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Idol

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Roberta Tiddia, favola gay V.M. 14

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ROBERTA TIDDIA

II DD OO LL

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IDOL Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Roberta Tiddia ISBN: 978-88-6307-384-3

Realizzazione immagine: Nat

Finito di stampare nel mese di Settembre 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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A Michela, Alessia e Anna, che mi sono state accanto sin dall’inizio.

A Francesca, Eleonora e Olga, che si sono aggiunte più tardi,

ma che son state fondamentali.

A Francesco e Federico, che carpiscono ogni mia sensazione con una semplice occhiata.

Alla mia famiglia e soprattutto al piccolo Andrea.

A Nat che ha curato la grafica della copertina.

A quel banco di scuola sul quale è nato questo libro.

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Capitolo 1 Lui, lei e loro

«Tre! Tre punti! Lui è un Dio! Un Dio, diamine! Un Di…» «Bryan, smetti di strillare!» lo interruppe stancamente Savannah, pog-giando la padella sul fornello con un sospiro. «Ma ha fatto canestro da centro campo! Con la sinistra!» puntualizzò me-ravigliato il ragazzo, mentre saltava per sventolare la vistosa bandiera bianca. Nell’altra mano, stringeva un cuscino con la faccia di un ragazzo dai corti capelli corvini stampata sopra. Savannah alzò gli occhi al cielo e cercò di ignorare i suoi schiamazzi, de-cidendo di concentrarsi sulle uova che cuocevano nel tegamino. Bryan di-ventava assolutamente irriconoscibile davanti ad una partita dei Celtics, soprattutto quando quel Bennett giocava fin dal primo minuto. Dal poco che aveva capito, o meglio, da ciò che Bryan le aveva praticamente urlato nell’orecchio ogni giorno della sua vita, l’allenatore lo teneva quasi sem-pre come asso nella manica. Solitamente, Bryan era un ragazzo tranquillo, dall’aspetto gracile e dal ca-rattere mite. Aveva diciotto anni e frequentava la quinta superiore, studia-va come un pazzo e… era tremendamente solo. Il motivo di ciò risiedeva forse nel fatto che Bryan non era il solito ragaz-zetto atteggiato, che pretendeva di risultare di tendenza con dei vestiti ri-tenuti in quel periodo di moda. Bryan aveva sempre preferito una paio di jeans comodi e spesso scoloriti, abbinati a delle maglie fini e striminzite, con le maniche lunghe abbastanza da coprigli le nocche. I suoi coetanei non amavano le sue scelte, la sua aria un po’ scialba. A Bryan quella si-tuazione importava fino ad un certo punto, perché in fondo, anche volen-do, lui e sua madre non avrebbero potuto permettersi grandi cambiamenti in fatto di abbigliamento: lo stipendio era uno solo, e doveva essere speso con attenzione e criterio. Non c’era un uomo, un papà che badasse a loro, no. Era una storia com-plicata. Savannah e Mark si erano incontrati quando lei aveva diciannove anni. La loro storia era cominciata solamente due mesi dopo essersi cono-sciuti, e dopo un anno Savannah era rimasta incinta. Mark, inizialmente, si

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era mostrato felice per il nuovo arrivo, ma poi, ad un mese dal parto, ave-va smontato baracca e burattini e aveva lasciato Savannah. L’aveva lascia-ta sola, con un bimbo in grembo, mille spese alle quali badare e una vita in bilico fra la miseria e la disperazione. Savannah si era rifugiata nella casa della madre, nella speranza che quella di Mark fosse stata solamente una crisi da paternità imminente. Mark però non era tornato. Non aveva mai riconosciuto il piccolo Bryan, non l’aveva mai voluto nemmeno vedere, di lui si erano perse le tracce ed il piccolo aveva ereditato solamente il cognome della madre, Mills. Dopo due anni, Savannah era riuscita a trovare un lavoro e un’amica che badasse a Bryan mentre lei era fuori casa, così aveva preso in affitto una minuscola casetta a Boston e si era trasferita. Bryan e Savannah avevano vissuto con poche cose, agi inesistenti, la fati-ca per arrivare a fine mese, ma anche con tanta forza di volontà e speran-za. Il loro rapporto col passare del tempo era diventato forte, risorsa di speranza e di tranquillità. Certo, sarebbe stato tutto più facile avendo un capofamiglia in casa, ma se la cavavano e si accontentavano. In fondo avevano la fortuna di poter ave-re un piatto di pasta per il pranzo e uno per la cena, un letto sul quale dormire e un tetto sopra le loro teste. Nonostante Bryan non avesse poi una situazione migliore al di fuori dall’ambito familiare, riusciva comunque a non perdersi d’animo. Stava bene da solo, davanti ad una ciotola di pop-corn al caramello, seduto sul divano, la TV sintonizzata sulla solita partita di basket della squadra del cuore. Ok, a dirla tutta, la squadra non era il suo unico interesse. A destare la sua attenzione era anche, e soprattutto, quel cestista, quello che aveva portato alla squadra centinaia di punti in soli due mesi nella stagione passata. La nuova stagione sarebbe cominciata circa un mese e mezzo dopo, e in quel periodo era in corso la così detta Pre-Season, una serie di sette amichevoli che precedono la lunga e rigorosa Regular Season, che dà il via al vero e proprio campionato NBA. Bryan non se n’era perso una, ovviamente. Era incredibile. Ty Bennett, oltre ad essere un indiscutibile talento in am-bito sportivo, era molto amato anche per il suo aspetto da rapper mancato, abbinato ad un’inaspettata faccia d’angelo. Era alto un metro e novantatre, aveva la pelle quasi sempre abbronzata, i denti bianchi e degli occhi color cioccolato, tempestati da pagliuzze color oro. Bryan stravedeva per Ty Bennett: avrebbe voluto essere bello anche solo la metà di lui, ma non sembrava proprio che il suo corpo avesse intenzione

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di riempirsi improvvisamente di muscoli tonici; avrebbe dovuto tenersi quel corpo che, seppure dotato di una considerevole altezza - un metro e ottantacinque centimetri - si presentava fine e fragile come un fuscello. Tra le altre cose, Bryan avrebbe dovuto rassegnarsi al fatto che avrebbe dovuto continuare ad osservare Ty solamente attraverso la TV. Lui e Sa-vannah non potevano permettersi nessun biglietto per le partite, almeno non fino a quando lui avrebbe concluso il ciclo di studi per poi cercarsi un lavoro. Ciò che a Bryan faceva più male era il fatto che, pur abitando a Boston, la città della squadra, lui non aveva mai visto il suo idolo di per-sona. Con uno stipendio in più in famiglia, avrebbe potuto vedere anche più di una partita. Con un padre avrebbe anche potuto assistere dal vivo alle partite disputate al TD Garden e guardare quelle in trasferta con lui, davanti alla TV. Ma-gari avrebbero potuto vestirsi entrambi di verde, sventolare le bandiere e maledire l’arbitro in coro. Invece no. Niente partite, niente papà, niente di niente. Erano quelli i momenti nei quali Bryan sentiva la mancanza di un papà mai avuto.

Bryan odiava e amava andare a scuola. Doveva camminare per un quarto d’ora, ma quella forse era la parte che amava di più. Il suo fedele MP3 gli faceva compagnia (sua madre riusciva ogni tanto a chiedere ad alcune del-le sue colleghe di riempire il dispositivo di nuova musica), soprattutto quando faceva freddo. Bryan amava il fatto di potersi imbacuccare, copri-re metà del viso con la sciarpa di pile nero, alzare il cappuccio sul capo e camminare con le mani tiepide affondate nelle tasche. Con la mano destra teneva il suo MP3 nella tasca, il pollice sempre posato sul tasto per passare alla canzone successiva. In quel momento, Bryan era a metà del suo percorso, nella stessa situazio-ne descritta prima. Odiava il sabato. Lo odiava perché il sabato le prime due ore di lezione erano niente poco di meno che letteratura e storia. Bryan rabbrividì sospirando. Odiava quelle materie. Lui era un tipo più sistematico, amante delle scienze esatte, della matematica, della biologia e della chimica. Quelle sì che erano lezioni interessanti per lui, altro che guerre sanguinose e colpi di stato svoltisi secoli prima.

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Il ragazzo sbadigliò e arrivò finalmente davanti a scuola. Si sentiva rab-brividire solamente al pensiero di dover subire le scialbe battutine dei suoi compagni vestiti alla moda. A lui non importava un fico secco di vestirsi in un certo modo. Si trovavano a scuola, non ad una sfilata di moda, e lui non aveva voglia di svegliarsi due ore prima per scegliere gli abbinamenti dei vestiti solo per compiacere gli altri. Potevano prenderlo in giro quanto volevano, ma lui andava a scuola per farsi una cultura e concludere il ciclo di studi obbligatorio. Bryan entrò nell’aula e sbuffò quando sentì i suoi compagni parlare della partita del giorno prima. Si sedette nel solito posto e poggiò la borsa sul banco, tirando subito fuori un libro per avere qualcosa da fare. «Bennett ieri non era in gran forma, sa fare di meglio», affermò con fare altezzoso una sottospecie di signorino vestito Burberry, che probabilmente non sapeva nemmeno di che colore fosse una palla da basket. Le palpebre di Bryan si abbassarono repentinamente. “Certo, e quel cane-stro da centro campo chi l’ha fatto?”, contestò mentalmente, senza avere il coraggio di voltarsi e dire ciò che pensava a quell’idiota col cappellino ro-sa. Orrendo. «Oh sì, sono d’accordo», convenne Mariah, ravviandosi i capelli ricchi di meches bionde. Bryan si sentì ribollire e afferrò una matita, affogando il suo dispiacere sul libro di storia. “Questo è il colmo, zitta gallina!”, scrisse sul margine, scuotendo la testa. Se c’era un’altra cosa che Bryan odiava categoricamente, erano le uscite poco intelligenti e non ragionate dei suoi compagni di classe. Erano una massa di idioti patentati. Quando la professoressa di Letteratura e Storia entrò in classe, tutti si al-zarono in piedi e la salutarono senza troppe cerimonie. Quella fece in tempo a poggiare le sue cose sulla cattedra, che aveva già incominciato a scorrere il dito sul registro per cominciare le interrogazio-ni. Erano le prime dell’anno scolastico, e nessuno si era fatto avanti come volontario. Come sempre. «Mariah, in letteratura, su», disse scribacchiando qualcosa sul registro. La ragazza spalancò la bocca e scosse la testa. «Oh, professoressa per fa-vore, non oggi! Non potrebbe chiamare Bryan?» chiese gesticolando fu-riosamente. Il ragazzo si voltò e la fissò irritato. «Che vuoi da me?!» le chiese scon-volto. Che diavolo?!

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Mariah scrollò le spalle e sbatté le ciglia in modo persuasivo. «Bryan, tu sei il migliore della classe, andresti sicuramente meglio di me… Per favo-re?» Il ragazzo sbuffò una risata scettica. «Senti, con me non attacca, chiedilo al tuo caro amico stiloso, non a me.» «Dio, sei proprio una spina», replicò la ragazza alzandosi scompostamen-te. Raggiunse la cattedra e quasi sbatté il proprio libro sul legno chiaro, lanciando sguardi arrabbiati al povero Bryan, che scosse la testa e ritornò al proprio libro. Vi scribacchiò sopra alcune considerazioni poco carine verso la sua intelligentissima compagna di classe. «Mariah, non credo sia il caso prendersela con il tuo compagno, ho chia-mato te e tu dovresti aver studiato. Vi avevo avvisati. Avevo avvisato tutti quanti, non solamente gli studenti più brillanti e puntuali con lo studio», affermò la Professoressa, rivolgendo un lieve sorriso al ragazzo, che stava nemmeno più seguendo il suo discorso. Mariah sbuffò indignata e aprì il libro in una pagina a caso. Quel Mills l’avrebbe pagata.

Bryan sospirò stancamente avviandosi verso l’aula di matematica, una volta conclusa la ricreazione. C’era qualcosa di strano. Bryan riusciva a vedere i suoi compagni già tutti seduti in classe in silenzio. Che stava suc-cedendo? Quando entrò nell’aula, tutti si voltarono verso di lui. Avevano tutti delle chiazze scure sul viso, probabilmente disegnate col carboncino che utiliz-zavano per disegnare all’ora d’Arte. Sembravano un branco di bambini sporchi. Alcuni di loro si erano seduti in terra con un cappellino poggiato sul pavimento. Conteneva delle mone-tine. Bryan li squadrò inebetito. Erano impazziti? Mariah si alzò, ma si buttò quasi subito a terra, e gli altri la imitarono, but-tandosi a quattro zampe sul pavimento. «Oh, è arrivata sua maestà! Il nostro re, il Re dei Barboni è arrivato! Salu-tiamolo, popolo sudicio!» recitò la ragazza, senza risparmiarsi una risata maligna tra una parola e l’altra. Tutta la classe borbottò dei saluti indistinti, e Bryan si sentì morire per un secondo. Ok, non gli importavano le prese in giro, ma quella era una vera e propria umiliazione.

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“Sono degli emeriti bastardi”, si disse mentalmente, scuotendo la testa sconfitto. «Sua Maestà, siamo abbastanza sporchi per i suoi standard? Non saremo mai dei barboni come lei! Ci scusi per la nostra troppa pulizia! E per i no-stri vestiti!» continuò Mariah, suscitando le risate dei compagni. Bryan non rispose e sentì una mano posarsi sulla propria spalla. Quando si voltò, trovò davanti a sé il professore di Matematica. Il professore più simpatico e giusto di tutto il corpo docenti. «Complimenti ragazzi, siete veramente gentili. Ottima recitazione. Ora andate immediatamente a lavare quello schifo dal viso e tornate subito in classe, avrete una bella nota nominale da leggere al vostro ritorno. Filate!» pronunciò serio stringendo le dita sulla spalla del ragazzo, che era rimasto immobile, con lo sguardo puntato dritto davanti a sé. «Ma professore…» «Niente ma! Filate immediatamente!» sbottò il professore alzando leg-germente il tono di voce. Tutti si alzarono velocemente da terra e Bryan rimase da solo col profes-sore. «Bryan, dovresti ribellarti», disse solamente l’uomo, avviandosi subito verso la cattedra. Afferrò il registro e prese a scrivere una lunga nota, e-lencando i nomi di tutti i presenti, tranne quello di Bryan. Il ragazzo abbassò lo sguardo e scosse la testa. «Non ne vale la pena, an-cora qualche mese e finiremo il ciclo di studi. Non voglio rovinare la mia condotta per colpa loro, farei solo il loro gioco.» Il professore sorrise ed annuì. «Farai molta strada. Vai a sederti Bryan, e sta tranquillo, il consiglio di classe terrà conto del clima irrespirabile che i tuoi compagni creano solo per te», gli assicurò con espressione convinta. Bryan riuscì finalmente a sorridere e si sedette, aprendo il quaderno di matematica col cuore leggero.

Sbatté la porta di casa, per poi pentirsene subito dopo: la loro povera ca-setta non meritava un simile trattamento. «Mami? Sono a casa!» disse to-gliendosi la felpa ed appendendola all’attaccapanni nell’ingresso. «Ciao tesoro, sono in cucina!» Bryan fece capolino e le sorrise lievemente, sedendosi subito a tavola. Spinaci con formaggio e uova, i suoi preferiti! «Buoni!» esultò afferrando la forchetta.

