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Guido Sperandio QUARANT’ANNI DA COPYWRITER Splendori e miserie my indie book Copyright © 2011-2013 by Guido Sperandio All rights reserved. No part of this book may be reproduced or transmitted in any form or by any means, electronic or mechanical, including photocopying, recording, or by any information storage and retrieval system, without written permission from the author, except for the inclusion of brief quotations in a review. Cover: design by Guido Sperandio ISBN 978-1-291-81003-5 *** Ciascuno aveva la sua storia Tutti una gran voglia di arrivare. La generazione che aveva conosciuto la guerra è andata all’assalto della pace. Non più cannoni. Il marketing. Non più bandiere. I logo. *** INDICE Nient'altro che la verità Prologo Una case-history Epilogo Epilogo dell’epilogo Postfazione Bibliografia ***

Guido Sperandio QUARANT’ANNI DA COPYWRITER Splendori e … · Che gli si mostra la testa e, previo inchino, gli si dice: «Eccomi qua». Non trovai nessuno a cui offrire la mia

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Guido Sperandio

QUARANT’ANNI DA COPYWRITER Splendori e miserie

my indie book

Copyright © 2011-2013 by Guido Sperandio

All rights reserved. No part of this book may be reproduced or transmitted in any form or by any

means, electronic or mechanical, including photocopying, recording, or by any information storage

and retrieval system, without written permission from the author, except for the inclusion of brief

quotations in a review.

Cover: design by Guido Sperandio

ISBN 978-1-291-81003-5

***

Ciascuno aveva la sua storia

Tutti una gran voglia di arrivare.

La generazione che aveva conosciuto la guerra

è andata all’assalto della pace.

Non più cannoni.

Il marketing.

Non più bandiere.

I logo.

***

INDICE

Nient'altro che la verità

Prologo

Una case-history

Epilogo

Epilogo dell’epilogo

Postfazione

Bibliografia

***

NIENT’ALTRO CHE LA VERITA’

State per entrare nel backstage, nel dietro le quinte, di quel fenomeno sociale ed economico, e di

esperienze effettivamente vissute che è stata - ed è - la Pubblicità. Personaggi, fatti e luoghi come

pure momenti, cronologie e situazioni sono autentici e reali, e somiglianze con persone viventi o nel

frattempo decedute sono ravvisabili da chiunque queste persone abbia conosciute.

L’Autore non declina anzi è lieto di assumersi le relative responsabilità.

Quanto riferito nelle pagine seguenti è ovviamente frutto di ricostruzione. La memoria umana non

avendo la fiscalità di una registrazione audio o video. Esiste la ragionevole probabilità che i

dialoghi riportati non coincidano sempre con le parole esatte dei protagonisti.

L’Autore comunque ne garantisce spirito, senso e sostanza. Altrettanto per quanto concerne lo

sviluppo degli eventi, senza concessioni alle licenze di una trama.

L’Autore, infatti, esclude ogni ricorso alla fantasia. Sia perché non c’era niente da inventare, i fatti

di per sé bastando. Sia perché l’Autore stesso ammette d’essere pigro e di scarsa immaginazione.

Già caffè e fumo erano troppi.

C’era anche il cardiologo dell’ASL a dissuadere da velleità di fiction.

Milano, inverno 2009

L’AUTORE

PROLOGO

In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum. E Satana, per

contrapporsi, creò il suo di Verbo, la Pubblicità.

Si insediò a Manhattan, in Madison Avenue, la vetrina, cuore del pianeta. E, da qui, Satana irradiò

il suo veleno, ammantato di bollicine e di lustrini, di colori ammalianti e di lussuriosi sapori:

affinché meglio si inoculasse.

A segnare irrimediabilmente chi la Pubblicità avrebbe subita.

Ma anche chi l’avrebbe concepita.

UNA CASE-HISTORY

1.

Il futuro sulla punta di una biro.

La mattina di quel primo di settembre mi batteva nel cuore il mondo. Mi ero rasato due volte, la

prima per rasarmi, la seconda senza rendermi conto di fare la barba a una palla da biliardo.

Chiamiamola, emozione.

Ad avere l'automobile a quei tempi erano i piazzisti, i capitani d'industria e qualche fortunato

vincitore di concorsi, così all'agenzia c’ero andato in tram. Col vestito della festa, come si va dal

boia. Che gli si mostra la testa e, previo inchino, gli si dice: «Eccomi qua».

Non trovai nessuno a cui offrire la mia testa, conferma che non era come lavorare in una banca: lì,

alla Carey Pearson & Valley, nessuno compariva prima delle dieci.

Tirai una Coca dal distributore.

La Coca a piccoli sorsi per farla durare e farmi sembrare l'attesa meno lunga. Andy Warhol avrebbe

avuto tutto il tempo di ritrarla. Ma Andy Warhol stava a New York a copiare le soup della

Campbell.

Presi gusto a succhiarmi la Coca, me la tirai anche la mattina dopo, e quella dopo ancora, al posto

del cappuccio e brioche.

Diventò abitudine.

La bottiglietta sul tavolo vicino alla macchina da scrivere.

La Coca all'alba.

Mi aspettavo che tutti mi aspettassero.

Invece.

Arrivò finalmente l'art col quale dovevo lavorare. L’art si piazzò al tavolone da disegno. Se ne

guardò bene dal concedermi un’occhiata. Avrebbe perso tempo.

Come nei marines, conta lo spirito di corpo, mi dissi.

L'art si pulì il tavolone. Lo passò e ripassò con una spazzola, poi con uno straccio.

E io contavo: uno, due, tre…

Sicuro che a cento, l’art si sarebbe scopato il tavolone.

Cento!

Non accadde.

Andai verso l’unico tavolo (oltre al tavolone da disegno). Sul piano di vetro erano visibili il

cappuccio di una biro (senza la biro), un foglio scarabocchiato e spiegazzato, due elastichini, una

macchia di birra ancora appiccicosa.

«La macchina da scrivere dov’è?» chiesi.

L'art lanciò un urlo: «Yahuuuuu!».

Poi: «Porca beccaccia» imprecò, strabuzzò gli occhi, mi fissò. «La macchina da scrivere?».

Indugiò, scrollò le spalle: «Cosa ne so? Mica faccio il copy, io».

«Quello di prima, al mio posto, come cazzo scriveva?»

«Non scriveva. Diceva che era il copy più geniale e giovane d'Italia, ha litigato col capo, e se ne è

andato».

La macchina da scrivere, la trovai. Insieme al telefono sotto cataste di bozzetti. Abbandonati alla

mortificazione dell’oblio nonostante il sangue sparso a concepirli.

(La settimana dopo, mi facevo la doccia. Ancora mi usciva polvere dall’ombelico.)

«Porca beccaccia!» l'art non smetteva di ululare mentre abbozzava schizzi su schizzi.

Infaticabile.

Mi accesi una sigaretta, l'art s'infuriò: «Fumi?».

Gettai la sigaretta.

Mi accesi un mezzo sigaro (erano ancora i tempi in cui giravo ben dotato).

La stanza fu invasa da una nube spessa, azzurra.

2.

Non era stato facile arrivare lì, avevo dovuto superare una serie di barriere mica male.

Le mie personali interne e infine quella esterna, decisiva.

Affrontarla, ci voleva un bel coraggio. Me ne rendo conto solo ora a distanza di un bel po’ di anni.

E non finisco di meravigliarmi, mi viene da pensare che al posto mio ci fosse un altro.

Era andata press’ a poco in questo modo.

Inizio favolosi Anni Sessanta.

Clima stimolante.

Aspettative.

I Beatles in procinto di assurgere a Coleotteri Epocali.

Passo la soglia della CPV, Carey Pearson & Valley, Agenzia di Pubblicità e Marketing.

Mi indirizzano da un signore col faccione rosso.

Il rosso del faccione cambiava d’intensità ad ogni istante. Esauriva in un attimo l’intera gamma del

Pantone.

Il faccione sogghigna: «E così lei, Ortes, vorrebbe fare il creativo?».

«Sì, io scrivo bene e ho fantasia» dico, piccato.

Alle spalle del faccione stava affisso un poster inglese: un elefante su una lavatrice cercava di

sfondarla. Barriva in un fumetto «Per quanto il vostro bucato possa essere pesante…».

La Pubblicità è proprio un bel mestiere, rifletto e godo.

Il faccione prende spunto dal barrito e mi lancia su cultura varia e attualità. Io, pronto: «Bla-bla-

bla».

Non mi sembrava vero che qualcuno si degnasse di ascoltarmi. Mentre il faccione rosso si limitava

a mugolii ora di assenso ora perplessi. Ogni tanto alzava gli occhi al cielo. Quasi cercassero

ispirazione in un’entità ultraterrena nota a lui soltanto.

«Bla, bla, bla…», io imperterrito, intanto.

«Starei attento… D’accordo… Starei attento… D’accordo... Starei attento…», lui il faccione.

«Come mai il cuore è simbolo ricorrente da sempre in ogni cultura e civiltà . E non, che so?, il

pancreas», il faccione da rosa a rosso bordò.

Rifletto che il pancreas fa schifo solo a

nominarlo mentre il cuore, fra tutti gli organi umani, è l’unico che si sente, è vivo, batte dentro.

Mi limito a parlare del cuore.

«Cosa pensa del rapporto immagine/parola».

Mi butto: «Si usa dire che un’immagine vale mille parole. Io dico che una parola può uccidere più

di mille spade».

Mi avevano colpito i suoi abiti da illusionista. Mi aspettavo di vederne uscire conigli o coppie di

candide colombe. Mentre lui, ammirato, non smetteva di osservare le mie scarpe.

Ero uscito di caserma di sfrodo, con un permesso falso. La leva stava per scadermi e il must:

trovarmi assolutamente un lavoro, al più presto e che gradissi.

La divisa, i mesi se li portava impressi tutti. Lisa com’era, commuoveva. Faceva pensare a un

reduce miracolato dal destino, Vietnam, se non l’ultima Seconda Guerra mondiale. E anche le

scarpe calzavo dell’Esercito.

I miei commilitoni le disdegnavano. Se le portavano da casa. Mentre io da dio mi ci trovavo.

Erano da D-Day, sbarco di Normandia. Larghe. E piatte. Ci si poteva stare in tre per scarpa, tre per

due, sei: mezzo plotone. Ed erano nere. Dark. Larghe e piatte, e dark: terribili. Dei tank.

Altro che le scarpe del faccione, costose e inglesi, e gialle. Da far supporre che ci volesse lo

zabaione a lucidarle.

Era comprensibile la bramosia del faccione per le mie scarpe. Anche se gli sarebbe bastato

arruolarsi nell’Esercito Italiano per averle, e pure gratis.

Lo pensai. Ma anche stavolta non lo dissi. Mi era sufficiente avere fatto colpo. Non importa se non

s’era udito il botto.

«Starei attento… D’accordo… Starei attento…», uscii assunto.

Le ali alle scarpe.

L’agenzia era in Piazza degli Affari, attraversai volando il Centro. In piazza Cairoli, inquadrai

Garibaldi e i leoni. E un leone mi sorrise e strizzò l’occhio.

Sono certo che accadde.

Come pure sono certo che quando ripassai, pochi mesi dopo, afflitto da un esaurimento nervoso

mica male, il leone neanche mi degnò.

Quella stessa sera, il soldato semplice che ero, è in branda. Si passa la lingua sulle labbra. Assapora

i fasti di una giornata che, sa già, gli resterà impressa.

Perché entrare in Pubblicità non è come con l’Arma dei Carabinieri.

Non esiste bando.

La Pubblicità è più simile al mondo della prostituzione dove le vie al marciapiede sono infinite però

non codificate. Ci vuole bene o male un protettore mentre lui, il soldato semplice Ortes Giovanni,

ce l’ha fatta.

E da solo. Senza spinte.

La notte è torrida, bolle anche la luna. La vampata attraversa la camerata. Accende il soldato

semplice Ortes che farnetica: sono in Pubblicità, soldi e pupe a volontà!

Si agita.

Scricchiola la rete di ferro e fruscia il pagliericcio.

Il bergamasco di sopra, nel letto a castello, bestemmia: «La pianti!».

I bergamaschi hanno tante lacune ma non in fatto di bestemmie.

Ortes Giovanni tira fuori da sotto il cuscino una polpetta.

Se l’è conservata dalla cena, in mensa.

Il soldato semplice Ortes Giovanni sapeva che, passata la mezzanotte, gli viene sempre fame.

3.

Anni ruggenti, mancava solo che ruggissero anche i muri. Il che, difatti, avvenne.

Un ignoto copywriter di Chicago, col tempismo del menestrello di talento, crea per un noto

carburante «Put a Tiger in Your Tank».

Quel «Metti un Tigre nel Motore» (versione adottata in Italia) dilaga oltre gli Oceani.

Le fauci del «Tigre» spalancate su città e metropoli dall’alto di giganteschi poster.

A futura memoria.

A marchio di un’epoca.

(Con questo, il copywriter che ignoto era, tale resterà. Fosse stato un qualsiasi strimpellatore

rockettaro, milioni di fan idolatranti sarebbero tutt’ora prostrati ad adorarne le reliquie.)

4.

Erano i tempi in cui si diceva ai nuovi assunti: «Benvenuto, lei sta entrando a far parte di una

grande famiglia».

Come se fosse entusiasmante scoprire di avere un sacco di fratelli rompiballe.

A parte che non ti dicevano chi nell’azienda fosse il padre e chi la madre. Che se eri edipicamente

scompensato, erano guai.

A me il ragioniere del Personale aveva invece detto: «Lei sta entrando nel team di un’ammiraglia».

E io avevo visto gabbiani volare, li aveva sentiti proferire il mio nome sulle rotte di un impero dove

non tramontava mai il sole.

Perché batteva bandiera inglese, l'agenzia. C'era da esserne orgogliosi. E io lo ero.

Orgoglioso lo fui, a maggior ragione, quando il capo in persona, scese dai piani alti per conoscermi.

John Archibald M. J. R., inglese come la bandiera, era apparso in tutta la sua bassa altezza ma alta

dignità.

Sorrisi a pensare che un individuo così piccolo potesse disporre di nomi e cognomi così grandi.

Ci si poteva, volendo, ritagliare i nomi e cognomi di altri quattro o cinque inglesi.

Ero riuscito a catturare unicamente la finale «son», per cui, visto che l’agenzia era un’ammiraglia,

avevo deciso di semplificare e soprannominare il capo, Nelson.

Nelson non era l’ammiraglio che aveva sconfitto il gran Napoleone?

Ce n’era abbastanza per immaginare John Archibald M. J. R. in alta uniforme con feluca.

Nelson accennò un compito inchino. E l’incontro si era chiuso anche con un inchino, i due inchini

stabilendo la parentesi dentro la quale Nelson racchiuse poche e storpiate ma sentite, parole

d’italiano.

«Mi hanno parlato molto bene di lei, mi hanno riferito che lei ha del talento» il succo di quanto

riuscii a decifrare.

E io avevo amato John Archibald M. J. R., alias Nelson. Da rimpiangere di non conoscere «Dio

Salvi la Regina».

Gliel’avrei cantato. Grato.

Sull’attenti.

5.

Gli account (gli addetti ai contatti col cliente) stavano ai piani alti.

La differenza, loro più su, era indice di una pretesa superiorità sociale, oltreché logistica. Rafforzata

dal tenore degli arredi: pregiati tappeti orientali, mobili di mogano, moglie-figli-cane racchiusi in

una cornice d’argento sulla scrivania.

Gli account si facevano le segretarie che ci stavano con loro, importanti.

Circolava voce che se le facessero sulla scrivania - a due piazze. Il ritratto della moglie davanti per

il vantaggio della diretta, caso mai capitasse di sentire il rimorso di chiederle perdono.

I creativi invece, sotto, sul linoleum sbrecciato.

Ma contenti, perché liberi di buttarci i mozziconi, e anche il telefono.

«Hai visto il telefono?»

«Chiedilo a lui che se l'è appena beccato sulla testa.»

«Fanculo.»

Non era un'indicazione. Ma il telefono lo stesso si trovava. Magari nel cestino. E funzionava. (I

telefoni, adesso, danno i numeri solo a guardarli.)

Il bello, quando arrivavano i clienti.

Ne arrivavano spesso, ci tenevano a conoscere i creativi.

Il cliente conosceva gli operai che in fabbrica gli facevano il prodotto? A maggior ragione doveva

conoscere chi il prodotto poi glielo lanciava.

Gli account si precipitavano a precedere il cliente: «Raccomando» supplicavano.

I ragazzi allora si davano da fare: raccattavano dal linoleum i barattoli di Cow, i ritagli di Schoeller

e le cartacce sparse, appallottolate. Per il resto, le cicche le lasciavano. Tanto…

A un certo momento, la porta si schiudeva. L'account non si fidava, la schiudeva da lasciarci

passare la mezza testa del cliente per il mezzo secondo di una mezza occhiata.

Lo zoo, io sghignazzavo. Attenti a sporgervi, il giaguaro poi vi mangia.

6.

Gongolavo.

I soldi non erano il granché da me farneticato, ma lo spasso compensava.

C’erano tipi che non era possibile incontrare altrimenti. Come l’Irlandese. La cui conoscenza era

avvenuta nelle circostanze più inimmaginabili anche per l’ambiente più circense.

Una certa mattina, l’Irlandese aveva fatto irruzione nella mia stanza, convinto di entrare nel bar

sotto l’agenzia. Accertato che dietro al mio tavolo non c’erano sfilate di bottiglie e che io stesso non

aveva niente che mi assimilasse a un barista, l’Irlandese era uscito barcollando e imprecando, dopo

avere compiuto una mezza giravolta.

Perché era ubriaco.

Già al mattino.

Ogni mattina.

Anzi, da quando stava in Italia.

Anzi, da prima.

Prima di venirci.

Vero che mio ufficio si prestava a penosi equivoci.

Due terzi dello scarso spazio erano occupati dal tavolone da disegno dell’art. Quello che restava era

pari agli esigui centimetri del corridoio di un vecchio scompartimento ferroviario di terza classe, di

cui, peraltro, era possibile ritrovare lo stesso tanfo di pecora e tabacco. Ma, a parte questo, dall’art

confluiva perennemente un viavai di gente. Che, in effetti, poteva far pensare a un bar.

Comunque, l’Irlandese arrivava in agenzia non prima delle undici, per poi subito sparire.

Ricompariva verso sera, il tempo di stappare una Guinness, che teneva sempre pronta, e daccapo si

eclissava.

Non a caso: era l’ora in cui in Italia si servono deliziosi aperitivi.

Era peli, nient’altro. Rossi. Altro che tizianeschi. Un fuoco. Da pompieri, oltre che da barbieri. In

un’epoca, non ancora il '68, in cui la barba folta fino al petto, la si concedeva soltanto a Garibaldi e

a Noè.

La barba incerta di un giorno bastava per essere squalificati, malamente giudicati. E le rasature

dovevano essere perfette da mento lucido in cui specchiarsi. (Basta vedere la Pubblicità della

Gillette dell’epoca.)

Non risultava avesse un cognome. Da far ritenere che non ne avesse mai avuto uno. A meno che

non se lo fosse dimenticato a casa, in un cassetto, prima di partire. Con quella testa! E

quell’incendio!

Era possibile.

Tutti lo chiamavano semplicemente Pat. (Per Patrick, c’è da immaginare.) Ed era ricercato, invitato:

«Patrick!, come with us, dài, Patrick!»

Le donne, poi!

Non si sapeva quale fosse il suo lavoro in agenzia. Nessuno lo sapeva.

Qualcuno azzardò: «Studia la scelta dei caratteri».

Il che era una cosa fuori di testa. Soldi buttati.

Come se un pasticcere pagasse un tizio apposta a misurare la circonferenza delle ciliegine da

apporre sulle torte.

L’Irlandese non solo non conosceva una parola d’italiano, ma anche l’inglese che parlava, era un

presunto celtico (o gaelico). Reso più incomprensibile perché parlato da un irlandese ubriaco, da far

dubitare che neanche un compatriota lo capisse.

Figurarsi io! che sputo i denti solo a tentare di spiccicarlo, l’inglese.

Riesco a dire solo «Io»... «AI!»... senza dolore.

7.

In realtà, la mia vita gravitava su un copy più grande di me di qualche anno, Giorgio K..

Personaggio poliedrico.

Trasmutava a perfetta misura del variare delle situazioni: abilità non da poco, se si considera quanto

la vita sia multiforme e bizzarra.

Giorgio K. – impegnato a rivestire il ruolo del caso - caso per caso – si trastullava con una pipa dal

cannello ricurvo, una Peterson.

Non tanto per amore della pipa (per la foggia particolare del modello o il gusto di fumarla) quanto

per lo slogan: «The Thinking Man smokes Peterson».

Ruolo - questo del Thinking Man - in cui Giorgio K. prediligeva apparire in agenzia e non solo,

anche fuori, dovunque si trovasse.

Gli bastava infilarsi la pipa in bocca, per assumere il tono grave del compassato giudice di un film

western.

(Ne aveva anche il gilè. Attraversato da una catenella al cui capo era ancorato un cipollone, il

classico vecchio orologio da taschino.)

To be or not to be, that is the question.

Si attagliava perfettamente a Giorgio K..

Aveva un generico passato di vetrinista, ma avrebbe potuto fare l’art, il fotografo o chissà cos’altro.

Per il momento, riusciva a figurare come copywriter. Con la mansione parallela di vice direttore

creativo. Carica ufficialmente mai conclamata, ma nota ufficiosamente. E di fatto esercitata a

momenti alterni, a misura delle situazioni. Per esempio, quando il direttore creativo se la squagliava

per andare a donne o a cavallo (o a praticare le due cose insieme).

Giorgio K. ne prendeva il posto, squagliandosela a sua volta al bar di sotto: complice del direttore

ma, nel contempo, alla testa di una rete di complicità con i colleghi per ingannare il direttore.

(Al bar, tra l’altro, bastò che una tale gli chiedesse di passarle lo zucchero. Giorgio K. si ritrovò

sposato. A dispetto della sua leggendaria elusività.)

Era super impegnato a non impegnarsi, cioè a passare i suoi lavori.

Riusciva ad essere indispensabile (e si prendeva per questo un bello stipendio) a rendere

indispensabili gli altri (che il bello stipendio non se lo prendevano, per niente).

A parte che detestava il lavoro, tutto, in generale… Quello di copywriter, in particolare, lo

avversava.

Tirava sera, tirando lunghi accorati profondi sospiri.

La sua mole non indifferente, stravaccata sulla sedia.

Palpebre socchiuse, ma orecchi irti.

Il gattone.

Assopito apparentemente.

In realtà, pronto allo scatto: al primo accenno di pericolo, il ventilato arrivo di un lavoro.

Era dedito alla lettura.

Nel suo stile. Naturalmente. Al risparmio. Di occhi e fatica.

Bertolt Brecht teneva banco all’epoca, e Giorgio K. si premurava di citarlo. D’altronde, nessuno in

agenzia si preoccupava di leggere. Neanche i copy, contrariamente alla credenza generale.

Unica differenza, i copy, pur avendo lasciati i libri fin dai tempi del liceo, non rinunciavano alla

parte di eruditi. Col risultato di esibirsi in massime, trite. Penose.

«Per aspera ad astra», «Carpe diem», «Errare humanum est»...

A me scendevano i brividi allo scroto, reagivo facendo il verso: «Tanto va la gatta al lardo che ci

lascia lo zampino».

I colleghi s’incazzavano: «Che c’entra?».

«Come? È Dante… Inferno, Canto XVI» sogghignavo.

Poi, Giorgio K. prese il vezzo di girare per i corridoi dell’agenzia, declamando versi.

Shakespeare.

E mi sorprese asserendo che Shakespeare era il più gran copy di ogni epoca.

Io, secco, allibito.

Mi sono andato a leggere Shakespeare e ho meditato.

Conclusi che, se è vero che la Pubblicità non è di per se stessa una tragedia, dalle tragedie si può

ricavare dell’ottima Pubblicità.

8.

La sera, finito il lavoro, uscivamo tutti insieme a caccia di baldorie. E Giorgio K. era insuperabile.

Probabilmente era questa la sua vera vocazione.

Giorgio K. in testa, andavamo per i vicoli di Brera, alla «Torre di Pisa», al «Soldato d’Italia», dalle

sorelle Pirovini. E bastava che uno conoscesse qualcun altro, a un altro tavolo, per conoscersi tutti e

brindare, e insieme fare i vispi, o a far finta d’esserlo.

«Siamo o non siamo artisti maledetti?» Giorgio K. strizzava l’occhio. «A noi ci seppelliscono di

notte in terra sconsacrata.»

Io godevo.

Jean-Baptiste Poquelin, il meglio ben noto Moliére, mi sorrideva dal suo teschio.

Complice.

9.

Giorgio K. era alto e corpulento, aveva i piedi grandi.

Il lunedì sembravano più grandi per il modo greve con cui li strascicava.

Proseguiva così per l’intera settimana, fino al venerdì. Quando allora i piedi gli scattavano, agili e

freschi, da aspettarsi di vederli ballare sulle punte.

A quei tempi il sabato era ancora giorno di lavoro. Gli italiani, la parola week-end credevano fosse

il nome di un cavallo da giocare alle corse. Ma (come già detto) la mia agenzia era inglese.

Socialmente evoluta. Così al giovedì si incominciava a rallentare, il venerdì mattina si passava a

progettare per il sabato, e il sabato si attuava lo spasso minuziosamente programmato.

Si aggiunga che Giorgio K. aveva l’auto.

Unico creativo (oltre al capo) a possederla.

Era una «Dauphine». Renault. E non importa se ogni volta per chiudere la portiera occorreva

sbatterla che dall'altra parte della città si chiedevano dove l’aereo fosse caduto.

Renault, «dal 1898 non ha sbagliato motore»: la citazione del relativo slogan è d’obbligo, perché a

partire da una certa epoca, ogni generazione si distinguerà per gli slogan che l’hanno plagiata.

Insieme alle canzoni.

Mia madre, per esempio - in bilico, in cima a una scala, mentre puliva i vetri alle finestre - cantava

a squarciagola «Signorinella pallida» o «Come pioveva».

Note e parole (C'eravamo tanto amati per un anno e forse più eccetera…) venivano gorgheggiate

con la retorica e un genere di passione sconosciuta e ripudiata, e disgustosa per me, ragazzo, che

puntualmente avevo il problema di reprimere istinti matricidi.

Io che, a mia volta, orgasmavo a sentire il be-bop di Dizzy Gillespie o il sax di Charlie Parker

(«Lover Man», mi faceva sdilinguire), e poi la tromba di Chet Baker, la voce strappata fuori

dall’utero di Billy Holliday…

D’altra parte, gli slogan che avevano scandito l’epoca di mia madre esprimevano gli anni retorici

di Gabriele D’Annunzio. Generatori (non a caso) di fasci e gagliardetti, e di successive guerre al

grido di locuzioni roboanti.

Copywriter: Benito Mussolini.

Come copywriter, Benito Mussolini se l’è cavata molto meglio che come capo del governo.

Leggere per credere: «L’aratro traccia il solco e la spada lo difende», «Libro e moschetto, Balilla

perfetto», «Meglio un giorno da leoni che cento da pecora», «Credere, obbedire, combattere»…

Siccome i media erano quello che erano, gli slogan del copywriter Mussolini venivano diffusi

dipinti a grossi caratteri neri sui muri della case dislocate sulla vie d’accesso alle città o sulle

provinciali. Le case cantoniere, sede privilegiata.

Ma poi, arrivarono gli americani, la democrazia e il marketing, e la Coca Cola. E proprio in

coincidenza alla mia entrata nell’età della ragione.

Al grigio dei muri e delle divise (le sconfitte divise italiane era appunto il grigio-verde), si sostituì il

kaki dei vincitori insieme a un deflagrare di felicità e di slogan numerosi quanto l’abbondanza

prossima a venire.

Gli slogan della Coca Cola erano la perfetta sintesi di ogni felicità, la più assoluta, in quei favolosi

Anni Sessanta: «La vita è bella con Coca Cola», «Tutto è meglio con Coca Cola».

«Tempo di Coca Cola» e «Coca Cola dà più vita» segneranno l’apice di un entusiasmo

caratterizzato parallelamente nelle strade, da lanci di cubetti. Poi dalle sprangate e infine dai morti

ammazzati a colpi di pistola e con le bombe senza autore. Anticamera degli Anni di Piombo.

Colonna sonora: «Beatles» e «Rolling Stones».

Forti dell’auto, e della compiacenza di Giorgio K. che ci ammetteva a bordo, io & Compagni

puntavamo, pigiati, alla Riviera.

