private messe sul mercato perché,eventualmente, molti soggetti privati, tra cuianche i cinesi, ci farebbero un lauto pasto.

    Non è una prospettiva molto remota, in quelcaso, la cessione del controllo di una struttu-ra strategica per l’economia e per l’esistenzastessa di un paese costiero come il nostro. Dicerto dobbiamo fare affari con tutti, ma seproprio dobbiamo fare una scelta preferiscol’alveo euro-atlantico piuttosto che finiresotto un Beijing consensus”. Fare affari contutti, ma con cautela.

    Il problema, semmai, è capire cosa vuolefare esattamente il governo delle sue infra-strutture strategiche. Quel che sappiamo èche la Cina punta non solo al porto di Vene-zia, ma a vari infrastrutture nell’Adriatico. Agiugno dello scorso anno il porto di Ravennaè diventato la sede europea della Cmit Euro-pe, società della compagnia statale ChinaMerchants Group. A metà dicembre una de-legazione di Ravenna guidata dal sindacoMichele De Pascale e dal presidente dell’Au -torità portuale Daniele Rossi è volata a HongKong. A breve uscirà il bando il Progetto HubPortuale Ravenna, un investimento da oltre260 milioni di euro, che però scarseggiano. Ilporto di Ravenna ha bisogno di soldi e inve-stimenti, la China Merchants Group è già lì.

    Del porto di Trieste si parla già da tempo.Il sottosegretario allo Sviluppo economico,Michele Geraci, oltre alle molte missioni inCina è presente spesso anche a Trieste, chepiù volte ha indicato come “terminale” dellaBelt and Road Initiative cinese. “Trieste e ilnordest Adriatico offre tantissime opportu-nità di sviluppo e la cooperazione con par-tner stranieri, vista anche la posizione stra-tegica a ridosso della frontiera”, ha detto du-rante una visita ai cantieri insieme con il vi-ceministro alle Infrastrutture Edoardo Rixi.Il 21 settembre 2018 Geraci ha agevolato unincontro tra il ministro dello Sviluppo eco-nomico, Luigi Di Maio, l’assessore alle Attivi-tà produttive della regione Friuli VeneziaGiulia, Sergio Emidio Bini, e il presidentedell’Autorità di sistema portuale dell’Adria -tico orientale, Zeno D’Agostino. Legittimo, senon fosse per un particolare, il luogo in cui èavvenuto: la città di Chengdu, nella provin-cia industriale del Sichuan, dove era in corsola fiera Western China International che ser-ve a promuovere proprio la Belt and RoadInitiative.

    Giulia Pompili

  • ANNO XXIV NUMERO 37 - PAG 4 IL FOGLIO QUOTIDIANO MERCOLEDÌ 13 FEBBRAIO 2019

    Red box

    La strategia grillina su Bankitalia è pericolosa e controproducente. EsempiLe testate di Luigi Di Maio contro il porto-

    ne di Palazzo Koch hanno preso la forma delno alla conferma di Luigi Federico Signorininel ruolo di vicedirettore generale. Anche seil suo nome compare ancora sul sito dellaBanca d’Italia, il mandato di Signorini è sca-duto l’11 febbraio e da due giorni il direttorio– composto dal governatore, dal direttore ge-nerale e da tre vicedirettori generali – funzio -na con un membro in meno. Il M5s ha