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Sua madre si voltò, poi si sedette proprio di fronte al ragazzo. «Bryan, mi hanno chiamata da scuola. Era il tuo professore di matematica», confessò rivolgendo al figlio uno sguardo apprensivo. Bryan schiuse la bocca, poi sospirò. Avrebbe dovuto immaginarlo. «Oh…» disse solamente, fissando con una smorfia gli spinaci. «Mi dispiace per come vieni trattato, e mi stavo chiedendo se… volessi cambiare classe. O scuola», propose fissandolo dritto negli occhi. «No, mamma, ormai è finita, ancora qualche mese e mi libererò di loro, è meglio così, sul serio», la rassicurò Bryan, annuendo a lei ed a se stesso. «Va bene, ma se ci dovessero essere altri problemi voglio che tu ti rivolga subito ai tuoi professori. Non è giusto che ti mettano i piedi in testa perché non gradiscono i vestiti che porti. Vali più di loro, io lo so.» Bryan sorrise e ingoiò una forchettata di spinaci. «Mami, non può piovere per sempre, giusto? Io sono speranzoso!» sproloquiò, lanciando anche un pugno al cielo, giusto per rafforzare la sua tesi. «Hai ragione, prima o poi avrai tutto quello che meriti. Se poi io potrò fare qualcosa per aiutarti, la farò.» «Mamma, hai già fatto abbastanza. Non vedo l’ora di finire la scuola e cercarmi un lavoro, full time o part time che sia. Sai quale sarà la prima cosa che farò?» chiese con un sorriso. Savannah rise solare. «Comprare un benedetto biglietto per vedere Benn… ehm, i Celtics.» Bryan arrossì ed annuì. «Non ti dispiacerà il fatto che spenderò i miei primi soldini per vederli? Il resto lo darò a te, giuro.» «Amore, prova a consegnarmi anche solo un dollaro dei soldi guadagnati e te li farò mangiare assieme agli spinaci!» Bryan rise e scosse la testa. Entro un anno avrebbe finalmente visto il suo idolo fare canestro di persona…

Nonostante il discorso tenuto con Bryan all’ora di pranzo, Savannah era un po’ preoccupata, triste. Le dispiaceva immensamente non poter dare a Bryan l’opportunità di vedere almeno una partita, prima che lui comin-ciasse a lavorare per fare tutto da solo. In quel modo Bryan avrebbe potuto distrarsi dalle mattinate infernali che gli facevano passare a scuola. Non aveva proprio scelta: l’affitto, la bolletta della luce, quella dell’acqua e quella dell’elettricità gravavano sulle sue spalle. Nemmeno per quel me-

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se avrebbe avuto la possibilità di fare uno sforzo e comprare un biglietto a suo figlio. “Sono una fallita”, si rimproverò mentalmente, reprimendo un gridolino quando si punse con l’ago con il quale stava riparando dei vecchi calzini marroni. “E sono pure un’imbranata”, aggiunse scuotendo la testa. “Dieci fortunatissimi americani avranno la possibilità di incontrare il lo-ro personaggio famoso preferito con il nostro nuovissimo e spettacolare programma Meet your IDOL!” Savannah sbiancò, il cuore le salì in gola ed il fiato le si mozzò per qual-che secondo. Alzò di scatto il capo, fissando la piccola TV poggiata sul ripiano della cucina. “Un’occasione imperdibile! Tutto quello che dovrete fare, sarà tentare la sorte! Mandate una mail con la vostra storia, o della persona alla quale vorreste far incontrare il suo Idolo, noi sceglieremo dieci di voi, e vi fa-remo incontrare il personaggio scelto! Cosa aspettate? Inviateci le vostre storie all’indirizzo [email protected]! Vi aspettiamo con Meet your IDOL!” Savannah buttò all’aria ago e calzino e scrisse l’indirizzo su un foglietto, poi lo ripose nel taschino del grembiule da cucina. «Dio», soffiò portan-dosi una mano sul cuore. E se quello fosse stato il raggio di sole prima della fine della tempesta? La donna si risedette per l’emozione. Avrebbe potuto realizzare il sogno del suo bambino, mandando una semplice mail e sperando di avere quella maledetta botta di fortuna. “Non abbiamo nemmeno un computer”, si ri-cordò sbuffando e alzando gli occhi al cielo. Pazienza, avrebbe speso due dannatissimi dollari e avrebbe usato un PC all’Internet Point. Serviva solo fortuna. Tanta fortuna.

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Capitolo 2 Acqua, Limoni e Speranze

Savannah ci aveva pensato. Nonostante la scarsissima probabilità che il sogno del suo bambino potesse realizzarsi, si era detta che, in fondo, ten-tare non le avrebbe cambiato la vita. Ok, sì, nel caso remoto in cui la sto-ria di Bryan fosse stata estratta, di certo qualcosa sarebbe cambiato, ma non sapeva nemmeno se in meglio o in peggio. Bryan avrebbe visto un sogno realizzarsi, ma dopo? Come sarebbe stato? Il ricordo l’avrebbe cor-roso? L’avrebbe buttato giù, facendolo piangere davanti alla TV durante le partite? La donna sospirò e si grattò il mento. Stava ricominciando da capo. Aveva deciso durante la notte di provare, ma ora i ripensamenti la stavano facen-do impazzire. In quel momento, suo figlio era a scuola. A scuola, a studiare e a subire le cattiverie dei suoi compagni di classe. Ecco. Nel caso in cui Bryan avesse avuto la possibilità di incontrare un personaggio famoso, oltretutto di ge-nere maschile, quelli ci avrebbero sicuramente riso sopra. Poi l’avrebbero odiato per l’invidia. Poi l’avrebbero bullizzato per il resto dell’anno. Come se già non lo facessero. Savannah sospirò e scosse la testa. Cosa diavolo avrebbe dovuto fare? In-somma, ogni decisione corrispondeva a buone e cattive conseguenze, o-gnuna delle quali avrebbe avuto un effetto devastante sul povero Bryan. Anche il non tentare la sorte avrebbe avuto delle conseguenze. Lei sarebbe morta dal rimorso, e Bryan avrebbe sospirato davanti alla TV, guardando quel maledetto Meet your Idol. Era sempre tutto tremendamente difficile. La pubblicità del programma passò per l’ennesima volta alla TV e Savannah la osservò corrugando la fronte. Avrebbe deciso quella sera stessa. Invio o non invio?

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Bryan proseguì dritto per la sua strada, cercando di ignorare le voci dei suoi compagni di classe che camminavano dietro di lui. Stava tornando a casa, e, purtroppo per lui, i suoi compagni avevano deciso di fare un pez-zetto della strada che lui di solito percorreva da solo. In effetti era strano. Quella decina di idioti tornavano quasi sempre in macchina, accompagnati dai loro fidanzatini vestiti Richmond - marca ri-voltante - con quella frastornante musica House, nelle loro auto orribil-mente modificate con quei terribili fari fuxia. Bryan deglutì e sospirò, sentendo il gruppetto ridere dietro di sé. Avevano intenzione di seguirlo? Di fargli qualche agguato? La risposta arrivò po-chissimi secondi dopo. Il ragazzo sentì uno strano trambusto, rumore di zip che si aprivano e richiudevano, risate, bottiglie di plastica schiacciate e… splash! Faceva un freddo cane, e lui era appena stato completamente infradiciato da quegli stronzi, che se la ridevano come pazzi. E in più… il suo orec-chio destro non sentiva più nessuna melodia provenire dall’auricolare dell’MP3. Abbassò il capo e guardò il proprio corpo zuppo. La tasca della sua felpa grondava, e il suo MP3 avrebbe potuto tranquillamente galleg-giare. I capelli gli gocciolavano, bagnando tutto il marciapiede attorno a lui. Si voltò appena verso i suoi compagni, il cuore immobile seppellito nella ter-ra fredda. Non disse niente, ma il suo sguardo chiedeva solamente: per-ché? Ovviamente i suoi compagni non lessero niente nel suo sguardo sfatto, an-zi, risero ancor più febbrilmente. Solo dopo qualche secondo Mariah riu-scì a parlare fra le risa. «Mills, un’altra scenata di vittimismo, e giuro che ti butteremo direttamente in un fiume.» Bryan scosse la testa e si voltò. Errore. La spalla gli dolse, poi avvertì un colpo secco anche sulla testa, sulla schiena e sulle gambe. Vide dei limoni cadere sul marciapiede. Glieli avevano lanciati. Le sue labbra si arriccia-rono e corse più in fretta che poté, allontanandosi velocemente da quel gruppo di animali senza cuore. Cos’aveva fatto per meritarsi tutto questo?

Bryan sbuffò rumorosamente ed entrò in casa, infilandosi dritto nel bagno. Senza una doccia calda gli sarebbe venuta una polmonite in meno di un’ora. Sentì quasi subito sua madre bussare alla porta e sospirò. «Ciao Mami, faccio una doccia calda, mi hanno fatto un altro dei loro simpati-cissimi scherzi», disse con triste noncuranza.

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Savannah trattenne rumorosamente il fiato e Bryan smorzò un sorriso ras-segnato. «Bryan, piccolo, dimmi che non ti hanno picchiato! Cosa ti hanno fatto?» chiese preoccupatissima, appiccicandosi alla porta del bagno, quasi voles-se percepire anche il più sommesso dei gemiti di dolore del ragazzo. Non avvenne. «Mami, no, mi hanno solo fatto un gavettone d’acqua gelata. Poi hanno giocato al tiro a segno con dei limoni», spiegò levandosi i vestiti fradici. «Oh Dio, Bryan…» sospirò Savannah, posandosi le mani sul viso. Si sen-tiva così inutile… «Ti ho detto che il bersaglio ero io?» chiese Bryan ironico, tanto per smorzare la disperazione della madre. «Piccolo, non voglio che ti trattino così…» sospirò scuotendo la testa e facendo una smorfia dispiaciuta. Poggiò la schiena sulla parete e alzò il capo, osservando il soffitto. Bryan riusciva addirittura a scherzare su tutte quelle difficili situazioni che si ritrovava a vivere tutti i giorni, mentre lei si preoccupava di una stupida mail. Eh, no. Ci avrebbe provato, e avrebbe pregato tutti i santi giorni qualsiasi cosa ci fosse lassù in quel dannato cie-lo sconosciuto per far sì che la situazione cambiasse finalmente in meglio.

La mattina dopo, Savannah utilizzò la sua pausa di metà mattinata sul po-sto di lavoro per recarsi all’Internet Point davanti al Palazzo Comunale. La donna lavorava lì, all’Ufficio Anagrafe. La paga non era malaccio, ma non era soddisfacente per una famiglia di due persone. Entrò nel locale e cercò una postazione libera, sperando di riuscire a fare tutto per bene, sen-za commettere errori. Creò una nuova casella e-mail e si segnò indirizzo e password su un biglietto da visita, che ripose all’interno del borsellino verde marcio. Cliccò su “nuova mail” e sospirò, sgranchendosi le dita af-fusolate. Cos’avrebbe dovuto scrivere di preciso? La storia di Bryan. Osservò lo schermo per qualche secondo, i polpastrelli immobili sulla tastiera. Alzò gli occhi al cielo e decise di digitare per pri-ma cosa l’indirizzo della rete televisiva, per cominciare. Mentre lo faceva, ripensò al frustrante periodo che Bryan stava passando a scuola. Non era per niente giusto. Quella massa di bambini, perché gente del genere non poteva essere considerata adulta, erano semplicemente dei bastardi. Delle luride carogne senza i cosìddetti all’interno delle mutande.

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Era facile prendersela con Bryan, ovvio. Il massimo della sua reazione era sempre uno sguardo arrabbiato o triste, una frase composta da non più di sei parole, oppure il totale silenzio. Maledetti. “Mi chiamo Savannah Mills, sono una mamma, una mamma senza un marito, che desidererebbe tramutare in realtà il sogno del proprio bambi-no. Mio figlio si chiama Bryan, ha diciotto anni e frequenta l’ultimo anno dell’High School. Ama il basket, tifa i Celtics e ovviamente adora Ty Ben-nett, da ormai tre anni. Non ho mai avuto la possibilità di portarlo ad una loro partita, nonostante lo stadio dei Celtics si trovi non troppo lontano da casa nostra. Viviamo a Boston, eppure lui non ha mai visto i Celtics dal vivo. È triste, ma non ho le possibilità economiche per farlo felice. Lui non mi ha mai pregata, non ha mai preteso nulla, ma per una volta vorrei poter realizzare il suo sogno. Voi potete farlo. Sono patetica, mi ritrovo a rivolgermi ad un’emittente televisiva per far felice il mio Bryan, ma è l’unica possibilità che ho. Savannah Mills” Aggiunse l’indirizzo e il numero di casa, poi rilesse mille volte l’e-mail. Una volta soddisfatta, cliccò sul pulsante “Invia Mail” e sperò di non aver sbagliato nulla. Quella mail avrebbe potuto rendere Bryan incredibilmente felice. Chissà, magari la produzione l’avrebbe cestinata senza nemmeno darle un’occhiata, ma non voleva avere il rimorso non di non averci pro-vato. Bryan meritava veramente quel pizzico di felicità e soddisfazione, e quella era evidentemente l’unica sua possibilità a disposizione per dargli ciò che sognava. Aveva fatto la cosa giusta.

Quello era l’Inferno, punto. Andare a scuola senza l’MP3 ficcato nelle o-recchie era stato uno strazio, perché non era riuscito a distrarsi e a non pensare a ciò che lo aspettava a scuola. E a scuola lo aspettava quella sot-tospecie di gruppetto mafioso di stronzi, tutti in ghingheri, che parlottava-no in cerchio, indicandolo e ridendo di lui. Come far sentire a disagio una persona. Avrebbero dovuto girare un video tutorial. Erano veramente esperti, e quella era quasi sicuramente l’unica cosa che gli veniva perfettamente. Quando entrò in classe, si diresse immediatamente al proprio posto, poi si sedette cercando di non attirare l’attenzione dei pochi idioti che erano già entrati in classe.

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Il giorno prima aveva cercato in tutti i modi di rianimare il suo MP3. L’aveva smontato con un cacciavite e asciugato col phon. Niente. Era morto, e con lui anche Bryan. Perfetto, avrebbe dovuto passare il resto dei suoi giorni senza potersi isolare durante il tragitto da casa a scuola e i pe-riodi di tempo libero che concedevano tra una lezione e l’altra. Forse però avrebbe potuto comprarsene uno nuovo. Avrebbe potuto… Bryan sgranò gli occhi e tirò fuori un foglio dalla cartella. Lo stese per bene sul banco poi afferrò un pennarello nero. “Offro ripetizioni di Matematica e Inglese al prezzo di soli due dollari l’ora, disponibilità per tutti i giorni salvo il venerdì e il sabato. Numero di telefono: ****/*******. Mills Bryan”. Il ragazzo sorrise e richiuse la borsa, uscendo poi in fretta dalla classe. Ar-rivò di fronte alla bacheca e vi appese l’avviso, sperando che qualcuno l’avrebbe contattato. Insomma, due dollari l’ora! Era una vera miseria! Un lettore MP3 costava almeno venti dollari, e magari, in uno o due mesi, sa-rebbe riuscito a racimolarli. Rientrò in classe con un piccolo sorriso. I suoi compagni l’avevano visto uscire, ed ora erano tutti curiosi di vedere cos’avesse appeso Bryan in bacheca.

Non sapeva come, ma la mattina era volata. Aveva cercato di concentrarsi sulle parole dei professori, visto che quelle dei suoi compagni non erano esattamente carinerie a lui rivolte. La verità era che gli veniva da piangere. Cercava sempre di reagire nel modo migliore, ma continuando a riempire il magazzino della depressione in quel modo, prima o poi sarebbe scoppia-to in lacrime davanti a tutta la classe. Quella sarebbe stata la sua fine. Non poteva permettersi nemmeno un passo falso. Doveva continuare su quella linea. Avrebbe dovuto resistere, farsi carico di delusioni che poi, dopo la fine della scuola, si sarebbero quasi sicuramente moltiplicate. Uscì dalla classe con lo zainetto in spalla, e si accorse subito di un piccolo gruppo di persone che sostavano davanti alla bacheca, dandosi gomitate e ridendo a voce alta. Gli crollò il cuore. Si avvicinò in tutta fretta, e vide il proprio avviso modificato. Era stata attaccata su di esso una striscia di te-sto, che alterava completamente il senso del suo avviso.

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“Offro servizietti(solo bocca) al prezzo di soli due dollari l’ora, disponi-bilità per tutti i giorni salvo il venerdì ed il sabato. Numero di telefono: ****/*******. Se risponde mamma, è uguale. Mills Bryan”. Gli occhi gli bruciarono immediatamente, così si fece largo tra la folla ila-re e strappò l’avviso, defilandosi di fretta e con lo sguardo puntato sul pa-vimento. Tornò a casa in dieci minuti. Aveva quasi corso per tutto il tra-gitto, per poi spalancare la porta di casa e buttare lo zaino per terra con un rumoroso tonfo. «Bryan?! Che succede?!» chiese Savannah, affacciandosi per trovarsi da-vanti nient’altro che il suo bambino distrutto, con gli occhi rossi e gonfi, il fiatone e le braccia abbandonate lungo i fianchi. Bryan fece una smorfia, poi scoppiò a piangere, abbracciandola d’impeto. «Mamma, ma cos’ho fatto? Mi trattano peggio di uno appestato!» mugu-gnò stringendosi alla donna. Savannah lo cinse e gli accarezzò i capelli da sopra la sua fidata cuffietta con la visiera. «Piccolo, se fossi stata al tuo posto sarei impazzita già da mesi, sono anni che ti trattano così… Sei così forte, piccolo… Sappi che io sono orgogliosa di te, hai tutta la determinazione che io non ho mai a-vuto», lo rassicurò chiudendo gli occhi. «Mamma, posso essere forte fino ad un certo punto, ma mi sento scoppia-re», ribatté il ragazzo, poggiando la fronte sulla spalla della donna. «Ti avevo chiesto se avresti voluto cambiare scuola…» «Non lo so nemmeno io, mamma…» rispose Bryan scuotendo la testa. Era vero, cominciava a non capire più che diavolo volesse fare. La scuola era cominciata da tre sole settimane e lui si trovava già completamente info-gnato. «Piccolo, io vorrei aiutarti ma non ho altre idee… Se dovesse venirti in mente qualcosa, dimmelo per favore. E sul serio, pensaci.» «Va bene. Comunque… è stato un attimo di sconforto, ce la farò. Mi ha fatto veramente male questo schifo», le disse Bryan porgendole il foglio tutto accartocciato. «Avevo pensato che magari dando qualche ripetizione avrei potuto guadagnare una ventina di dollari per ricomprare l’MP3, ma qualcuno ha pensato bene di modificare l’avviso che avevo esposto nella bacheca.» Savannah afferrò il foglio e poggiò la mano sulla fronte appena lesse la volgarità con la quale quell’umiliazione era stata inflitta al suo piccolo. Non riusciva a crederci. Bryan non meritava tutto quello schifo. «Non ho parole…» disse sommessamente, sospirando malinconica.