Non c'era ancora l'autostrada. La strada del Bracco era a tornanti, stretta, con la memoria ancora dei

briganti che a lungo, per anni, dopo la guerra, avevano imperversato e saccheggiato camion,

corriere e pellegrini.

Era facile fare di un viaggio un'avventura e, in cima al Bracco, ce n'era abbastanza per fermarsi in

trattoria.

Si tracannava vino, tutti, tranne Giorgio K. che riusciva a tracannare, senza bere.

Lo stomaco pieno sull’orlo di scoppiare, c'era sempre il cretino che voleva a tutti i costi fare dello

spirito: «Cosa ne dite di due spaghettini olio e aglio? Io c’ho ancora fame».

Tornavamo cantando senza che il mare non fossimo riusciti mai (una volta, una) a vederlo.

Giorgio K. al volante della «Dauphine», nel ruolo (stavolta) del nocchiero.

Lo sguardo aggrottato a scrutare gli orizzonti dell’oceano (di pannocchie). Perché lasciata la

Liguria, era verso Tortona che stavamoo andando e non in Corsica, come a vedere Giorgio K.

veniva da pensare.

Giorgio K., col berretto da capitano di lungo corso.

Se lo calcava in testa al venerdì per lasciarlo solo il lunedì, l’attimo prima di mettere piede in

agenzia. Ci dormiva dentro le tre notti. Venerdì, sabato e domenica. C’era da scommetterlo.

Indossava anche il giubbotto (oltre il berretto) esatta copia del marinaio stampato sul pacchetto delle

«Navy Cut», le sigarette inglesi dal trip di un crack (nonostante l’apparenza innocente del tabacco

gentilmente biondo).

Giorgio K. si vestiva col pacchetto delle «Navy Cut» davanti, per modello, al posto dello specchio.

Se non lo faceva, era quello il risultato.

Lupo di mare. Senza esserlo.

Venne l’inverno.

Con la brutta stagione sostituirono il brivido del mare con quello dell’estero. Lugano.

Il pretesto, cambiare le gomme alla «Dauphine». («Costano meno in Svizzera.»)

Ogni volta, a sentirla nominare (la «Dauphine»), mi intenerivo. Era come evocarmi il nome di una

cara fidanzata di Parigi.

Vedevo la «Dauphine» prendere corpo. Fianchi e curve già li aveva. Le mancava solo una cascata

di capelli biondi al posto del tettuccio.

Diventava che a Lugano ci si andava a comperarle le scarpe con i tacchi a spillo, invece dei

pneumatici.

A quel tempo, solo in Svizzera era ancora possibile vestirsi come all'epoca del cinema muto. In

Italia quelle fogge erano scomparse con l'avvento del sonoro. La guerra ne aveva distrutto

definitivamente ogni ricordo a differenza della Svizzera, neutrale, che s’era potuta permettere di

restare fedele a Guglielmo Tell, e alle sue griffe.

Giorgio K., a Lugano, passava da un negozio all’altro, a provare e riprovare giacche e gilè. Forte del

potere d’acquisto del suo stipendio, se ne approvvigionava generosamente. Infine tutti andavamo a

festeggiare. A birra e salsicce. (D'obbligo, quando si è a nord di Milano, anche se si è appena oltre

la frontiera. E non necessariamente a Dusseldorf o in Baviera.)

Entravamo nella prima birreria, ed eravamo investiti da occhiate di riprovazione e di disgusto: «Les

Italiens… Italienish!».

I nostri schiamazzi d’altronde erano sufficientemente eloquenti da non mettere in dubbio la

nazionalità del passaporto.

Col tempo, per non incorrere nel rischio di venire brutalmente estradati (i gendarmi svizzeri non

scherzano) imparammo a bere birra e a mangiare le salsicce, zitti, attenti a non disturbare. Anche se

Giorgio K. smaniava e mugolava: impazziva a vedere il grembiulino bianco col pizzo delle

kellerine ogni volta che lo sollevavano per riporre i soldi nel marsupio, stretto alla vita. Sarà stato

per il modo di sollevare il grembiulino, ZACK!… Neanche che le kellerine scoprissero le loro

intriganti intimità…

La verità: i ragazzi erano belli e talentosi, artisti. Ma gli mancavano le Muse. (Mettiamola così.)

L’unica donna dell’intero piano dove stavano i creativi, era l’assistente di un art guercio, con la

benda su un occhio, e un mezzo toscano perennemente infisso in un angolo della bocca. L’art aveva

la fama di estroso, avallata dal guizzo della battuta imprevedibile o del pennarello sulla carta. Il

suo comportamento era comunque contenuto nei limiti del bon ton. Del resto era abile diplomatico,

godeva di una sua indipendenza e autorità, testimoniata da tutta una stanza a sua disposizione e da

un ristretto numero di clienti strategici per l’agenzia, che lui era praticamente unico a gestire,

senza intromissioni.

La ragazza, sua assistente, condivideva la stanza con l’art, e approfittava di ogni momento libero

per disegnare pupazzetti. Lei stessa sembrava uscire disegnata dalle proprie mani: con la frangetta

sulla fronte, e i tratti del viso che, a secondo delle luci o dei momenti, evocavano ora l’aspetto di

una vecchietta petulante ora di una ragazzina sbarazzina.

Non era in definitiva proprio una gran bellezza, anche se c’era qualcosa, un frullo. Solo che erano

tempi che esigevano condotte pudibonde, senz’altro virginali, specie sul lavoro poi, e tra soli

uomini. Look e comportamenti asessuati. Gli occhi bassi. Schivi.

La ragazza, quando usciva dal suo studio, camminava per i corridoi rasente i muri. Le cosce strette

come se volassero siluri.

Per un attimo, (scherzi della penuria) ci avevo fatto perfino un pensierino.

M’ero perso a immaginare di trascorrere le lunghe serate invernali con lei, davanti a un caminetto,

intenti tutti e due a suonare il violoncello. Non che l’avessi saputo mai suonare, ma l’idea mi

mandava su di giri.

Lei, che suonava il violoncello come preambolo a talami sfrenati.

D’altra parte, sui marciapiedi sotto l’agenzia, e per tutto il comprensorio di vicoli lì attorno - con

epicentro in via San Giovanni sul Muro, già sede di una storica casa di tolleranza - era

sopravissuto il retaggio collaterale di donne e pensioni, pensioncine e alberghetti, annidati nella

case basse di ringhiera.

Risolvere certe pulsioni o trovare l’esperta di terapie di amori in standby non era un problema.

Bastava un cenno. Non occorreva neanche scomodare Freud, teorie e discepoli. Tantomeno sapere

suonare il violoncello.

(Tempo dopo, scoprii che la ragazza era la donna segreta di un account dalla carriera emergente.

Ho dovuto cambiare agenzia ed essere fuori, lontano, per scoprirlo. «E già, un account» mi venne

da dire. Uno strafottutissimo account. Come da copione.)

10.

Mi divertivo.

E avevo superato il periodo di prova.

Tutto bene?

Mica tanto.

Mi aveva detto il ragioniere all’assunzione: «Bisogna vedere se lei risponderà ai requisiti. Sa, lei

può essere un gran giornalista o gran scrittore e non riuscire come copywriter. Ci vuole un certo tipo

d’estro e poi lei parte da zero. Pensi, abbiamo perfino preso un titolista de La Notte e ci crede? ha

bucato».

Sonore palle, avevo pensato. Se ne approfittano perché hanno il coltello per il manico. Parole

ipocrite. La faccia sporca dal capitalismo.

Bene o male, mi correva nelle vene il sangue di mia madre. Vero. Autentico. Perché m’ero fatto al

suo seno, mica allattato dalla Nestlè. Polvere equivoca.

Quello di mia madre era sangue forte, di chi era abituato a lottare per la vita a partire dal centesimo.

Nel nome di una dignità che lei considerava dovuta. E non ammetteva furbastri sfruttatori.

Peraltro, accusavo la minaccia: la spada della prova sospesa sulla testa.

Aveva aggiunto il ragioniere: «E, superata la prova dei primi mesi, poi, magari tra un anno, si può

vedere di alzare la cifra a misura della resa. Lei deve capire, lei rappresenta un puro costo».

Puro costo, sottolineato e ripetuto.

A risvegliarmi il rospo in pancia, un giorno, improvvisamente, l’art (quello del «Porca beccaccia»)

mi chiese: «Da quanto tempo sei qua?».

«Mm… Dieci mesi… Più o meno» dissi.

«Mah!» l’art scosse la testa senza smettere di pennarellare. Ora socchiudeva un occhio ora l’altro,

valutava l’effetto dell’ultimo colpo di colore.

La domanda dell’art aveva avuto l’effetto di ricordarmi le parole del ragioniere al momento

dell’assunzione, circa un aumento di stipendio, una volta superata la prova e un certo tempo.

Già, mi dissi. Determinato ad aggiornare patti e cifre.

Se non che: da che parte incominciare? Come chiedere, soprattutto a chi? Direttamente al

ragioniere?

Ma poi il faccione rosso non si sarebbe sentito scavalcato e offeso? Ne era il tipo.

D’altronde, mi fossi rivolto al faccione, mi avrebbe senz’altro risposto che non rientrava nelle sue

competenze.

Provavo la sensazione di sbagliare, in ogni caso.

Stavo imparando poco di Pubblicità.

Ma tanto sull’intricato mondo dei rapporti.

11.

L’art non partecipava alle compagnie di Giorgio K..

Era felicemente coniugato con una signora di nome Fernanda dai modi contenuti e che qualche

volta veniva a prendere il marito.

Figlio di un avvocato, si era laureato a sua volta in legge per accontentare la famiglia, ma aveva

frequentato anche la scuola serale di grafica al Castello e accumulato una carriera avventurosa di

agenzie e stipendi non pagati. (Le agenzie straniere erano sicure, in questo senso).

L’art, all’esatto scadere dell’orario, non un minuto in più, infilava la giacca per correre a casa.

Lavorava con dedizione, e gli bastava. Ignorava e voleva essere ignorato. Evitava i giri interni,

misurava le parole, era prudente.

Eppure, inaspettatamente, derogando: «Forse è meglio che ti guardi in giro» aveva concluso. «So

che cercano dei copy».

L’aveva detto a bassa voce. Approfittava del raro momento in cui nella stanza non c’erano persone.

Orecchie indiscrete. Ed era un consiglio che nasceva dal cuore. E di chi sa, ha l’esperienza.

Non dubitai dell’art. E valutai.

Non mi occorse molto per concludere che passavo le giornate a chiacchierare. A trascinarmi da una

stanza e l’altra. E, se non era io ad andare da Giorgio K. era Giorgio K. a comparire: «Coffee

Break?».

Lo diceva dando la risposta per scontata, strizzava l’occhio, ammiccava, si stiracchiava i peli della

barba, trotterellavamo al bar.

Il capo, il faccione rosso, non c’era mai, praticamente. Compariva trafelato se c’era da combinare

una campagna. A tempi scaduti, sempre all’ultimo momento. L’acqua alla gola.

Allora convocava gli Stati Generali alla sua Corte: il casino del suo ufficio.

Tutti schiacciati l’uno a ridosso dell’altro. Sigari e sigarette, e pipe. Cortina di fumo. Seduti su

quello che capitava. I discepoli attorno al Maestro. Gli Apostoli e Gesù.

Quanto a me, il mozzo, venivo buon ultimo nella complicata gerarchia degli scrivani.

(Giorgio K., in via strettamente confidenziale, da amico, mi aveva diffidato: «Alle riunioni col capo

smetti di fare domande, evita commenti, stattene zitto». Il Maestro non gradiva altra voce oltre la

propria.)

Il Maestro stava dietro al suo tavolo coperto di carte senza tempo, antiche e nuove.

Discettava.

Sbandava tra l’attualità e la cultura classica (appannaggio di un remoto liceo di Forlì o giù di lì).

Evitava addentellati con la politica, incentrava essenzialmente sul comportamento umano, chiosava

con osservazioni di cui si auto-compiaceva.

Affrontava finalmente la campagna, si addentrava sugli aspetti del prodotto, scattava di quando in

quando per fissare con la biro sulla carta mozzichi di frase, spunti o una semplice parola.

A quel tempo la televisione era ai primordi, la Pubblicità appariva per lo più sui giornali e

specialmente su riviste e rotocalchi, ed era molto scritta.

(David Ogilvy nelle sue «Confessioni di un pubblicitario» chiama i suoi copywriter writer, cioè

scrittori, tout court.)

Il testo svolgeva un ruolo decisivo e io ebbi modo di constatare da quale viscerale tormento uscisse

ogni singola minima parola.

Il lavoro libero e tutto d’estro all’apparenza era in realtà quanto di più elaborato e contortamente

ragionato.

L’essenza della paranoia. Pura.

«Vi pagano un pacco di soldi per escogitare stupidaggini e ovvietà. Siete i profeti del banale» ci

aveva beffeggiati un compagnone serale dei vicoli di Brera.

Architetto emergente, considerava la Pubblicità men che meno di una canzonetta. E Giorgio K. era

scattato: «Parli così perché non sai, e chi non sa dovrebbe tacere».

In effetti, obiettivamente, a buon diritto, Giorgio K. avrebbe potuto benissimo parafrasare la famosa

frase evangelica: «È più facile che un cammello passi nella cruna di un ago che trovare un’idea… E

che piaccia pure a Sua Maestà il Cliente». (E questo, non solo per le grandi campagne, ma anche

per il più trascurabile dei mailing.)

Avrei dovuto capire la frustrazione che affliggeva i vari Giorgio K., lisi da anni di lotta logorante

con le idee e a domare parole renitenti. Scritte e riscritte allo sfinimento e, oltretutto, ricacciate poi

in gola nel corso di feroci infiniti esami. Da giudici, peraltro, improvvisati.

Ma mi illudevo che Giorgio K. fosse Giorgio K. Ed io invece ero Giovanni Ortes, ero grinta: getto

prorompente rispetto all’acqua morta di palude.

Un rodato consumato copy mi ammonirà e non a caso: «Ricordati, e tienitelo bene in testa, questo è

un mestiere dove nessuno può dirsi mai arrivato. Sarai messo in discussione eternamente sempre.

Sempre. Qui, in questo campo, non ci sono degli Hemingway o dei Moravia che, conquistata la

fama, qualsiasi cosa scrivano in seguito funziona. Un copy non può permettersi di vivere di rendita.

Viene giudicato per l’ultimo lavoro, lo manca ed è fottuto».

Ma erano tutte soltanto parole per me. Io ascoltavo, le orecchie di un elefante. Grandi. Pronte ad

assorbire. E la magica aura, è vero, incominciava a ridimensionarsi. Ma nell’altalena di sentimenti,

tra cedimenti ed euforia, prevaleva l’ambizione.

Ero in ballo, e dovevo assolutamente fare strada, soldi, il salto: lasciare la Pubblicità e scrivere.

Ma da scrittore. S maiuscola.

Traguardo, HEMINGWAY.

12.

Avevo dieci anni o dodici, la guerra era finita da poco, quando una domenica sera mio padre mi

aveva portato al Sempione. (Il cinema esiste tutt’ora, adesso è a luci rosse.)

Davano Per Chi Suona la Campana e la scritta iniziale «E allora non chiedere per chi suona la

campana suona per te» mi aveva colpito. Insieme alla protagonista Ingrid Bergman, di cui mi ero

teneramente innamorato. (Le mie masturbazioni, comunque, continuarono equamente dedicate

anche a Deborah Kerr, Rita Hayworth e Juliette Greco, di cui conservava in portafoglio le foto

ritagliate dal Radiocorriere, non c’era ancora la Tivù.)

Complice mio padre, appresi che l’autore del romanzo da cui era tratta la pellicola, era un certo

Hemingway, un americano. Immaginai che, fossi diventato un Hemingway, avrei avuto tutte le

Ingrid Bergman di questo mondo. Hemingway, del resto, per quanto grande – pensai – era in fin dei

conti uno scrittore ed io ero bravo a scuola a fare i temi.

Peraltro, l’America era da poco sbarcata, aveva vinto e continuava a vincere, al cinema e nei sogni.

L’American Dream.

Di lì a poco sarebbero arrivati anche la Monroe e James Dean.

Mentre il mitico James Dean si schiantava con la moto.

Mentre la mitica Marylin Monroe decedeva in circostanze intriganti.

Mentre il mitico Ernest Hemingway si sparava in bocca.

Mio padre, preoccupato che il figlio volesse fare lo scrittore (non lo considerava un mestiere ma un

suicidio), mi chiese: «Perché vuoi diventare Hemingway? E non, che so?, un commercialista? Un

bravo revisore di bilanci?».

«Voglio diventare come Hemingway perché è americano» dissi.

Era la prima cosa che mi veniva in mente, la più facile.

«Ma ci sono anche i revisori di bilancio americani» mio padre disse, sempre senza alzare la voce,

civilmente.

Mi trincerai in un silenzio carico di umori.

Di Ingrid Bergman, a mio padre, avevo preferito non parlare.

L’argomento «Hemingway» scomparve dai discorsi di famiglia, sommerso dalle angustie del

quotidiano. Perché non era bastato sopravvivere alla guerra. Adesso occorreva sopravvivere alla

pace. E la mia famiglia era di quattro persone a carico dell’unico stipendio di mio padre. In AM-

Lire peraltro. Dal valore poco più della carta colorata stampata in fretta e furia, e neanche bene.

A rischio, oltretutto, pure quella. Perché la sera, tutti in famiglia ci aspettavamo che papà tornasse a

casa per restarci.

Licenziato.

Le Am-lire, Allied Military Currency.

La nuova cartamoneta emessa dagli Alleati appena sbarcati in Sicilia, nel luglio del 1943.

I nuovi biglietti avevano sostituito le lire del tempo monarchico-fascista e restarono in circolazione

fino al 1950. Anche a occupazione finita.

Nel frattempo, l’inflazione, fuori controllo, annullava stipendi e salari: un chilo di pane, in poco

tempo, da 10 lire arrivò a 150 lire al chilo.

Non bastasse, le industrie licenziavano. Attrezzate a produrre per la guerra, adesso ch’era cessata,

smobilitavano. Le fabbriche andavano riconvertite ma mancavano le materie prime insieme al

carbone.

Luce e gas erano erogati a ore.

Mia madre si ingegnava a confezionare salsicciotti di tela ripieni di avanzi di stoffa per isolare i

bordi delle finestre malmesse e impedire agli spifferi di aggiungere gelo al freddo.

La cucina era diventata letteralmente il focolare della casa. In tutti i sensi. La metafora si era

tradotta in realtà concreta. Era l’unica stanza a godere dell’unica fonte di riscaldamento, il piano

a tre fuochi alimentati dal gas di città.

Tutti stipati in cucina. A porte rigorosamente tappate, sigillate. Per uscirne soltanto al momento di

andarsi a tuffare sotto le coperte.

(Nottetempo, un po’ per volta, perfino i platani secolari dei viali scomparvero. Segati e trafugati,

prezioso combustibile.)

13.

Naturalmente, a casa, di ritorno dall’agenzia, bocca cucita. Non accennavo ai miei problemi.

Rientravo, e mi chiudevo in un anodino mutismo.

L’aria assorta. L’espressione assente.

Non mi costava, d’altronde, gran fatica stare zitto. Il tempo trascorso in famiglia era breve. Sempre

di più.

Il mattino, fuori dal letto all’ultimo momento, il tempo giusto di lavarmi, vestirmi, correre al tram.

(Papà, da poco in pensione, da sempre abituato alla sveglia delle sei, già era in piedi. Già era uscito

a prendersi il giornale, e già se lo era letto in buona parte. Passate le otto, il figlio ancora a letto, mio

padre si preoccupava con la moglie: «Ma quel ragazzo… Non va a lavorare? Che genere di ufficio

è? Che orari fanno?».)

La sera, riapparivo per la cena. Vigeva la regola ferrea inderogabile che, cascasse il cielo, a quella

certa ora, in quell’esatto momento, tutta la famiglia, nessuno escluso, dovesse essere a tavola. Un

rito: una Messa presieduta dalla madre. Senza deroghe. Neanche si fosse in caserma.

Ma, trangugiato il pasto, già ero oltre la porta. Accompagnato dalle grida desolate di mia madre

«Pare che il pavimento ti bruci sotto i piedi. È mai possibile? Questa non è mica una pensione,

sai?… Devi metterti bene in testa che questa è una casa e non un albergo o un ristorante!».

Quando rientravo, trovavo mia madre regolarmente sveglia. Carica delle ansie, le ire accumulate. E

se non era in piedi, che scalpitava tra cucina e corridoio, stava a letto ma vigile.

«Che ore sono?» l’urlo squarciava silenzio e buio. «Ti sembra questa l’ora?».

Mentre mio padre, saggiamente, intelligente, dormiva da tempo.

Mia madre non se ne curava, alzava la voce, mio padre si svegliava. Protestava. Ma: «È anche tuo

figlio…», mia madre lo coinvolgeva.

Mio padre esasperato, trasferiva su di me il disappunto. Che io da lui accettavo, comprensivo,

sottomesso.

Tacita solidarietà.

Tra uomini.

Io lo capivo.

Cos’altro poteva fare mio padre?

La colpa era della madre. Impicciona e piagnona come tutte le donne. Sempre pronta a cantare i

Salmi. A cacciarsi le mani nei capelli e ad alzare sguardi disperati al cielo. Piena di paure e tragedie.

Eleonora Duse fuori tempo. In vestaglia e bigodini. Nel cuore della notte. Il repertorio del cinema

muto di quarant’anni prima.

Mio padre, da gentiluomo, non si mischiava nelle faccende private di suo figlio. Non stava a

chiedere cosa il figlio facesse o dove andasse. Lo considerava grande abbastanza perché dovesse

cavarsela da solo.

C’erano di mezzo delle donne? Ebbene, e allora?

Di qualsiasi genere donne fossero, che me la vedessi, e sbrigasse.

Se poi sbagliavo, mi andava storto, peggio per me. Avrei imparato. Perché così è la vita, e non c’è

altro modo.

(Mio padre, orfano a soli tre anni del suo di padre, s’era trovato appena ragazzino, via, lontano dalla

famiglia. Solo. A studiare a Vienna. A causa della Prima Grande Guerra. Certe cose, le sapeva, le

aveva vissute e le capiva.)

Una notte, mia madre, al colmo dello sdegno, mi aveva apostrofato: «Satollo avvinazzato!».

Passai i giorni dopo a chiedermi dove mai mia madre avesse pescato una simile espressione.

(L’episodio mi resterà impresso per l’intera vita. Insieme al dubbio che, alla sua maniera, mia

madre non difettasse di un certo talento letterario.)

Mia madre partì con mia sorella per la villeggiatura, e questo è il bello, caddi vittima di un’insonnia

indomabile.

La prima notte, a occhi aperti, non vi feci caso. Ma dopo la seconda, a sonno intermittente, e la terza

daccapo lucida, incominciai a preoccuparmi. Non per altro, ma alla mattina testa e gambe non

reggevano.

Per ingannare l’angoscia di tirare giorno, m’ero ridotto a leggere tutto quello che di leggibile si

trova in una casa. Compresa l’etichetta dell’acqua minerale.

Ne approfittavo anzi per studiare le forme di messaggio specifiche nel caso di una confezione. Il

cosiddetto packaging. Come renderlo parlante. (Zelo professionale? Mania? degenerata in psicosi?)

Letto tutto quello che c’era da leggere, mi restava la rubrica telefonica. E, una notte, mi lessi pure

quella.

Appurai che i cognomi con la X erano più di quelli con la Y. E che tra i cognomi con la X ad averne

di più (da battere ogni record) era un tale… Xiao Xi Xiang.

Rifiutavo l’idea di andare dal dottore. Il dottore senz’altro mi avrebbe subito chiesto: «Che lavoro

fa?». Ed io non avrei saputo da che parte incominciare.

La Pubblicità era un genere di lavoro ancora sconosciuto (lo è in buona parte ancora adesso) e, visto

anche quello che mi stava capitando, nemmeno io avevo chiaro il mestiere che facevo.

Altra domanda tipica di ogni medico: «Lei fuma?». («Fuma?» chiedono. Anche se un tizio si è rotto

un osso. Come se la nicotina possa nuocere al gesso.)

Alla fine, però, ci andai dal medico. Che mi diede delle pastiglie, tra le ultime novità della

farmaceutica, ormai protesa a nuove meraviglie.

Era iniziata infatti l’era dei tranquillanti, subito dopo quella epocale degli antibiotici, arrivati in

anteprima con le truppe Alleate.

Il galoppante progresso - con la diffusione del telefono, di auto, macchine, meccanismi e

automatismi, tutte invenzioni create per il confort e il benessere dell’uomo - stava sottoponendo i

sistemi nervosi a dura prova. E la Pubblicità, per parte sua, non poteva non restare insensibile al

fenomeno. Subito se ne impossessa e lo cavalca. Esalta il carciofo, in versione aperitivo, «Contro il

logorio della vita moderna».

Imperverserà per tutti gli anni a seguire, rendendo il carciofo più popolare dei Padri della Patria e

dei Dieci Sacri Comandamenti.

Potenza di «Carosello».

14.

Cuore della notte, via Lentasio, storico budello a fondo cieco (oggi, non più), che si dirama dal

Corso di Porta Romana.

L’osteria non aveva insegna, ma anche il Duomo non ne ha mai avute, eppure tutti sanno

riconoscerlo. Così bastava dire «Ci vediamo da Pino» per sapere dove andare. Almeno tra gli

iniziati.

(C’era, a dire la verità, un altro Pino, ma quello era Pino la Parete. La differenza la faceva

l’aggiunta, la Parete.)

Era un tipico trani. E i cosidetti trani, a Milano, hanno rivestito per tutto il secolo scorso il valore

di un’istituzione di alta rilevanza sociale non seconda alle parrocchie e alle case di tolleranza.

La presenza capillare dei trani è paragonabile soltanto al numero di chiese e templi, numerabili

nella Milano del Milleduecento, al tempo di Bonvesin della Riva, il frate laico dalle dettagliate

cronache.

I trani sono stati il santuario del proletariato. Operai e artigiani, senza smettere la tuta, vi

celebravano riti e vita.

Il clou: le carte, briscola e scopa - scopone scientifico e tressette per i più sofisticati. Inoltre il

campo di bocce per la buona stagione, all’ombra della pergola di uva fragola. Il gioco della morra

completava con la colonna audio di fondo, numeri urlati e improperi.

Alla base, a cementare momenti e sentimenti, il vino. Ed era appunto il genere di vino a

caratterizzare il nome. Trani.

Perché da Trani, dalle Puglie, proveniva in genere.

Vino grosso, rosso indelebile anzi viola, tempra dura, generoso da prestarsi al taglio, offriva

all’oste la discrezione (a misura della sua onestà) di moltiplicare una semplice botte in numero

infinito di calici e mezzi litri.

D’altra parte, c’è da dire che l’acqua a Milano allora era buona.

Pino, il titolare, è un ex-pugile, come attestano la massiccia mole di muscoli e il naso rincagnato, e

sta dietro al banco. A passare uno straccio per lustrarlo, dopo averlo sgomberato dai bicchieri

sporchi.

È comunista duro, come G.V., con cui sto seduto a un tavolo.

G.V. è il copy senior di un’agenzia di Pubblicità, quotata tra le maggiori planetarie. (Nella sua sola

sede di Madison Avenue occupa tanti addetti quanti sono i creativi in Italia, in quel momento. Dite

niente.)

Io e G.V., il copy senior, attingiamo a turno al mezzo litro di vino rosso, piazzato in mezzo al

tavolo. E il nostro colloquio corre in perfetta sintonia già al primo mezzo litro. Prosegue in un clima

di calda e virile amicizia, che aumenta all’aumentare dei mezzi litri.

«Mi hanno parlato bene di te» dice G.V.

«Succede» dico.

«Ho proprio bisogno di uno come te… Che mi dia una mano e abbia una sua autonomia creativa. Io

da solo ormai non ce la faccio.»

Mi sento lusingato. Accarezzo la proposta: la stessa sottile voluttà con cui si può accarezzare un

vellutato seno di sinuosa morbida ragazza.

«Hem, hem» faccio.

«Ti andrebbe uno stipendio di... » G. V. mormora la cifra.

Iperbolica.

Più del doppio di quanto mio padre guadagna dopo una vita di traduttore specialistico e interprete,

cinque lingue parlate e scritte (in un Paese, dove per larga parte della popolazione la stessa lingua

nazionale è un mistero).

Il giovane che sono io corre col pensiero alla propria madre: quando, un bel mattino, scorgerà la

busta dello stipendio lasciata dal suo piccolo sul tavolo di cucina, tra le macchie di latte e le briciole

di pane.

Non ho dubbi: mamma dirà che mi sono dato alle grandi rapine. Sorrido a immaginarlo.

Ammicco a G.V. simulando un’aria indifferente: «Boh, si potrebbe anche combinare…».

