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Genius loci e turismo di massa La raccolta di saggi che segue indaga il tema del Genius loci in epoca di turismo di massa, fenomeno quest’ultimo recente che interessa sia le cosiddette città storiche quanto le coste e i paesaggi agresti dove agricoltura e turismo si propongono come gli scenari economici più prossimi. Sottoposti a una sovraesposizione estetica, tali luoghi si trovano a gestire un fenomeno sociale che costituisce parte irrinunciabile dell’economia locale e, di conseguenza, a recitare se stessi, a trasformare immediatamente, e senza la camera di compensazione storica, la memoria collettiva in storia commerciale. Per tale motivo la questione assume importanza sia per i luoghi destinatari delle masse turistiche che per la nostra disciplina. Tra i vari aspetti, e in una comprensione multidisciplinare, si indaga il rapporto tra sovraesposizione turistica e personalità sociale dei luoghi. Per un verso il fenomeno comporta una mutazione dell’esperienza estetica nel viaggiatore, che non si trova più nel ruolo dell’antropologo che s’immerge in una realtà vergine o in cui pensa di muoversi invisibile, ma piomba inevitabilmente in una messa in scena spesso confezionata e consumabile, per l’altro genera una sovra-autocoscienza della società che vive e metabolizza il proprio luogo di vita consapevolmente trasformato in officina di produzione turistica. La storia urbana viene allora semplificata, divulgata, riavvicinata al suo luogo particolare di ricerca, ma anche spogliata delle sue articolazioni scientifiche e del suo linguaggio. Quindi il tema mitico del Genius loci è messo a confronto con un fenomeno tutto contemporaneo, quello del consumismo turistico che, al contrario, pone la città in una prospettiva apparentemente disponibile a una comprensione immediata e convenzionale, condizionando l’esperienza estetica del visitatore entro canali che sembrano allontanarlo dal suo naturale carattere spontaneo. Si tratta di un tema vicino all’estetica e all’antropologia urbana che, per essere illuminato, può giovarsi di un confronto con la storia per indagare le recenti forme evolutive di quello che, in fondo, è il vero oggetto di ricerca sulla città, il suo nucleo generatore, quel luogo profondo in cui l’esperienza sedimenta in memoria e in cui l’intelligenza sociale implementa fino a condizionarne il presente. Antonello Scopacasa 1935

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Genius loci e turismo di massa La raccolta di saggi che segue indaga il tema del Genius loci in epoca di turismo di massa, fenomeno quest’ultimo recente che interessa sia le cosiddette città storiche quanto le coste e i paesaggi agresti dove agricoltura e turismo si propongono come gli scenari economici più prossimi. Sottoposti a una sovraesposizione estetica, tali luoghi si trovano a gestire un fenomeno sociale che costituisce parte irrinunciabile dell’economia locale e, di conseguenza, a recitare se stessi, a trasformare immediatamente, e senza la camera di compensazione storica, la memoria collettiva in storia commerciale. Per tale motivo la questione assume importanza sia per i luoghi destinatari delle masse turistiche che per la nostra disciplina. Tra i vari aspetti, e in una comprensione multidisciplinare, si indaga il rapporto tra sovraesposizione turistica e personalità sociale dei luoghi. Per un verso il fenomeno comporta una mutazione dell’esperienza estetica nel viaggiatore, che non si trova più nel ruolo dell’antropologo che s’immerge in una realtà vergine o in cui pensa di muoversi invisibile, ma piomba inevitabilmente in una messa in scena spesso confezionata e consumabile, per l’altro genera una sovra-autocoscienza della società che vive e metabolizza il proprio luogo di vita consapevolmente trasformato in officina di produzione turistica. La storia urbana viene allora semplificata, divulgata, riavvicinata al suo luogo particolare di ricerca, ma anche spogliata delle sue articolazioni scientifiche e del suo linguaggio. Quindi il tema mitico del Genius loci è messo a confronto con un fenomeno tutto contemporaneo, quello del consumismo turistico che, al contrario, pone la città in una prospettiva apparentemente disponibile a una comprensione immediata e convenzionale, condizionando l’esperienza estetica del visitatore entro canali che sembrano allontanarlo dal suo naturale carattere spontaneo. Si tratta di un tema vicino all’estetica e all’antropologia urbana che, per essere illuminato, può giovarsi di un confronto con la storia per indagare le recenti forme evolutive di quello che, in fondo, è il vero oggetto di ricerca sulla città, il suo nucleo generatore, quel luogo profondo in cui l’esperienza sedimenta in memoria e in cui l’intelligenza sociale implementa fino a condizionarne il presente.