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Bryan si asciugò le lacrime, poi alzò le spalle e scosse la testa. «Non c’è niente da dire, Mami, loro… sono fatti così, ed io sono il loro svago. Non possiamo cambiare le cose, e tentare di fare qualcosa mi si ritorcerebbe contro, lo so per certo», constatò cercando di risultare più convincente possibile. «Be’… pranziamo? Stasera c’è la partita!» disse illuminandosi immediatamente. Savannah annuì e riuscì a sorridere a sua volta. Bryan si illuminava quan-do si parlava di basket. O di Ty Bennett. Aveva sempre provato una parti-colare attrazione verso il basket, tanto che, dai sette ai quattordici anni, aveva giocato coi ragazzini della chiesa, seguendo le lezioni gratuite dell’oratorio. Un professore di educazione fisica si era offerto per prestare i propri servizi a quei bimbi che non avevano in famiglia le possibilità e-conomiche per seguire un corso vero e proprio, e Bryan era stato uno di quelli. Forse era merito di quei sette anni di basket se il ragazzo era diventato co-sì alto. Non era bravissimo nel gioco, ma con quelle gambe lunghe riusci-va a saltare molto in alto. Durante le partitelle stava quasi sempre in dife-sa, per poi scattare dopo aver recuperato la palla e segnare nel canestro degli avversari. Quando aveva compiuto quattordici anni, però, le cose avevano comincia-to a cambiare. Le bigotte che frequentavano la chiesa avevano sempre sparlato di lui e di sua madre, parlando davanti ai propri figli, i quali svi-lupparono, seppur inconsciamente, un sentimento di intolleranza verso il ragazzo. Col passare dei mesi la situazione aveva cominciato a precipitare. Bryan veniva preso in giro, e tutti gli facevano notare quanto le sue brac-cia fossero flosce quando correva. Era un atteggiamento da finocchio, e quei giovani adolescenti non lo accettavano. In fondo, erano solo figli di bigotti chiusi in una cultura fortemente limitata. Bryan e sua madre avevano abbandonato la chiesa e avevano deciso che, se avessero voluto pregare, l’avrebbero fatto a casa, quando ne avessero sentito la necessità. A Bryan, comunque, non interessava pregare, non credeva in Dio e non aveva mai considerato quei ragazzini suoi amici. Era stato più o meno facile tirare avanti. Aveva continuato ad amare il basket, e tifava i Boston Celtics da quando aveva solo dieci anni. Da quando i Celtics avevano poi stipulato un contratto con Bennett… be’, Bryan era diventato ancora più ossessionato da quello sport. Non solo era avvincente, non solo era veloce, ma dall’arrivo di Ty Bennett era diventa-to pure bello da morire. Quando Bryan si ritrovava a pensare quel tipo di cose, tendeva a confondere gli aggettivi riferiti al basket e quelli riferiti a Bennett. In fondo erano strettamente legati, no?

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“Purtroppo, stasera la punta di diamante dei Boston Celtics, Ty Bennett, non sarà presente al match contro l’Orlando, per motivi ancora presso-ché sconosciuti. Il mister riferisce un misterioso ed improvviso strappo muscolare, ma assicura: Niente di grave, sarà presente alla partita contro Philadelphia la prossima settimana. Rimarremo aggiornati.” Bryan lasciò cadere la forchetta sul piatto e guardò sua madre. «Non è giornata, mamma.»

Da bravo tifoso, Bryan aveva pensato allo stato di salute del cestista du-rante tutta la sera, la partita e la notte. Aveva pure deciso di non andare a scuola la mattina seguente. Dopo l’ennesima umiliazione subita il giorno prima, sinceramente non aveva voglia di vedere i suoi compagni troppo presto. Non stava scappando, voleva solamente ricaricare le pile prima di ripartire in difesa. «Bryan? Guarda cos’ho fatto!» lo chiamò felice Savannah, entrando nella sua cameretta e mostrandogli un barattolo trasparente. «Qui ci metteremo i risparmi per l’MP3, va bene? Ci metterò tutti gli spiccioli che mi danno come resto per la spesa.» Bryan sorrise intenerito e la abbracciò. «Grazie Mami, ma credo che riu-scirò ad avere un nuovo MP3 non prima di sei mesi… Sopravvivrò.» «Sei un tesoro.» «Mamma, prima o poi riusciremo a vivere meglio, promesso.» Savannah lo abbracciò e sospirò tremula. Avrebbe dovuto fare lei delle promesse, non il suo bambino. Forse aveva seriamente bisogno di cercare di ricominciare, a partire dalla ricerca di un uomo. Perché non era giusto che Bryan diventasse un capofamiglia a soli diciotto anni. Doveva vivere la sua vita come un normale giovane. Savannah avrebbe fatto di tutto per renderlo felice. Non lo disse a voce alta, ma si ripromise di tenere duro e lottare ogni giorno per portare una svolta nelle loro vite. La donna non poteva sapere che, proprio in quel momento, un’incaricata della MagicTV stava leggendo la sua e-mail.

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Capitolo 3 E-mail e telefonate

L’impiegata della redazione dei Magic Studios stava per impazzire. Da quando la MagicTV aveva lanciato la pubblicità di Meet your Idol erano arrivate circa quindicimila e-mail di richiesta, e ciò era preoccupante, vi-sto che avrebbero dovuto leggerne almeno cinquemila, spartite fra altre quattro persone della redazione. Funzionava più o meno così: tutte le mail arrivavano nella stessa casella di posta, poi venivano selezionate le prime cinquemila e inoltrate in altre cinque caselle, mille per ciascuna. I cinque collaboratori della redazione avevano il compito di leggerle tutte, una per una, e selezionarne cento. Cento su mille, cinquecento su cinquemila, cinquecento su quindicimila. Per pigrizia, i collaboratori si facevano pochi scrupoli ed eliminavano me-tà delle mail a seconda del titolo. Leggendo solamente “Richiesta per Me-et Your Idol”, cestinavano con un’alzata di spalle. Katia però non era uno di quei collaboratori. Insomma, lei ci teneva a fare una bella figura col capo e selezionare storie veramente interessanti, non stupidaggini scelte a caso. Si era ripromessa sin dall’inizio di trovare qualcuno che ne avesse realmente bisogno, che meritasse un premio che da solo non avrebbe potuto raggiungere. Non avrebbe selezionato una lontana cugina di Paris Hilton super racco-mandata, no. Avrebbe scelto una storia che avrebbe attratto il cuore della gente. Il fatto che il programma avesse dato solamente il tempo di cinque giorni per inviare le richieste era stato un bene, altrimenti invece di mille, avreb-be dovuto controllare diecimila mail a testa. Era arrivata alla quattrocen-toventisettesima mail, quando si ritrovò davanti quella di una certa Savan-nah Mills. Quella mail aveva come oggetto: “O lo fate voi, o non accadrà mai”. Katia corrugò la fronte e prese a leggere la mail, incuriosita. Se l’avesse stampata, avrebbe immediatamente afferrato un evidenziatore e sottolineato le parole che avrebbero convinto il capo a scegliere quella storia in meno di dieci secondi.

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“Sono una mamma, una mamma senza un marito. Mio figlio si chiama Bryan[…] Non ho mai potuto dargli la possibilità di[…] Non ho le possibilità economiche per[…] Ty Bennett. Voi potete farlo”. Quella fu la prima mail a destare veramente la sua attenzione. Vi erano tutti gli elementi che avrebbero intenerito e attratto il pubblico. Quel Ben-nett spopolava in qualunque campo, non solo in quello da basket. Katia sentì il cuore battere più velocemente del solito; sentiva che quella mail sarebbe piaciuta al capo, e decise di non perdere tempo con le altre, tanto in fondo, fra le cinquecento mail, poi ne avrebbero scelte solamente dieci. Stampò in tutta fretta la mail e si diresse verso l’ufficio del boss, premu-randosi di bussare senza sbattere troppo le nocche sul legno scuro. «Avanti.» Katia entrò nell’ufficio e sorrise all’uomo seduto dietro la scrivania. Le venne da ridere quando l’occhio le cadde sulla sciarpa e il gagliardetto ap-peso sulla parete destra. Non aveva pensato al fatto che il boss fosse un tifoso accanito dei Celtics. Evidentemente, quella era la sua giornata sì. Avanzò verso la scrivania e si sedette sulla sedia, posando il foglio con un sorriso. «Salve capo, controllavo le mail per il nuovo programma, e ho trovato questa. È molto interessante, e credo… credo abbia tutte le caratteristiche per avere un audience veramente alto. Oltre questo, si potrebbe far felice una famiglia che, da quello che leggo, è veramente… messa male, ecco», spiegò inspirando ed alzando le spalle. «Mm…» cominciò l’uomo sulla cinquantina, leggendo le poche righe stampate sul foglio. Le sue sopracciglia si inarcarono verso l’alto quando lesse quel nome: Bennett. Quel portento non solo aveva portato innumere-voli vittorie alla sua squadra del cuore, ma attirava pubblico come lo zuc-chero fa con le formiche. «In effetti è interessante. Mi dica una cosa, però», disse alzando lo sguar-do verso la donna. «Ha pensato che dovremmo girare le puntate prima dell’inizio del campionato? Come faremmo a portare questo Bryan ad una partita? Quando il campionato sarà iniziato, noi avremo già girato tutte le puntate», constatò incrociando i palmi sulla scrivania. Katia schiuse le labbra e meditò. Morse l’interno della propria guancia, poi rialzò lo sguardo verso il capo. «Potremmo fargli incontrare solo Ben-nett.»

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L’uomo si grattò lentamente il mento. «Be’… Bennett si rifiuta di apparire in TV, se non per le conferenze stampa della squadra o le partite. Cosa le fa pensare che accetterebbe di partecipare al nostro programma?» La donna sorrise ed alzò le spalle. «Se è vero quello che ha sempre detto per giustificarsi dal fatto di non voler apparire in TV, allora Bennett è un tipo buono e umile. Non gli importerà di andare in TV per farsi vedere, ma magari farà uno strappo per un suo tifoso affezionato», rispose con un’espressione fiduciosa. Il boss osservò la donna per qualche secondo, poi ghignò una risata e si sporse verso il PC, trafficando un po’ sulla tastiera. Afferrò un post-it e vi scribacchiò sopra un indirizzo, che appiccicò sulla superficie della scriva-nia davanti alla donna. «Questo è l’indirizzo sul quale di solito Bennett risponde. Non permette a nessuna emittente di avere il suo numero perso-nale, né vuole un manager ad organizzare il suo tempo. Cerchi di usare le parole giuste.» Katia annuì trepidante e afferrò il biglietto. «Non penso avrò bisogno di scrivere più di tre frasi. Le farò sapere!» disse sorridendo solare, per poi uscire di tutta fretta dall’ufficio. Tempo cinque minuti e una mail arrivò sulla casella di posta del cestista più acclamato di tutta l’America.

«Ma come si usa questo arnese?» sbuffò la donna spostando stancamente una ciocca di lunghi capelli biondi dalla fronte. Il suo viso era estrema-mente corrucciato, le sopracciglia incrinate, le labbra serrate e arricciate. Aveva cinquantatre anni, non poteva essere così rimbambita! Cliccò l’ennesimo pulsante e ricontrollò la posta, accorgendosi di una nuova mail. Forse era finalmente riuscita a pagare una dannata bolletta on-line! … No, decisamente, la sua banca non si chiamava MagicTV. Aprì la mail giusto per appurare che non fosse pubblicità, ma quando ne lesse il testo, le sue spalle si sgonfiarono verso il basso. Dal dispiacere. «Wiwi? Dove sei?» chiese una voce profonda, maschile ma giovane. «Campione! Sono nella tua stanza!» rispose Wilma, muovendo su e giù la rotellina del mouse, leggendo e rileggendo la mail. Un ragazzo altissimo dagli occhi color oro dal taglio orientale poggiò una mano sullo stipite della porta, sorridendo alla madre. «Che fai? Cerchi an-

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cora di litigare col PC?» le chiese ridacchiando, per poi avvicinarsi alla donna e posarle un bacio affettuoso sulla guancia. «Ehi! No! Stavo solamente cercando di pagare le bollette senza andare in banca!» rispose annuendo vigorosamente. «Ah, ti è arrivata una mail», lo avvisò con fare vago. Suo figlio era allergico alle emittenti televisive. Il ragazzo aprì l’armadio e tirò fuori il pigiama, buttandolo sul letto. Era stanco e aveva voglia di una doccia calda e un film con la sua mamma. «Sì? Da chi?» chiese distrattamente, scegliendo dei boxer e delle calze scure. Wilma sospirò e si voltò verso il ragazzo. «La MagicTV. Ti chiedono di partecipare a…» «Cestinala», la interruppe lui appallottolando i vestiti, già pronto a diriger-si verso il bagno. «Ty! Aspetta un secondo!» lo richiamò sua madre, afferrandolo per un braccio. Si sentiva piccola e inutile di fronte a suo figlio, alto venti centi-metri più di lei, ma sapeva di avere lo stesso una certa importanza nelle decisioni del ragazzo. «Ascoltami, secondo me ciò che c’è scritto in quella mail merita di essere letto, perché non è molto lontano da ciò che noi dovevamo vivere tutti i giorni prima che tu firmassi un contratto coi Celtics. Ti ricordi, vero?» chiese fissandolo con serietà. Ty annuì subito. Perché sua madre teneva così tanto ad una qualsiasi mail invitatagli da un’emittente televisiva? «Ecco. Io ora vado in cucina, preparo la cena e tu fai una doccia…» «Poi guardiamo un film?» la interruppe nuovamente Ty, un sorriso da bambino dipinto sul volto. Wilma scoppiò a ridere e scrollò le spalle. «Ok, ma solo se tu darai un’occhiata a quella mail, ok? Farò le frittelle di patate se poi vorrai anche accettare la loro proposta», cercò di corromperlo la donna con un sorriso furbo. Ah, le mamme. Tutte uguali. Ty corrugò la fronte, poi annuì. «Ok, ma… per le frittelle… ancora non farle, sai che è raro che io accetti proposte dalle TV.» Certo che però le frittelle erano buone… Wilma annuì e sospirò. «Spero che alla fine farai la cosa giusta. Ho pro-prio voglia di frittelle.» Ty osservò sua madre uscire dalla stanza e sospirò. Gettò un’occhiata al PC e alzò le spalle. Ok, l’avrebbe letta. Dopo una doccia di venti minuti.

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Ty ritornò nella sua stanza esattamente diciannove minuti dopo. Be’, ave-va un minuto di scarto, e l’avrebbe utilizzato per far contenta sua madre. Si sedette pesantemente sulla sedia morbida posizionata davanti al PC, so-spirando rumorosamente e tirando la sedia verso la scrivania. Portò la mail all’inizio e cominciò a leggere. A quanto pareva, quello era il testo di una mail che una mamma aveva inviato alla redazione per far realizzare il so-gno del figlio diciottenne. Ty lesse con attenzione, allontanandosi un po’ dal PC con espressione seria e un po’ triste. Capiva la situazione di quella famiglia. Be’, in effetti non la capiva del tutto. Sua madre era riuscita a portarlo ad almeno una partita al mese per anni. Quel Bryan… quel Bryan no. Non riuscì a spiegarsi il perché, ma in qualche modo una mano invisibile gli strizzò il cuore. Sapeva cosa voleva dire vedere la propria madre lavorare sodo per badare a tutto. Sapeva che ad un certo punto della loro vita, per le madri l’unica cosa importante era far contenti i propri figli. Sua madre ci era riuscita, ma quella Savannah? Quella Savannah aveva un’unica possibilità, che per estensione, era lui. Lui, Ty Bennett. In quel momento, si sentì più utile di quanto si fosse sentito negli ultimi anni. Aveva la possibilità di fare una bella cosa, di accontentare sua ma-dre, un’altra madre e un ragazzo con un sogno. Sorrise e scrollò le spalle, rivolgendo uno sguardo sereno allo schermo. Mosse il cursore fino a “Ri-spondi” e vi cliccò sopra. “Ho deciso di accettare la vostra proposta, e sarò sincero, non lo farò per la vostra TV, ma semplicemente per rendere felice quel ragazzo e sua ma-dre. Queste sono le date in cui sono libero dagli impegni del basket: […]” Finì di appuntare le date ed inviò la mail. Chiuse la casella di posta, poi si alzò con un balzo e quando arrivò alla porta, toccò la parte superiore dello stipite senza nemmeno saltare. Scese le scale velocemente, con fare atleti-co, poi entrò in cucina, sorridendo con dolcezza alla madre. «Prepara le frittelle, Wiwi.»