Ammicco, trangugia vino e fumo.

Il copy senior, G.V., era famoso nell’ambiente. Per andare alle feste e sparare con la pistola ai

lampadari. Ma soprattutto per la sfiga che portava.

Spietato. Inesorabile.

Chi lo conosceva aveva paura solo a nominarlo. Si toccava le palle. (Chi le palle non le aveva,

toccava quelle del vicino.)

Io, ovviamente, non lo sapevo, ma in seguito fu avvisato: «Con uno così, non si sa mai. Stai

attento».

Si raccontava che G.V., da piccolo, avesse salutato il padre dalla strada: «Ciao, papà!». E il padre,

in cima a una scala sul balcone, era precipitato, sfracellato. Pare fossero stati questi gli esordi di

G.V.. Fin da bambino. Mica male. Ed io m’ero trovato a lavorarci insieme.

Io ne avevo riso con gli amici, fin quando mi era capitato di andare con G.V. in macchina.

Eravamo finiti in un fosso.

La seconda volta (era un altro a guidare e la macchina era sua, e stava viaggiando col motore

intonato perfetto come un violino della Scala - il tizio aveva appena finito di decantarla: 180.000

chilometri senza il minimo disturbo) c’eravamo scontrati con un camion.

«Incomincio a pensare che tu mi porti rogna» lui, G.V., a me.

A metà riunione, G.V. improvvisamente impallidiva: «Oddio, mi sento male».

Si portava la mano al petto: «Ci siamo, un infarto».

Lo stendevamo sui tavoloni da disegno. Gli allentavamo il nodo della cravatta. Lui ordinava con un

filo di voce un gin fizz: «Fa bene, dilata le arterie».

Correvamo al bar all’angolo a prendergli il gin fizz, lui lo ingurgitava.

Si alzava a sedere sul tavolone, sorrideva, sollevato.

Un giorno, che mi lamentavo per la devastante insonnia, G.V. mi aveva raggelato: «Non è che tu sei

ipocondriaco?».

Ipocondriaco, io non lo ero mai stato. Ma avevo incominciato effettivamente ad esserlo. Erano

trascorsi un mese, un altro, un altro ancora, e non mi davano l’ombra di un lavoro.

Uscivo per la strada e gironzolavo. Per vincere la noia.

Avevo fatto in tempo a praticare tutti i bar da via Durini a piazza del Duomo fino alla Scala e largo

Augusto.

Infine, stanco di girare, m’ero ridotto a contare i mozziconi sparsi sul vecchio parquet sbrecciato

della mia stanza, e passati in fumo per passare le ore.

Una sera, usciti a bere vino, al Cantinone, di fianco al Dal Verme (al posto del Cantinone adesso

sorge un palazzo di dieci piani lugubremente prestigiosi), osai: «Senti, cazzo… Fammi lavorare...».

G.V. scosse la testa: «Sei giovane, impaziente. Dai tempo al tempo. Aspetta… Anche a Raffaello,

quand’era a bottega, davano soltanto i colori da macinare, mica lo lasciavano dipingere…».

Ebbi la conferma di un sospetto. Io ero importante per rendere G.V. importante. Non era il lavoro a

contare.

Il mio ruolo si limitava al solo fatto d'esserci. I copy senior infatti erano due, lì dentro. E l'altro, un

aiutante lo aveva sempre avuto. Poteva G.V. essere da meno, starne senza?

Gli aiutanti da esibire come le mostrine, a dimostrazione di un proprio alto grado da imporre al

mondo: questa la mia amara constatazione e conclusione.

Ecco una cosa che mai mi sarei immaginato.

Peraltro, il mio omologo, non solo non si prendeva i miei non pochi soldi, ma si beccava pure il

vocabolario sulla testa. A compensare. Dal suo copy senior.

L’altro junior era un piccolo ebreo pallido con gli occhialini d'oro, che fumava una sigaretta dopo

l'altra.

Per reggere.

Le sigarette non le fumava, ma risucchiava riducendole in brace vivida, in un attimo.

Aspirava, sputava parole e fumo, e subito daccapo aspirava.

Probabilmente perché al colmo (sempre) di una spropositata agitazione e anche po’ per darsi un

tono.

Per convincersi e convincere che anche lui aveva un posto al mondo di cui essere degno.

Il suo senior dalla stanza di fronte (li separava un corridoio) non gli parlava, gli urlava: «L***!...

Vocabolario!».

E il piccolo ebreo pallido scattava, glielo portava.

Il tempo per il senior di consultarlo, e il vocabolario tornava scaraventato attraverso il corridoio. Il

giovane L*** era diventato abile a schivarlo.

D’altra parte, non era una questione di razzismo.

Il senior, pure, era ebreo.

Qualche anno dopo il piccolo ebreo pallido vivrà il suo quarto d'ora di gloria, come direttore

creativo di un’agenzia italiana di buona quotazione in quel momento. Smessi gli occhialini d'oro e -

sempre affogato in una nuvola di fumo ma ora anche in una barba messianica, imponente – la sua

trasformazione si compirà completa. Da piccolo e pallido copy a kapò.

L'altro senior aveva la peculiarità di scrivere come parlava. E parlava come la Duse, cinquant'anni

prima, solo che adesso era passati cinquant'anni e lui non si trovava su un palcoscenico.

Mi divertivo e inorridivo nel contempo quando mi capitava di assistere agli incontri tra G.V. e

l’altro senior.

Questi, ogni volta che apriva bocca, si produceva in uno show da fine dicitore. Magari per dire

soltanto che scendeva a prendersi un caffè.

Mi rifacevo con l’altro giovane omologo, il piccolo copy pallido. Gli dicevo: «Come va con

Gabriele?».

«Gabriele? chi?»

«Come chi?... D’Annunzio!»

«D’Annunziooo?»

«Sì, quel coglione del tuo capo» sghignazzavo.

Paradossalmente, l’altro senior curava una gamma di prodotti per elettrauto e camionisti.

Lui, lui proprio. Da cui c’era da aspettarsi, come minimo, che scrivesse per un candela, slogan del

tipo: LA SCINTILLA FECONDA CHE ACCENDE IL MOTORE COL FREMITO DELLA

PASSIONE ALATA.

Per fortuna, c’era il capo massimo a filtrare.

Niente usciva dall’agenzia che non passasse all’esame dei suoi occhi grigi.

15.

Gli occhi grigi erano il tocco finale di un grigio totale. Che cominciava dai capelli. Continuava

nell’intero aspetto (abiti, cravatta, modi, toni della voce e contenuto dei discorsi) e si concludeva

nella globalità della persona.

Contribuiva anche la statura. Ammesso che alla statura si possa attribuire un suo colore.

Perché era un piccolo uomo che colmava in larghezza i centimetri carenti dell’altezza.

Io, abituato a direttori normalmente anglosassoni (latinizzati o che comunque si sforzavano

d’esserlo), mi trovava spiazzato ogni volta che mi trovavo col grigio del direttore.

Era di origine greca, se si stava al suo prenome (Christodoulos) e cognome (dall’inconfondibile

desinenza «opulos»).

In realtà, faceva parte della nutrita schiera evacuata dall’Egitto in seguito alla storica rivoluzione dei

colonnelli Naghib e Nasser, che avevano deposto il sovrano re Faruk, noto soprattutto per la sua

mondanità gozzovigliesca grazie anche al gossip dei rotocalchi, femminili e non, che ci

sguazzavano.

La mitica colonia cosmopolita di Alessandria d’Egitto (ebrei, greci, italiani, inglesi, libanesi,

armeni, russi, francesi, americani, ciprioti, levantini e arabi di vari Paesi) si era così sfaldata.

Una corrente variegata di borghesi, per lo più benestanti e trafficoni, si era riversata sulle sponde

opposte del Mediterraneo, dal Libano alla Spagna, e in Italia.

Qui, i transfughi – usufruendo della loro conoscenza delle lingue, della consuetudine

all’internazionalità e di una tela di rapporti – avevano rimediato posti onorevolmente buoni, anche e

soprattutto in Pubblicità.

(La Pubblicità, grande madre. Accoglieva al proprio seno generoso ogni genere di randagio, non

importa se tale per inquietudini sue interne o perché costretto da contingenze esterne.)

Il direttore grigio se ne fregava dell’agenzia. Tempo prima aveva subito anche un infarto. Tirava a

sopravvivere.

Mentre ferveva la guerra tra i due senior.

Con G.V. che tra i due era il più indomabile e animoso.

G.V., peraltro, aveva anche i connotati del genietto perfido maligno. Era scattante e minuto, scosso

da tic che lo percorrevano scuotendolo dagli occhi fin giù alle spalle. Unico punto fermo, in quei

momenti, la grossa pipa che teneva costantemente in mano.

La pipa – impugnata saldamente neanche fosse un’arma, una pistola - appariva enorme e

sproporzionata rispetto alle dimensioni complessive di G.V., miniatura di esemplare maschio di

razza umana.

Esemplare peraltro atipico, perché con i capelli pressoché totalmente bianchi nonostante i

quarant’anni forse nemmeno superati. (I capelli, accuratamente stesi fin sulla fronte, dove

sbucavano agghindati in tanti graziosi ricciolini candidi.)

Insomma, G.V. era un nonnetto spiritato. Dai due occhietti azzurri sempre in movimento. Che,

quando non si strizzavano a causa dei ricorrenti tic, fissavano pungenti. Protesi a raggiungere i

meandri più profondi dell’interlocutore. Punte di fioretto, pronte a reagire e a colpire. A trafiggere.

Ora, G.V. avrebbe preteso che il direttore grigio emarginasse definitivamente l’altro senior,

eleggendo lui, G.V., a unica e indiscussa autorità creativa. Mentre il direttore volava alto su ogni

miseria dell’agenzia. Equanime a contenere le istanze dei due contendenti, e a segarne i lavori. Con

un costante (e grigio) ridimensionamento sia dei bozzetti che della personalità esuberante dei due

rispettivi presentatori e peroranti.

Così che G.V. si muoveva clandestinamente all’opera.

Sia a denigrare l’avversario numero uno, l’altro senior.

Sia, subito dopo, il direttore grigio.

Sul conto del quale diffondeva questa storiella:

Christodoulos era greco di nome, bulgaro di nascita, ebreo di razza, ex-egiziano di nazionalità,

cittadino attualmente libanese, russo-ortodosso di religione, americano per moglie, panamense di

passaporto, turco per come fumava, francese di studi, tedesco di madre lingua, spagnolo per

l’idioma che usava in attesa di imparare l’italiano.

Gli sarebbe mancato qualcosa di inglese, se non avesse provveduto ad acquisirlo tempestivamente a

tempo debito. Nel corso della Seconda Guerra mondiale.

Il qualcosa di inglese consisteva niente di meno che in una medaglia. E che medaglia! Al valore

militare:

Per essere riuscito, nonostante il fuoco nemico, a provvedere al ristoro delle truppe di Sua Maestà

Britannica, vendendo loro coni di gelato nel deserto.

Non poteva naturalmente essere vero. Ma io, che fosse o no vero, me ne sbattevo.

Per saggezza (o codardia), ogni volta che sentivo ripetere la storiella da G.V., ridevo compiacente.

Attento a non contraddire mai.

Solidale, sempre. (Almeno all’apparenza.)

16.

Arrivò una copy dall’aria candida che sembrava appena sbucata da un uovo di Pasqua, e invece

veniva da Londra. Dalla sede là dell’agenzia.

Era inglese, sempre sorridente, gli occhi celeste/cielo senza ombra di nuvola. Avrà avuto qualche

anno più di quaranta, una nonna per me. Che, forte della mia propria prorompente giovinezza,

consideravo vecchi tutti quelli oltre i trenta, e vegliardi gli oltre quaranta.

La copy inglese s'era subito lamentata: in Italia la spesa quando si può fare? Esci dall’ufficio e trovi

i negozi tutti chiusi!

Lo diceva dilatando, inorridita, il celeste/cielo dei suoi occhi.

Ero rimasto profondamente stupito e infine colpito dall’osservazione.

Era un genere di problema a cui non avevo mai pensato. A fare la spesa c’era mia madre. (Le

serviva per poi lamentarsi che doveva fare tutto lei in casa, ed era stanca.)

La spesa d’altronde avessi dovuto farla io, con le giornate che mi ritrovavo da riempire… Avrei

avuto tutto il tempo di provvedervi per me e dieci, cento famiglie, per quanto numerose.

Certo – arrivai a rimuginare - la copy inglese si permette il lusso di lamentarsi di quisquilie come la

spesa, quando qui impera un casino che per spararsi ne basterebbe un terzo!

In realtà, il casino doveva rapidamente evolversi. E verso sbocchi, se non inauditi, quanto meno

imprevedibili per una mente, come la mia, ancora impreparata ai meccanismi perversi della vita.

Infatti, i due senior, arrivata la copy, avevano immediatamente interrotto le ostilità. E stretto

un'alleanza.

Non dichiarata o suggellata.

Ma di fatto.

Implicita.

Comunque bastante a sortire i propri effetti.

Perché la copy inglese scriveva e lavorava come se non ci fosse, come se continuasse a farlo a

Londra. Scriveva, e più le sue idee erano brillanti, più finivano offuscate dalla polvere

dell’abbandono.

Le idee infatti dovevano passare dall’uno o dall’altro dei due senior, a secondo del prodotto a loro

in carico, e i due aspettavano la copy al varco come il gatto il sorcio.

Riflettevo, e dire che è brava!

Perché, tanto tenera e svagata poteva apparire, tanto dura e determinata era quando si trattava di

viaggiare sul bersaglio.

«Bravina, indubbiamente, non c'è che dire» i due senior ammettevano, a bocca stretta, negli angoli

bui dei corridoi.

Ma subito aggiungevano: «Peccato che il taglio sia troppo anglosassone, altra mentalità, altra

psicologia, altro mercato.»

Nella precedente agenzia – riflettevo erano le massaie a essere cretine. Gli account avevano

l’ossessione che i testi fossero succinti, facili, niente voli, frasi terra a terra. Qui adesso, a non

capire, avrebbe dovuto essere tutta una nazione, l’intera Penisola italiana.

E canticchiavo «Fratelli d’Italia».

E anche «Cambia l’agenzia, non cambia la minestra».

(In questo caso, oltre le parole, ci mettevo anche la musica. Inventarsela non era un gran problema.)

A proposito della «massaia» alias «casalinga» e della sua importanza per l’economia nazionale.

La casalinga di Voghera, piuttosto che di Cuneo, è stata per anni il campione-tipo delle ricerche e

dei sondaggi, e di riferimento nei discorsi degli operatori del settore della Comunicazione e del

Marketing.

Non si sa perché proprio di Voghera invece che di Castelluccio sul Sangro, per esempio.

Di lei si è avuta la pretesa di sviscerare sentimenti, orgogli e pregiudizi, e ogni aspetto della

femminilità, con particolare riguardo al momento del bucato e del condire e del fritto, in cucina.

Non trascurando la cura della pelle, del viso e del corpo, fino alla sua pretesa igiene, considerata

sotto ogni aspetto, fosse il più intimo. (Vedi: la pausa-bidè.)

La figura della casalinga di Voghera o di Cuneo, incarnazione-simbolo della massaia in assoluto,

dalle Alpi al Mediterraneo, casalinga-oggetto, considerata alla stregua di un’oca da pȃtè.

E anche derisa come tale.

Sbeffeggiata nei santuari (dalla moquette alta una spanna) degli gnomi della comunicazione.

«Gente, pensiamo alla casalinga di Voghera! Alla testa che c’ha, a quello che una così è in grado

di capire…», quante volte mi sono dovuto sorbire questa frase abietta.

Ogni volta riflettevo: Vero, che è anche colpa di tutte queste casalinghe se ci sono le varie Nilla

Pizzi e Orietta Berti a imperversare. Però, in compenso, sono loro, le casalinghe, a preparare la

pastasciutta e a lavare i calzini alla nazione. Mica gli account. Buoni soltanto a beccarsi le donne e

a rompere le palle.

17.

In un tentativo di ribellione al regime dei due colonnelli, un art australiano arrivato dagli USA, in

scarpe da tennis, s’era dato a sostenere la copy.

Non che lei cercasse il sostegno di qualcuno.

Aveva visto il Duomo e le Colonne di San Lorenzo, e trovato il modo di fare la spesa.

Le bastava.

Ma lo scandalo era tale da suscitare l’urlo.

Il guaio: l’australiano incominciava la giornata quando gli altri la finivano. Nel senso che, arrivava

alla mattina, ma si svegliava e incazzava quando ormai era sera e tutti se ne andavano.

La mattina, dopo quando ritornava, c'era stata una notte di mezzo. E, Dio sa, cosa non riesce a fare e

rimuovere dalla memoria un australiano in scarpe da tennis, in una notte.

Il suo ammutinamento fu morbidamente assorbito.

Italian Style.

18.

Poi la copy, com'era arrivata, tornò a Londra.

Tante idee, nessuna stampata.

Fui invitato a casa della copy alla festicciola di commiato.

Era libera, non s’era fatta il fidanzato latino, e avesse avuto qualche secolo di meno le avrei chiesto

l’indirizzo per seguirla e amarla, a Londra.

Invece, baci e abbracci, noccioline e bollicine.

Evaporate.

E tornai a girare i bar da via Durini a piazza del Duomo fino alla Scala e largo Augusto. E poi

ancora a contare i mozziconi sparsi sul parquet passati in fumo per passare il tempo.

Unica variante: un bel momento, al posto della donna inglese, occhi celesti di cielo senza nuvola,

mi approdò in stanza un ligure nero, scuro, scherzi del Mediterraneo.

Poteva essere un saraceno uscito buio dalla pancia di una galea.

Il ligure era fuori di testa, continuava a dire Belin senza motivo e a sorridere serafico, rassegnato,

come gli ergastolani rei confessi di avere assassinato la famiglia, e a cui non gliene frega niente più

di niente.

Fino al giorno in cui stufo di sentirlo dire Belin e di vederlo sorridere ai fantasmi che s’era portato

da Genova e che era solo lui a vedere, perché a me dei suoi fantasmi non fregava niente - arrivai a

una considerazione fondamentale: se non ce l’aveva fatta la copy candida che pure aveva giocato

praticamente in casa (possedeva della «Corporation» l’idioma, look e passaporto), io, Ortes

Giovanni, potevo starmene lì anche cent’anni.

I mozziconi a forza di contarli, un giorno avrei finito col mangiarmeli.

Cessai di invidiare Silvio Pellico che almeno aveva in cella un ragno con cui parlare e non un ligure

pazzo, e mi ricordai che fuori c’era il boom, e che non doveva essere difficile trovarsi un altro

posto.

I discorsi fuori tra colleghi erano: «Sai il tale? sta per andare alla Young».

«Chi te l'ha detto?»

«Lo so (aria di mistero), indovina quanto gli danno?» seguiva cifra, esagerata, e il commento: «Ma

nooo!».

Ci si lasciava verdi, ciascuno facendo tra sé i propri conti: se a quello là così tanto, a me allora?

Quanto mi spetta?

Ero ormai abile a vendermi e a piroettare parole come un pagliaccio le sette palle al circo.

Trovai.

19.

Cercavo il battesimo di fuoco?

Lo aveva invocato, agognato?

L’ho avuto.

Nella nuova agenzia.

Subito, allo sbaraglio.

O meglio, al fianco di un art, un veterano scafato agli intrighi di corte, semplice di testa ma con

tanto buonsenso e la furbizia di chi ne aveva viste e sentite, e la pelle se l’era fatta a prova di

proiettile.

Quando stavo ancora a perdere tempo e cervello sui libri, l’art già stava a tirare il carrello da anni, a

bottega.

Colombo Gianluigi di anni 38, abitante con la vecchia madre (lasciata dal marito, non appena il

figlio Gianluigi era venuto al mondo) in casa di ringhiera, zona Bovisa, via Imbriani.

Titolo di studio, incerto. Di certo, già disegnatore all’Alfa, passato alla Pubblicità allettato dalle

maggiori prospettive di guadagno.

Non tenevo un diario, ne disdegnavo la consuetudine: considerava il diario un esercizio letterario

pari all’auto-erotismo solitario. Ma, lo avessi tenuto, quella data l’avrebbe intitolata: «Cronaca di

una giornata da buttare».

La mattina era incominciata azzurra, il pomeriggio meno. La nebbia, fuori, aumentava di pari passo

allo spessore, dentro, nella stanza, del fumo delle sigarette. La missione era trovare idee per la pasta

di una nota Casa, e le idee, mano a mano estirpate dalla mia propria carne e intrise del proprio

sangue, me le vedevo ghigliottinate sul nascere dall’art.

Ne traboccava il cestino.

A un certo punto, vi posai gli occhi. E vidi nero. Accesi la lampada sul tavolo, e continuai a vedere

nero. Avessi potuto, mi sarei auto-appallottolato.

Degna fine all’altezza delle idee immolate.

«Non si uccidono così neanche i cavalli» dissi all’art.

La stessa sera, come da time-table, gli account si presentarono per prendere il lavoro.

«E adesso cosa porto al cliente, domattina?» disse l’account senior, smarrito, fissando l’unica cosa

visibile sul tavolo: un pacchetto di sigarette accartocciato.

Al suo posto, si aspettava di veder risplendere una costellazione di bozzetti, proposte brillanti

epocali. Ed io – ingenuo adepto alle prime armi - già mi aspettavo di vedere scorrere del sangue.

Omicidio o suicidio che fosse, o omicidio seguito da suicidio.

L’epilogo non poteva essere altrimenti a giudicare dall’espressione desolata dei due account, senior

e junior.

Al contrario.

Imparai molte cose, quella sera.

La principale.

In Pubblicità quando il dramma tocca l’apice ed è ora di cena, si va al ristorante a rimpinzarsi. (E a

bere.)

All’uscita dal ristorante, Colombo Gianluigi declamò solennemente: «Stanotte sto su e domani

mattina, ore nove in punto, trovate idee e lavoro fatto, pronto. A rischio di rompermi il cranio».

Platea riconoscente, commossa.

Sguardi umidi.

L’art mi tolse di mezzo: «Sei giovane, hai bisogno di fare tanta nanna. Tu vai a casa che ci penso

io».

E il mattino dopo, ore nove, i bozzetti erano pronti.

Account alle stelle.

La salvezza sopraggiunta ancora una volta grazie all’art, il veterano.

Giorni dopo, mi venne l’idea di rovistare in una pila abbandonata di riviste americane. Prese un

Esquire a caso, lo sfogliai, beccai un annuncio pubblicitario con l’idea presentata da Colombo

Gianluigi.

Non proprio tale quale.

Colombo Gianluigi l’aveva taroccata di quel tanto.

L’Uovo di Colombo, pensai, e già.

20.

Bene, molto bene, mormoro alla birra che ho davanti.

Sono seduto in un bar, a un tavolino. Io, unica persona. Oltre al barista che legge la «Gazzetta».

Volasse un moscone, il ronzare in quel silenzio avrebbe l’effetto di un bombardiere in virata. Alla

faccia del juke-box in un angolo che sonnecchia muto con le lucine sui capezzoli delle donnine

pronte ad accendersi alla musica sparata.

Bene, rifletto, ho cominciato alla Carey Pearson & Valley a comprare libri e speso un capitale. In

cazzate di geni americani dell’advertsing. Il mago che scriveva lettere di vendita irresistibili. I

trucchi per fare abboccare. Tutti campioni. Un libercolo intero sull’efficacia della parola «NEW!».

Sì, l’irrefrenabile richiamo che la parola «NUOVO!» - la più abusata in Pubblicità, e vecchia e

antiquata - continua però a esercitare. (Colmo di una contraddizione in termini.)

E adesso, io, eccomi qui ridotto a confidarmi a una birra.

Ho fatto la scorta di una sfilza infinita di parole inglesi: head-line, body-copy, pay-off, rough, lay-

out, script, spot, close up, briefing, meeting-report, copy-platform, reason why, gimmick… Sulla

bocca di tutti, che guai a non saperle. Parole d’ordine, che se non te le ciucci, mica vieni

riconosciuto dell’ambiente. Così vai dal cliente, le sciorini, e quello ti guarda con gli occhi sbarrati.

Supplica: spiegatemi, traducete, io sono ancora fermo all’italiano. E allora, quelli della Pubblicità

assumono l’arietta sapiente superiore, degli appartenenti alla casta su, degli up-to-date. E sì, perché

tra poco di italiano resterà soltanto la parola mafia, in compenso esportata insieme alla pizza in tutto

il mondo. Copyright, made in Corleone, Italy, esclusivo.

Shit! Tutti quei manuali e manualetti che puntualmente incominciano con «Come… bla-bla-bla».

«Come far questo» o «Come fare quello». Tra cui quel David Ogilvy. Anche lui: «Come

organizzare grandi campagne», «Come scrivere testi efficaci», «Come illustrare annunci e

manifesti», «Come fare una buona Pubblicità televisiva», «Come salire in cima all’albero»….

SALIRE IN CIMA ALL’ALBERO!

David Ogilvy che chiude la sua bibbia di gloria col capitolo: «Si deve abolire la Pubblicità?».

(Scontata la risposta. Figurarsi se poi risponde: sì, eccome.)

Undici capitoli, studiati parola per parola dal giovane Ortes Giovanni. Bevuti come se lui fosse la

sabbia del deserto su cui cadono, dono del cielo, undici stille di fresca preziosa rugiada cristallina.

Ma adesso?

Dopo questa storia del Colombo Gianluigi? Mi dico alla seconda birra.

David Ogilvy, questo, mica me l’aveva detto.

Terza birra.

Forse ho sbagliato tutto, mi dico. D’altra parte, un lavoro occorre pure averlo. Certo, questo della

Pubblicità è una cosa troppo differente e strana però pagano e bene, e questo basta perché sia

considerato un lavoro ad ogni effetto.

Nel mio quartiere, tutti i miei coetanei già sono da anni a tirare il carrello.

Chi, finite le elementari, in officina.

E chi, finite le medie, a fare il porta-campionari di qualche commesso viaggiatore o in qualche

ufficio con la mansione di fattorino e la speranza (massima aspirazione) di passare negli anni a

impiegato di concetto.

Io, Ortes Giovanni, sono un’eccezione. Emarginato per questo dagli ex-compagni di strada e di

pallone: «Bella vita, lui! Con la scusa di studiare fa un casso!».

Non importa se poi loro avevano i soldi per le granite o per il latte con la menta e per il sesso

avventuroso che i tempi poco generosi concedevano.

Si stavano anche facendo la moto mentre io dovevo mettere insieme rottami da vendere ai

robivecchi o fregare vecchi libri e giornali usati dalle soffitte incustodite dei vicini.

Sempre alla rincorsa della lira.

Perché non erano tempi in cui era consentito far flanella, e tantomeno c’era famiglia disposta a fare

da chioccia a covarti più di tanto.

Uno che voleva diventare Hemingway, e non era in America, l’America doveva inventarsela.

Il surrogato più vicino: la Pubblicità.

Dalle Stelle e Strisce formato ridotto, sbarcate insieme alla Quinta Armata, alla Coca Cola e al

chewing-gum.

21.

La porta del bar cigolò.

Il lamento prolungato, simile al miagolio d’un gatto, mi distrasse. Girai la testa. Osservai il tipo

ch’era entrato e che, pigramente, passo dopo passo, stava dirigendosi al bancone.

Ripassai l’uomo con lo sguardo.

Un mezzo sigaro gli pendeva dall’angolo della bocca, a cui mancavano i denti.

La forcella delle bretelle ballava all’attaccatura con i pantaloni, a cui mancavano i bottoni.

E alle ciabatte, con un buco da cui sbucava un grosso alluce, mancava d’essere buttate.

Il bar era all’angolo delle Cinque Vie e pensai che l’uomo probabilmente era il portiere di qualcuna

delle case di ringhiera lì accanto.

A passarci davanti, a quelle case, dalle porticine basse, giusto per poco più di un nano, si

intravedevano scale di pietra strette e buie, da cui uscivano zaffi che sapevano di pipì di gatto, di

cavoli bolliti e, il venerdì, di pesce. Il puzzo di fritto e grasso che a fermarsi un attimo bastava. Si

impregnava la stoffa del paltò.

L’uomo nemmeno parlò, fece un cenno con la testa al barista, che depose la «Gazzetta» e, con aria

annoiata, allungò un braccio sotto il banco.

Guardai fuori.

Oltre la vetrina, c’era una donna attempata, ferma. Si guardava attorno, mentre batteva la borsetta

sulle ginocchia e con l’altra mano teneva una sigaretta accesa tra le labbra. Ce n’erano sempre

almeno tre o quattro, di donne. Attempate. Lì alle Cinque Vie.