Antonello Scopacasa

1935

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Lost City. Urban heritage, tourism, and the construction of identity

Jaap Evert Abrahamse Cultural Heritage Agency of the Netherlands – Amsterdam – The Netherlands

Keywords: urban heritage, townscape, tourism, historical identity, architectural history, Dutch history,

Amsterdam.

1. ‘The Venice of the North’

Tourism is one of the main concerns in present-day Amsterdam1. Its historic city centre has always been a favorite destination, but has become even more so since its inscription in the World Heritage List in 2010. 2 A wide range of interest groups, local political parties, newspapers, and social media users express their worries about tourists flooding the streets, overrunning its public transport systems, polluting public space, and – through home-sharing platforms such as airbnb – draining its housing stock, but above all: about the loss of character and identity. Many fear that Amsterdam will become “the Venice of the North”3. This comparison between Amsterdam and Venice is not based on their common history as commercial metropolises or great port cities, but from the inane backdrop of mass tourism that Venice has become, according to some. Like Venice, many see Amsterdam rapidly turning into a monocultural townscape devoid of meaning, its streets overflowing with people pulling their noisy trolley suitcases or riding “beer bikes” across the cobblestones, with only souvenir shops along both sides. Various measures were proposed or have already been taken to control tourism: imposing stricter regulations on airbnb and other services, preventing the construction of new hotels, and even limiting access to the city centre to prevent overcrowding. Spreading tourism is another way to lower the pressure. 4 Curious methods were applied in attempts to divert tourism from Amsterdam into the region: therefore the Muiderslot castle – which is located far out of Amsterdam and is older than the city itself – has been renamed Amsterdam Castle. Not only on the east side the virtual territory of the city is rapidly extended by changing the names of tourist attractions. Zandvoort, some thirty kilometres to the west, is now called Amsterdam Beach. The former Lake Beemster, some twenty kilometres north of the city, is called Amsterdam Polder, while the Keukenhof, thirty kilometres to the southwest, was renamed the Amsterdam Flower Strip. Identity can obviously be transplanted from one place to the other. Obviously a new identity can be attached to heritage at will. Economic mechanisms support these efforts; Amsterdam needs to spread tourism, while neighbouring municipalities hope to get a piece of the pie. Therefore it might be useful to take a closer look at the historic identity that people are concerned about. We might do so on the basis of abstract concepts of Amsterdam’s economic ambitions, or its religious tolerance. Some even see concepts like liberalism or democracy as useful in describing Amsterdam’s historic nature, but these are mere projections for the period preceding 1850.5 Therefore we look at the problem from a viewpoint of townscape and urban heritage. The subject of this paper is the perception of townscape and the creation and 1 For statistics on tourism: https://www.ois.amsterdam.nl/feiten-en-cijfers/#toerisme (13 July 2017). 2 http://whc.unesco.org/en/list/1349 (15 July 2017). 3 See for instance: M. Kruyswijk, «Amsterdam dreigt te venetianiseren», Het Parool, 22 April 2016: www.parool.nl/amsterdam/-amsterdam-dreigt-te-venetianiseren~a4287580/ (13 July 2017); Maarten Asscher, «Massatoerisme op 8 vierkante kilometer», Het Financieele Dagblad, 29 October 2016: https://fd.nl/opinie/1173269/massatoerisme-op-8-vierkante-kilometer (15 July 2017). 4 For an overview of measures taken to control tourism, see https://www.amsterdam.nl/bestuur-organisatie/volg-beleid/stad-in-balans/maatregelen/ (13 July 2017). 5 R. Shorto, Amsterdam. A short history of the world’s most liberal city, Vintage Books, New York 2014.

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protection of identity in the the historic centre of Amsterdam. Some examples show the perception of Amsterdam’s townscape and the notion of identity shifted over time, which allows us to draw conclusions about tourism and the possible loss of historic identity. By pointing out how identity was created, we will try to put the present debate on tourism in perspective.

2. Changing perceptions of Amsterdam’s townscape

During its hey-day in the 17th century, Amsterdam was seen as the cradle of modernity in terms of physical planning and urban management, for its grand-scale, systematically designed lay-out, its spacious tree-lined canals, its social institutions, its advanced public amenities in fields like street lighting, firefighting, and last but not least, for its uniform classicist architecture, the seemingly endless rows of new, elegant canal houses (Fig. 1).6

In the 18th century, Amsterdam was struck by a long period of economic decline, while it gradually lost its position as the main trade hub of Northwestern Europe to London. The death blow to the Dutch Republic was given by the French invasion, resulting in the intermittent Batavian Republic (1795-1801) and the short reign of king Louis-Napoléon (1806-1810). The present Kingdom of the Netherlands was founded in 1813.