Bryan tornò a casa con la testa fra le nuvole. La giornata era stata una del-le solite. Una delle solite schifose giornate passate a scuola. Era stanco,

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affamato, umiliato come sempre e oltretutto il mal di testa lo stava facen-do impazzire. Tutte a lui, in sintesi. Appena chiuse la porta, Savannah urlò dalla cucina, felicissima. «Bryan! Non sai cosa mi è successo stamattina!» Bryan corrugò la fronte e raggiunse la madre, accigliato. «Mamma, stai bene?» «Sì, sto benissimo! Insomma, sono passata dal tabaccaio per comprare una di quelle confezioni di gomme da masticare da cinquanta centesimi, e quello mi ha chiesto se volessi il resto o magari un Grattaevinci, uno di quelli che costavano meno. Io ci ho pensato per qualche secondo, poi ho preso il Grattaevinci!» esclamò bloccandosi per due secondi, creando una certa suspense. «Ho vinto tre dollari!» esalò felicemente, indicando al ra-gazzo il barattolo nel quale stavano raccogliendo i soldi per l’MP3. Tre banconote da un dollaro giacevano solitarie sul fondo. Bryan mormorò un “oh!” ed abbracciò la donna, dimenticandosi del mal di testa e di tutta la solita frustrazione provata. «Grazie, Mami…»

Era passato poco tempo da quando Savannah aveva mandato quella mail, circa due settimane. Nessuno aveva risposto, nessuno aveva telefonato. Niente di niente. Savannah aveva quasi rinunciato, pur mettendo in conto che quel tipo di programmi contattavano i loro fortunati ospiti anche dopo mesi di attesa. “La speranza è sempre l’ultima a morire”, pensò saggiamente, sbuffando appena quando il telefono suonò all’improvviso. Sperò non fosse qualche incaricato della società elettrica. Era in ritardo di un giorno nel pagamento della bolletta. Si asciugò le mani su uno straccio e afferrò la cornetta. «Pronto?» rispose un po’ tra le nuvole, accorgendosi di aver trascurato una piccola macchia sui fornelli. «Signora Savannah Mills?» chiese una voce gentile, femminile. «Sì, sono io, chi parla?» rispose corrugando la fronte. «MagicTV Studios, Signora Mills. Ho il piacere di informarla che la sua e-mail è stata accettata e presto suo figlio riceverà una splendida sorpresa!» Lo strofinaccio cadde dalle mani della donna e i suoi occhi si riempirono immediatamente di lacrime di commozione. «È uno scherzo?» chiese stu-pidamente, sedendosi con lentezza sulla sedia. «Oh, no signora, abbiamo letto la sua mail e… Be’ c’è stato un piccolo problema inizialmente, perché la sorpresa non poteva consistere nel porta-re suo figlio ad una partita e conoscere tutta la squadra per motivi di orga-

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nizzazione. Durante la Pre-Season il Mister non vuole telecamere e noi dobbiamo girare le puntate prima dell’inizio del campionato, quindi… ab-biamo contattato Ty Bennett», affermò tranquillamente la voce. Savannah si sentì svenire. «O-oh… e lu-lui ha accettato?» chiese tremula, posando una mano sulla propria fronte. Ringraziò il fatto che Bryan fosse uscito a fare una misera spesa nella bottega più vicina. «Già! Ha confermato la sua disponibilità per il ventinove ottobre. Trove-remo suo figlio dove?» «A scuola! A scuola, sì», disse velocemente Savannah, quasi come se a-vesse potuto perdere quella possibilità con un soffio di vento. Seguì una conversazione di stampo organizzativo, fra orari e indicazioni per la scuo-la di Bryan. «Bene, ci faremo carico di contattare la scuola e avvisare gli insegnanti. Ovviamente le consiglio di non riferire del programma a suo figlio. Sa, l’effetto sorpresa…» «Oh, no, non lo farò… Si ritroverà davanti il suo idolo all’improvviso…»

Nei due giorni successivi, Bryan non seppe veramente che pesci pigliare. Sua madre sembrava più sbadata e su di giri del solito, e si era ritrovato persino a chiedersi se non avesse assunto degli psicofarmaci. Lui se ne stava tranquillamente seduto sul divano a guardare la TV e a pensare allo strano comportamento della donna, quando quella attraversò la cucina con un sorriso ebete stampato sul viso. Ci mise quattro secondi esatti per andare a sbattere sul frigo. «Mamma! Ma che diavolo? Stai bene?!» chiese Bryan balzando via dal divano. Savannah sorrise e agitò una mano. «Benissimo, tesoro.» Bryan la squadrò, poi corrugò violentemente la fronte e sgranò gli occhi. «Non ci credo», sbottò scuotendo la testa. La donna inclinò il capo. «Cosa?» «Tu… tu hai trovato un uomo e non mi hai detto nulla! È per questo moti-vo che continui ad avere la testa fra le nuvole e quel sorriso stampato sul viso», gesticolò convinto, guardando la donna con indignazione. Savannah sgranò gli occhi e rise sinceramente. «Tesoro, non ho trovato proprio nessuno, giuro, sei veramente fuori strada!» rispose continuando a ridere.

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Bryan sbuffò e posò le mani sui fianchi. «Allora che hai?» chiese indispet-tito. Non era mai successo che sua madre gli nascondesse così palesemen-te qualcosa. E che diamine. Savannah si morse le labbra e sospirò. “Devo mentire”, constatò mental-mente. «E va bene, mi piace qualcuno, contento?» disse sperando di risul-tare credibile. Bryan spalancò occhi, bocca e braccia, agitandosi. «Cosa?! E chi è? Quan-ti anni ha? È sposato? Divorziato? Ha figli? Lavora con te in ufficio? Quando uscirete? E tu gli piaci? Lui sa che a te piace lui?” Savannah alzò gli occhi al cielo, preparandosi psicologicamente per un terzo grado di almeno due ore.

Bryan gelò non appena posò un piede sul pavimento. Dannata fine d’ottobre. Si gelava come in pieno inverno, e i risvegli per recarsi a scuola erano sempre dei traumi. Il ragazzo sbuffò stropicciandosi pigramente gli occhi, poi decise di raggiungere sua madre in cucina. Aveva bisogno di un caffè, altrimenti si sarebbe addormentato nel box doccia. Entrò nella cucina e vide sua madre cambiare la posizione dei due dadi coi quali ogni mattina segnava la data. Ventinove ottobre. Savannah tremava mentre poggiava i cubi, posizionando il due ed il nove uno di fianco all’altro. «Ciao, Mami.» Savannah si voltò velocemente, posando una mano sul petto. «Buongior-no, tesoro. Come stai?» Bryan si sedette a tavola e corrugò la fronte. «Io bene, ma… tu?» Savannah aveva delle profonde occhiaie sotto gli occhi e sembrava palli-da. La donna alzò le spalle. «Niente di che, tesoro. Caffè?» chiese sorri-dendo stentatamente. Bryan alzò le spalle, poi annuì. Valle a capire le donne… Passarono esat-tamente otto secondi. «Mamma. ma che ti prende oggi, me lo spieghi?! Ti è caduta metà cucina dalle mani!» sbottò spaesato Bryan osservando sua madre che raccoglieva un mestolo dal pavimento, esalando una risata nervosa. La donna ripose l’utensile nel lavandino, assieme al cucchiaino e al pentolino del latte - fortunatamente vuoto - che le erano caduti secondi prima. «Niente, tesoro, la verità è che ieri ho letto Orgoglio e Pregiudizio fino a tardi e ora sono un po’ stanca», improvvisò, dandosi un ceffone mentale per la sua demenza. Di quel passo, Bryan avrebbe sospettato qualcosa. Ma

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anche intuendo che qualcosa stesse accadendo, il ragazzo non avrebbe mai potuto pensare che quella sarebbe probabilmente stata una delle giornate più emozionanti di tutta la sua vita. «Uhm… ok. Sicura non c’entri nulla quell’uomo di cui mi hai parlato qualche giorno fa?» chiese squadrandola. Savannah scosse la testa e sorrise. «No, tesoro. Forza, bevi il caffè e fai la doccia. Non fare tardi!» Bryan annuì incerto ed andò a prepararsi. Dopo una doccia ed una picco-lissima sistemata ai capelli, sistemò la cuffia sul capo, lo zaino sulla spalla e uscì di casa, dirigendosi verso la scuola.

Ci era rimasto male quando il suo professore preferito, quello di matema-tica, l’aveva obbligato a sostenere un’interrogazione alla lavagna. Insom-ma, era sempre stato incredibilmente bravo, costante, educato e un sacco d’altre cose, ma quella mattina il comportamento del professor Turner gli era sembrato inusuale. L’uomo gli aveva rivolto un’occhiata compassionevole, quasi volesse chiedergli scusa per averlo obbligato a sostenere l’interrogazione; aveva guardato l’orario nel suo orologio più volte, osservando poi la porta dell’aula, come se fosse stato in attesa di qualcosa. Bryan ci aveva messo meno di dieci minuti a terminare l’interrogazione, ottenendo una “A” e tornando al suo posto, le mani in tasca e il viso im-bronciato. Gli bastavano le cattiverie dei suoi compagni e non c’era biso-gno che si aggiungesse pure il comportamento inusuale del professore. Appena posato il fondoschiena sulla sedia, il moro si adagiò sul banco, accostando il capo sull’angolo del braccio rilassato sulla superficie in le-gno. Il professore sospirò; era proprio per quel motivo che aveva obbligato Bryan ad andare all’interrogazione: sapeva che si sarebbe accasciato sul banco durante le altre interrogazioni. Durante le ore di normale spiegazio-ne, Bryan seguiva sempre con attenzione, richiedendo delucidazioni e of-frendosi per primo per le esercitazioni senza voto. Quando poi arrivava il periodo delle interrogazioni, il ragazzo le ignorava, fino a quando non ve-niva chiamato alla lavagna. L’uomo segnò il voto di Bryan sul registro e sospirò; non voleva che il ra-gazzo si addormentasse proprio in quel momento.

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Quando qualcuno bussò per due volte sulla porta, il professor Turner perse un battito, drizzandosi allertato. «Avanti», disse lanciando un’occhiata verso il ragazzo accasciato. La porta si aprì e l’obbiettivo di una telecamera inquadrò immediatamente la classe, spiazzando gli alunni e facendo mormorare tutti di curiosità.

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Capitolo 4 Non credo in Dio ma, oh mio Dio!

Una donna perfettamente truccata e dall’aria gioiosa entrò nell’aula, se-guita da un altro ragazzo che reggeva uno strano aggeggio fra le mani, si-mile ad una canna da pesca, che terminava con una potente lampada acce-sa. «Salve Professor Turner, è stato informato del nostro arrivo immagino!» esclamò giuliva la presentatrice, sorridendo da un orecchio all’altro. Il Professore annuì e si alzò per stringere la mano alla donna. «Sì, sono stato avvertito, prego.» Bryan, accortosi del trambusto nell’aula, alzò il viso e si risistemò la cuf-fia, corrugando la fronte con fare spaesato. Che diavolo ci faceva una tele-camera nella loro classe? «Allora eccoci qua, con Meet Your Idol!» presentò la donna, piazzandosi di fronte all’obbiettivo col solito sorriso plastico. Bryan sospirò; aveva visto la pubblicità di quel programma. Probabilmen-te, i genitori di qualche riccone della sua classe erano riusciti a far guada-gnare al proprio viziatissimo figlio un incontro con una celebrità di Hol-lywood per farli contenti. La presentatrice si voltò scuotendo la chioma bionda e osservò i volti at-territi degli alunni, uno per uno. «Allora, chi è Bryan, fra di voi?» Bryan spalancò la bocca. Se avesse portato gli occhiali, quelli sarebbero calati sulla punta del naso dall’improvviso sudore che gli aveva imperlato il viso. «Ehm, sono io», confessò alzando piano una mano. Che… che diavolo stava succedendo? «Bryan, Bryan Mills?» chiese ancora la presentatrice, sorridendogli con gioia. Bryan annuì lentamente, sempre più confuso, e vide il professore sorridere e tornare alla cattedra, quasi volesse godersi la scena bello comodo. «Allora credo proprio che ci sia una sorpresa per te, Bryan!» esultò la donna, voltandosi verso la porta ancora aperta e ed alzando il pollice verso un altro membro dell’equipe televisiva. «Le sue gesta hanno lasciato sbi-

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gottiti tantissimi americani, vediamo la sua faccia ovunque e i suoi video spopolano su Youtube», cominciò assumendo un’aria allusiva verso l’obbiettivo. Bryan sbiancò; no, non poteva essere. Il cuore cominciò a battergli furio-samente e le sue mani sudarono all’improvviso. Ok, sul serio, che diavo-lo?! «Ha il talento, ha la bellezza, ha il carattere. Anche i non amanti del verde riconoscono le sue abilità! Abbiamo qui con noi Ty Bennett!» E in quel momento Bryan cominciò a tremare. Gli venne immediatamente da piangere per l’emozione, ma il fatto che i suoi compagni fossero lì, ad un centimetro da lui, pronti a fargli fare una pessima figura davanti al suo idolo, gli diede modo di trattenere le lacrime. Un ragazzo altissimo, ricoperto da vestiti enormi e rigorosamente tinti di verde entrò sorridendo nella classe, tenendo fra le grandi mani venose un pallone da basket completamente segnato da firme impresse con un inde-lebile nero. Il pallone da basket sembrava una misera pallina da tennis fra quelle dita lunghe e snodate. I suoi occhi erano cento volte più belli dal vivo. Ty Bennett era uno spettacolo, incredibile, luminoso. “Ok, non credo in Dio ma, Oh Mio Dio!” Bryan portò le proprie mani sul-la bocca, appena cogliendo i mormorii eccitati delle ragazze nell’aula e le affermazioni maligne dei maschi e di Mariah. Qualcuno si era chiesto - senza risparmiarsi un tono di voce ridicolmente alto - da quando a Bryan piacesse il basket, e qualcun altro aveva risposto che, quasi sicuramente, non era esattamente il gioco ad interessarlo. Bryan non si voltò nemmeno per rispondere a quelle invidiose accuse. «Allora, Bryan, non vuoi passare un’intera giornata con Ty Bennett?» chiese retoricamente la presentatrice, alzando un sopracciglio. Bryan annuì goffamente e si avvicinò al cestista. Per un momento imma-ginò di inciampare e cadere con la faccia per terra, rialzandosi pieno di sangue. Era un tipo pieno di paranoie, come sempre. Povero Bryan. Ty ignorò deliberatamente le continue constatazioni maligne dei compa-gni di classe del ragazzo e gli porse una mano, quasi provando tenerezza per quella povera anima incompresa. «Ehi, piacere, Ty», gli disse con uno di quei sorrisi da infarto fulminante. Bryan boccheggiò e riuscì a stringere quella mano; la sua, più esile e gra-cile, sembrava spezzarsi dentro quella di Ty. «Bryan», riuscì a borbottare. Sentiva gli occhi di tutti i suoi dannati com-pagni addosso. Erano fastidiosi, ma Bryan pensò che quell’improvvisa fortuna profumasse di rivincita.

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«Questo è per te», disse gentilmente Ty, porgendogli il pallone firmato. Aveva sentito la piccola mano e fredda del ragazzo tremare sotto la sua. Doveva tenerci veramente tanto, e questo non poté che farlo sorridere. Bryan lo ringraziò, arrossendo poi per una battuta oscena che si innalzò come sottofondo. Perfetto, nelle registrazioni della puntata milioni di spet-tatori avrebbero sentito tutto l’amore che i suoi compagni provavano nei suoi confronti. Ty ignorò le voci, scuotendo mentalmente il capo. Bryan in quel momento riuscì a pensare solamente alla giornata che avrebbe passato assieme al ragazzo vestito di verde… e a quell’equipe di quattro cameraman.