Proseguendo con lo sguardo, vidi un manifesto con una grossa suola dentata di gomma (quel tipo di

suola era chiamata carrarmato). Campeggiava lo slogan cubitale Camminate Pirelli.

Era lo slogan del momento. Tappezzava i muri, viaggiava sulle fiancate dei tram. Pensai che

rappresentava il capolavoro dell’estrema concisione: diecimila concetti in due parole. (I puristi della

lingua lo avevano accolto inorriditi, alzando alti lai e gridando allo scandalo.)

Il barista, nel frattempo, aveva afferrato da sotto il banco un bottiglione di vino bianco. Adesso

stava riempiendo un calice al presunto portiere dalle ciabatte a cui mancava solo d’essere buttate, e

che si stava lambendo i baffi grigi con la punta della lingua.

Tornai con lo sguardo dentro la sua terza birra, e ai miei pensieri.

Considerai che la Pubblicità, in quel momento, era un’onda che montava mentre io ero costretto al

ruolo di spettatore. Io che aspettavo solo di buttarmi nella mischia.

Tra l’altro, sempre fin dagli inizi, avevo covato in fondo in fondo l’idea che prima o poi avrebbe

fatto il colpo grosso.

Quale?

Boh!

Non l’avevo mai avuto chiaro.

Però era una sensazione che avevo provato.

Insieme a un’altra.

Non c’entrava con la prima, ma altrettanto mi eccitava: l’idea di manovrare folle di persone.

Era un’idea riprovevole.

Pericolosa per sé e per gli altri e disgustosa, anche se allettante per tanti, troppi.

Da sempre.

Per sempre.

Passando da Mussolini, Stalin e Hitler.

Per quanto, nel mio caso, ci fosse l’attenuante dell’età.

Le energie traboccanti che degenerano in non coscienza, acritica.

L’uomo in ciabatte e il barista alzavano i toni.

«Và a dà via i ciapp! Ti e la to Inter! Con quel’Herera….» il presunto portiere in ciabatte aveva la

voce roca. « Porca sidela!... Damen on alter. »

Il barista era tornato a chinarsi, ad afferrare il bottiglione. Riempì il calice dell’uomo attento a non

sbordare dall’orlo: «Nereo Rocco te lo frega cento volte il tuo Herrera!».

Poi i due passarono al confronto tra Mazzola e Rivera.

Pensai che c’era anche la storia di mia madre, sullo sfondo, a complicare la situazione già

complessa.

Era un’altra cosa che David Ogilvy non aveva contemplato nel suo libro.

David Ogilvy non aveva contemplato che un pubblicitario possa avere anche una mamma.

E fanno due, pensai.

Altra omissione, e non da poco.

22.

Al mio arrivo alla Carey Pearson & Valley, tra le varie cose che mi avevano colpito e divertito,

c’era una bozza di stampa appesa al muro di uno studio. Non era più grande di un mezzo A4 e

riportava a caratteri cubitali:

NON DITE A MIA MADRE

CHE SONO IN PUBBLICITÀ.

MI CREDE PIANISTA

IN UN BORDELLO

Il cartello rifletteva lo spirito dei tempi, l’ottica con cui la Pubblicità era vista. E, guarda caso, si

attagliava alla mia situazione. Perfetto.

Neanche fosse stato creato a mia misura.

La decisione da me presa di arruolarmi in Pubblicità, infatti, era nata proprio come conseguenza di

un certo episodio.

L’EPISODIO, ATTO PRIMO

Interno tipico di cucina di famiglia medio-borghese.

Una credenza di legno massiccio – solido pitch-pine a prova di marosi di Oceano – occupa

pressoché un’intera parete.

Mostra, attraverso una vetrinetta, un vario assortimento di tazze di ogni colore e di tazzine

sbrecciate e scompagnate. I piatti stanno accatastati sotto, opportunamente sottratti alla vista,

grazie alla chiusura di due sportelli.

La credenza è sopravvissuta a decenni e a traslochi i più avventurosi, ultimo quello su un carretto

trainato da cavallo, di ritorno in città, dallo sfollamento in Brianza a causa della guerra.

L’originario ormai remoto lucido è stato riverniciato di bianco dalla madre di Ortes Giovanni in

un momento di estro pittorico, e il bianco adesso ha l’aspetto di una patina spessa, ingiallita.

Causa dell’ingiallimento, i vapori del dirimpettaio piano a tre fuochi, appoggiato su un mobiletto

insignificante e anonimo di provenienza incerta. Sopra ai tre fuochi campeggia una cappa di vetro

sottile smerigliato che, invadente e invasiva, si protende trapezoidale.

Al centro della cucina, naturalmente, un tavolo. Quattro gambe d’epoca, riecheggianti un liberty

molto semplificato e approssimato, su cui imperversa la minaccia di una lastra di marmo dallo

spessore di diversi centimetri. Pesante da domandarsi chi mai è riuscito a trasportarla. Peraltro le

gambe, malmesse dalle vicissitudini e dagli anni, vacillano. Guai a urtare. Ma nessuno se ne

preoccupa. La routine delle solite cose di ogni giorno rende ciechi e prevale su ogni auspicabile

intervento che deroghi dagli usuali gesti quotidiani.

Delle rimanenti pareti, una è praticamente costituita dalla porta finestra sul balcone, con vista su

cortile, e più in là sull’orizzonte, sui gasometri della Bovisa, panettoni tra ciminiere fumanti volute

torbide e nere, 24 ore su 24.

L’altra, e ultima parete, presenta un mobiletto su cui troneggia una sovrana radio Telefunken,

potente, come testimonia il numero rilevante di manopole. E, attorno alla quale, soltanto fino a

poco fa, prima del recente avvento della televisione, l’intera famiglia si radunava puntualmente

ogni sera: sedeva aguzzando le orecchie per ascoltare commedie e operette (passione dei genitori

di Ortes Giovanni), e anche Il microfono è vostro, la trasmissione del momento.

Non può mancare la gabbia con cardellino, appesa alla parete, sovrastante la sovrana radio

Telefunken.

Padre e madre, la sorella minore e lo stesso Ortes Giovanni ora siedono ciascuno a un lato del

tavolo, imbandito. Prossimo al congedo, infatti, il giovane Ortes Giovanni approfitta della libera

uscita per cenare a casa. E, questa sera, ha appena affondato la forchetta dentro gli spaghetti

ancora fumanti… Che sua madre lo affronta.

Il tono e l‘espressione di chi non ammette repliche.

Madre: «E’ arrivato il momento che ti trovi un lavoro».

Ortes Giovanni: «Okay».

«E non parlare con la bocca piena.»

«Okay.»

«Tuo padre ha lavorato abbastanza, è stanco, e ancora deve continuare, tocca a te adesso dare una

mano.»

«Okay.»

«Durante questo tempo ho messo da parte un po' di offerte di impiego.»

«Okay.»

«E smettila con questo Okay e Okay, possibile, non sai dire altro?»

«Okay.»

Mia madre andò a prendere i ritagli di giornale che conservava in camera da letto, sotto la statuetta

della Madonna, sul comò. Tornò e li sparse: «Dì un altro Okay e ti trovi piatto e spaghetti in testa».

Okay, lo disse invece mia madre, poco dopo, nella confusione. «Okay» le scappò, finito di

sparpagliare i pezzi di giornale.

Si trattava di offerte di banche e cose del genere. «Guarda questa, sembra fatta su misura» disse sua

madre.

«Se in banca ci vado, è per fare una rapina.»

«Gesù Santo.»

«Mi faccio i soldi della cassa e, nel minuto che avanza, le impiegate.»

«Gesù mio Santo, perdonalo, non sa cosa si dice.»

«Stasera il sugo sa di rancido.»

«E dire che eri un così bravo ragazzo prima di partire. L’Esercito, cosa v’insegna? Colpa anche di

certe donne, tipo quella... lasciamo perdere.»

Le donne che la madre mi attribuiva, magari ci fossero state. Perché ne frequentavo sì di donne, ma

di un genere che mia madre chiaramente non immaginava. E il loro influsso, in ogni caso, non

andava oltre alla marchetta. Insufficiente per convincere uno a non andare in banca.

C’era a impedirlo anche il limite della tariffa, calcolata per un tipo di prestazione troppo definita e

rapida per prevedere estensioni d’altro genere.

L’avesse saputo mia madre.

(Anche se, magari, sarebbe stata capace pure di tranquillizzarsi: all’idea che si trattasse di roba

veloce, di passaggio, per cui il suo Giovannino comunque le restava, quel suo unico figlio maschio

col pisello che il solo fatto di averlo conferiva a lui ogni privilegio e a lei, in quanto madre, il

privilegio a sua volta di accordarglielo.)

Madre: «Guarda il ragionier Bell’Amore, lui sì».

Ortes Giovanni: «Figurarsi, e già!».

Il ragionier Bell’Amore godeva di un’alta considerazione nel palazzo. Perché era ragioniere, e

lavorava in banca. Per farlo vedere e sapere a chi non lo sapeva (ch’era ragioniere e lavorava in

banca), come segno di distinta distinzione, viaggiava sempre incravattato in doppiopetto e si

pettinava con la riga in parte. Un solco nei capelli compatti, lisci. Lucidi di brillantina. I passeri ci si

potevano specchiare e, volendo, pattinare.

Quando incontravo il ragioniere per le scale, mi affrettavo a cedergli il passo, ma il ragioniere

neanche mi degnava.

Ci restavo male.

Così gli facevo le corna, alle spalle, e rimuginavo: Hai voglia, stronzo, di condirti di brillantina.

Voglio vedere se mi saluterai quando, questione di tempo, tutti sapranno l’Hemingway che sono!

Gli auguravo di scivolare sui gradini lucidi di cera, e sfracellarsi.

Ortes Giovanni: «Non reggo la stronzeria dei bancari».

Madre: «Parla come si deve!, fin tanto metti i piedi sotto questa tavola.»

«Non posso fare a meno di mirare alto e di volere che il mio nome diventi come minimo,

immortale.»

«Ma sei matto?»

«Per niente.»

«Immortale, come? Cosa? Gesummaria, non ti riconosco.»

«Càpita.»

A mia madre non poteva dirlo. Non potevo tirare fuori Hemingway.

E chi è?- lei mi avrebbe detto. - È un altro di quei poco di buono che ti sei messo a frequentare?

Avrei dovuto ripiegare su qualcosa di più semplice e immediato: Scrivo bene e ho fantasia - ma

allora lei: Se è così, scrivi subito alle banche – mia madre mi avrebbe senz’altro replicato.

Il fatto è che all’epoca erano gli uomini a comandare. Ma erano le mamme a reggere l’Italia.

Insieme alla Madonna.

23.

ATTO SECONDO

Ortes Giovanni evita di cenare a casa, ma non riesce a immaginare alternative valide alla banca.

Tanto vale, si dice un bel momento, ritornare almeno a mangiar bene. Gli americani avevano vinto

la guerra con la potenza dei Liberator? Sua madre vinceva ora a modo suo: con la potenza del

ragù.

Madre: «Ah-haa! Ti sei deciso».

Ortes Giovanni: «Non avevo più niente di pulito.»

«Perché non vai da quella là a farti lavare le mutande.»

«Quella là, quale?»

«A tua madre potresti dirlo. Una volta mi dicevi tutto.»

«Quando mai?»

«Potresti anche farcela conoscere.»

«Nemmeno morto.»

«Ma allora c’è! l’immaginavo.»

«Ti dico che non c’è.»

«Sarà. E’ che sei diventato così falso. Bugiarrrdo.»

«Continua, e mi riprendo le mutande.»

«Sarebbe ora che imparassi a lavartele. Che tua madre mica è qui a farti da serva.»

«Okay. Prendo mutande e tutto, e me ne vado.»

«E come fai?»

«Vuol dire che farò senza mutande.»

«Maria Vergine Santissima, non ti riconosco.»

«Cosa c’è da mangiare?»

«Mi fai perdere la testa. Basta che arrivi tu e non mi raccapezzo. Gesù Santo, il sugo brucia. E

smettila di girare, siediti. Forza, a tavola, che è pronto.»

«E allora, papà?» mi trovavo sempre meglio a parlare con mio padre. Il quale: «Abbiamo un

governo che di questo passo...»

Mia madre lancia un’occhiata fulminante al marito: «Tu e la tua politica, e piantala. Sempre all’ora

dei pasti… Che poi non si digerisce. Ho incominciato stamattina presto a preparare. Guarda che

sugo, senti – mia madre mi allunga una cucchiaiata fumante - Senti il profumo. Per farlo come piace

a te l’ho fatto andare piano, piano. Ore! Me lo sentivo che venivi, sai? La prossima volta, però, o

m’avvisi o peggio per te. Te ne vai al ristorante. Che non sono mica qui a tua disposizione».

«Buono, mamma, buono.»

«Ti piace eh? I pomodori sono andata a prenderli fino al mercato, apposta. C’è Mario che li ha

freschi che parlano, maturi. Me li mette via, sa che ci vado. Te lo ricordi, Mario?»

«Buono, mamma, buono.»

«A fare da mangiare per te sì che c’è soddisfazione», segue occhiata muta ma eloquente,

all’indirizzo del marito. Altro che te!

Madre: «Già che ci sei, puoi scrivere alla banca. Così imbuchi stasera stessa mentre vai in caserma.

Pregherò la Madonna che ti assumano. Sarebbe proprio una grazia del Signore».

Ortes Giovanni: «O Cris...!».

Madre: «Bestemmi anche? Solo questo ci mancava».

Ortes Giovanni confiderà alla sua dodicesima o tredicesima fidanzata:

«Ormai non ho dubbi che il destino di un uomo incomincia e si declina al femminile: MAMMA,

MOGLIE, MORTE.

Che, anche a mettere al posto della MOGLIE, o in aggiunta, una o tante morose, niente cambia.

L’eccezione - che nella pratica non è poi tanto un’eccezione - non fa che confermare la regola del

femminile, in assoluto.

Cambia il numero degli addendi, non il risultato.

Quanto alla prima della triade, mia madre, di seni potrebbe averne benissimo quattro, otto, sedici.

Infinita alla pari del cielo, com’è. Sovrastante più dell’aria. Protesa a occuparmi ogni interstizio.

Mia madre mi ha sempre ripetuto: “Bacco, Tabacco e Venere riducono l’uomo in cenere”.

Ha incominciato che non avevo l’età della ragione e continuato fin tanto la ragione non l’ho persa.

Cosicché ho finito col confondere Venere con Bacco. E col fare l’amore senza filtro e fumare col

preservativo.

M’è capitato di accarezzare la bottiglia mentre stappavo la ragazza, nel tentativo di versarne il

contenuto in un bicchiere.

E’ stata lei, mia madre, a sensibilizzarmi sull’importanza dell’altro sesso: “Devi sposarti, un uomo

non può stare senza una donna. Metti la notte di star male, chi ti fa una tazza di camomilla?”.

Così è un miracolo se a ogni ragazza che incontro, non chieda come sta a tazze. Mi manca di

sposare un bar. Per una tazza di camomilla!»

In effetti, c’era una punta di verità. Mia madre insisteva che prendessi moglie solo che non c’era

donna che, secondo lei, andasse bene per suo figlio.

Non che io gliele presentassi. Era mia madre a ricostruirne la presenza.

Per lo più immaginaria, perché le donne di cui riusciva a scovare traccia, non andavano al di là dello

0,01 per mille.

Ma non importa.

Riusciva comunque a formulare il suo giudizio anche per quelle di cui non aveva prove di esistenza.

Giudizio – inutile dire – per niente lusinghiero.

Quando poi mia madre seppe della donna che la congiura della vita mi aveva dato in moglie, i

difetti di tutte le precedenti glieli ha trovati, concentrati. Col difetto in più, questo sì imperdonabile,

di essere mia moglie.

Fosse andata in matrimonio a un altro, mia madre me l’avrebbe additata come esemplare perfetto da

sposare.

24.

ATTO TERZO

Sono alle strette.

Scarto la Legione Straniera, penso di andare in Svezia in autostop.

Lassù ci vivono splendide ragazze e incredibilmente disponibili. Ti portano a casa a fare l’amore.

Spensierate e garrule, come a un pic-nic, a consumare la merenda. E senza che mamma e papà

dicano niente. Anzi. La mattina dopo si fa colazione tutti insieme.

Però, a tentarmi c’è anche Parigi.

L’emozione di condividere il Cafè Flore con Sartre, Godard, i geni, la nouvelle vague, le caves di

Saint-Germain-des-Prés con il jazz nero originale di New Orleans dal clarino di Sidney Bechet.

A Parigi c’è il brivido di ritrovare i posti di Hemingway. La stessa aria.

HEMINGWAY!

Appena prima di partire militare, un pomeriggio, stavo seduto a un tavolino fuori, al «Giamaica».

In piena piomba di calura.

Brera sembrava evacuata.

Non circolava ombra umana.

Un rombo di moto squarcia il silenzio surreale. Scende un ragazzo. «Vado a Parigi» dice, mi parla

come se ci conoscessimo da sempre e io fossi lì ad aspettarlo.

«Si beve, festeggiamo».

«Quando ci vai?».

«Brindiamo e parto» il ragazzo indica la Guzzi, potente forse un tempo, ma adesso con l’aria di

perdere i pezzi.

Il ragazzo dipingeva, andava a Parigi, il grande salto. Avevo vissuto il momento con grande

commozione.

(Intanto Piero Manzoni sigilla le sue feci in 90 barattoli da conserva che etichetta in inglese, «merda

d’artista». A distanza d’anni, il barattolo numero 57 è stato venduto a 110 mila euro. E in un’asta, a

Milano, il barattolo numero 18 è stato aggiudicato per 124 mila euro.)

Ma tra la Svezia e Parigi, proprio grazie a mia madre - paradossalmente proprio grazie ai suoi ritagli

di giornale - apprendo che non ci sono soltanto le banche a cercare. Ci sono anche certe misteriose

agenzie di pubblicità. Tanto più seducenti perché misteriose. Da far immaginare che lì dentro il

lavoro si compia attraverso chissà quali riti magici. Le agenzie dai nomi inglesi promettenti.

L’America qui in casa!

Soluzione la più rassicurante per un onorevole compromesso.

Già.

La sede del Credito Italiano sta in piazza Cordusio e quella della Carey Pearson & Valley in piazza

degli Affari. La differenza? La distanza di un centinaio di metri, e basta. Il tram per raggiungerle è

lo stesso, è il 12. E anche la Carey ecc. paga i contributi (per la pensione, punto fermo e fissa di mio

padre «Non ti credere, è un attimo che ti ritrovi vecchio, e allora…»).

Come ampiamente visto, m’ero guardato bene dallo scrivere a una qualche banca. E - quanto al

NON DITE A MIA MADRE CHE SONO IN PUBBLICITÀ, MI CREDE PIANISTA IN UN

BORDELLO – mia madre, giocoforza, aveva appreso (inevitabile!) che il suo piccolo

Giovannino… magari pure fosse finito pianista in un bordello.

25.

Pagai e lasciai il bar.

Le tre birre facevano schifo, però costavano poco.

A buon prezzo come le donne fuori, agli angoli delle Cinque Vie.

La donna che poco prima si batteva la borsetta sulle ginocchia era sparita. Lì, dove posteggiava,

aveva lasciato mozziconi sparsi di sigaretta. L’impronta d’un rosso carminio impossibile, quasi

viola.

Pensai per un attimo alla donna. Era senz’altro con qualcuno da qualche parte su in qualche camera.

Ma subito tornai ai miei problemi. E provai allo stomaco un genere di stretta sconosciuta fino a

poco tempo prima.

Ultimamente mi tornava ricorrente.

Mi chiesi se non fosse il caso di ammettere d’avere perso definitivamente, non solo con me stesso e

con il mondo, ma anche e soprattutto con mia madre.

M’incamminai furioso per via del Bollo e mi dissi: MAI.

26.

Le telefonate dall’esterno arrivavano tramite centralino e le parole mi colarono nelle orecchie, dolce

musica, assimilabile al sussurro di un’avvenente spia venuta dal freddo.

Ne era l’epoca. Si stava erigendo il Muro di Berlino.

Contraccambiai, miele a miele.

Subentrò un tuono. Shock. Sussulto.

«Ortes, noi non ci conosciamo di persona, io sono Mario B….» la voce era d’uomo, roca e dura.

Mario B. era il grande Mario B., padreterno e mito. Ricopriva un cumulo di quelle cariche, in

inglese, che a decifrarle… Si fa prima a leggere un’iscrizione in sanscrito antico.

Era creative director supervisor chief, consultant, AD, CEO, e via con le sigle sparate una dopo

l’altra. E tutto questo nell’agenzia che, tra i vari super-budget, curava il detersivo leader del

momento. (Mica noccioline)

La più acerrima guerra combattuta nell’Emisfero Cristiano Occidentale, dopo il Secondo Conflitto

mondiale, è stata senz’altro per la conquista del mercato del bianco più pulito.

Tra i vari effetti collaterali:

l’acqua uscirà dai rubinetti sempre più equivoca per colore e sapore;

Mina canterà «Le Mille Bolle Blu», probabilmente ispirata da fiumi e mari che esplodono in mille

suggestive iridescenze;

i camerieri al mare - dopo che avevi macinato chilometri apposta per mangiare il pesce fresco - ti

diranno fieri: «Nossignore, pesce ormai non se ne pesca, ma guardi la tovaglia com’è bianca!».

Infatti mai, a memoria d’uomo, si era visto un bianco così bianco.

Grazie all’accanita sfida tra colossi del capitalismo multinazionale.

E al loro serio impegno.

Senza esclusione di colpi. L’un contro l’altro armati a colpi di Pubblicità e di investimenti, senza

badare a spese.

La Chimica impegnata allo spasimo in costosi laboratori sofisticati. A creare, combinare e

inventare polveri bianche sempre più potenti.

(La cocaina non era ancora tanto democraticamente popolare. Fortunatamente, non sussisteva il

pericolo di equivocare: inalare detersivo scambiato per neve pura colombiana o, viceversa, usare

la cocaina per candeggiare il bucato.)

«BASTA COL VECCHIO SAPONE, OGGI C’È… MENO FATICA E PIÙ PULITO»

«MIGLIORATO! NUOVO OLÀ CON GEMME BLU LAVA ANCORA PIÙ BIANCO»

«CREDEVO CHE IL MIO VESTITO FOSSE PULITO FIN TANTO NON HO VISTO IL TUO

LAVATO CON OMO»

«OMO, QUANDO UNA MAMMA CI TIENE SI VEDE»

Questo negli Anni Cinquanta, ma poi ecco gli Anni Sessanta. I favolosi Anni Sessanta. (Favolosi si

dirà in seguito anche per gli Anni Settanta, poi per gli Anni Ottanta e avanti… Non c’è limite di

tempo per le esagerazioni.)

Le 600 Fiat si diffondono nelle strade, le lavatrici nelle case.

La lavatrice, che le signore esibiscono e decantano.

«Le manca solo la parola» le signore non lo dicono, ma potrebbero benissimo affermarlo. Con lo

stesso orgoglio e affetto con cui parlano del gatto. (O cane o canarino... I criceti verranno di moda

solo in seguito quando subentreranno Nutella e la Guerra delle Merendine.)

Caro vecchio onesto sapone di Marsiglia,

questa è una lettera aperta alla tua memoria.

Di te ne bastava un solo pezzo per tenere pulita un’intera famiglia, nonni compresi, e pure il cane.

E l’igiene era universale, panni e corpo: completo, dalla testa, a partire dai capelli (shampoo,

parola d’importazione, ai tempi sconosciuta), al viso, fino a scendere giù, alle parti più intime.

Apprezzate erano le bellezze femminili, definite non a caso, all’acqua e sapone.

UAU!

Lo stesso pezzo di sapone serviva egregiamente anche a sgrassare e a far brillare piatti e stoviglie,

pavimenti, l’intera casa e tutto quello che c’era e meritava d’essere riportato alla dignità del pulito

originario.

L’unico profumo era quello, appunto, di pulito, e di sole, e aria. E per i più accurati raffinati, di

fiori di lavanda.

Faceva parte della dote della sposa, l’asse da bucato, esemplare ingegnoso di falegnameria

artigiana, con il proprio spazio apposito per custodirvi il sapone affinché non scivolasse e si

perdesse nell’acqua della roggia o della vasca da bagno (se la sposa era abbastanza di livello da

vantarne una in casa, senza dovere scender in cortile al lavatoio).

Al tuo posto, vecchio onesto sapone di Marsiglia, subentreranno dieci, venti, cinquanta prodotti

specializzati ciascuno per un preciso segmento di pulito.

Oltre la lavatrice.

E oltre, naturalmente, a una filippina, non importa se regolare con i contributi o in nero.

Adesso, occorre un locale apposta per contenere tutti quei prodotti. Solo per la pulizia. In

compenso, però, le casalinghe hanno realizzato il bianco a cui le loro nonne, bisnonne, ave,

progenitrici cavernicole – avevano sempre aspirato senza riuscire a ottenerlo.

Digli niente.

Ciò nonostante - vecchio onesto (ed economico) pezzo di sapone di Marsiglia - ci sarà sempre chi

ricorderà, per esservi cresciuto dentro, quel tuo odore tipico e greve di grasso animale, che

lasciavi sulle mani e sulla pelle, e che era sinonimo e garanzia a chi lo sentiva, di pulizia.

Vecchio onesto (ed economico) pezzo di sapone di Marsiglia, addio.

«Lo vogliamo capire, cazzo? Le ricerche di mercato lo dicono chiaro: alle donne non gliene frega

una minchia se poi tirano fuori le lenzuola con i buchi. Le donne vogliono il bianco. E diamoglielo

sto’ cazzo di bianco! Gridiamoglielo, stampiamoglielo bene impresso dentro nella testa che siamo

noi… noi… quelli del più bianco!»

Era il ritornello – l’urlo belluino – nelle sale-riunione, meeting-room, delle agenzie multinazionali

come le company in ballo.

(Mitinrum, che non si sa mai se considerarlo sostantivo femminile in quanto traduzione di sala-

riunione, o se maschile in virtù di un vago genere neutro.

Mah! Di certo, il mitinrum si distingueva da ogni altro locale dell’agenzia - anzi dello stesso intero

palazzo - perché bastavano pochi minuti di riunione, e già una cortina di fumo si addensava. Spessa

che a spararci dentro, le pallottole rimbalzavano respinte.

Sigarette, pipe, toscanelli e sigari, l’intero campionario dei tabaccai meglio forniti e specializzati del

Centro di Milano. Bei tempi, a tutto vapore. Vietato non fumare.)

Al colmo dell’epica del pulito appare IL LANCIERE BIANCO: cavaliere candido e fulgente

avvolto in un alone di luce, il viso celato in un elmo. Irrompe in sella a un destriero pure candido

fulgente, e con un tocco magico di lancia sprizza un’esplosione di bianco.

Ajax, lanciere bianco, è più forte dello sporco.

Il Lanciere Bianco in Pubblicità.

Come il Principe Azzurro della fiaba.

27.

La telefonata si risolse con un appuntamento, la sera stessa, in una cantina nota per la selezione dei

suoi vini. (Tanto per cambiare.)

La Taverna Morigi, esattamente.

Raccomandazione finale di Mario B.: «È evidente che conto sulla sua più assoluta discrezione,

Ortes. Come lei già immagina, nessuno dovrà farne accenno ad alcuno. È un ambiente pettegolo, di

serve, e lei sa benissimo cosa succede in questi casi se la voce si diffonde…».

Mancava solo che mi ordinasse di presentarmi con parrucca bionda, occhiali neri, tacchi a spillo.

Ma la CIA, la Central Intelligence Agency, ancora non aveva fatto furori al cinema e in TV.

(Apposta, ad aprire la telefonata, era stata usata la ragazza nel ruolo di fidanzatina. Per depistare le

centraliniste dalle orecchie lunghe e la bocca ancor più larga.)

La luna intravista in fondo al pozzo, può capitare che ti sbuchi dal filo del telefono, pensai.

Quella sera.

Alla Taverna Morigi.

Mario B. non faceva che ripetermi: «La nostra agenzia è stata riorganizzata. Se lei, Ortes,

accettasse, sarebbe responsabile di un gruppo di prodotti: sarebbe padrone di gestirli creativamente

come meglio crede. Lei si farebbe le sue campagne senza supervisioni di senior, comitati o altro…

Massima snellezza è il nostro nuovo must».

A sentirlo, mi sentivo sollevare al vertice dei cieli.

Stava accadendo quanto mi aspettavo da una vita.

Concludemmo alla grande.

28..

Erano passati circa un paio di mesi. Ed era di primo pomeriggio. Stavo seduto al mi tavolo, a

districarmi nella giungla di bozze e bozzetti, nel frattempo rutticchiavo.