Bryan non era ancora riuscito a spiccicare parola; avevano fatto salire lui, Ty ed un cameraman su una Limousine bianca, gli avevano servito dei cornetti caldi ed una quantità industriale di bibite per la colazione, poi li avevano portati al TD Garden, lo stadio dei Boston Celtics. In quel momento si trovavano nei parcheggi dello stadio. Ty sorrideva ra-dioso, e Bryan non riusciva a non sentirsi in soggezione. Se solo non ci fosse stata quella dannata telecamera piazzata a due centimetri dal suo vi-so, se solo non avesse avuto la consapevolezza che milioni di persone a-vrebbero visto quella maledetta puntata, forse sarebbe riuscito a compor-tarsi normalmente. Ty l’aveva notato; Bryan sorrideva nervosamente alle sue battute, ma dal-la sua espressione aveva quasi potuto scorgere la voglia di scoppiare a ri-dere come un ragazzo normale, senza trattenersi. Il suo aspetto forse un pizzico troppo femminile e il modo in cui i suoi compagni avevano reagito alla sorpresa, la dicevano lunga su come venisse visto Bryan a scuola. Ty non riuscì a non provare un po’ di tenerezza per lui. Era solo un ragazzo di diciotto anni, accidenti. Quando entrarono nello stadio, Ty si sfilò la grande felpa verde e invitò Bryan a seguirlo a centro campo, correndo con fare atletico. Bryan lo seguì e, una volta osservato il primo canestro del suo idolo dal vivo, qualcosa dentro di lui si sbloccò. Fu come sentire un non so che di familiare. Riuscì ad avvicinarsi e ad allungare le braccia verso il cestista. «Mi fai provare?» gli chiese con un sorriso timido. Ty annuì. «Certo!» esclamò lanciandogli il pallone. Sorrise e osservò il tifoso cimentarsi in un terzo tempo.

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Bryan palleggiò e iniziò a correre verso il canestro poi saltò, infilando la palla nel canestro con facilità. Era magro e alto, e niente gli impediva di saltare come un grillo. Ty raccolse la palla entusiasta. «Niente male, Bryan!» Bryan arrossì all’inverosimile. Il suo idolo gli aveva appena fatto i com-plimenti! «Sono avvantaggiato perché mamma mi ha fatto alto e magro», scherzò per smorzare l’imbarazzo. «Era un buon terzo tempo!» obbiettò Ty, cominciando a giocare con la palla, facendola passare sulla punta delle dita fino alla nuca. Sollevò di scatto la schiena e recuperò la palla con le mani, facendola girare veloce-mente sull’indice, per poi farla palleggiare e passare con complicati pas-saggi sotto le gambe. “Comincia a sudare”, pensò Bryan, mentre un velo lucido appariva sull’incavo del collo del cestista, lasciato scoperto dalla canottiera a coste bianca. Avrebbe volentieri osservato più da vicino quel pezzetto di pelle madido e dorato. Ty concluse il suo giochetto e si sedette per terra, incrociando le gambe. «Ehi, siediti qui!» Bryan sorrise e si piazzò davanti a lui, passandogli un asciugamano che uno dei cameraman gli aveva affidato poco prima. Ty lo afferrò e gli sor-rise. «Grazie. Allora, Bryan, perché non mi parli di te?» chiese asciugan-dosi il collo. Le telecamere li filmavano dall’alto delle tribune. L’audio non avrebbe registrato la loro conversazione, il microfono era troppo distante da loro. Bryan si sentì più libero, così arricciò le labbra e alzò le spalle. «Non sono una persona molto interessante», disse sospirando. «Nemmeno io, eppure tutti i giornali parlano di me!» scherzò Ty facendo palleggiare velocemente il pallone. Il ragazzo corrugò la fronte. «Sei il playmaker dei Boston Celtics, non mi sembra una cosa da poco», affermò inebetito osservando il modo in cui le mani del cestista si adattavano perfettamente alla superficie arancione del-la palla. «Sono sicuro che ci sono migliaia di ragazzi della mia età che giocano meglio di me, solo che non hanno avuto la fortuna di essere stati notati.» Bryan non capì; Ty stava cercando di apparire modesto davanti alla tele-camera, o era realmente convinto di ciò che aveva appena detto? «È possibile, ma devi ammettere che questo fa di te una persona interes-sante, no?» chiese inclinando il capo, accigliato.

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Ty piazzò gli occhi sui suoi e per un momento non disse nulla. Be’, che potevano sapere della sua vita prima dei Celtics i milioni di persone che ora lo adoravano? Nulla. E Bryan era una di quelle persone. «Be’, per quello che i tifosi sanno di me, potrei essere interessante, ma scavando un po’ scoprirebbero che sono solamente un normalissimo ra-gazzo di ventun’anni.» Bryan scrollò le spalle; Ty sembrava veramente convinto delle proprie pa-role. Non aveva l’espressione di chi cerca inutilmente di risultare umile solo perché sente l’obbiettivo puntato dritto in faccia. E poi… il microfo-no non avrebbe registrato ciò che stava dicendo. Non in quel momento almeno. «Cosa facevi prima dei Celtics? Se posso chiedere…» borbottò Bryan ar-rossendo. Sperò che Ty non prendesse negativamente la sua curiosità; in fondo i personaggi famosi dovrebbero essere abituati a quelle domande, no? Ty arricciò le labbra e sospirò. «Niente di interessante. Vivo ancora con mia madre, al contrario di ciò che dicono i giornalisti, che piazzano in prima pagina foto di ville a tre piani spacciandole per mie!» scherzò ri-dacchiando. Bryan si imbambolò fissando il viso del ragazzo, illuminato per qualche secondo da un raggio di sole clandestino che filtrava dai grandi finestroni dello stadio. Quella pelle perennemente dorata… «Ero uno studente alla scuola pubblica, giocavo con i miei compagni e mi piaceva la matematica. Mi piacevano i videogiochi e preferivo le serate con gli amici, pizza, film e cocacola», spiegò alzando le spalle. “Anche a me piace la matematica! E anche le serate pizza e Coca Cola!” esultò mentalmente Bryan. “Peccato che non abbia mezzo amico.” Si riscosse dalle sue constatazioni e decise di osare un po’. Al massimo, Ty non avrebbe risposto. «Ed è ancora così?» chiese sicuro di ottenere una risposta negativa. Ty doveva avere talmente tante cheerleader che prega-vano per una notte con lui che probabilmente non aveva avuto più tempo per comportarsi come un ragazzo normale. Non che i ragazzi normali non passassero parte del loro tempo su un letto con una ragazza a dimenarglisi sopra, ma immaginava che le notti infuocate di un personaggio famoso si moltiplicassero come batteri su un frutto avariato. «Sì, perché dovrebbe essere diverso? Ok, non riesco ad andare in giro per i campi pubblici senza un bodyguard, però nessuno mi impedisce di invi-tare i miei amici a casa e di guardare un film con loro e mia madre. E sin-ceramente non me ne frega niente se mezzo mondo mi dà del mammone: non lascio la donna della mia vita perché ora ho un conto in banca sul

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quale contare. È ora che sia io a badare a lei, visto che lei l’ha fatto per me per tutti questi anni, no?» spiegò cominciando a gesticolare. Bryan schiuse le labbra e il cuore gli cadde in fondo allo stomaco. Diami-ne; ma quel dannato ragazzo aveva anche solo un piccolissimo difetto? «Wow», mormorò. Ty sollevò le sopracciglia. «Ti aspettavi una risposta diversa?» chiese di-vertito. Bryan annuì e abbassò lo sguardo. «Immaginavo party in piscine private, donne nude e alcool a volontà.» Ty rise e scosse la testa. «Mamma mi ha insegnato cose diverse.» «Ma non riesco a credere che tra tutte quelle ragazze non ce ne fosse una che corrispondesse a qualunque ideale tua madre ti abbia insegnato!» ob-biettò Bryan inclinando il capo. Ty sembrò andare in stand-by per qualche secondo; la sua espressione va-riò, passando da una sfumatura intontita ad una leggermente disperata. Si schiarì la voce e sembrò sentirsi leggermente fuori posto. «Ehm, non è co-sì facile.» «Scusa, faccio troppe domande», si scusò Bryan abbozzando un sorriso colpevole. Le sue guance scarne si gonfiarono un po’, gli zigomi si solle-varono e gli occhi si socchiusero. Quella cuffietta sui capelli lisci e corvini rendeva il suo viso piccolo e ancora più fine. Quando abbassò lo sguardo, torturando l’orlo dei pantaloni che lasciava intravedere le sue anonime calze nere, la piccola visiera coprì i suoi occhi imbarazzati. Ty riusciva a vedere comunque le sue labbra distese in quel piccolo sorri-so, e senza nemmeno accorgersene, quello fece sorridere anche lui. «Non mi dà fastidio, sul serio. Credo che se avessi davanti Michael Jordan gli farei domande molto più stupide!» gli assicurò ridacchiando. Bryan alzò di poco il viso, e i suoi occhi divennero grandi e scherzosi co-me quelli di un bambino. Quando le loro risate rimbombarono per tutto lo stadio, Bryan seppe che dietro la fama e la bellezza di quel ragazzo c’era un essere umano tale e quale a lui; né più, né meno.

«Possiamo avere la pausa di cui vi avevo parlato?» chiese Ty, rivolgendo-si prima al cameraman, poi alla presentatrice. I due annuirono, stanchi quanto lui. Il cameraman posò la telecamera, che cominciava a pesargli sulla spalla destra. La massaggiò e la ruotò, facendo delle smorfie. «Per me va benissimo, la mia spalla urla di dolore.»

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Ty annuì e Bryan rimase buono e zitto in disparte, cercando di occupare meno spazio possibile di quella dannatissima Limousine bianca. Aveva Ty Bennett seduto accanto, che gesticolava, che sfiorava inavvertitamente le sue gambette da stecchino col ginocchio. Che parlava con quella dannatis-sima voce così profonda, matura, ma anche rassicurante e umile. Non a-veva ancora sentito un pizzico di superbia nel tono della sua voce. «Possiamo andare a pranzo quindi?» chiese il cestista sorridendo speran-zoso e facendo risvegliare Bryan dai propri pensieri. Si guardò intorno e si chiese se per caso la giornata col suo idolo sarebbe finita dopo pranzo. “Oh no, per favore, ancora un pochino di felicità…” «Certo, ok, abbiamo un tavolo prenotato in un ristorante francese, come diavolo si chiama?» chiese corrucciato il cameraman alla presentatrice. Ty e Bryan arricciarono le labbra alle parole “ristorante francese”. Gli a-vrebbero fatto mangiare lumache? La donna puntellò velocemente su un palmare di ultima generazione e an-nuì. «Oh, favoloso il Mère! Cucinano meravigliosamente!» esultò allar-gando gli occhi come una triglia. Bryan continuò a tacere, mentre Ty si muoveva non troppo convinto al suo fianco, alzandosi e abbassandosi scompostamente, come se non riu-scisse a trovare una posizione decente. Quando, dopo qualche minuto, arrivarono di fronte al tanto decantato ri-storante, i quattro scesero dalla Limousine. Dietro di loro si fermò anche il camioncino del resto dell’equipe, che si avvicinò a loro. Erano tutti uomi-ni sulla quarantina. «Uhm, dunque pausa pranzo, giusto?» chiese uno di loro, indeciso. La presentatrice annuì e tirò fuori uno specchietto per controllare che la sua piega fosse a posto. «Mi spiace, ma la redazione ha prenotato un tavo-lo per cinque al Mère, quindi… Ty, Bryan, io, il cameraman e il bo-dyguard», elencò accennando col capo all’omone anonimo già appostato a qualche metro da loro. Era stato così discreto che Bryan si era accorto solo in quel momento della sua presenza. I membri dell’equipe non fecero una piega e si guardarono intorno. C’era una piccola locanda, nella quale vendevano panini imbottiti e patatine frit-te. «Ottimo, noi andiamo lì! Ci si rivede qui fra un’ora!» Ty e Bryan spalancarono la bocca, come a voler protestare. Bryan avrebbe tanto voluto afferrare un lembo della felpa del cestista e scuoterlo, per ri-chiamare la sua attenzione e chiedergli di andare a mangiare un panino anziché quelle schifezze viscide francesi. Peccato non fosse esattamente un comportamento giustificato, visto che non si conoscevano. Mentre fis-

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sava l’equipe allontanarsi, si sentì afferrare per il gomito, poi avvertì una leggera pressione. Quando si voltò, trovò il cestista accanto a lui, la mano stretta attorno al suo braccio e l’espressione corrucciata. «Senti, ma a te piace quella roba del ristorante francese?» chiese arricciando labbra e sopracciglia. Bryan per un secondo vide tutto nero, un po’ come quando si hanno i ca-pogiri. Oh, be’, in effetti, forse quello era un capogiro. «Oh, ehm… si… sinceramente no», pigolò abbassando lo sguardo e alzando le spalle. Quel-le dita calde stavano facendo quasi un buco sulla sua pelle. Ty lo osservò compiere quei piccoli movimenti e quasi gli venne da sorri-dere per la naturalezza e la dolcezza con la quale venivano eseguiti. Erano armoniosi, nella sua mente, quasi lenti, anche se non lo erano. «Be’, in questo caso…» disse alzando lo sguardo ed incontrando quello del bo-dyguard qualche metro più in là. «Ehi, boss, ti va un panino?» gli chiese con un sorriso di quelli abbaglianti. Bryan lo osservò dal basso e arrossì. “Maledetto sorriso splendente.” Presentatrice e cameraman rimasero immobili per qualche secondo, giusto il tempo di assimilare le parole del ragazzo, poi la donna si avvicinò a lui repentinamente. «M… ma non dovreste mangiare con noi? Al Mère?» chiese quasi disperata. Ty alzò le spalle e sorrise ancora al bodyguard che si avvicinava sorriden-do, grato al ragazzo. Era un omone di colore, alto persino più di Ty, con il quadruplo dei muscoli e i denti abbastanza irregolari. La verità era che Ty non aveva voluto assumere un bodyguard di professione. Quell’uomo era un padre di famiglia che abitava nei suoi dintorni, senza lavoro, e Ty si era offerto di pagargli un corso per conseguire la qualifica necessaria per far-gli da guardia del corpo e prendere due piccioni con una fava. Che cuore d’oro, il campione. «Sinceramente non mi va di mangiare lumache… Senza offesa per le lu-mache, i francesi o quant’altro, ma siamo due ragazzi, e pochi ventenni hanno gusti raffinati come i vostri», spiegò Ty con un sorriso. «Buon pranzo, noi andiamo alla locanda, ci vediamo fra un’ora!» Bryan sorrise e seguì i due stangoni dentro la locanda, nella quale i mem-bri dell’equipe si erano sistemati in una tavolata, bevendo birra a gogò. Tutti loro si voltarono, sorrisero gioviali, e uno alzò il boccale, puntandolo verso il cestista. «Bennett! Ci avrei scommesso! Tu sì che sei un grande, fanculo al ristorante francese, mica come quello stronzo di Sandler!» disse smanacciando il boccale. Sandler era un giocatore dei Lakers, stronzo e spocchioso. Tutti risero, mentre Ty arrossiva e si sedeva al tavolo. Anche