Avevo appena finito di sbranare un panino mentre discutevo di una copy strategy. Avevo

ingurgitato brandelli di prosciutto e di parole, e lo stomaco presentava il conto.

Trillò il telefono. Era il gigante buono: «Vuole venire un attimo?».

[Gigante buono era il soprannome attribuito a Mario B.. Spiegabile per le sue fattezze, ma meno per

quanto concerneva il buono. Probabile giustificazione: i suoi modi confidenziali, l’espansività

amichevole (all’apparenza). Non a caso, Mario B. si era eletto a profeta dell’empatia in Pubblicità:

aveva elucubrato e ripreso una teoria in realtà americana sciorinando concetti fumosi ai confini

della mistica.]

Pensai: strano che Mario B. mi voglia vedere.

Dopo la sera alla Taverna Morigi non ci si era praticamente più parlati. Solo sfiorati. Per i corridoi.

Ciascuno impegnato a seguire orbite diverse.

Lasciai bozze e bozzetti e mi affrettai.

Rutticchiavo e rimuginavo: sarà per complimentarsi che tutto funziona. Non vedevo altri validi

motivi. Mi affacciai all’ufficio di Mario B..

Stava telefonando stravaccato sulla sedia. La scrivania sgombra. Senza ombra di carte o tracce che

inducessero a supporre una qualsivoglia attività lavorativa. Era il piano di scrivania del perfetto alto

dirigente.

Mario B. avrebbe potuto benissimo stenderci sopra le gambe ma Mario B. non era americano. In

compenso, la sua mole non indifferente faceva apparire la scrivania poco più grande del banco di

uno scolaretto.

Sempre parlando al telefono, mi fece un cenno con la mano. Mi indicò una sedia solitaria, che

pareva aspettasse soltanto l’onore di un sedere.

La onorai.

Mi assestai con garbo.

(Attento a non provocare il minimo rumore, che avessi potuto mi sarei annullato.)

La telefonata non finiva. Mi accesi una sigaretta.

Accusavo il protrarsi dell’attesa.

La tensione acuita dall’incognita.

Ero stato convocato perché mai?

Accavallai le gambe. La piega dei pantaloni lasciava a desiderare. (Eppure mia madre ci teneva, e

come li smacchiava, stirava e ripassava!) Accavallando le gambe, la piega si sarebbe ridotta ancora

più malconcia. Pensai: E chissenefrega.

Il gigante buono era scuro di pelle e nero pece di capelli. Poteva essere un etrusco. Redivivo. E,

paradosso, indossava sempre camicine d’un tenero celeste o d’un vezzoso rosa-bimba. Tipo da

contrasti, mi venne da riflettere.

Mi chiesi come potesse piacere tanto alle donne. E pensai che le donne hanno nella testa strani

meccanismi. Rutticchiai. Sembra uno scimmione, pensai.

Pensai: ha anche la voce roca, oltre l’aspetto, di un vecchio pugile suonato. Un vecchio pugile roco

e suonato agghindato con le tinte di un bebè.

La camicine, non bastasse, avevano anche il colletto ch’era un collettino. La telefonata finì.

Mario B. schiuse la faccia al più ampio dei sorrisi. Dev’essere l’empatia, regola numero Uno: mi

dissi.

Poi Mario B. assunse di colpo un’espressione triste sconsolata. E supposi che fosse la regola

numero Due: fare leva sulla solidarietà.

Difatti: «Devo scrivere una relazione per la Palmolive» disse il gigante buono. «Ho continuato a

rimandarla ma adesso non posso proprio evitarla. Merda!... Me ne mettessero qui una pallina, lei ci

crede? me la mangerei piuttosto che scrivere quella fottuta relazione».

Questione di gusti, pensai.

Ma ridimensionai, dissi: «Oh, la capisco, certamente».

Ed ero sincero.

Avevo imparato che la gente della Pubblicità era gente da bozzetti, aborriva scrivere. A maggior

ragione se si trattava di tutte quelle scartoffie, relazioni e report e roba simile che il contatto col

cliente comportava.

Incombeva l’incubo di esporsi, nero su bianco, e la paranoia di dire senza dire ma dando

l’impressione di dire. Per non compromettersi.

La più semplice e banale paginetta diventava cimento. Le vene sulle tempie si ingrossavano. Ne

usciva un penoso mix di frasi contorte, esempio di negazione del comunicare. (Proprio da chi, della

communication, avrebbe dovuto essere L’ESPERTO.)

Comprendevo benissimo, oh sì!, le ambasce di Mario B. alle prese con la sua relazione.

Fissai il gigante buono negli occhi, e gli sciorinai il sorriso di solidarietà e comprensione che si

riserva a chi ti è simpatico e ci tieni che lo sappia.

Mario B. ricambiò con mossa fulminea: estrasse un foglio da un cassetto e disse: «Firmi».

Allungai il collo, puntai lo sguardo. Vidi tre righe scritte a macchina. Non capivo.

«Sono le sue dimissioni» disse il gigante buono.

Mi avvicinò il foglio con un leggero colpo della mano.

Ero ancora fresco della telefonata in agenzia da parte di mia madre. Soltanto pochi giorni prima.

«Corri, papà stava tornando a casa e s’è sentito male. L’hanno portato all’ospedale».

M’ero precipitato. Al Fatebenefratelli. Pronto Soccorso.

«Lei è il figlio?... Suo padre è morto».

29.

Lasciai l’ufficio di Mario B., e il mio primo pensiero fu: E adesso, a casa?

Pensare a mia madre fu vederla.

Come la pastorella di Lourdes con la Madonna, ebbi la visione di mia madre. Lì davanti. Netta.

Nella penombra del grande corridoio che nei marmi e nei volumi riecheggiava lo stile Piacentini del

palazzo.

Mia madre: il volto della Madonna Addolorata dalle sette spade infisse nel costato.

Ne udii anche la voce. Distinta. Da poterne, volendo, ripetere le parole. Una per una.

«Hai visto a fare di testa tua? Adesso sarai contento. Io lo sapevo e te l’avevo detto, non poteva finir

bene. Mai che tu ne abbia combinata una giusta, e c’era anche l’esempio del nipote delle signorine

Perissinelli. Lo sai bene, lui, la fine che ha fatto con la Pubblicità. Se non c’era la famiglia a

provvedere… Dio mio… Mio Dio, che vita! Già non bastava la morte di papà, anche tu… Anche tu

adesso. Bella soddisfazione avere figli. Una mamma fa tanti sacrifici per allevarli, farli studiare

perché si facciano una posizione e poi? Ecco poi cosa riceve. Solo disillusioni, preoccupazioni e

dispiaceri!».

Mi coprii gli occhi con le mani.

Orrore.

Orrore.

Orrore.

30.

Davanti alla porta del mio ufficio, stava socchiusa, indugiai. Pensavo sempre a mia madre. Alla

sfida con lei da quando, si può dire, ero nato.

«Metti il cappello.»

«No» io, bambino, mi opponevo.

«Ti ho detto di mettere il cappello.»

Alla fine mia madre me lo calzava, io mi dibattevo, e mia madre me lo calcava e strattonava ad

aggiustarmelo. Come, secondo lei, si conveniva. (Secondo lei.)

Mia madre passava infine una mano rapida e leggera sulle ali. A regolarle.

Era un rito (e una rissa).

Ogni volta.

I gesti imposti di un’incoronazione.

Il cappello di feltro.

Ollalà.

Rappresentava più di un copricapo.

Era un fregio.

Simbolo di conclamata appartenenza.

La corona celebrante le teste della buona borghesia.

I miei cappelli (come anche quelli di mio padre) erano naturalmente scelti accuratamente da lei, mia

madre.

Naturalmente, di indiscussa etichetta, fattura e finitura.

Mia madre mi prendeva per la mano e insieme andavamo da via Principe Eugenio (precisamente

dalla Simonetta) fino a via Paolo Sarpi. Apposta. Quasi un’ora di strada a piedi. Perché non c’era

tram. E comunque il tram, ci fosse stato, costava.

Così un’ora di strada ad andare, e un’altra a ritornare. Per quel certo cappellaio.

Obiettivo di marca.

La migliore, «Borsalino».

Non che la mia famiglia fosse così abbiente, ma noblesse oblige.

E i buoni borghesi non scherzano in fatto di apparenze e appartenenze. (Obiettivamente, non c’è

ceto o tempo privo di lati grotteschi. Probabilmente è la struggente aspirazione a essere Dio. Da

parte di un’entità, quella umana, che ogni giorno deve inventarsi motivi di pretesa superiorità.)

«Borsalino», massimo prestigio, entrerà nella Storia insieme ai sigari grossi da impegnare l’intera

mano. Il «Borsalino» ha consacrato la qualificazione sociale dei capi-mafia italo-americani di

Chicago. Nonché dei boss emergenti di Marsiglia.

Ma, questo, mia madre non poteva immaginarlo.

Indimenticabile l’Humphrey Bogart degli anni ruggenti del bianco e nero al cinema. Bavero alzato,

sigaretta pendula dall’angolo estremo della bocca, l’ala abbassata del cappello sul sogghigno

imperturbabile.

Cosa sarebbe stato Humphrey Bogart senza quell’ala di cappello sugli occhi?

A parte i questuanti, per cui il cappello ha sempre svolto la funzione di strumento professionale, e

fermo il concetto imperante che una testa (fosse di uomo o donna e anche bambino) andava

rigorosamente ricoperta, ai reietti non restavano che berretti e coppole.

Consunti & bisunti.

Operai e artigiani del triangolo industriale al Nord, braccianti e cafoni di Puglia e di Sicilia,

vagabondi da pagliaio, la gente di strada e di taverna… non c’era cappello per loro, gente senza

speranza di riscatto. Le istanze sociali di progresso languendo represse. Tacitate.

Come un povero cane costretto alla museruola, sbattevo la testa furiosamente. Ma niente da fare. Un

ceffone poneva fine alla protesta.

In nome del decoro.

Era una questione di prestigio e dignità, in gioco l’intera famiglia.

Come il lucido della targa d’ottone sulla porta. O delle scarpe.

Mia madre esercitava - inappuntabile - la sua missione di vestale. Al servizio full time della

famiglia. Quasi che ruolo e poteri le fossero conferiti da un’Autorità Superiore. Suprema. Assoluta.

Poco importa se invisibile.

Anzi.

A maggior ragione da non disattendere.

Alla prevaricazione del cappello, senza possibilità di appello, altre si aggiungeranno mano a mano,

a misura delle mie varie età.

Prevaricazione Numero Uno, a presiedere la lista:

la raccolta delle cartine variamente colorate, avvolgenti il chewing-gum, fatte sparire da mia madre

nel buco nero della pattumiera che si apriva sul balcone.

Cartine da me amorosamente e faticosamente collezionate… Raccolte solertemente dalla spazzatura

che i gipponi US Army, con la grande stella bianca sul cofano, riversavano ogni giorno

puntualmente alle cinque della sera tra i ruderi sopravvissuti ai bombardamenti, della vicina storica

Villa Simonetta… Cartine che oltre alle solite ricorrenti Spearmint WRIGLEY’S annoveravano rari

preziosi esemplari di gusti al garofano o alla cannella, destinati a restare unici perché da allora mai

più visti.

Ero stato diffidato più volte da mia madre a non lasciare le cartine in giro per la casa. All’ennesima

dimenticanza, lei era intervenuta radicale. Alla maniera delle leggi di guerra, per le quali la

fucilazione è il minimo che possa capitare al reo di turno.

Prevaricazione Numero Due:

i calzoncini di lino bianco immacolato (perfettamente stirati con la piega) con cui ero costretto ad

andare in strada a giocare al pallone. (Allora passava un’automobile ogni tanto, e se la partita era in

corso, il conducente doveva fermarsi e attendere che il pallone finisse a goal, nella porta delimitata

da un paio di mattoni.)

Tassativamente, i calzoncini bianchi immacolati con la piega tali dovevano restare e ritornare a casa

intatti.

L’elenco prosegue…

Con i blue-jeans costantemente negati perché roba da officina, da tuta da meccanico….

Il montgomery ardentemente desiderato e altrettanto rifiutato alla pari dei blue-jeans sebbene per

altre motivazioni…

Il risotto con gli odiati fegatini che sapevano di cacca ma che se non li finivi, il piatto ti ritornava

riscaldato tale quale, la sera a cena, e così via… Fino a che il piatto non restasse vuoto, pulito, senza

più ombra di chicco…

Nella mia ottica ce n’era abbastanza per scatenare la guerra più furiosa.

A cominciare da quella di Troia fino all’ultima mondiale, era occorso molto meno a provocare le

ben note stragi: questo pensavo.

Giunto all’adolescenza.

L’occhio sempre più puntato alla fine degli studi, e al conseguimento finalmente di una totale

libertà.

D’altra parte.

Mia madre, tanto più era emergenza, tanto più aveva sempre dimostrato di saper reggere il timone.

Cuore indomabile, coraggio da leone.

Era merito indiscutibilmentesuo, e delle sue non comuni capacità, se la famiglia non solo aveva

evitato il naufragio, più di una volta, ma compiuto incredibili progressi non appena il vento aveva

mostrato di cambiare.

Mentre mio padre compiva il suo dovere nel modo più paziente ed encomiabile, ma inguaribilmente

distratto dalle sue letture. Che spaziavano dall’economia alla scienza alla nuova letteratura

americana. (Contagiandomi e facendo però raddrizzare i capelli alla moglie per la quale non c’era

pagina immortale a sublimare la dura realtà di conti e costi.)

31.

1943. Vige il dizionario della guerra. Ammasso, tessere annonarie, borsa nera sono i termini invalsi.

La tessera, con i tagliandi per ricevere un misero tot di grammi al giorno o al mese. Sempre che la

roba ci sia. Perché presto i negozi restano sguarniti. A favore della borsa nera.

È sufficiente pagare e hai l’impossibile. Leccornie comprese. A dispetto della penuria e fame

generale, e delle sanzioni sempre più minacciose, ma a vuoto. E degli stipendi e salari svuotati

dall’inflazione. Al colmo più dannato, la lira arriverà a valere meno della carta con cui è stampata.

E trionfa il baratto.

E chi non ha da barattare niente? Come nel caso della mia famiglia?

Eravamo sfollati in Brianza per sfuggire ai bombardamenti su Milano, e questo già era un lusso, e

stavamo in capo a un vicolo, il selciato di ciottoli.

A metà vicolo si apriva un forno, gestito da una non meglio identificata sciura Maria. (Finita la

guerra, a distanza d’anni, quando capitava di accennare a quel periodo, mia madre ancora ricordava

la comprensione della sciura Maria, eccezione rispetto ai conterranei, degni eredi dei bravi di don

Rodrigo.)

Ogni sera mia madre aspettava che mi addormentassi. (Non doveva aspettare molto.) Dopodiché si

affrettava dalla sciura Maria, nel retro del forno, ad aiutarla: a incollare i tagliandi delle tessere

annonarie, raccolti durante la giornata. Bisognava appiccicarli sui moduli da consegnare alle

autorità.

In mancanza della colla, introvabile, se ne improvvisava una altrettanto efficace sebbene casalinga:

miscela d’acqua e farina.

Come compenso, mia madre riceveva sottobanco una ruota di pangiallo.

Pane!

IL PANE.

(Ruote simili, mi è capitato di vederle recentemente in corso Vercelli, in un negozio di specialità da

forno, dall’aspetto tra una gioielleria e una boutique. Le ruote, presentate come sfizio originale. La

quotazione ancora un po’ al grammo, come l’oro.)

Oggigiorno il pane lo si lascia sbriciolato, smollicato, sminuzzato, morsicchiato, sbocconcellato,

eroso, vilipeso, dimenticato sul fondo di qualche cestino o sacchetto di plastica o di carta o in

qualche angolo oscuro di cucina. Destinato al grande business internazionale che è la spazzatura.

(Non a caso la spazzatura è entrata in Borsa.)

In tavola, nelle famiglie, di pane ne compare di solito un esile assaggio. Tutt’al più un paio di

fettine. Quattro a volere esagerare. Altrettanto, al ristorante. Presenza giustificata pressoché per

decorare.

Perché il pane ingrassa. Di questi tempi (apparentemente) grassi.

Il pane non è moda.

Un mio amico (più giovane) mi prende in giro ogni volta che ci incontriamo a condividere la

tavola: «Pane, pane, pane! Tu mantieni l’abitudine di quando, da bambino, ti ingozzavano di pane

per riempirti perché non c’era altro da mangiare».

Ed io, ogni volta, gli eccepisco che da sempre-sempre, si è usato dire «guadagnarsi il pane».

Eccepisco che nella parola pane si riassume l’essenziale della vita. E, un tempo, l’espressione

guadagnarsi il pane era pure sinonimo di lavoro onesto e dignità. Evidentemente, sparita la

dignità, anche il concetto di pane ne ha risentito. E quanto al lavoro, sempre più così etereo…

Il senso del pane si è perso.

Questo eccepisco e provo un brivido ogni volta…

Nel fare quei discorsi ho le sensazione di parlare con la voce di mia madre.

In quell’angolo di Brianza, erano due le colture-base, e tali da costituirne praticamente la specialità:

il granturco e le patate.

Ce n’era una terza, sempre alimentare, ma per i bachi da seta: le foglie di gelso. Gli alberi, tozzi e

bassi, correvano e ricorrevano a filari, puntuali, ai bordi di ogni campo.

Escluse le foglie di gelso, naturalmente… Per il resto, in casa di Artemio si mangiava tutto ciò che

fosse possibile trovare, di commestibile.

A partire dal pangiallo.

Sfornato in grandi forme tonde, dette, appunto, «ruote».

I röd de pangiald.

La cena della gente del posto era una tazza di latte. (Consuetudine da sempre, non c’entrava la

penuria provocata dalla guerra.)

La tazza di latte in una mano, una fetta di pangiald nell’altra.

Consumati in piedi sul balcone, conversando da un balcone all’altro.

Ogni sera era un vociare di suoni gutturali, il dialetto locale. I miei, all’inizio, ne restarono stupiti.

Io, meno.

Un bambino, tutto quello che vede, lo accetta come giusto, naturale. Niente lo sorprende. Nemmeno

gli raccontassero che gli asini volano e le aquile ragliano.

Il pomeriggio, mia madre, nell’attesa della sera al forno, pescava tra i miei abitini smessi. (Ero

cresciuto e continuavo a crescere… malgrado la guerra.)

I capi erano meglio che nuovi, grazie all’impeccabile manutenzione di mia madre. Erano peraltro

usciti confezionati dalle sue stesse mani, e lei ne andava fiera.

Era abile a ingegnarsi: a tagliare e a cucire, e anche a ricamare.

Sono cresciuto tra gomitoli di lana, spolette di cotone, ferri da maglia, aghi pericolosamente sparsi

per la casa, invariabilmente dimenticati e persi tra i cuscini, su cui puntualmente capitava di sedersi.

(E pungersi.)

Mia madre riponeva l’abitino in una sporta e mi prendeva per mano. Ci inoltravamo nelle

campagne. Ci fermavamo ai casolari.

Gli occhi delle contadine brillavano alla vista dei miei ex-vestitini.

«Guardi, signora, guardi la finitura…» mia madre coinvolgeva. Perfetta imbonitrice. Trascinava.

Era una contrattatrice accanita. E anche creativa, a inventare e condurre commerci, e baratti.

Non erano tempi di opportunità per le donne. Lo fossero stati, mia madre avrebbe messo in piedi

un’altra «Rinascente».

L’abitino passava di mano, e madre e figlio se ne andavamo con il frutto dello scambio: uova, pezzi

di lardo, forme di burro, strutto.

Ci avesse beccati la Milizia o altra Camicia Nera, avrebbero requisita la roba. Salvo peggio.

(I requisitori, a loro volta, se la sarebbero rivenduta o allegramente consumata.)

Ma lì, nella campagna deserta, unici testimoni erano i corvi. E i corvi erano sì neri, ma non fascisti.

Né delatori.

(Tutto questo accadeva che avevo i calzoncini corti. Corti, e parecchio, sopra alle ginocchia. La

moda dei nani, addobbati come adulti, verrà solo a guerra da lungo finita. Probabilmente è stato il

crescere dei soldi, a crescere anche la stoffa fino a coprire l’intera gamba.)

32.

Indugiavo davanti alla porta del mio ufficio, stordito, ma con un punto chiaro: mia madre doveva

ignorare.

Certo, il licenziamento era cosa grossa, difficile nasconderlo. Ma non importa, niente doveva

trapelare a casa.

Non mi riusciva di pensare ad altro, scrollai le spalle.

Ritrassi la mano dalla maniglia della porta, ripercorsi il monumentale corridoio, scesi al bar.

Mi sono appollaiato in cima ad uno degli scranni al banco. Ho chiamato una birra. Ne sorbii la

schiuma, riappoggiai il bicchiere, una mosca si posò sull’orlo, scivolò dentro la birra.

A prezzo di sforzi inenarrabili, ne era uscita. Già sembrava di sentirla: Adesso volo!

Ma, splash, era ripiombata.

Le ali impiastricciate, lo stesso, aveva ripreso la sua lotta per la vita.

«Gliela tolgo» il cameriere, premuroso.

«Lasci…» dissi.

(Pietà? Ammirazione? Solidarietà? M’ero identificato?)

Il cameriere scosse la testa.

Era abituato alle stranezze di quei tipi della Pubblicità.

Daccapo a essere daccapo.

Proprio adesso che credevo d’essere arrivato.

Mi avevano dimissionato, e perché?

Cosa mai poteva essere successo?

La mosca aveva recuperato l’orlo del bicchiere. Lasciai il resto della birra. Risalii in agenzia.

L’immagine della mosca aveva sostituito quella di mia madre.

33.

L’art di fronte continuò a bozzettare.

Indifferente.

Di fatto, sbirciava.

Pronto a riabbassare gli occhi sul lay-out appena glieli intercettavo.

L’altro art, E.P., alla mia vista, s’era accesa una Gauloise. La succhiava.

Subito l’aveva ridotta a brace incandescente.

Aveva abbandonato il rough a cui lavorava, e incrociate le braccia, fumava e meditava.

Lo sguardo vuoto.

Fissava, senza vederlo, il viso della donna appena schizzata che gli stava sorridendo. Di un sorriso

ebete da tanto era fuori luogo. Nella cappa greve, di fumo e di silenzio.

Fui colto da un dubbio.

Più volte, E.P., insieme ad altri, aveva fatto pressione perché rivelassi l’entità del mio stipendio. Ma

era un segreto a cui mi ero vincolato con Mario B., a sua volta preoccupato di evitare confronti,

invidie e dissapori.

D’altronde, qualcosa doveva essere accaduto ai vertici dell’agenzia per arrivare a quello a cui si era

arrivato.

Qualcosa cosa?

Avvertii la sensazione che E.P. sapesse molto. E mi fosse amico ma solo all’apparenza.

Geografie complicate, plot aziendali. Troppe ipotesi. Inanellate, conducevano a un labirinto. Stop!

Mi dissi.

Non avevo tempo, dovevo rimediare. Inutile rivangare melma.

Dovevo trovarmi un nuovo posto.

34.

Ero nelle condizioni di avere bisogno di tutti e di ogni genere di appoggio.

Morale e materiale.

Conclusi: avevano ottenuto la mia testa? Sgombrato il rospo, adesso potevano anche essermi amici.

Veramente.

A cominciare da E.P..

E fu così.

«Non so quanto ti davano, di sicuro ti toccherà prendere meno» l’art di fronte si decise a rompere il

silenzio.

Era una brava persona, fuori da ogni congiura, ed era sincero. Pratico. Perché la sincerità era il

modo migliore per darmi una mano.

Aggiunse l’art: «Certo, farai fatica a trovare un altro posto».

Stavo rendendomi conto che la Pubblicità sarà stata anche un mondo attraente, coloratamente

svagato e spensierato. Ma all’apparenza e come alla gente fuori piaceva immaginare.

Nei fatti, stavo scoprendo, anche in Pubblicità vigevano le stesse leggi e spietatezze e assurdità del

mondo del lavoro. E del business. La stessa logica: o vinci o perdi e se perdi… Guai ai vinti.

A distanza di duemila anni e passa, si perpetuava l’anatema di Brenno, il capotribù dei Galli, contro

i Romani.

«Difficilmente assumono uno che, raggiunta una certa posizione, si trova poi a retrocedere» stavolta

fu E.P. a parlare.

Ad aggravare, pensai, ero stato di fatto licenziato. Ripudiato. La forma del dimissionamento non era

che una pietosa copertura. E a quei tempi non importavano i motivi. La colpa, l’onta, ricadeva

puntualmente sul licenziato, mai sull’autore del licenziamento.

«Perché non provi alla L*****?» disse l’art di fronte. «Lì cercano sempre».

«Di chi devo chiedere?» disse Artemio.

Intervenne E.P.: «La L*****, sicuro. Vedo di passare la voce…».

Riaffioravano in E.P. i principi migliori dell’ideologia che professava.

La solidarietà di classe.

Contro gli abusi del Sistema.

35.

E.P. non era che uno dei tanti di quel momento. E proprio per il suo valore emblematico merita due

parole.

Per incominciare, proveniva da umile famiglia, ed era oltremodo ambizioso. Lo era senza lasciarlo

trapelare. Era di modi misurati, controllato e calcolatore. Freddo da far pensare che l’unico calore di

cui riuscisse a essere capace fosse quello delle braci delle Gauloise che risucchiava una dopo l’altra.

Incapace di iniziative proprie, era abile ad accodarsi e ad avvantaggiarsi delle iniziative altrui.

Aveva tutte le doti di un abate di corte, sornione, ne aveva l’intuito e l’intelligenza politica.

Esangue. E pigro. Era probabilmente esangue per la pigrizia di far pompare il cuore, e pigro perché

il cuore non pompava.

«Pare che le agenzie in America, i creativi li cerchino apposta di sinistra» E.P. aveva detto un

giorno. «Dicono che hanno più spirito critico, sanno cogliere gli aspetti più sottili del Sistema».

E.P., stalinista inossidabile, pensava strabico. Guardava all'URSS con l'altro occhio agli USA. (Il

vantaggio delle agenzie in Italia, rispetto a quelle americane, era di trovarseli in casa i creativi

ruspanti rivoluzionari. Insieme a fotocopiatrici all’avanguardia… di talento. Le più belle campagne

italiane si potevano trovare nei volumi illustrati degli Art Direction americani, questione soltanto di

avere la pazienza di sfogliarli. In pratica, cambiava solo il nome del prodotto.)

Come la moglie dell’illusionista della famosa barzelletta. A furia di essere segata nel corso delle

varie esibizioni, se ne erano persi i pezzi, sparsi in giro. E. P. altrettanto.

Già non era facile essere contemporaneamente a New York e a Mosca, ebbene lui riusciva ad essere

anche oltre la Manica.

Infatti la rivoluzione la faceva in cashmere, che in sterline del Tamigi costava meno e era più bello

che in lire da Bardelli.

Senza contare che E.P. aveva anche lo spider, una Triumph, inglese. Perché «Solo loro sono capaci

di fare cruscotti in radica, così».

In tutta Milano di quegli spider non ce n'era che altri quattro.

Lotta per il parcheggio, e lotta di classe.

Aveva anche la donna, inglese (scozzese).

Probabilmente per tradurre le istruzioni per il cashmere.

Jane era magrina e difettava di seno. Ma bilanciava con virtù non per questo meno apprezzabili.

Come il buonsenso. A parte che aveva i capelli rossi, originalità che non guastava in un paese in cui

il rosso se non è di partito o dei tramonti, è di tintura.

C’era solo da capire come una tizia con il suo buonsenso, avesse potuto mettersi con E.P..

O meglio, come E.P. avesse potuto mettersi con una donna di buonsenso.

(A E.P. mancava d'inglese solo il fatto di capirlo. E un cane. A sua discolpa, non era ancora arrivata

la moda dei cagnoni pastore delle Highlands che si ordinavano in Scozia e si andavano ad

accogliere come parenti cari, all'aeroporto. Salvo a casa scoprire che lo spazio non c'era, che tutti e

due insieme non ci si poteva stare . Così che mettevi il cane a letto, e andavi a dormire all’albergo.)

No, non era un tipo simpatico.

Ma, fatto buffo, proprio dopo il licenziamento, anzi per via di questo, mi ero trovato a frequentare

E.P. anche fuori. Fuori dal lavoro.

Scherzi della vita. E della psiche.

Con questo, nessuno dei due parlò mai del fattaccio, dei retroscena e i motivi che potevano averlo

provocato.

Neanche fosse mai avvenuto.

E, quanto alla frequentazione, sarà stato che E.P. aveva tratti in comune con i Giorgio K. dell’ormai

lontano tempo. La stessa accortezza e diplomazia, qualità che sapevo di non possedere.

Solo che E.P. non aveva dei Giorgio K. la spensieratezza e creatività a escogitare frizzi e lazzi

appena fuori dall’ufficio. D’altra parte, anch’io non era più lo stesso.

Ero cambiato.

Svanite le euforie.

Mi era mancato anche mio padre.

Aveva inciso.

Anche adesso andavamo in Svizzera (a Locarno, per l’esattezza, non a Lugano), e E.P., passata la

frontiera, parlava francese.

Non voleva essere riconosciuto per italiano.

Gli italiani erano quelli dalle valige di cartone tenute insieme con lo spago. Scendevano dal Lecce-

Milano-Basel, a sciami urlanti, si sparpagliavano per le stazioni, gridando oscenità alle fraulein

bionde, si lasciavano dietro una scia di cartacce, scaracchi e bucce.

(Sulla porta di cinema e bar, capitava di leggere il cartello: «Vietato l’ingresso a cani e a italiani».)

E poi italiani e zingari rubavano. La stessa fama.

E.P. che era un grande divoratore di carne - bovina, manzo - sbavava davanti a una bistecca: E in

Svizzera si trovavano i filetti succulenti, quadrati, alti e spessi.

E.P. li ordinava in francese, forte di una remota permanenza (naufragata) a Parigi a far l’artista.

Fece carriera E.P., alla sua maniera, sulla scia di uno dei grandi personaggi del momento. Il quale

poi però (suo malgrado) lo dovette scaricare.

E.P. infatti aveva copiato un logo americano. Tale e quale. E non era tanto il fatto di per sé che,

come visto, ricorreva. Quanto il frangente. Qualcuno incastrò E.P. recuperando da un water

dell’agenzia la pagina incriminata all’origine del plagio e di cui E.P. in extremis si era sbarazzato.

E.P. finì radiato fuori dal giro. Riapparve a Milano anni dopo. Favorito dal tempo che aiuta a

dimenticare e a riciclare criminali nazisti e collaborazionisti/e puttane che trasforma in Alte

Cariche di Stato, bancarottieri e (evidentemente) anche pubblicitari caduti in disgrazia.

Fece in tempo, prima di morire (in età prematura) a rifarsi un posto onorevole: se si sta al

necrologio scritto da una giovane creativa su un noto giornale del settore.

La giovane creativa piangeva d’avere perso un insostituibile Maestro.

36.

Riuscii a rottamarmi.

(Rottamarsi non è espressione felice, riferibile a un essere umano, ma quale altra usare dato il

caso?)

E il passaggio avvenne anche rapidamente, nel giro di due settimane o poco più. E proprio alla

L*****.

Come da copione.

Stipendio ribassato, mansioni ridimensionate.

La cifra era pur sempre comunque superiore (e di parecchio) a quella di uno spazza-cessi. E, quanto

alle mansioni, l’organizzazione dell’agenzia era tale da costituire l’occasione per allargare le mie

esperienze.

Nonostante tutto, continuavo a credere a quel genere di mestiere e anche nel genere umano, e nel

mio programma stabilito inizialmente.

Si erano verificati dei ritardi. Antipatici contrattempi. È vero. Ma, in fin dei conti, non erano che

incidenti di percorso.

Così io mi consolavo.

Ho tutta una vita davanti, mi dicevo.

Risolsi anche il problema di mia madre. Che non venne mai a sapere del licenziamento.

Nell’agenzia da cui mi ero dimesso (licenziato) la pausa di mezzogiorno era di un paio d’ore.

Elastiche. A piacere. E ne approfittavo per mangiare a casa: non potevo mancare gli spaghetti col

buon sugo di pomodoro della mamma. (Mario al mercato continuava a esercitare la sua onesta

funzione di fedele fornitore. Unica variante: il Comune gli aveva imposto di spostare il banchetto da

via Poliziano nell’adiacente via Fauchè e la clientela, allargata nel frattempo, faceva ormai la fila.

Ma questo non aveva inciso sulla qualità dei pomodori.)

Adesso, però, nella nuova agenzia, la pausa meridiana era di un’ora e la distanza da casa era

aumentata. Le fermate di tram erano raddoppiate insieme ai tram da prendere.

Avevo sopperito correndo a casa in taxi e ingurgitando gli spaghetti in fretta e furia, con grande

stupore e disappunto di mia madre che non riusciva a capire il repentino cambiamento.

Spesso, però, per risparmiarsi taxi, soldi e ansia, telefonavo di dovermi trattenere. E, per mia madre,

anche questa era un’altra strana novità.

Ma poco male.

La novità finì assorbita.

37

Era l'agenzia della margarina e dei detersivi, e di parecchi altri prodotti. E la mission era insegnare

agli Italiani come fare a meno del loro ottimo olio d'oliva, del loro burro e del sapone.

Era la punta di diamante della moderna civiltà, e alle quattro del pomeriggio passava il carrello con

il tè.

Un certo tempo prima, la casa produttrice di cui l’agenzia era house agency era incappata in un

deprecabile infortunio: i grassi tutti e solo vegetali avevano condito tanto leggero che in Olanda

qualcuno era volato. All’altro mondo.

I grassi tutti e solo vegetali (avallati dall’eminente clinico di turno) continuarono comunque a essere

indicati quale condimento superiore. Salubre e gustoso. Raccomandato a difesa della linea e delle

arterie.

La margarina.

Per me era ritrovare una delle rivelazioni risalenti alla mia infanzia, a guerra finita. Quando i

panetti arrivavano con i pacchi UNRRA, insieme a tante altre novità.

Come l’evaporated milk, che però sciapo senza zucchero, non era come il latte concentrato

nostrano. (Dolce più del miele, denso e cremoso, il latte concentrato si usava diluito. Dosato a

cucchiaini. Da bambino, me ne sarei fatto tutto un barattolo ne avessi avuto il modo. Mi ci sarei

annegato al pari di una vespa, cosa che feci in parte. Quando, non resistendo, in piena guerra, me

n’ero fregato un barattolo dalle scorte previdentemente accantonate da mia madre. L’avesse

scoperto!)

L’evaporated milk resterà indelebile nella mia memoria per la confezione dall’etichetta metà

bianca e rossa, il grande garofano e il logo Carnation. E per tutte le scritte in quel magico idioma

così esotico ch’era l’inglese. (Misterioso e nuovo perché bandito per anni dal fascismo in quanto

lingua dell’odiato nemico.)

Ma tra le novità UNRRA c’era anche la farina di piselli.

Tutta roba sconosciuta che mia madre maneggiava curiosa e nel contempo circospetta.

Arrivavano anche le scarpe, anche loro così strane. Massicce, di tutto cuoio, spesso, con i lacci e il

puntale. Doppia suola. Anni dopo sarebbero diventati gli esemplari della moda più esclusiva e

ricercata. Col nome di Saxon e Church. Dal prezzo esclusivo altrettanto.

(Corsi e ricorsi.)

La Pubblicità stava guadagnando spazio. Diventando la stazione dove, questione di tempo, era

destino che tutti ci dovessero passare. Poco o tanto. O a vario titolo.

Campionata in Pubblicità c’era tutta l'Italia che approdava in quegli anni a Milano. Con laurea o

quinta elementare, non importa. (Un tizio ha fatto carriera col diploma di coiffeur.)

C'era il clan dei toscani, di quelli di Parma, dei genovesi e dei giuliani. C'era perfino qualche

milanese.

L'Italia meridionale era rappresentata in polizia e nei cantieri, ma sono settori tra i pochi che non

hanno a che fare con la Pubblicità. Anche se l'ho incontrato un copy, di San Severo.

Il copy aveva preso il treno a San Severo per andare a Roma a scrivere film, e s'era trovato alla

Stazione Centrale invece che a Termini. Non aveva i soldi per un altro biglietto, così era finito in

Pubblicità, a Milano.

In realtà, ne avevo trovati altri due pure pugliesi.

Uno portava il colbacco (anche d’agosto) come Totò a Milano nel famoso film. E a chi gli si

rivolgeva per la strada in milanese, rispondeva: «Nicht verstanden». In tedesco.

(Il primo slogan che ha scritto, c’è da giurarlo, è stato A prescindere….)

Morale: tutta l’Italia, prima o poi, passava da Milano, dove tutti passavano prima o poi dalla

Pubblicità, dove tutti passavano prima o poi all’agenzia dov’ero approdato.

38.

Sul pianeta si moriva di fame ed io all’agenzia dei detersivi e della margarina – io, ape laboriosa e

di talento, secernevo il mio di miele.

Particolare.

Riguardava i grassi senza calorie.

Fortunata te, così snella, scrivevo, con la coscienza tranquilla di cannare la grammatica, ma non il

messaggio.

Certo, le calorie in meno, sarebbe stato forse opportuno dirottarle in Africa, dove per quanto afosa e

calda, le calorie difettano.

Ma erano pensieri che non avevano il tempo di attecchire – io e compagnia bella eravamo troppo

concentrati. Mirati a traguardi ben più vicini di quell’Africa nera, così remota e tanto oscura.

A me bastava, in nome della salute, spaventare la gente con lo spauracchio dell'infarto. (A rischio,

sul serio, di farglielo venire.)

Cosa non si fa per la carriera.

39.

Nell'agenzia in cui si riusciva a fare felice tutta una nazione con la margarina e il bianco del bucato,

era però facile essere infelici.

Testi e bozzetti andavano e venivano dal cliente, sempre gli stessi, avanti e indietro.

Fai e disfa.

La tela di Penelope.

Fosse un ping-pong! riflettevo.

La pallina, almeno quella, l’avrebbero cambiata.

La sala riunioni, l’ormai ben nota meeting room, era assimilabile a un aeroporto. Con pista al

centro, un tavolone.

Si sapeva quando si atterrava. Non quando se ne ripartiva.

I partecipanti non erano meno dei passeggeri di un Jumbo.

Arrivava infine il direttore scozzese in una nuvola, i fumi residui di una notte arguibile.

Si stravaccava, allungava le gambe sul tavolone. E, pazienza la noncuranza per i presenti, ma l’onta

per il tavolo, che valeva da solo gli emolumenti delle eccellenze assemblate in quel momento.

Il direttore scozzese subito si copriva gli occhi con le mani. L’aria di chi si immerge concentrato a

meditare.

In realtà, recuperava il sonno perso.

ROMM-ROMM, ogni tanto emetteva un grugnito, accompagnato da vaghi movimenti della testa.

Mentre tutti discutevano tra loro accaniti.

Il suo vice italiano - nel dubbio che movimenti e grugniti esprimessero giudizi riferiti alla

discussione in corso – li accompagnava con moti di diniego o di consenso. In sintonia.

Poteva capitare che il movimento della testa o il grugnito del direttore fosse difficile da interpretare

per il vice italiano, e questi allora si produceva nel più strabiliante dei contorsionismi: riusciva a

riunire consenso e diniego in un solo cenno.

Mai visto collo più snodato, mi dicevo, ammirato se pure disgustato.

Era un’altra pagina di vita che si aggiungeva al mio sempre più nutrito dossier.

Bastava un dettaglio, una foglia d’insalata.

Non importa se relegata sullo sfondo di una foto. (Still life, il termine tecnico ovviamente inglese).

Toglierla o lasciarla, la foglia?

E se sì, come renderla evidente?

Anzi no, sfumarla?

Magari flou.

(Flou altro termine risolutore, magico.)

Salvo concludere che non era il tipo di insalata più idonea. E quindi discutere se era più

rappresentativa una foglia di lattuga o di scarola.

Le vie della creatività sono infinite e la foglia costava riunioni, scatti, fotografi stressati allo

spasimo e infine ripudiati, cespi acquistati a cassette (l’equivalente di un patrimonio) da un certo

verduraio in Montenapoleone le cui vetrine non avevano niente da invidiare ai gioiellieri della via.

Perché solo lì si reputava di trovare la verdura e i frutti perfetti, coreografici, all’altezza.

(Altro che i pomodori di Mario al mercatino di via Fauchè.)

Ebbi modo di imparare che non c’è come lo zelo ispirato di un probo e mediocre funzionario perché

le idee più brillanti, proprio in quanto tali, vengano prima mutilate.

Poi segate.

40.

Tutti discutevano attorno al tavolone.

Creativi, account, media e marketing.

Approfittavano dell’occasione per manifestarsi reciprocamente, con tatto, il proprio odio.

Fino a che il direttore scozzese si riscoteva.

Si scrollava sulla sedia.

Si toglieva le mani degli occhi, se li stropicciava, e riponeva le gambe sotto il tavolo, come si

addice a un rispettabile cristiano.

Il direttore scozzese si raddrizzava nella poltroncina, si schiariva la gola e prendeva la parola.

Nel silenzio che calava.

Solenne.

Immediato.

Parlava pacato il direttore. Autorevole come un libro stampato. Ma mal tradotto. I mozziconi anglo-

italiani disinvoltamente uniti risultavano normalmente incomprensibili. D’altronde, erano

inappellabili. Non era ammessa discussione.

Io ascoltavo, non capivo, obbedivo: Oh, Yeeeeessssss!

41.

Finivo col pensare ai candelieri antichi, a casa.

Trasformarli in abat-jour? O tenerli com'erano?

Che così antichi forse non stava bene metterci il cappello.

Reagivo alla pubblica noia dandomi al privato.

M’ero buttato a comperare ogni sorta di testimonianza del caro buon tempo antico. Fosse un

portacandela rozzamente abbozzato o una maniglia della porta di una stalla.

Una mania.

Mi davo al passato in assenza di un presente soddisfacente, anche se furono i giorni gloriosi in cui

presi la patente, e scopersi che c'erano più pali che strada, per la strada.

Non mi era ancora capitato di vivere giorni uguali così uguali, e ricorsi alla risorsa di darmi

ammalato.

Solo che non potevo insistere a fare l’influenza quando l'epidemia era passata e la nuova nemmeno

annunciata.

Non restava che una sana licenza.

Matrimoniale.

42.

«Non pensi che sarebbe ora di addivenire a giuste nozze?» disse Cati.

«Mah… Non lo so, non riesco proprio a immaginarmelo» dissi.

Mi guardavo la punta delle scarpe. Gli occhi fissi. Non che ci fosse niente di speciale da guardare.

Ma era dal tempo press’a poco dell’insonnia che il vezzo mi aveva preso.

Abbassavo lo sguardo, di colpo, e l’interlocutore, a sua volta, mi imitava.

Di riflesso.

Salvo accertare che niente giustificava la fulminea virata dello sguardo.

Era l’occulto richiamo di Satana dall’inferno?

L’avvertivo nelle mie suole?

Ma Cati non aveva abbassato il proprio sguardo. L’aveva tenuto fieramente alto, e dritto.

Occhi negli occhi.

Miei.

«Qual è la difficoltà» dissei. «Ce n’è qualcuna in particolare?».

Parlava decisa.

L’aria di una: Io sono qua, ragazzo! Prendere o lasciare.

Il mio primo pensiero fu mia madre.

43.

Ultimamente, passavo i week-end con Cati, via da Milano.

Dal venerdì al lunedì.

Giravamo sui Laghi o nell’Oltrepo’, in collina, e mia madre mi aveva augurato di finire sfracellato

con la 500. (Esattamente: a una passaggio a livello contro un treno.)

Mia madre, non disponendo di altre armi, chiaramente si affidava all’ultima estrema: quella che lei

reputava la giustizia delle giustizie, la massima riparatrice, la Giustizia Divina.

Probabilmente, s’era detta, meglio rimpiangere un figlio morto che piangerlo vivo, sposato: preda di

una poco di buono che lo avrebbe distrutto e portato alla tomba prematuramente.

Nell’ottica di mia madre la tomba era ormai il traguardo ineluttabile del figlio. Tanto valeva che ci

finissi al più presto. Per il mio stesso bene

Si sarebbe risparmiato l’inutile agonia di un matrimonio scellerato.

Ne ero restato doppiamente impressionato.

Per la portata dell’anatema, terrificante, da profezia biblica.

Ma nel contempo, mi aveva colpito l’eccezionale vis dramatica di cui mia madre poteva essere

capace.

Non aveva potuto fare a meno di ammirarla.

Mia madre aveva dato un’ennesima prova di talento. E in duplice ruolo, di autrice e attrice.

Degna dell’antico teatro greco di Siracusa, tempio della tragedia per antonomasia. E non certo di un

angusto cucinotto di via Mac Mahon, con la Fòrmica pallido-gialliccia e la vista sui binari delle

Nord Milano.

(Probabile fonte d’ispirazione.)

La mia ammirazione era sconfinata in auto-compiacimento.

Se quella era mia madre, io ch’ero il frutto di tanto albero….

44.

«Qual è la difficoltà?» disse Cati. «È per tua madre?».

Ma io l’aveva già cassata dalla testa. Mi era durato il tempo di un flash. Giusto per dirmi ch’era io

ad andare a letto con Cati. Mica mia madre. Toccava a me decidere.

Ero animato ancora una volta dallo spirito della sfida. La grande sfida iniziata i giorni lontani del

Mettiti il cappello! ed ora più che mai al picco.

«No, no – risposi -, non è per mia madre».

«No, no» ribadii, e scrollai le spalle.

«E allora… Cos’è?» disse Cati.

Esitavo.

Infine mi decisi: «Mm… E le forchette… E...?».

«Già ci sono, se è per questo» disse lei. «Anche i cucchiai».

«Apposta esistono i negozi di casalinghi – aggiunse -, basta entrarci.»

«Già» convenni.

E così, com’era facile dotarsi di forchette e di cucchiai, scopersi ch’era altrettanto facile trovarsi su

un altare.

45.

In nome omen?

In don Felice niente rivelava niente del suo nome.

Il viso torvo.

Di un’infelicità che trapelava radicata. Accentuata dagli anni e dagli acciacchi. E da una dentiera

ribelle. Che minacciava di schizzare in faccia agli sposi ad ogni passo della lettura del messale.

Don Felice saltava intere frasi, le rimanenti biascicate. Divorate dalla fretta di concludere.

Perdeva il segno ad ogni giro di pagina. E il chierico si affrettava a indicargli i capoversi persi.

Il chierico era un uomo maturo, in grado di governare e di supplire. D’altronde, il vecchio buon

prete aveva affrontato la cerimonia di malavoglia, irritato. Pronto a contrariarsi al minimo

imprevisto, incurante del fatto che fosse proprio lui a provocarlo.

Gli mancava di esplodere in orribili bestemmie, si capiva ch’era stufo di celebrare nascite e morti e

unioni di questa indegna razza umana, di omologare promesse e giuramenti disattesi da chi li aveva

proferiti, subito dopo, già appena fuori dalla chiesa.

E Cati ed io gli eravamo piombati davanti, alla spicciolata. Come due ladri inseguiti dai carabinieri.

Vestiti con i vestiti della festa. Ma i più improbabili. Rimediati dal fondo dimenticato di un

armadio. Indossati l’ultima volta chissà quando. Forse a un funerale. Potevano puzzare anche di

morto. Questi vestiti. Buoni solo per le tarme.

Niente veli candidi. Strascichi. Passerelle. Genitori. Suoceri, consuoceri. Parenti. Invitati. Gente.

Niente fiori.

Una testimone della sposa s’era precipitata fuori dalla chiesa per rimediare il tradizionale

mazzolino. Almeno quello. (Preoccupazione che non poteva essere che di matrice squisitamente

femminile.)

Il guaio: tutt’attorno non c’erano che officine e fabbrichette - la chiesa essendo di periferia, la

laboriosa periferia nord-Milano, anni Sessanta. Era più facile trovare bulloni di un certo preciso

calibro che gigli o violette. Ma la pervicacia aveva vinto.

La testimone era riapparsa con il mazzolino. Unica minuta nota di colore.

Il cielo basso e grigio.

Milano aveva contribuito alla festa a suo modo.

Con la nebbia.

Matrimoni per amore, matrimoni per forza,

ne ho visti d’ogni tipo, di gente d’ogni sorta.

Di poveri straccioni e di grandi signori,

di pretesi notai, di falsi professori.

Eppure se vivrò fino alla fine del tempo,

io sempre serberò il ricordo contento

delle povere nozze, di mio padre e mia madre,

decisi a regolare il loro amore sull’altare.

Fu su un carro da buoi, se si vuole esser franchi…

Cerimonia originale, strano tipo di festa…

Ecco, cade la pioggia da un cielo mal disposto,

deciso ad impedire le nozze ad ogni costo...

Per la gente bagnata, per gli dei dispettosi,

le nozze vanno avanti, Evviva, W gli sposi!

(testo e musica di Georges Brassens, traduzione di Fabrizio De Andrè)

Era un giorno feriale qualsiasi e i testimoni avevano dovuto chiedere il permesso per assentarsi dal

lavoro. L’occhio all’orologio, appena finita la cerimonia, erano spariti.

Erano restati solo loro due, gli sposi, e il mazzolino di fiori.

Il cielo, sempre quello di Milano, di gennaio. Basso e grigio.

Era mezzogiorno, e lo stesso, la nebbia compatta resisteva.

Gli sposi non potevano saperlo: sarebbero restati insieme, così, da allora. Sempre.

46.

Erano tutti ragazzi della stessa età, più o meno, lì dentro. Qualche volta lavoravano, ma per lo più

passavano le ore a fumare e a chiacchierare. C’era l’aria condizionata e non si potevano aprire le

finestre, ma loro, specie d’estate, ugualmente qualcuna l’aprivano.

Fuori non c’era niente da vedere, se non altri palazzi anonimi, tirati su dopo la guerra, sulle macerie

delle vecchie case di ringhiera. Anche l’aria da fuori era illusione. Ma forse la basculante aperta

faceva loro pensare di vivere meno in prigione.

Erano uffici dove tutti si vedevano tutti. Open office. E avevo imparato che il mio vicino di tavolo,

art o copy che fosse, non ti voleva necessariamente bene. Così apettavo solo di tirare sera, e il fine

settimana.

Adesso in Svizzera ci andavo con Cati.

Avevo rimosso l’anatema della madre.

Non mi ero impastato contro un treno.

«Siamo una generazione fottuta, a noi toccano solo gli avanzi» disse uno dei copy, Giuseppe A..

Avrei voluto obiettargli. Ero convinto che ci fosse ancora spazio.

A differenza di quest’altro, avevo partecipato nel corso del mio peregrinare, a lanci epocali. Non

importa se relegato ai margini.

L’avvento dei surgelati, della fotocopiatrice, del colore in televisione e della macchina fotografica

che riprendeva e subito stampava…

Certo, i vecchi (che poi erano più grandi di una decina d’anni, al massimo, non di più) avevano fatto

in tempo a piazzarsi, in cima all’albero. Tenevano banco e le fila, stavano in contatto tra loro, da

un’agenzia all’altra. Poteva sembrare anche una mafia. Ma pensavo che lo stesso c’era il modo.

Comunque, per tutti, vecchi o no, erano finiti i colpi facili. Del Far West ch’era stata la Pubblicità ai

primordi.

Di quei primordi circolavano storie, assurte al livello di leggende.

Si narrava di un certo art director (uno dei primi a essere considerato tale) a cui l’agenzia aveva

messo a disposizione tanto di macchinone con autista (in divisa) per il tragitto casa-agenzia.

Un altro, aspirante giornalista auto-elettosi copy, s’era fatta la Buick col lavoro di un paio di giorni,

per una campagna.

Se ne vantava, esibiva la Buick: «Leccala - diceva -, e sentirai tutto l’aroma e la fragranza del buon

tè A**. Dal paraurti davanti ai fanalini dietro».

(L’art, era finito giusto a sopravvivere: in uno studiolo, in proprio, in periferia, con lavoretti passati

da colleghi comprensivi. E il copy, per campare, s’era dovuto inventare un giornaletto di

pettegolezzi sull’ambiente. Del giornaletto lui era direttore, redazione, segretaria e fattorino.)

Giuseppe A. covava ambizioni letterarie. Occupava il tempo libero a mettere insieme una specie di

rivista culturale (titolo «Billy Budd», a simbolizzare una sua cervellotica teoria). Ma Giuseppe A.

dipingeva anche, seguiva le avanguardie, e s’era affittato uno scantinato, per atelier.

Io scotevo la testa ad ascoltarlo.

Da tempo avevo smesso di leggere i buoni autori. Ero passato alla saggistica, infine avevo smesso

di leggere del tutto. Eccetto le riviste che arrivavano in agenzia: praticamente tutte le più importanti

dell’emisfero occidentale: maschili, femminili, italiane ed europee e americane. Da «Grazia» a

«Paris Match» a «Look» a… a… a.

Il comportamento usuale di un normale lettore di giornali, che non sia fuori di testa, è di leggere gli

articoli e saltare la Pubblicità. Ignorarla. Io facevo il contrario.

Sfogliavo furiosamente e alla vista di un annuncio, mi bloccavo. Lo studiavo. Vivisezionavo. E, se

lo giudicavo meritevole, mi accertavo che nessuno mi vedesse, per strapparne la pagina. Che

riponevo e conservavo religiosamente.

Hemingway, sepolto.

«Tanto, tutto quello che c’era da scrivere è stato scritto» dicevo a Cati.

«Eppure erano simpatici quei tuoi raccontini gialli che scrivevi da ragazzo» lei mi diceva.

«Oh!» scrollavo le spalle. Infastidito. Come se Cati mi

rispolverasse debolezze vergognose.

Perché ero ormai assorbito dal Verbo della Pubblicità. E guardavo ai colleghi con sufficienza: loro,

campioni di incoerenza, che usavano la Pubblicità per sopravvivere ma nel contempo si

lamentavano di essere usati. Loro, che si sentivano chiamati a generi più nobili, Letteratura e Arte,

maiuscoli.

Puah!

Il risultato, secondo il mio punto di vista: non erano professionisti affidabili né artisti. Ma solo dei

presuntuosi. Che pretendevano applausi e considerazione. Sempre e comunque. Qualsiasi conato

(anche pubblicitario) sbrodolassero.

Quando mi arrivò un’offerta non aspettavo altro.

Stavo alla L***** ormai da più di un anno, quasi due. Un record.

Non c’era nemmeno più mia madre a incombere, e Cati era un’ottimista senza remore.

Cercavano «Giovani Leoni».

Ruggii.

48.

«Conosci David Ogilvy?» esordì il più grande dei due soci.

Annuii.

Oh sì, se lo conoscevo!

«Bene, è così che noi lavoriamo» disse il più grande dei due soci.

Disse: «Quella campagna di Ogilvy “A 60 miglia all’ora il rumore più forte sulla Roll Royce è il

ticchettio dell’orologio”…. Senti: non è una bomba?..».

Il fantasma di David Ogilvy aleggiava. Imponente. Indisponente.

Evocato senza ritegno, limite e pudore. Dal socio più grande.

All’apice dell’esaltazione. Ci si era impersonato, Ogilvy era lui.

Finalmente passò ad altro.

E mi sentii lieve, liberato.

«Vedo che ci capiamo, siamo sulla stessa linea, stesso feeling» concluse il socio più grande.

Il socio più piccolo faceva eco all’altro. Ne ripeteva ogni volta le parole. E avrei dovuto rilevarlo.

Invece non volli farci caso.

Omissione non da poco.

Perché era indizio di una situazione anomala. A cominciare dal vizio di partenza… che tutti e tre

eravamo più o meno della stessa età. Messi insieme non raggiungevamo i cent’anni. Il che… poco

male si fosse trattato di combinare una rissa in discoteca. Ma invece era un’azienda. Sebbene di

Pubblicità.

È che avevo deciso già in partenza.

Già al telefono.

Prima ancora di incontrarli.

E quando poi appresi che l’assunzione avveniva con tanto di contratto bollato, nero su bianco,

partecipazione agli utili oltre allo stipendio, DIRETTORE CREATIVO!…

Incominciai.

E subito accertai che non c’era alcun reparto da dirigere. Le uniche altre anime a comporre

l’agenzia erano quattro individui dal ruolo mutevole.

Anziani.

Mummie.

Trafugate da chissà quale museo.

Superai lo sconcerto. Proseguii, indefesso. Anzi, mi dissi: Meglio così. Essere direttore di sé stessi è

più pratico. Semplifica. Avrò la certezza che i miei ordini vengano eseguiti. E senza defatiganti

discussioni. Rimostranze. Odiosi strascichi.

E poi, ero o no un giovane leone?

Sentirsi giovani leoni era facile.

Era la zona.

Al di là della piazza, c’erano i Giardini Pubblici con lo zoo. E, pressoché di fronte, al posto delle

ex-Ferrovie Varesine, sorgeva un circo stabile.

Non essendoci account, dal cliente andavamo direttamente io e il giovane padrone.

Ci andavamo in tutti i modi contemplati dalla moderne tecnologie nel campo dei collegamenti:

aereo, treno, taxi ma soprattutto sull'Alfa coupé condotta dal giovane padrone.