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il bodyguard fece lo stesso e cominciò subito a parlare con i signori, che avevano più o meno la sua età. «Bryan! Vieni a sederti!» lo invitò Ty voltandosi verso il ragazzo che si tormentava le mani indeciso. Bryan annuì e prese posto accanto a lui. Afferrò subito il menù - un foglio bianco A4 che sembrava più un volantino - e decise di sviare l’imbarazzo studiando il pezzo di carta con attenzione. Ty capì e sorrise. Era curioso quel Bryan. Si era aspettato un ragazzetto un po’ più estroverso e decisamente un po’ più… be’, mascolino. Solo in quel momento notò degli imbarazzanti occhiali da sole posati sulla visiera della cuffietta del ragazzo. Erano grandi e visibilmente rattoppati con dell’Attack su una stanghetta. Per la millesima volta, Ty sentì uno strano moto nello stomaco, che gli fece distogliere lo sguardo. Rimase a grattare un po’ il legno della tavola, fino a quando non gli venne in mente qualco-sa. «Ehi!» disse a voce alta, attirando l’attenzione di tutta la tavolata. «Of-fro io!» annunciò con un sorriso, seguito dal suono frastornate dei boccali di birra che si scontravano l’uno contro l’altro. Con quella scusa, i membri dell’equipe fecero qualche cin cin di troppo. Bryan riuscì finalmente a sorridere di nuovo. In fondo, non avevano nes-suna telecamera puntata addosso, nessuno avrebbe sentito le sue parole o analizzato i suoi sguardi. Erano solo lui, Ty, il suo bodyguard e qualche quarantenne un po’ ciucco. Non seppe come, sul serio, non si spiegò da dove venisse quel coraggio, ma dopo qualche secondo di indecisione, Bryan toccò con un dito il brac-cio del cestista, che si voltò sorpreso, col solito sorriso tranquillizzate - ma allo stesso tempo disarmante - piazzato sul viso. «Sì?» gli chiese, felice che finalmente Bryan si fosse lievemente sblocca-to. Bryan abbozzò un sorriso e alzò le spalle. «Uhm… che prendi?» chiese indicando il menù. Ty posò un dito sull’elenco. «Questo qui: wurstel, mozzarella, patatine, pomodoro e sale. Favoloso», spiegò annuendo solennemente al pensiero. Bryan ridacchiò. «Oh, io… quello alle verdure. Ha pure questo le patatine fritte, ma è più leggero», disse così, giusto per continuare la conversazio-ne. Ty alzò le sopracciglia. «Non mi riempirebbe mai la pancia un panino si-mile, ma se a te piace!» rispose scrollando le spalle. «Oh, dividiamo una pozione di patate fritte a parte? Sento di avere più fame del previsto», dis-se osservando l’elenco delle birre. Non era un gran bevitore, ma nelle lo-cande di Boston servivano delle birre alla spina niente male. Una ogni

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morte di papa non gli avrebbe di certo corroso il fegato o fatto scoppiare la pancia piatta che si ritrovava. Se avesse potuto, Bryan si sarebbe volentieri nascosto sotto il tavolo. “Di-videre la porzione di patate con me?”, pensò agitato immaginando le loro mani sfiorarsi ripetutamente, afferrare la stessa patatina, ridere e litigare per appropriarsene, per poi decidere di spezzarla a metà come bambini. “C’è un tasto off nel mio cervello? Diamine!”, si infuriò mentalmente. «Bryan? Sì o no?» chiese Ty corrugando la fronte. Insomma, voleva solo mostrarsi gentile nei confronti di quel ragazzo così timido, che aveva fatto di male? «Oh! Sì, ok», rispose il tifoso, scuotendo le mani e arrossendo violente-mente. Che bella figuraccia. «Allora, Bennett! Come vi sentite per il campionato?» chiese improvvi-samente un membro dell’equipe, mentre la cameriera prendeva le ordina-zioni. Ty annuì carico. «Forti, ci sentiamo forti, ce la metteremo tutta! Quest’anno i Lakers ci daranno filo da torcere.» «Baggianate, siete i migliori, e tu sei un grande, te l’ho già detto?» chiese lo stesso quarantenne di pochi minuti prima. Bryan ridacchiò e Ty lo seguì. «Be’, è la squadra che fa il gioco, non io.» «Già, è inutile avere il diamante ma non l’anello. Non so se mi spiego. Il diamante dev’essere sostenuto», ribatté l’uomo, saccente. Ty corrugò la fronte e scosse la testa. «Non intendevo quello, non c’è nes-sun diamante nella squadra per quanto mi riguarda. Il fatto che io faccia più canestri è solo una questione di mira e di passaggi che il mister decide di incanalare su di me. Se non ci fossero stati gli assist dei miei compagni, avrei segnato la metà di quanto ho fatto, credetemi», spiegò il cestista. Bryan lo stette ad ascoltare, un po’ intontito. «Panini e patatine!» esclamò una cameriera bassa e tozza posando dei ce-sti contenenti una decina di panini. «Il tipo di panino è scritto sull’involucro, buon appetito!» esclamò raggiante, pronta ad alzare i tac-chi e andare via. Ci mise un secondo esatto a voltarsi verso Ty, congiun-gendo le mani. «Posso fare una foto con te?» gli chiese inarcando le so-pracciglia. Ty rise e annuì subito, alzandosi e mettendosi in posa. Bryan si sentì per-sino un po’ geloso; Ty doveva stare con lui, no? Solo per un giorno. “Sono un idiota.” Ty si risedette e tutti ingurgitarono i panini, affamati come iene. Bryan si pulì diligentemente la bocca, pregando di non avere pezzi di verdura inca-

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strati fra i denti. Vi passò la lingua sopra e gli sembrò fosse tutto a posto. Meglio così. Il rumore della carta stagnola gli fece rigirare lo stomaco. Ty aveva sco-perchiato la porzione di patatine, poi l’aveva spinta al centro, fra loro due, intimandogli con un sorriso di favorire senza problemi. Bryan stette ben attento ad afferrare la patatina più vicina al bordo. Ty af-ferrava le patatine senza nemmeno guardare e ben presto Bryan si ritrovò improvvisamente la mano del cestista sopra la sua, solo per un momento. «Oh, scusami», disse Ty con un sorriso. Bryan ritrasse la mano, poi le agitò entrambe. «Non è successo nulla», minimizzò guardandolo per un attimo negli occhi. Sarebbe potuto morire per sentire quegli occhi scuri su di sé ogni giorno. A dire il vero, anche solo per una volta ogni tanto. Ty corrugò per un millesimo di secondo la fronte, osservando il ragazzo di rimando. Provò un piccolo bruciore allo stomaco. Lo sguardo di Bryan era strano, era malinconico, speranzoso, ingenuo, ma… “Boh”, pensò disto-gliendo lo sguardo. Quel ragazzo aveva un non so che di interessante, di alternativo al solito tifoso con la pancia da birra o appassionato di basket solo per moda. In fondo, però, ci avrebbe passato solamente una giornata assieme. Non era il caso di farsi troppe domande.

Bryan non riusciva a crederci. Aveva passato un’intera giornata col suo idolo. Avevano scherzato e spartito una porzione di patatine fritte in una locanda anonima, e addirittura scambiato un piccolo sguardo. Ty era stato incredibilmente amichevole, nessuno sprazzo di superbia gli era piombato addosso facendo sentire Bryan un piccolo insetto insignificante. Ty non era risultato esattamente come Bryan l’aveva immaginato, no. Era cento volte migliore. Quando la macchina lussuosa parcheggiò di fronte alla piccola casetta, Bryan non ebbe paura di vedere in Ty strane espressioni di disgusto di fronte alle modeste condizioni nelle quali lui e sua madre vivevano. Seguiti dalla telecamera, i due entrarono in casa. Bryan levò la fine felpa scura e la appese all’attaccapanni assieme al pallone firmato; Ty lo imitò, sorridente. «Mamma!» chiamò Bryan, raggiungendo la donna e abbracciandola con gioia.

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Savannah sorrise e lo strinse forte. «Amore, sei contento? Non posso cre-dere che abbiano accettato la mia mail! Sono così felice per te!» Bryan baciò le guance della donna. «Sono contentissimo, non potevi esse-re che tu! Ti voglio bene, grazie», le disse felice. Ty osservò la scena con un gran sorriso e si disse che sì, lui, nonostante la fama, era rimasto un ragazzo normale e coi piedi per terra. Non era passa-to un giorno senza una telefonata, un abbraccio o un “ti voglio bene” ri-volto alla sua adorata mamma. Si sentì per un momento orgoglioso di se stesso. Non voleva diventare una di quelle celebrità robotiche, che amano tutto meno che i lati umani della vita. Lo sguardo gli cadde per un momento su un barattolo trasparente poggiato sul bancone della cucina. C’erano appena quattro dollari al suo interno, circondati da poche monetine sparse. Vi era un piccolo cartellino attaccato ad esso, e gli si strinse il cuore a leggere quelle parole: “Soldini per l’MP3”. Sentì di nuovo come un senso di affetto, di protettività verso quel piccolo nucleo familiare, che da quanto poteva vedere, lottava ogni giorno per a-vere una vita decente. Anche per lui e sua madre era stato così, prima che lui venisse ammesso nella rosa dei Celtics. Spostò di nuovo lo sguardo su madre e figlio stretti l’uno all’altro e sospi-rò. Non si meritavano una situazione del genere. Certe cose erano incredi-bilmente ingiuste… Bryan e Savannah si allontanarono e la donna porse subito la mano al ce-stista. «Piacere di conoscerla, io sono Savannah.» Ty sgranò gli occhi e scosse la testa. «L’unica persona che deve dare del voi qui, sono io! Piacere, Ty.» La donna rise ed abbracciò il ragazzo. «Sono veramente felice, grazie mil-le, sul serio.» Ty la abbracciò e sperò che la sua mamma non sarebbe stata gelosa nel vedere quella scena in TV. «È stato un piacere, davvero», le assicurò per poi allontanarsi. Ty sospirò e si voltò di nuovo verso il ragazzo. «Be’, devo andare», gli disse vedendo il cameraman segnalargli con degli strani gesti che il loro tempo a disposizione era finito. Qualcosa dentro Bryan si ruppe, e dovette fare un respiro profondo per al-lontanare quella sensazione; gli sembrava di non avere più tutta quell’energia per continuare a respirare. Prima o poi però la giornata a-vrebbe visto la sua fine, no? Non doveva sorprendersi. … Già.

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Dopo un sospiro, Bryan annuì e Ty gli si avvicinò con un sorriso solare. Un frammento di secondo più tardi, il cestista aveva aperto le braccia lun-ghe e muscolose e l’aveva abbracciato. Da quell’angolazione, la telecame-ra non poté riprendere l’espressione di Bryan; il ragazzo, dopo aver ri-cambiato la stretta, chiuse gli occhi e inspirò a pieni polmoni il profumo del suo idolo, che ora gli sembrava sicuramente meno irraggiungibile del giorno prima. Quando riaprì gli occhi, vide quelli di sua madre puntati su di lui. La donna sorrideva con quella che Bryan riconobbe come compas-sione. Savannah sapeva; Savannah aveva già capito cos’era accaduto al suo bambino quel giorno; Savannah aveva già stimato la quantità di lacrime che Bryan avrebbe versato una volta che la porta di casa si sarebbe chiusa alle spalle del cestista, portandosi via il suo sogno ed una persona che, per merito del talento, della bellezza, o di qualsiasi cosa Bryan avesse visto quel giorno, gli aveva fatto battere il cuore in modo diverso dal solito. «Grazie mille», riuscì a dire Bryan, appena scostatosi da quell’abbraccio. Ty sorrise e scosse la testa. «È stato un piacere, sul serio. Oh, ovviamente dobbiamo fare una foto!» ricordò all’improvviso. Bryan e Ty si accostarono, misero l’uno il braccio sulla spalla dell’altro e sorrisero. La polaroid scattò e la foto uscì pochi secondi dopo. Ty la afferrò cauto, vi soffiò sopra poi accettò l’indelebile che un came-raman gli stava porgendo. Appoggiò la foto su un ripiano della cucina e si curvò su di essa, firmandola e poi scrivendo una data sul retro. Dopo pochi minuti, il sogno era finito. Bryan osservò la Limousine allon-tanarsi e rientrò in casa, il cuore pesante come un incudine. Finito. Era fi-nito. Sospirò malinconico e afferrò il pallone, rigirandoselo fra le mani con un piccolo sorriso. Non riusciva a credere di aver veramente vissuto quella giornata; l’avrebbe ricordata per sempre. «Bryan?» lo chiamò sua madre con uno strano tono confuso. Il ragazzo entrò nella cucina, mantenendo il pallone fra l’angolo del brac-cio e il fianco magro. «Sì?» La donna si voltò, la foto fra le mani; stava osservando il retro, nel quale Ty aveva scritto la data. «Credo che Ty abbia sbagliato la data», disse cor-rugando la fronte. «Be’, capita, no?» rispose Bryan corrucciato. «Ha sbagliato sia il giorno che il mese!» gli fece notare Savannah, por-gendogli la foto.

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Bryan la afferrò e lesse su di essa una data completamente sbagliata, se non fosse stato per l’anno corretto. Dodici novembre? Era solamente il ventinove ottobre! Come aveva fatto Ty a sbagliare la data in quel modo? «Mah», concluse Bryan, senza dare troppa importanza al fatto. «Non potrebbe averlo fatto a posta?» chiese Savannah speranzosa. Bryan si voltò, pronto a recarsi nella propria cameretta. «E per quale mo-tivo? Non tornerà a trovarmi per dirmi che vuole essere mio amico, mamma. Su, non pensarci troppo, è stato solo un lapsus. Buonanotte, ti voglio bene.» Savannah lo lasciò andare, poi sospirò; a lei quello non sembrava per niente un lapsus.

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Capitolo 5 Bryan Faggy Mills

Non aveva fatto in tempo nemmeno a entrare nel salotto. Sua madre gli stava già facendo il terzo grado. «Oh, ciao campione! Com’è andata?» chiese Wilma sorridendo al cestista appena rientrato a casa. Ty sospirò e poggiò la felpa sul divano, sedendosi poi quasi crollando sui cuscini. Inspirò e buttò fuori l’aria rumorosamente, scrollando le spalle. «Non lo so, mamma, è stato strano. Sono… veramente in difficoltà…» confessò mantenendo lo sguardo puntato sul tappeto. Wilma corrugò la fronte, dispiaciuta. Si sedette accanto a lui e gli accarez-zò una spalla. «Raccontami.» Ty inclinò il capo, leggermente intontito. «Bryan è… un tipo semplice, un po’ femminile, educato e umile. Mi ha fatto una buona impressione, però non so. Mi ha fatto male vedere quella famiglia così… non so… in quella situazione. Mi ha ricordato noi, ma ancora peggio. Ti rendi conto, mam-ma?» chiese voltandosi verso di lei, gli occhi grandi e tristi. Sua madre sorrise teneramente e lo abbracciò. «Tesoro, perché allora non fai qualcosa per loro? O meglio, per quel Bryan?» «Ho già fatto qualcosa, Wiwi…» rispose con un sorriso il ragazzo, sen-tendosi persino un po’ orgoglioso dell’operato svolto. La donna si drizzò un po’ e lo fissò con aria indagatrice. «Che hai fatto?» Ty sorrise e si sfregò le mani. «Ora ti racconto.»

«Dov’è il mio piccolo Bryan fortunato?» cantilenò Savannah affacciando-si nella stanza del figlio. Bryan si voltò, per sua sorpresa sorridente, pattando il materasso e invi-tando la madre a raggiungerlo. Savannah sorrise; aveva pensato di ritro-varlo in lacrime, invece… «Sei felice?» gli chiese finalmente orgogliosa di se stessa.

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Bryan annuì. «Tanto. Forse la ruota ha cominciato a girare…» commentò sorridendo lievemente. Savannah annuì convinta. «Senti… lui com’era? Che impressione ti ha fatto?» Bryan inspirò profondamente, poi soffiò via l’aria alzando gli occhi al sof-fitto. «Come posso spiegare? Ecco… a me piaceva come giocatore, poi per… be’, la sua presenza», cominciò arrossendo lievemente. «E pur pro-vando tanta stima nei suoi confronti, insomma, pensavo che alla fine fosse uno dei soliti personaggi segretamente presuntuosi. Lo so, non è carino da pensare, però è sempre difficile credere veramente che una persona sia perfetta, no?» Savannah inclinò il capo leggermente interdetta. «Oh, e… Insomma, era veramente così?» Un angolo di quella paffuta e deliziosa bocca si arrampicò verso l’alto, di-segnando sul ragazzo un mezzo sorriso dolce e sì, sognante. «No. Era molto meno superficiale e molto più… ragazzino. Un normalissimo ra-gazzo, mamma. Era strano, non sembrava nemmeno un cestista che gua-dagna chissà quanto giocando nell’NBA! Ha preferito una locanda a un ristorante francese, ha offerto il pranzo a tutta la troupe e… oh!» esclamò improvvisamente, spalancando la bocca e sgranando gli occhi. Era bastato il ricordo di un particolare di quel pranzo a fargli scomporre le budella. «Cosa?» chiese Savannah. Stava assistendo al monologo del figlio e quel-lo si era bloccato all’improvviso. Aveva ricordato qualcosa di brutto? «A… abbiamo diviso una porzione di patatine», boccheggiò Bryan, pun-tando lo sguardo chissà dove. «O-oh! Oh! Oh, Dio! Te l’ha chiesto lui? Che carino…» esalò sognante Savannah. Bryan annuì e arrossì violentemente allo stesso tempo. «Un sogno, mam-ma…»

«Oh, ma guarda chi c’è, Bryan io amo il basket o forse solo gli attributi di Bennett», ghignò Mariah appena il ragazzo entrò in classe il giorno dopo. Bryan la fissò inebetito solo per una frazione di secondo, poi spostò lo sguardo e si diresse verso il proprio posto senza replicare. “Mantieni que-sta linea, pensa al tuo diploma, che probabilmente loro non otterranno mai”, pensò, sperando di riuscire a farsi forza da solo. Magari ricordando quella meravigliosa giornata passata con il cestista, il suo cervello si sa-

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rebbe crogiolato un po’, scacciando la realtà ingiusta che era costretto a vivere. Appena si sedette, trovò un foglietto piegato in quattro sul banco. “Prepa-rati a non piangere e/o urlare”, si raccomandò mentalmente, afferrando il foglietto e aprendolo fra le mani. Era un disegno, uno di quelli in stile manga. C’era lui, inginocchiato per terra, con le mani congiunte e dello sporco sul naso. Una nuvoletta sopra la sua testa recitava: “Ti prego, dammi il tu-o…” e una brutta parola che Bryan non ebbe nemmeno bisogno di legge-re. Quella frase era rivolta alla palese riproduzione manga del cestista, che, con le braccia conserte e una espressione schifata, rispondeva: “Ma per favore, corri a lavare quei vestiti.” Bryan voltò il capo verso Mariah e scosse la testa amareggiato. «Tu sei un mostro.» Lei rise da perfetta gallina e si sedette sul banco, accavallando le gambe. «Il bue che dice cornuto all’asino.» «Certo, ok», sbottò Bryan riposizionandosi dritto al proprio posto. Afferrò il disegno e lo accartocciò, buttandolo nella borsa prima che a qualcuno venisse la brillante idea di rubarglielo e farne quattrocento fotocopie da appendere su tutta la scuola. Sempre se non l’avevano già fatto, mai dire mai con quegli stronzi. «Oh, Bryan Faggy Mills si è arrabbiato!» affermò drammaticamente Ma-riah, facendo ridere il suo gruppetto di idioti. Bryan scosse di nuovo la testa. Faggy, faggot. Frocio. Sembrava strano, ma quella era la prima volta che i suoi compagni usavano quel termine nei suoi confronti. Fu un po’ come sentirsi definitivamente emarginato. Era la conferma di tutto quello che avevano sempre insinuato, e fece più male di quanto avesse potuto immaginare.