Andare sull’Alfa coupé, con giù la capote, capelli al vento, sarebbe stato anche eccitante. Se non

fosse bastata la prima curva: ebbi chiaro che il giovane padrone era affetto da manie suicide.

Quando poi ne conobbi il padre, capii le ragioni suicide del figlio, e le condivisi.

Comunque, non mi andava che il giovane padrone si annientasse insieme a me che non c’entravo.

Il vecchio (il padre) era un genialoide collerico pazzo che aveva prodotto campagne obiettivamente

meritevoli.

Il problema: aveva mollato la baracca e non ce la faceva a rinunciarci. Non s’era rassegnato a

mettersi da parte.

D’altronde, il vecchio, che non voleva saperne di morire, aveva buon gioco sul figlio a cui mancava

poco a essere morto.

Il vecchio arrivava, passo felpato, compariva a tradimento. Allungava lesto l’occhio sui bozzetti

sparsi per lo studio. E subito inveiva. Strillava. Redarguiva.

Il figlio tentava di sbarrargli il passo. Protestava. Mentre il socio più grande si eclissava.

Finiva col lancio da parte del vecchio di un pesante cavaliere, un soprammobile, di bronzo

massiccio.

Da tempo il cavaliere aveva perso elmo e spada. Il cavallo non ancora.

Disarcionato dal lancio, il cavaliere veniva puntualmente raccolto e messo in sella.

L'aspirante suicida era diventato abile a schivarlo, ma io non ancora. Abituato a operare sui

meridiani di Rotterdam, New York e Londra, fui colto dal dubbio: Cosa ci sto a fare, qui, in questo

Vietnam?

Non mi capitava mai di vedere Cati prima della mezzanotte. Quando non era l’alba.

Come quella volta: arrivato al Cimitero Monumentale, la 500, tornando a casa, si bloccò.

Avevo occupato il resto della notte ad arrancare, a piedi.

Poi.

La notte è calda, calma. Se ne coglie l’ansimo. Attraverso la finestra spalancata.

Su Piazza della Repubblica.

Sudo e creo.

Il foglio candido, davanti, attende solo d’essere violato. Mentre la mia mente corre a David Ogilvy.

Ne risento le celebri parole: «Volete il successo? Claude Hopkins ne ha avuto perché, come egli

stesso asseriva, lavorava il doppio delle ore lavorate da qualsiasi writer».

Bene, mi chiedo: Io di ore, oggi, quante ne ho lavorate? E ieri, e l’altro ieri? E tutti i giorni prima?

A quest’ora dovrei avere un successo che…

Mi riscuote lo scandire di una campana nella notte.Riconosco ormai le ore e le mezz’ore battute da

ogni campanile.

Vado in bagno a rinfrescarmi.

Mi soffermo allo specchio e mi osservo. Abituato a darmi ordini, direttore di me stesso, ormai mi

parlo ad alta voce. «Chi sei? – dico -. Chi è la vecchia che ho davanti?».

Perché quella che vedo è la faccia di una Penelope. Una Penelope che, a forza di aspettare la volta

buona, è vecchia da buttare. Del resto, di là, sul tavolo, c’è la tela di parole composte nell’arco di

ore. E il cui destino è quello di essere disfatta. Domattina. Dai due cari ragazzi soci.

Prima delle dieci e mezza, undici, non si fanno mai vedere. E così sarà anche domani…

Undici e un quarto.

«Non ci siamo» dice il socio più anziano.

Pausa.

«Io non imposterei la campagna in questo modo».

Pausa.

«No, no, non è roba alla David Ogilvy».

Pausa.

«Cosa farebbe David Ogilvy?... Prova… Prova a immaginarlo».

Il socio più giovane annuisce. Ogni volta si riassesta gli occhialetti e fa da eco.

La mia risposta arrivò, subitanea e muta: afferrai la scrivania dietro la quale stava il socio anziano.

Gliela rovesciai addosso.

Cati, a casa, ritrovandomi in pieno mezzogiorno, sbatté gli occhi. Stentava a riconoscermi.

«Lei afferma d'essere quel signore che a una certa ora della notte si infila nel mio letto?» mi disse.

Attonita.

49.

«Tu, col carattere che hai, non sei fatto per lavorare sotto gli altri» mia madre gli aveva detto,

appreso che ero in Pubblicità.

Me l’aveva detto incurante di smentirsi clamorosamente. Dimenticando i discorsi profusi per farmi

andare in banca.

Mia madre aveva aggiunto: «Non c’è come una mamma per capire: sapere TUTTO di suo figlio».

Le parole scandite. Il dito indice puntato verso il cielo. Come i Sommi Profeti dalla cima delle

montagne: In verità, in verità vi dico…

A mia madre piacevano le solennità.

Mia madre aveva azzeccato la prima parte del discorso ma aggiunto un’affermazione che, prudenza

vuole, nessuna mamma (o genitore) dovrebbe mai profferire.

Non c’è come una mamma per capire: sapere TUTTO di suo figlio.

Avevo sogghignato: Lei dice di sapere ma sapesse veramente!

In effetti, se tutti gli scheletrini accumulati nell’armadio mi fossero usciti...

50.

Sigarets, ciocoleit e ciu-uingum.

Volendo, quegli anni dopo la guerra si potrebbero raccontare con le sigarette.

Sono state le grandi protagoniste: le Blue Ribbon, insieme alle Gold Dollar e alle North State, e le

Liberty con le stelle e strisce della bandiera americana sul pacchetto giallo.

Le Gold Dollar avevano il pacchetto verde con una moneta dorata che brillava e le «North State», la

confezione arancione in cui era impressa una mappa di certi stati americani.

Me c’erano anche le Turmac, dal pacchetto piatto, di cartoncino pretenziosamente patinato e il

tabacco orientale leggero, biondo. Preferito di solito dalle signore, che lasciavano sui mozziconi

l’impronta di rossetti di un carminio impossibile.

Tutto quel ben di dio di sigarette, piovute improvvisamente!, espressione di latitudini remote, la

confezione viva e colorata, la carta d’argento dentro… Si contrapponevano ai pacchetti di carta

grezza, stampata sbavata grossolanamente, delle Alfa e delle Nazionali.

Le sigarette erano le ambasciatrici (contrabbandate) di un benessere sconosciuto che veniva

promettente da lontano. Conferivano, a chi riusciva ad appropriarsene, un’illusione di ricchezza.

Almeno per un attimo. Non importa se giusto per il tempo di finire in fumo.

Il tabacco del Monopolio di Stato era uno schifo scuro, equivoco, puzzava di stallatico e ci si

trovavano costoni che sembravano usciti da una pialla.

D’altronde, gli ultimi tempi della guerra, c’era gente che, in assenza d’altro, si faceva le sigarette

con la carta di giornale e dentro le barbe di pannocchia.

Capitava di sentire ripieghi e surrogati incredibili.

In compenso, le Alfa, che richiedevano polmoni e stomaco d’acciaio, erano le sigarette più a buon

prezzo.

Già.

Perché le sigarette si comperavano anche sciolte, a una, due, tre per volta. I tabaccai tenevano sul

banco un contenitore diviso in scomparti con dentro lo sfuso, diviso tra il paio di marche più

richieste.

La gente si adeguava ai soldi in tasca che non c’erano. Così rimediava, fumava a puntate. Due o tre

tirate di sigaretta, per volta. Il mozzicone conservato religiosamente per il prossimo irresistibile

ritorno della voglia.

Il residuo veniva profondamente aspirato, voluttuosamente, fino al fondo di ogni fondo. Da

bruciarsi le dita.

Il filtro sarebbe stato introdotto parecchi anni dopo, con il benessere. Fino a quel momento, i

fumatori si distinguevano per le dita ingiallite dalla nicotina. L’indice e il medio della mano destra.

Comparve nell’elenco dei mestieri, quello del raccattatore professionale di cicche.

Di solito, erano vecchietti, stracciolenti, ma arzilli e agili, molto simili al Capannelle de «I soliti

ignoti».

Si muovevano veloci e attenti tra la folla. Si chinavano rapidi, uccelli rapaci sulla preda, la cicca in

questo caso.

I più attrezzati si avvalevano di un bastone predisposto con uno spillo sulla punta.

Battevano le vie più eleganti del Centro di Milano o adiacenti a hotel e stabili di lusso: per via della

gente abbiente che li praticava, i cui mozziconi gettati per la strada erano notoriamente di

dimensione superiore alla media.

Se capitava di azzeccare la fortuna di uno straniero con la sigaretta in bocca (gli stranieri

incominciavano a calare dalla Svizzera, dal Nord Europa e dalle due Americhe), il raccattatore

pazientemente lo seguiva fino al fatidico lancio della cicca.

I più ambiti comunque erano i soldati americani: loro, le sigarette, erano capaci di buttarle già dopo

tre tiri.

Circolava voce che il tabacco così recuperato fosse riconfezionato in sigarette spacciate come

straniere, originali.

Era il famoso trinciato marciapiede.

Così chiamato, a livello popolare.

Sigarets, ciocoleit e ciu-uingum. La svolta. Nella vita nazionale.

L’ambito tabacco biondo dall’aroma inconfondibile. «It’s toasted», scritto sulla confezione.

Chesterfield, Lucky Strike, Philip Morris, Camel. La quaterna. Classica. Vincente.

Lanciate dai carri armati della Quinta Armata alla folla plaudente, la stessa che solo poco tempo

prima aveva applaudito il contrario, cioè l’invito a combattere e vincere quegli americani. (Così va

il mondo.)

Ma adesso non poche signorine non disdegnavano di barattare le proprie virtù in cambio di un

stecca di Filip o di Laki.

Qualcuna se l’è poi anche sposato, il fruitore delle grazie.

Qualcun’altra, invece, si è accontentata di contare su una fonte di sostentamento, per sé e per

magari anche la famiglia.

51.

Le americane, me le procuravo da un elegante signore, meridionale di Salerno, dal cappotto di

sartoria, taglio perfetto, alla moda. Doppio petto, il bavero alzato di quel tanto, come allora usava.

L’acconciatura inappuntabile.

Stazionava sul tratto di marciapiede davanti alla sede delle Poste, in piazza Cordusio, e mi

premuravo di intercettarlo all’uscita dalla scuola, ch’era poco distante, al Carrobbio.

Era un vero Signore, sotto ogni punto di vista. Anche quando, le mani affondate nelle tasche del

cappotto, si insinuava tra la gente che passava frettolosa, sussurrando: «Sigaretteee…».

Lo diceva con stile, la nonchalance di un baronetto, benestante e annoiato, che, tra tanti hobby, ha

preferito scegliere la strada e il contrabbando piuttosto che la caccia alla volpe o la monotonia di un

Club.

Signore lo era anche con me che altro non ero che un ragazzo.

«Quanti spicci tieni?» buttava là, mentre abbracciava con un solo colpo d’occhio la piazza fino al

suo ultimo orizzonte. Lo sguardo indifferente, in realtà, vigile. Caso mai si profilasse la Finanza. In

divisa o in borghese. (Occorreva occhio, e una forte sensibilità per esercitare il suo mestiere, e

anche concentrazione. Se non altro, per non sussurrare «Sigaretteee» all’orecchio sbagliato.)

In base alla lira di cui disponevo, il Signore signorilmente combinava di renderla adeguata.

Giostrava tra crediti e anticipi passati e presenti, compensava, arrotondava, aggiustava. Alla fine di

conti rapidi e scotimenti di testa, la mano gli scivolava all’interno del paltò, per tornare fuori subito,

discreta, col tesoro.

Ma, per quanto imbarazzante, non si può non ricordare l’esistenza di una seconda fonte di

approvvigionamento: un donnone dal viso largo, il sedere largo, i polpacci larghi, il seno ampio.

Due guanciali.

52.

Il donnone - di cui non seppi mai peraltro il nome pur frequentandone la casa - era la moglie del

ciabattino col negozio nella strada dove abitavo.

Mia madre mi mandava a portarci le scarpe, sebbene poi a riparazione avvenuta, ci andasse lei per

via del prezzo che trattava e riduceva. (Come da sua inveterata generale abitudine.)

Impossibile ricostruire come sia arrivato alla moglie del ciabattino e abbia appurato che smerciava

sigarette.

Resta che ci andavo.

E a costo di superare più di una remora.

Innanzitutto, la casa del donnone stava relativamente vicino alla mia. Nello stesso quartiere. E

quella era l’epoca in cui si era tutti, più o meno, noti l’uno all’altro. Ma, ad aggravare, c’era anche il

marito di un’amica di mia madre.

Questi (il marito dell’amica di mia madre) conduceva un’officina di manufatti per le Ferrovie, che

si affacciava sullo stesso cortile dove, in una casa bassa di ringhiera, il donnone abitava.

Dovevo così passare davanti all’officina, sotto gli occhi di quel tizio. E il punto: a casa mia

ignoravano che lui fumassi e, peggio, il genere di frequentazioni e le illegalità che il mio fumare

comportava.

Mia madre lo avesse scoperto, lo avrebbe giudicato doppiamente colpevole, davanti a Dio e agli

uomini.

Nei confronti di Nostro Signore, trattandosi di un vizio (un peccato) tanto più riprovevole data la

mia età.

Nel confronto degli uomini, in quanto ne infrangevo le leggi.

Per non parlare della qualità delle persone con cui il vizio mi metteva a contatto.

Il ciabattino aveva l’aria dimessa, pochi radi lunghi capelli appiccicosi e le croste, visibili sul cuoio

capelluto, scoperto in buona parte.

Doveva essere malato, ne aveva l’aria, parlava con voce flebile nasale. Ed era costantemente scosso

da furiosi scoppi di tosse, tra una boccata di sigaretta e l’altra.

Fumatore accanito, teneva il mozzicone acceso sempre, ai bordi del deschetto. Pronto.

Era meridionale, mentre il donnone, chiaramente di origine lombarda, sembrava detenere tutta

l’energia di cui era privo il marito. Mi piantava gli occhi addosso e io reagivo provando un

accavallarsi di oscure sensazioni. Ricambiavo le occhiate annegando lo sguardo nel seno

trasbordante del donnone. (C’era il solito Edipo, di mezzo. Chiaramente. )

Anche perché lei, la donna, era dolce con me. Abbandonava i modi bruschi che le erano usuali con i

figli piccoli che le giravano attorno, grondanti moccio, o con gli altri, le persone in genere.

Mi sembrava quasi di cogliere un invito.

Da tempo ero nell’età delle furiose ebollizioni. E delle fantasie. E le compagne di classe, come pure

le ragazzine del quartiere, erano elusive, e distanti.

Già la loro presenza era una concessione che facevano sospirare e pesare. Tanto meno offrivano un

appiglio che consentisse di acchiapparle.

(Qualche anno dopo, uno dei miei amici con il privilegio di lavorare e avere soldi mentre io e gli

altri del gruppo ancora studiavamo, ci erudì. Forte delle frequentazioni femminili emancipate che

lui si poteva permettere, avendo anche una «Giulietta Sprint», ci confidò con aria grave: «Non

crediate! Anche loro, le donne, provano piacere». Fu una rivelazione. Seguì un lungo silenzio, e

ciascuno dei presenti, io compreso, rivisitò le proprie esperienze, incredulo.)

Ad accentuare i miei oscuri desideri, contribuiva involontariamente la suocera che conviveva col

donnone.

Quando il donnone si allontanava a prendermi le sigarette, opportunamente occultate chissà dove, la

vecchia alzava occhi e braccia al cielo e inveiva: «Chilla è ’na zoccola! Che sia stramaledetta!».

Era come se la vecchia me lo confermasse, mi dicesse che ci potevo contare.

Chiaramente la vecchia si confidava.

E sfogava.

Ingannata dall’aspetto innocuo e innocente di ragazzino, cresciuto perbene e dall’aria rassicurante

del rampollo borghese ben curato.

Non si sarebbe così esposta, certamente, se avessi offerto altra impressione o fossi uomo fatto.

Eppure la mia era l’età d’oro delle energie insorgenti, superiori per carica e potenziale rispetto a

qualsiasi maggiore età!

Il paradosso, sognavo fatine, tenere e leggiadre, in cui sciogliermi dolcemente innamorato al chiar

di luna, mentre deliravo nel contempo: a immaginare improbabili approcci e sfrenatezze col

donnone, che non trovavo affatto bella o seducente, ma nelle cui forme intravedevo irriferibili

performance.

Erano questi gli astuti lacci del demonio, secondo la religione con cui mi avevano educato?

Era così che il demonio intrappolava e distruggeva nell’anima e nel corpo?

E condannava alla dannazione eterna?

Erano questi, dunque, i piaceri della carne?

I piaceri della carne, vagheggiati mai realizzati, si compirono al Parco. (Non era ancora cintato).

Nel buio di una prima sera d’inverno.

Contro un albero.

Con una donna – lì a stazionare al primo apparire delle ombre - disposta ad accontentarsi e ad

accontentare in cambio di una ragionevole, esigua, somma di denaro.

Al Parco c’eravamo andati apposta, io e alcuni compagni di classe. E più che un appagamento…

Mah!

Ne ricavai una strana sensazione.

La sensazione non durò molto, d’altra parte.

Non lasciò traccia né nelle aree mie coscienti o sub-tali.

Ma questa è, come si usa dire, un’altra storia.

Con le bionde non ha niente a che vedere.

Soprattutto, c’entra ancora meno con il Giovannino che voleva diventare Hemingway e,

sfumazzando, crebbe fino all’età di doversi guadagnare la michetta.

Alla Carey Pearson & Valley.

E appresso.

53.

«Gli ho rovesciato la scrivania addosso e lui è franato» conclusi e Cati disse: «Hai fatto bene».

Cati stava frugando dentro il frigorifero. La mia apparizione l’aveva spiazzata, doveva

improvvisarmi qualcosa da mangiare.

«Non sono un campione di sollevamento pesi, la scrivania era leggera, partivo favorito» dissi.

«Per fortuna. Fosse stata più pesante lo uccidevi» disse Cati.

«Immagina un po’… i giornali del pomeriggio: La Notte, Il Corriere Lombardo, Paese Sera… Gli

strilloni in Galleria: ”Ultimissime, sensazionale a Milano! La scrivania, arma di delitto… Celebre

pubblicitario assassinato…».

«Ha telefonato tua madre…» disse Cati.

Smisi di scherzare. «Le mamme sono fatte apposta per telefonare» dissi, cupo. «Cosa voleva?».

«Sentirti. Sentire come stavi. Di me, naturalmente, se n’è guardata bene dall’informarsi o altro.

Comunque è stata fredda ma, a modo suo, corretta».

«Se la montagna non va da Maometto, Maometto va alla montagna. Così fa lei adesso. Ha messo da

parte gli anatemi. La chiamano realpolitik».

«Dovresti farti vivo più spesso con lei, è tua madre in fin dei conti. Io dovrei essere l’ultima persona

al mondo a ricordartelo…».

«L’ultima persona, sì, senz’altro. Non fai che chiamarla grassona. O culona, quando sei al massimo

della tua migliore poesia.»

«Scusa… Non dirmi forse che con me lei è carina. Telefona, chiede di te, sente che non ci sei e

riattacca… Mi sbatte giù la cornetta del telefono. Neanche che io…».

«OK, OK… OK, OK! A proposito, dov’è la tua di madre, adesso?».

«Dove vuoi che sia? A casa sua, al mare».

«Mah! È talmente sempre in giro per il mondo…».

«Ha telefonato proprio ieri, ci ha invitato. Ha chiesto anzi di te, si è interessata… Lo fa sempre…».

«È proprio un tesoro, eh sì, lo so. L’ho già detto, le mamme sono fatte apposta per telefonare».

«Inutile ironia, lei ti stima e apprezza».

«Di mamma ce n’è una, per fortuna. E io ho già la mia. Mi basta e avanza».

Tacqui.

Immerso a rimuginare.

54.

Ero in prima elementare, dalle suore, ed era la prima volta che mi capitava di trovarmi senza le

gonne di mia madre a cui attaccarmi.

Nella piena solennità della lezione, la maestra (una suora) aveva notato un rivolo giallo venirle

incontro.

Fin sotto la cattedra.

Un rivolo dalla natura indiscutibile.

E alla maestra era bastato risalirlo con lo sguardo.

Il banco del piccolo Giovanni ancora gocciolava.

Non avevo osato alzare la mano… chiedere… disturbare per una cosa vergognosa e miserevole

quale la pipì. (Peggio fosse stata la cacca.)

Perché questo era il timore reverenziale per l’Autorità a quel tempo!

Fortunatamente, la lezione volgeva alla fine. Fui trasferito come un pacco nelle braccia di mia

madre. Che mi aveva trasportato nei gabinetti nitidi e specchiati ma infinitamente tristi della scuola

delle suore.

Mia madre non disponeva ovviamente di ricambio, e aveva supplito col foulard che teneva intorno

al collo, odoroso di «Prestige». (Il suo profumo preferito, e francese, perché i profumi di livello

non potevano che venire da Parigi, capitale mondiale del fatuo del momento.)

Mia madre aveva infilato il foulard tra le mie gambe che con quale sollievo e liberazione avevo

accolto la mia mamma. Quanto bene, e grande, avevo sentito di volerle in quel momento!

Un’altra volta, sempre da piccolo, giocavo in strada, con la terra. E Maria Luisa, il mio grande

amore del momento, mi ronzava attorno sul triciclo.

Aspettavo soltanto di diventare grande per sposarla.

A un certo momento, avevo mollato paletta e secchiello e m’ero avventato sul grande amore:

l’avevo afferrato per i capelli. Trascinato a terra.

Era intervenuta la madre di Maria Luisa che mi serrò le mani.

Accorse mia madre che me le liberò, urlando: «Si vergogni,signora, è il modo? Sono dei bambini in

fin dei conti».

Eppure, il mio era un tentativo di stupro bell’e buono. Soltanto, non era un adulto a perpetrarlo.

Comunque, mia madre se n’era fatto carico. E, lato grottesco, fu la prima e unica volta che mia

madre mi difese.

In seguito, per l’intera vita, non aveva fatto che accusarmi. Con insegnanti, portinai ed i compagni.

Senza badare se potessi avere un pizzico di ragione.

Tornavo a casa pesto e mia madre: «Ma tu, prima, cos’avevi combinato? C’è da giurarlo che sei

stato tu a provocare».

M’ero rassegnato. A prenderle e a tacere.

(Non era che una delle tante contraddizioni di mia madre. Avevo imparato a non contare sulla sua

stima e apprezzamento. Figurarsi se potevo farlo ora con una mamma nemmeno mia ma acquisita:

la suocera, entità così estranea.)

55.

Soltanto poco tempo prima, il rovesciamento della scrivania sarebbe stato motivo di scandalo. Di

messa al bando dall’intero universo d’agenzie. («Brutto carattere, quel copy. Meglio evitarlo») Ma

il clima era mutato.

Il copy emergente di un’agenzia primaria, durante una presentazione di campagna, all’ennesima

obiezione, aveva agguantato il cliente e «OK!»… KO, l’avevo steso.

Era il ’68, il nuovo che avanzava.

In parallelo, i creativi diventavano sempre più lerci, da puzzare. Nonostante i notevoli progressi

tecnologici nel campo del bucato.

Già il loro animo era stato sempre torbido.

La schiuma ora dirompeva in spregio e sfida al mondo. Al SISTEMA.

L’eskimo, specie di tonaca, kaki militare, pseudo-impermeabilizzata, cappuccio e tasche, tante, per

farci stare i cubetti di porfido da lanciare, era stata eletta a divisa ricorrente del creativo.

Il Che (Guevara) per modello.

I creativi si ricoprono di insofferenza, barbe e baffi.

I vietcong sferravano offensive mimetizzate dal pelo dell’acqua delle risaie?

I creativi sferrano pugni a cielo aperto.

Anch’io, naturalmente, m’ero preso l’eskimo. (Rivincita per il montgomery negato di lontana

memoria). E la barba alla Che me l’ero fatta crescere più volte.

La prima, guardandomi allo specchio, colto dal dubbio di averla già vista, me l’ero infine tagliata.

Vero che la mia non era rossa come quella di quel certo Irlandese. Ma mi era bastato il richiamo.

Me l’era fatta poi ricrescere e stavolta aveva rischiato le sprangate.

Un commando di fanatici, in giro, in spedizione punitiva, aveva colto nella barba il segno di chissà

quale ideologia.

E quanto all’eskimo.

«Sarebbe forse ora che tu smettessi di puzzare» Cati mi disse. «Già mi fanno schifo topi e

scarafaggi. Con te mi sembra di convivere con una pantegana».

Fu una scelta dolorosa. E fu quando potei toccare con mano quanto, a volte, un uomo può essere

codardo.

Tra Cati e l’eskimo non ebbi il coraggio di optare per quella ch’era ormai la mia identità, seconda

pelle.

I peli della barba nella spazzatura, l’eskimo omaggio al barbone sulla porta della chiesa.

Così può finire, se non una Rivoluzione, un rivoluzionario.

56.

«Sono due fascisti, due squadristi. Ti basti sapere che il maggiore è socialdemocratico. Ti dice

niente?»

E.P. al telefono convenne: «Sono i peggiori perché camuffati. I più ipocriti. Comunque, senti, da

noi un copy serve e adesso io ci parlo a… Ti richiamo».

E.P. mi tornava sulla scena.

In realtà, non ne avevo perso mai i contatti.

E.P. era passato da poco all’Ufficio Pubblicità della Grande Fabbrica Italiana del Brodo. E l’Ufficio

era diretto, guarda caso, dal faccione rosso.

(A confermare il giro dei quattro cantoni ch’era la Pubblicità. Anche se aumentavano le facce

nuove.)

La prima mattina, ci arrivai col pullman, da Milano.

Scese al casello dell’autostrada, mi inoltrai tra i campi di granturco. All’incrocio tra due strade

senz’ombra d’essere umano, scorsi una scarpa di donna.

La scarpa, il tacco alto, giaceva sull’asfalto, abbandonata.

Poco distante, delle macchie. Bruno-rossastre.

Non ero religioso.

Lo stesso.

Mi feci il segno della Croce.

Bel benvenuto, pensai.

Il mattino dopo, la scarpa stava sempre là. Solo spostata verso i bordi della strada. Le macchie

bruno-rossastre più sbiadite. Prossime a svanire, cancellate dalle gomme dei TIR.

Tornai a farmi il segno della Croce.

Quella scarpa non me la sarei più scordata.

57.

I recinti della Grande Fabbrica Italiana del Brodo erano tassativi.

Eloquente il messaggio: lasciate ogni speranza o voi ch’entrate.

All’ingresso, le guardie con la pistola.

La macchinetta per timbrare il cartellino.

L’ala della Pubblicità era un po’ in disparte. Il fabbricato basso, tirato su al risparmio con la calce

del dopoguerra.

Le maniglie restavano in mano.

Il sole fulminava.

Più in là, le operaie alla catena dei pelati svenivano dalla calura.

Andai ai cessi. E rivissi l’esperienza della naja. Quand’ero nel buco più nero del culo del mondo,

entroterra nocerino. («Cristo si è fermato a Eboli»: il titolo, non a caso, del libro che Carlo Levi ci

aveva scritto.)

Adesso, però, qui almeno c’era la catenella da tirare.

Perfino i ritagli squadrati di Gazzetta, qualche volta.

Il faccione rosso aveva mantenuto le abitudini di sempre.

Spariva.

Ed E.P. pure continuava con le sue abitudini.

Succhiava le «Gauloises» fino a renderne la brace incandescente mentre cogitava. A ricostruire le

trame occulte interne. Mosse e fortune (o disgrazie) del faccione rosso col padrone.

Il faccione rosso ci convocò. Tutti.

Fu l’unica volta che si fermò in ufficio più di una scappata.

«Ragazzi - disse -, dovete piantarla con la macchinetta del caffè. Io ho cercato di far presente e di

difendervi… Ma voi mi capite, vero. Sapete come vanno queste cose. Già guardano quelli della

Pubblicità in modo strano, vediamo di non peggiorare ulteriormente».

La macchinetta del caffè stava nel cuore della fabbrica, alla distanza di un corridoio dopo l’altro.

Lunghi da non finire. Andarci era una gita. Percorrere quei corridoi era già un’occasione di svago.

Di per sé. Sarà stata l’illusione di evadere. Di andarsene chissà dove, liberi. Sensazione d’avventura

sebbene di formato e limiti aziendali.

Il guaio: era una passerella. Sotto gli occhi di tutti gli uffici (interi uffici) che si allineavano ai

fianchi. Dove lì dentro, è vero, c’erano compagni di sventura. Ma proprio in quanto tali, primi ad

essere nemici. Delatori. Che godevano delle disgrazie dei propri simili. E a procurargliele.

(Specie di rivincita? Modo dei deboli di sentirsi forti?)

Scintilla di residua libertà: la pausa-pranzo.