“Che palle”. Bryan stava ancora pensando alla pietosa mattinata passata a scuola. Perché i professori lo adoravano e i suoi compagni no? Ok, era un bravo alunno, ma i professori dimostravano anche un certo affetto nei suoi con-fronti. Perché riusciva a fare una buona impressione agli adulti, mentre invece i suoi coetanei lo evitavano come fosse un appestato? “Ty no”, gli suggerì un neurone con l’ernia e il bastone del Dottor House.

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“Grazie al cavolo, perché diavolo avrebbe dovuto prendersi gioco di un povero sfigato che voleva solamente conoscerlo perché suo fan?”, si chie-se scuotendo il capo. Era naturale. Bryan aveva intuito il fatto che Ty fosse un tipo ok, uno che pensa solo allo sport e alla vita di tutti i giorni. Non gli avrebbe dato nes-suna soddisfazione trattarlo con freddezza o disgusto, no? E poi… Ty non era mai stato il tipo di sportivo che si presentava davanti alle tele-camere di un programma televisivo che non riguardasse lo sport, ma ave-va accettato quella proposta per Meet Your Idol. Perché? Bryan ci aveva pensato durante tutta la notte, doveva ammetterlo. L’unica risposta che si era dato non lo aveva per niente tirato su di morale, anzi. Gli aveva ridotto il cuore ad una prugna rinsecchita. Gli aveva fatto pena…

Durante quelle due settimane, Bryan aveva vissuto una strana situazione mentale. Aveva avuto mille cose per la testa. Ty, gli scherzi dei suoi com-pagni, alcune interrogazioni, Ty, quella strana data scritta sulla foto, la speranza che qualcuno lo cercasse per delle ripetizioni e Ty. Una specie di vortice sconclusionato. Il problema era che più erano passati i giorni, più Bryan aveva temuto di vedere se veramente sarebbe accaduta qualcosa quel dannato dodici no-vembre. Era vero, Bryan si era mostrato estremamente scettico con Sa-vannah riguardo quella ‘svista’, ma poi, ripensandoci e osservando la foto, Bryan aveva quasi pregato che quel giorno sarebbe successo qualcosa. Qualsiasi cosa. Riguardava Ty, quindi non sarebbe potuto essere niente di terrificante, ne era certo. E insomma, il dodici novembre era arrivato, peccato che Bryan fosse an-cora bello che addormentato nel suo lettino caldo. La verità era che era rimasto sveglio a girarsi e rigirarsi nel letto, perché quando la mezzanotte era scoccata, il dodici novembre era arrivato sul serio, e lui aveva quasi sperato di veder piombare Ty in volo nella sua camera, spalancando la fi-nestra e mostrandosi vestito con una tuta da super eroe in tinta verde Cel-tics, un sorrisone e una mano tesa verso di lui. Forse in quel momento lo stava persino sognando… Be’, ognuno ha le proprie fantasie, seppur as-surde, ma qualche volta anche realizzabili. Savannah lo svegliò qualche minuto dopo, dolcemente. Bryan ci mise solo due minuti ad alzarsi e prepararsi per andare a scuola.

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Savannah stava lavando le scodelle sporche dalla colazione, quando qual-cuno si fermò di fronte alla loro casetta, parcheggiando con noncuranza sul marciapiede. La donna corrugò la fronte e fissò l’uomo sconosciuto che, dopo aver fatto qualche passo verso la loro cassetta della posta, tirò fuori un pacchetto verde, riponendolo al suo interno guardandosi attorno. Savannah perse un battito e fissò i dadi che segnavano la data, posizionati in modo corretto qualche minuto prima. Era il dodici novembre. Un uomo aveva appena posato un pacchetto verde nella loro cassetta delle lettere. E non era un postino. Tutte quelle strane coincidenze le dissero che quel pacchetto non doveva essere per lei. Quasi non riusciva a respirare per colpa dell’ansia. Bryan uscì velocemente dalla propria stanza, pronto a recarsi a scuola. «Mamma, esco!» «No, aspetta, potresti restare a casa per aiutarmi con le pulizie?» improv-visò la donna, facendo capolino dalla cucina. Bryan si bloccò improvvisamente, scrollando le spalle. «Mamma, avresti potuto chiedermelo prima, non mi sarei quasi ammazzato per fare la doc-cia in tre minuti!» si imbronciò Bryan, per poi poggiare lo zaino e sgran-chirsi le nocche. «Allora, cosa devo fare?» Savannah sospirò e gli indicò la porta. «Vai a vedere se c’è della posta. Nel mentre penso a cosa fare prima», gli disse cercando di agire con non-curanza. Non era certa ci fosse riuscita. Per niente. Bryan annuì stranito e uscì di casa, avviandosi verso la cassetta piantata sul terreno, proprio come quelle che si vedevano nei film. Abbassò la leva e infilò la mano, tirando fuori uno strano pacchetto verde. Lo osservò e tornò dentro casa, sedendosi poi sul tavolo della cucina. C’era il suo nome. Era verde. Era da parte di un mittente anonimo. «Bryan… oggi è…» «Il dodici novembre, lo so», la bloccò Bryan, continuando a osservare il pacchetto lungo quanto un astuccio portapenne. Savannah si morse le labbra e si mise in disparte, osservando il ragazzo cominciare ad aprire la scatolina con mani tremanti. Quando la aprì, Bryan si ritrovò davanti due schede verdi, che lui rico-nobbe immediatamente. «Bryan?»

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Il ragazzo restò impalato, e gli occhi gli lacrimarono senza che nemmeno se ne accorgesse. «Sono due abbonamenti per il campionato dei Celtics, mamma, con ingresso privato e posti riservati», disse con voce tremenda-mente instabile. Savannah piazzò le mani sulla bocca e strillò, correndo verso di lui e ab-bracciandolo stretto. «Tesoro, hai visto? Non ti ha dimenticato! Oh, teso-ro!» strillò commossa. Bryan riuscì finalmente a sorridere, con lo stomaco in subbuglio e le la-crime copiose che scendevano sul suo viso. Gli era venuta la pelle d’oca e aveva cominciato a singhiozzare dalla gioia. Ty non aveva dimenticato. Aveva pensato a lui e a dargli quella possibilità che lui da solo non avreb-be potuto avere in poco tempo. Non riusciva a crederci. Quando sua madre si scostò, Bryan posò di nuovo lo sguardo sul pacchet-to, leggendo finalmente il biglietto accostato alle due schede. “Ciao Bryan, sono Ty, spero ti abbia fatto piacere il mio pensiero. Conto di vederti a tutte le partite in casa dei Celtics, sul serio, mi farebbe piace-re. Ho pensato di farti avere due abbonamenti, uno per te e uno per Sa-vannah. Scusa se te li ho fatti avere solamente tre giorni prima l’inizio del campionato, ma non ho potuto ottenerli prima! A presto, Ty.”

«Bryan, per favore, dai!» «Mamma sul serio, non ho voglia, ho un mal di stomaco terrificante e mi viene la nausea solamente al pensiero di mettere qualcosa sotto i denti», borbottò Bryan per la cinquantesima volta, cercando di inspirare profon-damente per scacciare quel groppo alla gola che lo stava facendo impazzi-re. Savannah sospirò e scosse la testa, ritornando nella triste cucina in legno povero col piatto ancora pieno. In quei due giorni Bryan aveva sentito sempre caldo, era stanco, aveva avuto più bisogno del solito del suo inalatore e non aveva nessunissima voglia di mangiare. Aveva troppe cose per la testa: Ty l’avrebbe salutato? L’avrebbe anche solo degnato di uno sguardo, essendo stato lui ad avergli procurato quei benedetti abbonamenti? Nel caso in cui Ty l’avrebbe salu-tato, lui sarebbe riuscito a spiccicare parola? A ringraziarlo? A non crepa-re sul colpo?

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Non ne aveva idea, e i salti nel buio o il fatto di non sapere cosa aspettarsi, di sentirsi a disagio, erano situazioni che Bryan non riusciva a sostenere. Era sempre stato troppo insicuro per inserirsi alla perfezione in situazioni non ben definite. Aveva bisogno di sapere cosa aspettarsi, cosa fare e quando farlo. «Tesoro, senti, so che… insomma, sei in ansia, lo vedo. Potresti spiegarmi il perché? Ok, sarà la tua prima partita dal vivo, ma… insomma, non è che tu debba dimostrare qualcosa domani, no?» disse Savannah, sospirando pesantemente. Si sedette accanto al figlio, davanti alla tavola ancora da sparecchiare. Bryan soffiò via l’aria e scosse la testa. Pigolò lamentoso e si massaggiò lo stomaco coi polpastrelli. «No, non dovrò dimostrare niente, ma… non lo so, mi saluterà?» le chiese, come se Savannah avesse potuto dargli una risposta precisa. La donna sospirò e si umettò le labbra. Cos’avrebbe potuto dirgli? Non voleva nutrire false speranze, perché in verità anche lei si era chiesta se quel cestista avrebbe tenuto conto di suo figlio, se magari gli avrebbe ri-volto un qualsivoglia sguardo, saluto o sorriso. L’unica soluzione era im-provvisare, senza dire né troppo, né troppo poco. «Credo… credo ti saluterà, sì», cominciò cercando di soppesare le parole. «In fondo è stato lui a volerti lì, no?» «Be’, non proprio. Ha solamente regalato a noi gli abbonamenti che non potevamo permetterci. Gli devo aver fatto pena, tutto qui. Questo non vuol dire che lui vorrà salutarmi o… non so, qualunque altra cosa», mugolò sconfitto. Era un modo per un altro per lasciar intendere che non si aspet-tava nulla. Non che non ci sperasse, ma in quel momento Bryan si sentiva meno ottimista e forte del solito. «Pena… io non direi, Bryan. Penso gli abbia fatto piacere far contento un tifoso come te. Al massimo, la chiamerei tenerezza», obbiettò Savannah convinta. «Pena, tenerezza, non vedo la differenza», ribatté Bryan, corrugando la fronte. «Io la vedo. Bryan, aspettiamo domani e vedremo. Non ci perdi nulla, no? Stai tranquillo, tesoro, domani tornerai a casa col sorriso sulle labbra, me lo sento», si sbilanciò la donna. Sapeva di aver fatto un passo di troppo, ma be’, non aveva detto niente di impossibile. Bryan annuì e si alzò da tavola. «Ok, mami. Io vado a letto, ok? Uhm… non… non credo andrò a scuola, scusami.» «Non c’è problema tesoro, lascerò che ti svegli da solo. Buonanotte.» «Notte, mami.»

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Bryan schioccò un bacio sulla guancia della madre e si rifugiò nella sua piccola stanza. Avrebbe fatto la doccia la mattina dopo, perché in quel momento non aveva voglia di fare nulla, un po’ come negli ultimi due giorni. Infilò il pigiama in pile e si coprì fino al naso. Sapeva che avrebbe sogna-to campi da basket, corti capelli corvini e quel maledetto verde per tutta la notte. Il suo stomaco continuava a dolere…

Bryan si svegliò verso le undici del mattino, quando sua madre non era ancora rientrata dal lavoro. Inutile dire che, prima di addormentarsi, Bryan si era crogiolato nell’ansia come uno spicchio d’aglio soffrigge sull’olio. In quel caso, il letto era stata la sua padella. Aveva rimuginato per più di due ore, poi quei pensieri avevano funto da ninna nanna. Era stato un be-ne. Le sue occhiaie erano sparite dopo tutte quelle ore di sonno. Una volta abbandonato il letto ancora caldo, Bryan si stropicciò gli occhi ed il pensiero che il grande giorno fosse arrivato gli colpì il solito punto all’altezza dello stomaco. Aveva sentito il principio di quella sensazione chiamata fame, ma era sparita non appena il suo stomaco aveva ricomin-ciato a bruciare. Sbuffò stancamente e si diresse verso il comodino. Affer-rò dell’intimo pulito, i pantaloni di una canadese e una felpa scolorita. Fece una doccia rilassante ma non troppo lunga. L’acqua costava cara. Non poteva stare tranquillo nemmeno sotto il getto caldo, doveva sempre pensare a quanti soldi stesse sprecando in quel momento. Era frustrante, e sapere che il tutto gravava sulle spalle della madre lo infastidiva parec-chio. Avrebbe tanto voluto abbandonare la scuola e trovare un lavoretto, anche solo come porta pizze, ma quella era una delle poche cose che sua madre non gli avrebbe mai permesso. Non poteva sprecare la sua intelli-genza non ottenendo nemmeno il diploma. “Mancano solo pochi mesi”, continuava a ripersi la stessa identica cosa da troppo tempo ormai, esattamente come un disco rotto. Sapere che pochi mesi dopo avrebbe posto la parola “fine” al capitolo riguardante la scuola era un sollievo per lui, anche se sapeva che prima avrebbe dovuto subire tante di quelle umiliazioni che avrebbe ricordato per tutta la vita. Si asciugò il corpo e indossò gli abiti scelti poco prima. Guardò per un po’ la TV, poi decise di preparare qualcosa per il pranzo, visto che sua madre sarebbe tornata entro mezz’ora. Mise la pentola dell’acqua a bollire sul fornello e preparò del sugo.

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Venti minuti dopo la pasta era pronta, profumata e fumante. «Tesoro? Sei sveglio?» «Sì, mami, sono in cucina, ho preparato il pranzo.» Savannah entrò nella cucina e inspirò a pieni polmoni. «Mmm, che buon profumo. Grazie tesoro», esalò sorridente. Bryan alzò le spalle e sorrise. «Di niente.» «… Mangi anche tu, vero?» chiese sua madre, infilando la forchetta fra gli spaghetti. Bryan osservò il contenitore della pasta e ne gettò due forchettate nel pro-prio piatto. «Ecco.» Savannah fissò la misera porzione ed inclinò il capo con disappunto. «Mi sembra un pranzo un po’ povero.» Bryan alzò le spalle e le sorrise, come a volersi scusare. Savannah non disse nient’altro.