«Non mi va di andare in quel canile» dissi al grafico accanto.

Intendevo la mensa, e il grafico accanto era lo specialista che decorava confezioni e depliant con

graziose cipolle rosse in miniatura, mazzetti di prezzemolo, spicchi d’aglio e di pomodoro.

Li disegnava al tratto e poi colorava all’acquerello.

Era pressoché analfabeta, ma aveva la mano con il tocco magico.

Appena il faccione rosso girava le spalle, estraeva fogli che finiva di riempire di fumetti. Si

inventava storie su storie e le mostrava fiero.

Era un altro che aspettava il suo quarto d’ora di notorietà.

«Invece della mensa… Perché non andiamo all’aria in mezzo ai campi?» dissi.

«È un’idea» mi rispose l’artista, quello delle cipolline all’acquerello.

Si associò un terzo che aveva scoperto la dieta per l’estate.

L’aveva scoperta su «Grazia» o «Alba» o roba del genere. E la dieta si componeva di latte e di

banane.

«È rinfrescante, disintossicante, studiata apposta per i giorni caldi. Perché è nutriente ma digeribile,

e non ingrassa. Fate conto che una banana totalizza mediamente in calorie…».

Il tizio, plagiato dall’ignota delinquenziale redattrice, ci aveva contagiati.

Così, latte&banane, scattavamo all’una in punto, saltavamo in macchina e sgommavamo. Dieci

minuti, frenavamo in una nuvola di polvere. Ci inoltravamo nel granturco, sole allo zenit.

Ci spogliavamo, in mutande, via la canotta.

«Ah!», la goduria.

Riaffiorava l’homo neanderthalensis.

Si era a metà luglio circa, il tempo di arrivare ai primi di agosto: fui colto dal febbrone di una

congestione fulminante.

Latte&banane avevano prodotto il loro effetto.

Impiegai a guarire, ma appena in piedi, mi precipitai con Cati ad acquistare un coupé, rosso

fulminante da fondere la vista.

Freccia di fuoco.

58.

Tornai dalle vacanze con un osso di millecinquecento anni prima.

Giravamo io e Cati sopra il paese di Mattinata, al Gargano, quando avevamo trovato un professore

con due tipi intenti a scavare.

Svuotavano nicchie ricavate nella roccia.

Il professore spiegò ch’erano tombe degli antichi Dauni.

Gli antichi Dauni usavano seppellire i loro morti accucciati in posizione fetale, rivolti verso Oriente.

Probabilmente, disse il professore, perché era da lì che provenivano. Oppure, disse, perché è lì che

sorge il sole. Il professore propendeva per quest’ultima ipotesi.

Cati si dimostrava molto interessata e il professore, galante, l’aveva ricambiata. Come gentile

omaggio, in assenza di orchidee o cioccolatini, le aveva fatto dono di un osso, il meglio conservato

tra gli estratti.

Poteva essere una tibia o un femore, chissà.

Cati aveva osservato che, a giudicare dalle ossa, gli antichi Dauni dovevano essere piccoli, bassi di

statura, e il professore aveva annuito. Mentre io m’ero affrettato a prendere il dono.

Da quel momento, non l’avevo più abbandonato.

Riposto con cura in valigia.

A casa, l’avevo esposto ben visibile.

Di quando in quando, lo prendevo, scrutavo, accarezzavo.

«Porta fortuna» dicevo. «Ci sento una continuità, il segno di un destino… Che le cose

cambieranno… La vita diventa morte, la morte risorge a vita… Complice il sole, fonte di ogni

energia rinnovatrice…».

Non lo dicevo per dire.

Senza arrivare a citare Gesù Cristo e il miracolo della Resurrezione, nutrivo un fondo di reale

convinzione.

59.

«Non sei andato a lavorare? Non stai bene?» mi dice Cati.

«No.»

No, dico. Tranquillo. Naturale.

Erano le due del pomeriggio, Cati tornava da fuori Milano, dalla scuola dove insegnava. Il mattino

lei partiva molto presto, mi aveva lasciato a letto e ora mi ritrovava spalmato sul divano. Barba

trasandata, occhio perso.

«Cosa ti senti?»

Feci un gesto vago.

Al dottore bastò un’occhiata. Mi rilasciò il certificato, dieci giorni con la previsione di altri dieci.

Il dottore disse che non era roba da psichiatra, psicologi o simili. Ma da neurologi. E che lui ne

conosceva uno, bravo e onesto.

Arrivò la telefonata del tirapiedi del faccione rosso. Un tipo jolly che si occupava di tutto senza, in

sostanza, fare niente. (Ce n’è sempre uno, anzi più d’uno, in un’organizzazione che si rispetti.)

Il tirapiedi, forbito e cauto, chiese cosa fosse mai successo. Sogghignai. Ansimando al telefono

simulai di avere subito un terribile incidente, l’auto accartocciata.

«Adesso sono qui che non ti dico» sussurrai. Filo di voce.

Il tirapiedi manifestò tutto il suo sconfinato dispiacere. Tutta la sua sconfinata vicinanza. Tutta la

sua sconfinata solidarietà.

Mai immaginando.

Che, in una città di un milione e passa di persone, con tutto il traffico di gente che transita in

Stazione, ci saremmo incontrati. La sera stessa. Noi due, proprio noi, faccia a faccia.

(Alla Stazione Centrale c’era la posta ancora aperta a quell’ora, e c’ero andato per la raccomandata

col certificato.)

60.

Sarà stato l’osso del Dauno. Il suo remoto spirito di nuovo in circolo. Ma il destino s’era

effettivamente messo in movimento.

Al mio certificato medico, fece riscontro la risposta dell’azienda.

Busta raccomandata-espresso.

La facciata ricoperta di francobolli di ogni colore e dimensione.

A riflettere il peso e la gravità dei contenuti: venivo licenziato, diffidato dal rimettere piede in

azienda e, ultimo non ultimo, minacciato di azioni civile e penale.

Il tirapiedi aveva parlato.

Evidentemente.

S’era precipitato a riferire dell’incontro. Alla Stazione.

Del resto era parte del suo lavoro fare la spione.

«Meglio non scherzare mai con l’establishment , non hanno senso dell’umorismo» dissi a Cati.

«Mancano solo i Carabinieri con le manette a prelevarmi»

«Tanto di fame non moriamo, c’è il mio stipendio» Cati mi diceva. Ma stavolta l’avevo presa

proprio male.

Spalmato sul divano.

Non lo lasciavo neanche per mangiare.

«Perché non ne approfitti?» Cati mi diceva. «Considerala una piacevole vacanza. Goditela. Esci un

po’, vai in giro, al cinema… C’è un sole che non sembra neanche d’essere a Milano».

Poi Cati mi trascinava dietro per svagarmi col pretesto di far spese.

«È tua madre» mi disse Cati allungandomi il telefono.

Cati coprì il ricevitore con la mano: «Non puoi non parlarle… Su, dai!».

«Sì, sì, mamma, va benissimo, sto bene. Bene… Sì, sì, bene anche col lavoro… Cati? Anche lei sta

bene, certo… Andiamo sempre d’accordo, sì... Tutto a posto, regolare… A pranzo da te, domenica?

Mah… Temo che domenica siamo via… Nooo, non è vero che è tanto che non mi vedi… Però, già,

è vero, è passato un mese… Ma, sai, preso come sono dal lavoro, passano i giorni che neanche me

ne accorgo… D’accordo, mi faccio vivo, OK, OK… OK… OK… OK…».

Non ebbi più bisogno del dottore.

La telefonata di mia madre aveva funzionato meglio di una medicina.

Lasciai il divano.

Iniziai a passeggiare, avanti e indietro per la stanza.

L’appartamento era senz’altro sapientemente suddiviso (come l’amministratore aveva millantato)

ma i metri quadri erano quelli.

Ripiegai in cucina.

Colmai il vuoto dello spazio che non c’era, con una mela.

L’addentai, mentre giravo intorno al tavolo, uguale a un cavallo della prateria preso al laccio.

Mordicchiavo la mela e rimuginavo. Rimuginavo e mordicchiavo.

Mentre Cati mi teneva d’occhio dal soggiorno.

«Sono sopravissuto alla guerra, quella con le bombe, figurarsi questa di fumi e di parole» esplosi.

Pensai al libretto di lavoro, un timbro dopo l’altro, le date sempre più ravvicinate.

«Prima ero io a licenziarmi, adesso si sono messi pure gli altri. Di questo passo, mi licenzieranno

ancora prima di assumermi. Evitiamogli il disturbo».

Negli occhi di Cati si delinearono due grossi punti di domanda.

Sogghignai.

61.

Fondo la «GO Communication».

La registro con tutti i sacri crismi e le pretese di una Corporation.

Secondo solo a Don Chisciotte coi mulini.

Sfida a ogni tradizione di famiglia, giudizio di parenti, amici e conoscenti, e a ogni buon senso.

Sede dell’«GO Communication»: l’abitazione dove con Cati stipiamo le loro minime esistenze.

Reparto Amministrazione:

una grossolana imitazione di fratina in un bugigattolo. (Fratina, originariamente al servizio

dell’adiacente armadio-guardaroba. Cati continuerà a sommergerla di biancheria, incurante della

rilevanza di carte e documenti.)

Reparto Creativo, core del business:

in soggiorno. Il noto divano.

Centro Contatti & Sviluppo – operante 24 ore su 24, feste comandate incluse:

l’estremità di una libreria a fianco del divano. (Centimetri quadrati ricavati dalla rimozione

dell’osso del Dauno, di ninnoli e vinili - Jannacci, Leo Ferré, Miles Davis e l’Ornella Vanoni e la

Mina, che Cati di solito accompagna cantando a squarciagola).

Strumenti operativi:

un fascio di fogli scritti da riutilizzare sul retro per le minute - una risma di A4, accuratamente

scelta extra-strong e centellinata come oro - una seconda risma di carta velina ad uso copie, il cui

minor costo ne giustifica un più ampio impiego – quattro fogli di carta carbone - un fascio di biro

del supermercato in offerta speciale, l’undicesima gratis – sei plastichine con la scritta

«ARCHIVIO» - un cestino - una vecchia macchina da scrivere di prima della guerra.

Strumento-principe:

il telefono.

Il tutto, in un’aura olezzante di cavoli bolliti e soffritto di cipolle.

62.

Step N. 2, la stampa dei biglietti da visita.

Mi stimo un massimo esperto di comunicazione. Potrei snocciolare pacchi di relazioni e infinite

conferenze sulla materia.

Il GO-pensiero:

un biglietto da visita non è affatto una cosetta marginale, ma deve rientrare nel quadro di una più

ampia e mirata strategia.

Nel mio caso, il biglietto dovrà trasmettere istituzionalità-affidabilità.

La stessa di un medico nella cura del corpo e di un sacerdote per la cura dello spirito.

Perché aziende e prodotti sono entità complesse quanto quella umana.

Il biglietto da visita, che mi affretto a mostrare a Cati, è un mix di termini inglesi.

Caratteri in bastone (Helvetica, roba del genere.)

Colori nero e marrone.

In tono con l’oscurità dei termini esposti.

63.

Per Cati ogni nuovo giorno era occasione di viva partecipazione. E le novità la eccitavano. Non le

riusciva di immaginare che potessero essere sgradite.

Se poi la sgradevolezza proprio capitava, Cati non disperava.

Piuttosto, restava sorpresa. Come se fosse impossibile che certe cose possano accadere.

La realtà per lei non poteva che essere un sorriso.

Anni prima, aveva girato Polonia e Cecoslovacchia (proprio nei tempi più bui della Cortina di

Ferro), e poi da Parigi in Germania fino alla Svezia. Mezza Europa.

Aveva girato per lavoro.

E anni prima ancora, era stata a Londra con la madre, au pair, in casa di una principessa afgana.

Non erano state esperienze piacevoli: lei, una donna, e praticamente sola. Senza riferimenti. In giro

per il mondo. In un’epoca in cui già era difficile essere donna.

Ma adesso con me era differente. Non era più girare a vuoto. Il riferimento c’era. E anche uno

scopo. Costruire.

Così – Cati che di fondo era, come già detto, un’ottimista - tutti quei miei cambiamenti, di climi

sovvertiti, alti e bassi, e repentini - non la spiazzavano: non ci trovava mai niente di drammatico.

Per Cati era vita.

Era LA VITA.

Nemmeno badava se era proprio bello quello che stava capitando.

Era vita.

Era LA VITA.

Movimento.

Se non che, ottimista sì, Cati. Ma dotata di una certa sua saggezza.

Alla vista dei biglietti da visita, ne aveva preso uno e studiato a lungo.

«Sì» disse infine annuendo con il capo. «Efficace».

Poi, però, soppesando le parole: «GO Communication…» disse. «Suona come uno di quei colossi

con sedi dappertutto, mentre tu… Non è che esageri?».

Abbracciò il soggiorno con lo sguardo: «Ti sembra questo l’head-office di una Corporation?».

Ma avevo negli occhi la Milano del BOOM che sfidava il cielo, lo skyline nuovo di zecca del

Centro Direzionale. La capocchia a fungo, appena sorta, della Torre Velasca, in pieno Centro, a tu

per tu con la Madonnina.

Era questa la dimensione in cui viaggiavo fin dagl’inizi senza mai il coraggio di attuarla.

Era il momento di averlo: «Ora o mai più» risposi a Cati.

Dissi: «Guardami bene. Perché da questo momento sarò una biro da UN MILIONE A PAROLA».

Dissi: «Beh, facciamo un mezzo testone, mi accontento».

In cucina, l’acqua bolliva nella pentola.

Cati andò a buttare gli spaghetti.

64.

Contatti&Promozione.

Diedi fondo all’agenda.

Agenzie, aziende e persone: ne avevo fatto di incontri nel mio girovagare.

Completai con le Pagine Gialle. Lanciai il grido attraverso il filo del telefono: Gente, da oggi

disponete di una biro formidabile-potente, prezzi modici.

Non avevo tralasciato il minimo indirizzo. Fino a recuperare, in provincia di Mantova, una lontana e

tenera morosa, struggente passione di parecchie estati prima. Amore rimosso e ampiamente

sostituito nel frattempo.

Il padre aveva una fabbrichetta di lieviti in bustine e io scrissi al lontano e tenero amore.

La risposta mi arrivò dalla madre, in veste di Amministratore Delegato, che si dichiarò senz’altro

lusingata dall’offerta. Peccato, scrisse, che non poteva approfittarne, essendo l’azienda già servita.

E da chi mai?, mi chiesi, attonito.

Rimossi definitivamente il lontano e tenero amore.

65..

Caricai sul giradischi l’Inno dei Marine e, pipa in bocca, mi sono spalmato sul divano. Pronto a

schizzare al primo squillo di telefono. Lo spirito di chi, la biro tra i denti, va all’assalto all’arma

bianca.

Ma.

SILENZIO.

Potevo seguire i miei fremiti e pensieri.

I l principale: sono freelance. Lancia libera, soldato di ventura.

Freelance, altro termine inglese che si aggiungeva al mio sempre più ibrido vocabolario italo-

inglese.

Free, LIBERO.

Senza l'ombra di un cliente, ma importa?

Free, mi bastava.

Per ritrovare la carica del mio primo giorno.

Quel primo giorno di settembre ormai remoto.

Adesso mi alzavo presto la mattina. Come mai prima. E se, ai tempi, la barba me la facevo sì e no, a

secondo dell’umore, adesso mi rasavo. Tempestivamente. Al primo pelo.

Zero appuntamenti, per gli obblighi che avevo sarei potuto girare per la casa in mutande e

canottiera. Free in tutto.

Invece no.

Giacca e cravatta.

Affrontavo la giornata come se un aereo mi aspettasse per Madison Avenue. A presiedere la

Young&Rubicam.

Al colmo dell’autostima andai in Centro, dove si trovavano le grandi botteghe di materiali per

artisti. Le sole a tenere i prestigiosi Schoeller.

Schoeller - il tipico marchio, il martello, impresso in rilievo in un angolo: designarlo semplicemente

cartone sarebbe una bestemmia.

Candido e immacolato, lo Scholler era il supporto per antonomasia di ogni rough (maquette o

bozzetto) degno di rispetto. Reggeva, senza fare una piega, qualsiasi tipo di colore o tratto. Anzi,

esaltandoli.

Unico neo, non irrilevante: costava un occhio della testa. Era «Made in Germany», e c’era la

potenza del marco di mezzo a ingoiarsi le lirette.

Uscii dalla bottega con il foglio più grande. Non aveva badato a spese. Bandito ogni remora di

prezzo.

Lo Schoeller, a casa, occupava mezzo soggiorno. E l’avevo adagiato e ci avevo pennarellato a

grandi lettere sovrane: PRIMO DEGLI INDIPENDENTI.

Attestazione, secondo me, da esternare alla massima potenza.

Perché tutti se ne stavano in agenzia asserviti a fare gregge, nessuno ancora aveva osato rompere

schemi ritenuti ineludibili.

Indiscussi.

ONLY-PAY-FOR-WHAT-YOU-USE, la mia formula d’assalto.

Innovativa, forse troppo, in un mercato dove a contare erano ancora la grande dimensione,

formalismo e rigidità gerarchica.

Un direttore creativo à la page (veniva dalla grossa sede brasiliana di una multinazionale nord-

americana) aveva stroncato la mia idea.

L’avevo visto in uno dei miei innumerevoli incontri per promuovermi. E: «Non capisco – quel tipo

mi aveva detto -, come un copy, dico un copy, possa lavorare da solo, esterno a un team, a una

struttura… Fuori da un contesto».

Quel direttore creativo, purtroppo, riassumeva il pensiero dominante. Ed era un bel gas trovarmi nel

ruolo di pioniere.

66.

Il precedente di Icaro aleggiava, minaccioso sulla mia testa.

Io, sempre spalmato sul divano. Il telefono muto. Gran silenzio.

Esaurite le riflessioni, e il flusso dei pensieri, incominciai a percepire il ticchettio dell’orologio.

Sempre più netto. Impietoso.

Scandiva l’attesa del lavoro che incominciavo a temere non sarebbe mai arrivato.

Ticchete e ticchete e ticchete.

Per coprire,per ignorare il ticchettio, l’Inno dei Marines girava-girava, sempre più assordante. Il

vinile incandescente.

Cati non rinunciava ad essere l’anima allegra che era, non mancava di cantare a squarciagola per la

casa.

Io, steso sul divano.

Posacenere ricolmi.

Il disco si era logorato. Insieme a me. E alla puntina garantita a vita. L’Inno dei Marine ridotto a

miagolio. Anch’io avrei potuto miagolare, identico.

Già stavo considerando quanto possa risultare caro essere IL PRIMO DEGLI INDIPENDENTI.

Il telefono squillò.

Mezz’ora dopo, ero a Porta Venezia, in viale Majno, davanti alla scrivania di un tale che, appena mi

vide, mi disse: «Ho i contatti giusti, si tratta di una speculativa. Rimborso spese, un milione. Un

milione per lei, un altro per l’art. A proposito, ce l’ha un art?».

«No problem, lo trovo».

«Se poi la gara va a buon fine, il compenso è di…».

Le lire che il tizio disse, equivalevano al famoso MILIONE A PAROLA.

La gara non fu vinta.

Poco male.

Mi bastò il milione del cosiddetto rimborso spese. Me l’ero portato a casa con pochi giorni di

lavoro. Notti comprese, è vero. Ma era sempre un bel en plein.

Non importa nemmeno se il milione non era a parola.

Equivaleva a tre volte e mezza il mio ultimo stipendio.

Dopo quella volta, il telefono tornò a squillare. Anche per tutti i giorni a seguire. Dolce musica.

(Che, col tempo si tramuterà, paradossalmente, in ossessione.)

La puntina garantita a vita poteva anche spuntarsi, il disco volare, UFO in cielo.

EPILOGO

È come se il cielo si fosse di colpo abbassato, il grigio compatto incamerato negli occhi, per

restarci.

Milano nevica.

Un vecchio proverbio diceva: «Sotto la neve il pane». Era di buon auspicio, la neve fa da coperta al

grano, protegge i semi contro il gelo. E, in effetti, un tempo, la neve compiva il miracolo di

tramutarsi in pane in ogni senso. Migliaia di disoccupati accorrevano per conquistarsi i soldi per la

michetta corrisposti dal Comune a chi spalava.

Poi – miracolo economico dopo miracolo - i mulini diventarono bianchi di un bianco che più

bianchi non si poteva neanche col candeggio. E i mulini sfornarono esotismi: cracker, snack, plum-

cake. Suoni comunque commestibili, stando alla Pubblicità che li accompagnava, generosa.

Sostituirono il pane, e - il giorno in cui tornò a nevicare e il Comune tornò a stanziare i soldi - i

disoccupati erano sempre migliaia, ma nessuno si presentò a spalare.

Ma adesso, in questo momento, oltre alla neve bianca ci sono gli immigrati neri. Che accorrono in

tanti al bando del Comune.

Cracker, snack, plum-cake sono restati, ma spalatori e pane sono ritornati.

Certo, è scomparsa la michetta, e gli spalatori sono neri e il pane è arabo.

Mentre… lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca.

(Che non è il jingle dello spot per un pandoro, ma è Pascoli. Giovanni. Il poeta.)

Ortes Giovanni è un anziano (vecchio) signore alla finestra, che guarda la neve sfarfallare sul parco

di alberi pregiati.

Il parco – vero e proprio privilegio, a Milano - è retrostante alla casa che Giovanni ora abita.

Casa di sua proprietà. Infinita da tanto è spaziosa, e confortevole.

Un mondo.

Potrebbe essere lussuosa, ma non lo è. Non perché ad Ortes Giovanni manchino i mezzi. Ma

soltanto perché un certo tipo di esibizione non rientra nei suoi gusti.

Guarda la neve, Ortes Giovanni, perché può permettersi di averne tutto il tempo. Ha chiuso con la

Pubblicità.

Proprio stamattina.

L’ultimo settembre scorso, scadevano i quarant’anni esatti da quando è entrato alla Carey Pearson

& Valley. E Ortes Giovanni, stamattina, dopo avere sorbito il primo dei caffè della giornata, ha

detto: «Basta».

Non ha avuto bisogno di aggiungere parole, Cati ha subito afferrato.

Sul tavolo, nello studio di Giovanni , restavano un paio di lavori da ultimare, e Giovanni Ortes ha

telefonato agli esimi e stupiti committenti che provvedessero altrimenti.

Ultimamente alla gente che gli chiedeva: «Lei lavora ancora? Che lavoro fa?», Ortes Giovanni

rispondeva: «Il carpentiere… Il carpentiere di lusso».

L’altro giorno, però, ha confessato.

Stava in piazzale Lotto, alla bancarella di un etiope che vende abbigliamento. Ortes è salito sul

furgone a fianco, per provarsi dei blue jeans.

«Che cosa fai nella vita?» l’etiope gli ha chiesto.

«Il creativo pubblicitario» Giovanni ha risposto.

«Ah!» l’etiope ha scosso la testa. «Anche tu sei uno di quelli... A fregare noi, poveri emarginati».

A fregare noi, poveri emarginati.

L’etiope era un uomo che sapeva, non conosceva bene soltanto l’italiano – si è detto Ortes

Giovanni.

Sulla via di casa, i jeans ripiegati sottobraccio, ho continuato a rimuginare. E mi sono trovato a

trarre dei bilanci. L’ora della verità finora elusa.

Volevo diventare Hemingway – mi sono detto - e ho passato l’intera vita a bermi il cervello, a

riempire il mondo di scemenze… In allegra combutta con i più geniali famigerati parassiti, il gotha

dell’inutilità cialtrona.

Ortes Giovanni ripensa a tutti i giornali con i suoi sudati parti talentuosi. Finiti ad avvolgere la

verdura, estrema chance prima di andare in spazzatura.

«Spazzatura!» dice ad alta voce. Attirando l’attenzione stupita dei passanti. «Sono UN IDIOTA».

A casa, confida a Cati: «Diciamo che non sono di buon umore. Proprio per niente. Mi compiaccio

soltanto del bread and butter che ho sapientemente saputo procurarmi nella vita. Per cui, dovendo

tirare una morale, mettiamola così: dal momento che, Hemingway o no, morire si deve morire tutti,

meglio morire sazi».

EPILOGO DELL’EPILOGO

Lo riscuote la voce dell’addetto: «Può vederla».

Ho risalito i gradini del tempietto ch’era l’obitorio dell’ospedale.

A destra si apriva la piccola stanza con la salma.

Mi sono fermato sulla soglia.

La salma stava al centro, illuminata dal fascio di luce che irrompeva dall’unica apertura e riscattava

lo squallore delle pareti nude e grigie, l’assenza di un qualsiasi arredo.

Ho inquadrato il viso. Era composto. Quieto. Come immerso in un profondo sonno. Il pallore usuale

che da anni aveva ormai assunto.

È mia madre, mi sono detto, MIA MADRE.

Mi sembrava tutto impossibile, di vivere in un sogno. Né bello né brutto. Senza colori. Un sogno

neutro.

Nel contempo sentivo intensa la voglia di scappare.

Fuori.

Dove c’era la vita, e la città che continuava.

Ciao, mamma.

E mi viene da ridere a ripensare alla grande sfida.

Chi dei due poteva dire di avere vinto o perso?

Lei, mia madre, per cui il figlio era tutto, ci aveva scommesso e ne aveva tratto il contrario.

Io, il suo Giovannino, l’avevo sfidata mancando il mio scopo ultimo, anch’io.

E adesso tutti e due eravamo là.

Così.

Lei stesa con dei fiori sulla pancia.

Io, inebetito, col berrettino in mano.

C’era da ridere, da ridere, a pensare come le cose finiscono, in che modo.

POSTFAZIONE

Il tono dell’esposizione, in generale, può avere suscitato delle perplessità. Ma l’argomento era

quello che era, e lo svolgimento non poteva essere altrimenti.

La Pubblicità – teorie, ambienti, scopi e persone - non è infatti materia di cui si possa parlare

seriamente.

Pretendere di farlo sarebbe come prendere il famoso cane sorpreso in chiesa, vestirlo da prete con i

paramenti e dirgli di andare sull’altare ad abbaiare messa, per riscattare la profanazione.

Qualcuno insiste a considerare Scienza, la Pubblicità e la Comunicazione in generale. Anzi più

d’uno. Anzi troppi. E non è da escludere che costoro siano perfino in buona fede.

Di certo, l’unica cosa seria nel campo della Comunicazione è l’estensione del business e la quantità

spropositata di denaro che vi circola. Alla faccia dei nove decimi del mondo che non ha pane né i

denti per mangiarlo nell’improbabile caso che il pane lo avesse.

D’altra parte.

E’ la Pubblicità, bellezza. E tu non puoi farci niente. Niente.

Per dirla alla maniera del vecchio, splendido, mai dimenticato Bogey, Humphrey Bogart.

BIBLIOGRAFIA

Niente sfilze di titoli saccenti snocciolati da far dubitare che chi li cita li abbia letti. (Come d’uso

quando qualcuno scrive di Pubblicità, quasi che l’autorevolezza delle sue parole dipenda dai

chilometri di titoli esibiti.)

Mi è stata sufficiente la trincea.

Piuttosto, riconosco che questo mio lavoro non sarebbe stato mai possibile se, alle Sacre Scritture,

non fossero seguite nei secoli tante mirabili opere. Fra le quali ritengo doveroso ricordare per il

contributo tecnico e in pathos:

Tre uomini in barca (per non parlar del cane) di Jerome K. Jerome,

Vita e opinioni di Tristram Shandy di Laurence Sterne,

Candido ovvero l’ottimismo di François-Marie Arouet (Voltaire),

L’opera struggente di un formidabile genio di Dave Eggers,

Brevi interviste con uomini schifosi di David Foster Wallace,

Cronache del rum di Hunter S. Thompson alias Raoul Duke o Dr. Gonzo (lo… spirito di

quest’ultimo è stato decisivo ogni qualvolta superavo il giro di boa della mezzanotte. Il che, inutile

dirlo, succedeva di regola.)

Quanto alle Confessioni di un pubblicitario di David Ogilvy, la citazione, come si è potuto dedurre,

è ricorsa per motivi di stima opposti agli autori precedenti.

Il sig.David Ogilvy, infatti, con il proprio cinico arrivismo mascherato da operoso perbenismo, è il

profeta la cui parola ha plagiato intere generazioni di pubblicitari o aspiranti tali.

Non potevo ignorarne la perniciosità e non appellarmi nel contempo alla plurimillenaria saggezza

del koan zen: «Se incontri il Buddha per la strada, uccidilo».

FINE

GUIDO SPERANDIO, tutto sul mio conto: http://guidosperandio.wordpress.com. A presto!

...1936 Odiug!

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rimozione su istanza degli eventuali aventi diritto.