Bryan inghiottì la saliva più volte, immobile davanti all’armadio semi vuoto. Tutte le sue magliette avevano qualcosa che non andava. Le sue felpe era tutte scolorite. Osservò una maglia che sembrava non avere nien-te di strano, quando si accorse di un buco sul fianco. Ne studiò un’altra, ma quella era macchiata di varecchina. Tutti i suoi vestiti facevano schifo. Non era mai stato un problema fino a quel momento, ma ora che Bryan sapeva che avrebbe avuto nuovamente Ty Bennett a pochi metri di distan-za, avrebbe voluto per lo meno apparire in uno stato decente. Invece no. «Non posso nemmeno avere una dannata maglietta che non abbia qualco-sa di rotto, cazzo!» urlò chiudendo con uno scatto l’anta dell’armadio. Il rumoraccio attirò l’attenzione di Savannah, che si precipitò nella stanza del ragazzo. Bryan, nel mentre, si buttò sul letto a pancia in giù, battendo i pugni ed urlando sul cuscino. Buttò via una lacrima di rabbia e sua madre gli si av-vicinò repentinamente. «Amore, che succede? Ehi! Non farmi preoccupare!» Bryan si tirò su e sfoggiò broncio milionario. «Guarda le mie magliette, mamma… hanno tutte un buco o… o sono scolorite e… mamma…» pia-gnucolò gettandosi su di lei. Savannah scrollò le spalle e lo abbracciò. «Tesoro, perché non mi hai det-to che stavi già preparando i vestiti per stasera?» chiese scuotendo la testa.

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«Uhm… Forse avrei dovuto immaginarlo. Aspetta un secondo, mmm? Torno subito.» Bryan si ritrovò nuovamente solo, seduto scompostamente sul letto, i ca-pelli disordinati e quella stupida lacrima rinsecchita sulla pelle. Era solo uno stupido bambino piagnucoloso. Come aveva potuto lamentarsi per i vestiti? Era la prima volta che cose del genere provocavano il lui quella rabbia. Sua madre non meritava di assistere a scene simili. “Perché sono così stupido? Devo chiederle scusa…” Savannah rientrò nella stanza sorridente, la sua borsa da lavoro fra le ma-ni. Si sedette sul letto e Bryan la fissò con dispiacere. «Mamma, mi di-spiace, non volevo lamentarmi in quel modo… È stato solo un momento di rabbia, non volevo farti sentire inutile, tu fai tutto quello che puoi e…» «Bryan? Mi fai parlare ora?» lo interruppe Savannah, uno sguardo così dolce che fece immediatamente ammutolire il ragazzo. La donna sospirò e infilò le mani nella borsa. «Non ho pensato niente di simile, capito? So che purtroppo i nostri vestiti sono un po’ vecchiotti or-mai, e ho pensato di fare qualcosa per te ieri mattina a lavoro. Mi son fatta portare un foglio di carta transfert dalla mia collega, ho stampato… due cosette e… le ho trasferite su una maglia che ho preso al mercatino. Ho speso solamente due dollari, quindi non dirmi che non dovevo spendere dei soldi inutilmente. Ecco qui», spiegò orgogliosa, tirando fuori una ma-glia ben piegata dalla borsa. Era dello stesso verde delle divise dei Celtics, e Bryan trattenne il fiato. «Oh, Dio!» esclamò mentre sua madre la apriva per lui. Vi era la scritta “Celtics” sul davanti, mentre sul retro il grande logo della squadra, bril-lante e colorato come una maglia ufficiale della società. «Non posso crederci, è favolosa! Mami! Grazie… Sei la più brava, la più bella, la più dol…» «Sì, sì, mi ringrazierai smettendo di piangere e facendomi un sorriso, ok?» Bryan si schiarì la gola, spalmò le mani sulle guance e sfoggiò un sorriso da infarto fulminante. «Oh, finalmente», disse Savannah, alzandosi dal letto e posandovi con cu-ra la maglia sopra. «Ora preparati, mm? Su, i Celtics ci aspettano.» Bryan ridacchiò e Savannah uscì dalla stanza. Indossò la sua striminzita maglia verde brillante, e in quel momento vide allo specchio il ragazzo più felice della terra.

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«Oh mio Dio mi sento male», blaterò Bryan guardandosi attorno. Aveva sempre osservato il TD Garden dalla TV, ma dal vivo, addobbato in verde, era tutta un’altra storia. Era diverso dal giorno in cui lui e Ty a-vevano fatto qualche tiro durante la registrazione del programma. Era e-norme. Al centro dello stadio vi era il campo da gioco, circondato dagli spalti per il pubblico. Un totale di diciottomila spettatori avrebbe riempito i posti, e Bryan si sentì immensamente onorato. Perché? Perché si trovava esattamente a bordo campo, dietro la panchina dei Celtics. Erano posti ri-servati agli abbonati, ai VIP e ai familiari e amici dei giocatori. Lui si trovava in uno di quei posti. Per conto di Ty Bennett. “Non posso crederci”, esultò mentalmente, guardandosi attorno mentre lo stadio si riempiva a vista d’occhio. Sua madre osservava il ragazzo con un enorme sorriso stampato sul volto. Con la sua maglietta verde a tema, immaginò che suo figlio si sentisse per una volta allo stesso livello di tutti gli altri tifosi. O persino un gradino più in alto. Continuava ad inclinare le sopracciglia, spostare lo sguardo dappertutto, lisciare la sua maglia nuova e sistemare la cuffietta con visiera sul capo. Era così felice che quel sorriso sembrava essersi irradiato anche sulla sua pelle, sulla sua brillantezza, sulla patina lucida sui suoi occhi. Bryan trasalì, vedendo il posto accanto al suo occuparsi all’improvviso. Una donna sorridente prese posto e si voltò verso di lui, squadrando con un sorriso prima lui, poi sua madre. Bryan rimase immobile, poi la vide corrugare la fronte confusa. Il ragazzo si mosse sul sedile, in imbarazzo. Aveva qualcosa sul viso? «Scusatemi?» chiese la donna, continuando a osservare i due. Savannah e Bryan la guardarono confusi. «Sì?» chiese Bryan, incrociando per un momento lo sguardo della madre. «Per caso voi siete Bryan e Savannah?» chiese la donna, sperando di non aver fatto una figuraccia. Le descrizioni corrispondevano, così come il fatto che fossero seduti nei posti riservati. Facendo due più due… «Sì, siamo noi», rispose Bryan con-fuso. La donna sorrise e sospirò di sollievo. «Oh, menomale, credevo di aver fatto una figuraccia!» esalò ridacchiando. «Io sono Wilma, la madre di Ty. Piacere», disse porgendo loro la mano. Bryan boccheggiò e afferrò la mano della donna. “La madre del mio idolo mi sta stringendo la mano.” «B… Bryan.»

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«Piacere, Savannah», disse la madre di Bryan. «Scusatemi tanto per la presentazione improvvisa, ma sono stata io la prima a leggere la vostra mail. Poi Ty mi ha raccontato tutto, e allora vi ho riconosciuti», si scusò Wilma, alzando le spalle. Savannah sospirò. Quella donna sapeva della loro vita da schifo. «Oh…» pronunciò, non trovando niente di meglio da dire. Wilma sorrise e sospirò. «Ty non voleva saperne. Non voleva leggere la mail, odia le emittenti televisive e ho dovuto corromperlo con delle frittel-le», confessò ridacchiando. Bryan si voltò interessato. «Delle frittelle?» chiese corrugando la fronte. Il fatto di poter sapere qualcosa sulla vita del suo idolo lo elettrizzava, anche se, in teoria, sarebbe stato meglio farsi i fatti propri. Wilma annuì. «Ne va matto. Quando ha letto la mail ha deciso immedia-tamente di accettare la proposta. È rimasto colpito.» Bryan inspirò profondamente. «Gli… gli ho fatto pena?» pigolò, senten-dosi piccolo quanto un pulcino spelacchiato. Alzò di poco lo sguardo, e i suoi occhioni che del caramello avevano la stessa dolcezza e colore si po-sarono su quelli della donna. Wilma li osservò e capì la sensazione che Ty aveva provato davanti al ra-gazzo. Lui non aveva saputo darle un nome, ma lei la chiamò prima “dol-cezza”, poi “tenerezza”. Avrebbe voluto coniare un nuovo termine per de-scriverla. «No», gli rispose addolcendo lo sguardo. Bryan sentì il groppo alla gola sciogliersi un po’. «Il fatto è che… be’, prima che Ty venisse ingaggiato nei Celtics, noi non stavamo meglio di voi. Credo che Ty abbia fatto ciò che avrebbe voluto fosse fatto a lui. Non era pena… per lui era giusto agire in quel modo. Se l’ha fatto, è perché gli ha fatto piacere farlo, mm?» cercò di spiegare Wilma, mantenendo quello sguardo dolce. Savannah sorrise e quella donna le stette subito simpatica. Si vedeva quanto fosse abituata a parlare a un figlio, lo vedeva nel suo disperato ten-tativo di scegliere le parole con cura, accompagnandole ad un tono e ad uno sguardo di un certo tipo. Le fu grata, perché Bryan sorrise e lo vide subito più sciolto e tranquillo. «Mi fa piacere, davvero», disse Bryan ringraziandola con gli occhi. Un secondo dopo, Bryan alzò di nuovo lo sguardo, ed un mare di verde lo investì. Tutto lo stadio era pieno, numerosi tifosi reggevano bandiere e trombe da stadio. Era tutto incredibilmente colorato e l’atmosfera era feli-ce e trepidante d’attesa. «Oddio, è bellissimo!» esclamò quasi saltando sul sedile.

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Le due donne risero e attesero. Il telecronista annunciò che la partita sa-rebbe cominciata entro quindici minuti, ed il cuore di Bryan batté furio-samente dentro la cassa toracica. Un altro dei suoi sogni stava per avverarsi.

I giocatori fecero il loro ingresso in campo e, quando Ty entrò nel suo campo visivo, Bryan urlò come un pazzo. I tifosi fecero suonare le trom-bette da stadio ed improvvisamente Bryan si ricordò di essere seduto ac-canto alla madre del ragazzo per il quale lui urlava. Si schiarì la voce e si mise composto, poi alzò un pugno ed esclamò un «whoa!» più discreto. Wilma e Savannah risero e la madre del cestista ur-lò il suo nome. Ty corse per il campo sgranchendosi le braccia e alzò una mano per salu-tare i tifosi. Il palazzetto esplose al suo gesto e lui sorrise. Come al solito poi, si voltò verso il posto che riservava sempre a sua madre. Le mandò un bacio e quella si agitò come una ragazzina, farfugliando qualcosa come: «Quello è mio figlio!» Ty le sorrise raggiante, poi incontrò lo sguardo del ragazzo seduto accanto a lei. “Bryan!”, pensò felice vedendo il ragazzo sorridere come un bambi-no in un negozio di dolciumi. Bryan sgranò gli occhi, perché lo sguardo del cestista era palesemente puntato nel suo. Ty agitò la mano in sua direzione e Bryan intuì un «ehi!» col labiale. Bryan fece svolazzare una mano a sua volta e sorrise mag-giormente. “Mi ha salutato! Lui! Lui, Ty Bennett, mi ha salutato!”, pensò gongolando come un disperato. Savannah gli diede la prima serie di tante gomitate, e Bryan ridacchiò come un bambino. Passarono solo cinque secondi dall’inizio della partita, che Ty segnò il primo canestro. Bryan esultò lanciando le braccia in aria, poi accadde. Ty si voltò verso Bryan e gli sorrise. Il tifoso si sentì sballottato da mani invi-sibili, il suo cuore collassò per un secondo e sudò freddo. Si voltò verso la madre di Ty, pensando di aver frainteso. Quel sorriso non poteva essere stato rivolto a lui. Peccato che Wilma stesse esultando, in piedi. Bryan guardò di nuovo Ty e quello continuò a fissarlo dritto negli occhi. Quel sorriso era per lui. Savannah gli diede un’altra gomitata. Mancavano trenta secondi alla fine della partita.

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Ty corse sviando la difesa della squadra avversaria, arrivando a centro campo e realizzando un canestro da tre punti. Quando la palla toccò di nuovo per terra, Ty si voltò e sorrise al ragazzo seduto in prima fila, in-credibilmente vicino alla loro panchina. Bryan arrossì per la centesima volta e sua madre gli diede l’ennesima lie-ve gomitata, ridacchiando come una ragazzina. A ogni canestro, Ty aveva rivolto un sorriso al ragazzo, mandandolo in brodo di giuggiole. «Mamma, perché fa così? Cavolo!» chiese imbarazzato Bryan all’orecchio della madre, dopo essersi guadagnato strane occhiate da delle cheerleader sedute a bordo campo. Si chiese anche se Wilma non avrebbe trovato strani quei sorrisi da parte di suo figlio per un altro ragazzo. La donna sembrava più felice che mai, e Bryan stava tremando dall’emozione. «Amore, scusa la franchezza, ma credo tu gli piaccia», rispose Savannah al suo orecchio, per non farsi sentire da Wilma. Bryan sgranò gli occhi sconvolto, una sensazione mostruosa nello stoma-co. Perché diavolo sua madre doveva uscirsene con certe affermazioni in momenti come quello? Soprattutto accanto alla madre di Ty? «Mamma! Non è gay! Non può esserlo! Credo», obbiettò imbronciandosi stralunato. Aveva il fiatone, gli girava la testa e quella situazione era deci-samente troppo per il suo povero cuore. Il fatto di avere l’inalatore nella borsa della madre lo tranquillizzava, ma di quel passo gli sarebbe venuto un infarto, altro che attacco d’asma. Savannah alzò le sopracciglia e scosse la testa. Ty fece guadagnare alla squadra gli ennesimi tre punti e rivolse l’ennesimo sorriso al povero Bryan. «Ne sei così sicuro?» chiese la donna, per poi ridacchiare ancora e acca-rezzargli una spalla. Bryan non rispose e balzò in piedi; la partita era finita e i Celtics avevano a dir poco schiacciato la squadra avversaria. Wilma saltellò, giustamente, perché era per tre quarti merito di suo figlio se i Celtics riuscivano a vincere con quel margine di vantaggio. Metà del pubblico si riversò sul campo, saltando e festeggiando la prima vittoria della Regular Season. Ty riuscì a districarsi dai suoi compagni di squadra, che lo avevano stretto in un abbraccio di gruppo. Passò attraverso la gente e sbucò dalla folla, raggiungendo Bryan, che non aveva nemmeno provato ad infiltrarsi nel cumulo di gente pressata. Era troppo magro e fragile per gettarsi in un ammasso di stangoni e tifosi esuberanti.

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Bryan vide Ty puntare dritto verso di lui e perse un battito. Ty lo raggiun-se, e Bryan si sentì avvolgere dal corpo sudato del cestista. Così, all’improvviso. «Bryan! Come stai? Va tutto bene? Ti sei divertito?» gli chiese Ty alzan-do la voce per sovrastare le urla della folla. Bryan sorrise radioso, quasi sull’orlo delle lacrime. Era veramente troppo emozionato, il suo cuore batteva veloce quanto le ali di un colibrì. Portò le braccia attorno al corpo del cestista ed inspirò. Era troppo, troppo per lui. «Sto benissimo, è stato incredibile! Grazie!» rispose cercando di stringerlo ancora un po’. Ty respirava ancora affannosamente, e Bryan sentiva il suo torace muo-versi veloce su di lui. Tra le sua braccia si sentiva piccolo, cosa che non aveva mai provato. Era difficile trovare qualcuno più imponente del suo metro e ottanta, ma Ty ci riusciva benissimo. I due si allontanarono, ma Ty lasciò le proprie mani sulle bracca del ra-gazzo. «Sono contento, davvero», gli disse sorridente. «Credo di dover andare… Oh, Mamma!» la chiamò il ragazzo, facendo voltare la donna, che parlava allegramente con Savannah. «Campione! Bravissimo!» esclamò la donna, abbracciandolo. «Grazie Wiwi. Senti…» disse prima di sussurrarle qualcosa all’orecchio. Wilma corrugò la fronte, poi sorrise ed alzò le sopracciglia. «Oh! O… ok!» disse, piacevolmente sorpresa. Bryan e Savannah rimasero immobili a osservarli; poi Ty sciolse l’abbraccio, salutò Savannah ed agitò una mano, ritirandosi nello spoia-toio. Bryan sorrise e scrollò le spalle. Continuava a tremare, e non si era mai sentito più felice prima d’ora. Era un dannato sogno, e non sarebbe potuta andare meglio di co… «Bryan? Ty mi ha chiesto di darti il suo numero», affermò Wilma avvicinandosi al ragazzo. Se qualcuno l’avesse sentita, tutti avrebbero voluto il numero personale del ragazzo, e sarebbe stato un incubo. Bryan boccheggiò più volte, e Savannah parlò per lui, tirando fuori una penna e un pezzetto di carta dalla borsa. «Oh, può dirlo a me, sa, non ab-biamo dei cellulari, solamente il telefono fisso», disse arrossendo di ver-gogna. «Oh, Savannah, per favore, dammi del tu! Questo è il numero.» Le porse il cellulare e Savannah copiò attentamente il numero, mentre Bryan viaggiava in un limbo che lui non aveva mai esplorato. Un limbo chiamato pura felicità.

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FINE ANTEPRIMA

CONTINUA…

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