6 J. E. Abrahamse, De grote uitleg van Amsterdam. Stadsontwikkeling in de zeventiende eeuw, Bussum, THOTH Publishers, 2010.

Fig. 1. Abraham Rademaker, View of the Keizersgracht canal from the Vijzelstraat towards the Reguliersgracht, 1700-1730, Amsterdam City Archives

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Amsterdam slipped into a state of decomposition in the 19th century. At the same time, cities like London, Paris, Vienna and Budapest turned into great European capitals.7 While other cities modernized at high speed, Amsterdam retained its 17th-century character. When Amsterdam was rediscovered as a tourist attraction at the end of the 19th century, a remarkable shift in the perception of its townscape had taken place. Amsterdam was not anymore the great commercial metropolis it once was, but was a city of the past. It was praised not for its modernity, but for its small scale and its frailty. Its townscape and architecture and became famous for the picturesqueness of decay. When the famous art historian Henri Havard toured the Netherlands in the 1870s, he described Amsterdam as one of many dead cities along the Zuiderzee. In his travel report Voyage aux villes mortes du Zuiderzée he described the “magnificent spectacle” of the old city as he saw it while sailing from Amsterdam on the IJ sea-branch. Under a skyline of numerous spires and the heavy domes of the Lutheran Church and the Royal Palace, the houses of this strange city’ were depicted as “bending like a bunch of drunken soldiers”.8 When Havard travelled the Netherlands the effects of the Industrial Revolution in the rest of Western Europe seemed very distant. Not much had happened in Amsterdam, but in the public perception it had turned from a town in the Grand Manner into a small-scale, picturesque symbol of civic independence. In the early modern period, it was praised for its Grand Manner layout and uniform classicist street fronts; from the 19th century it is famous for being its diversity and small scale. It is this identity that is now at stake, according to some. The movement against identity loss can be traced back to the 1880s. Since then, any urban renewal has met resistance, as a wide and ever-growing conservationist movement started in that period. So opposite to those of most European capitals the centre of Amsterdam has largely been preserved from large-scale interventions, such as traffic breakthroughs and citification.

3. Architecture and identity In the 19th century, the newly formed Kingdom of the Netherlands was looking for a historically founded identity. Paradoxically enough, there was only one viable strategy: looking back at the great Dutch Republic from the 17th century. This way, Amsterdam’s townscape became part of a national story of the Dutch people’s revolt against the Spanish tyranny; Amsterdam, which had been an almost autonomous city within the loose federal configuration of the Dutch Republic, was now linked to a the history of the genesis of the predecessor of the nation-state. Some remodelling and re-interpretation of history was necessary. 7 R. Rutte, J. E. Abrahamse, H. Renes, «The Netherlands in a European perspective», in Atlas of the Dutch Urban Landscape. A Millennium of Spatial Development, edited by R. Rutte and J. E. Abrahamse, Bussum, THOTH Publishers, 2016, pp. 273-292. 8 «C’est un merveilleux spectacle qu‟Amsterdam vu de l’Y […] Au premier plan, les maisons longues et maigres, entassées, pressées, serrées les unes contre les autres, dressent leur brunes façades et semblent, par leur mille fenêtres encadrées de blanc, regarder curieusement ce grand golfe, qui fit la fortune de cette ville étrange. Fléchissant sur leur pilotis, elles se penchent en avant et semblent tituber comme une bande de soldats ivres»: Henry Havard, La Hollande pittoresque. Voyage aux villes mortes du Zuiderzée, Paris, E. Plon et Cie., 1875, pp. 7-8.

Fig. 2. The Bartolotti House on the Herengracht canal, designed by Hendrick de Keyser and built ca 1620, Amsterdam City Archives.

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In this period of nation-building, politicians, writers, and artists found inspiration in the Dutch Golden Age. Figures like William of Orange (1533-1584), the painter Rembrandt van Rhijn (1606-1669), poet and playwright Joost van den Vondel (1587-1679), and sailors like Jan Pietersz Coen (1587-1629) and Michiel de Ruyter (1607-1676) were now presented as national heroes through the building of statues and other monuments. The Nederlands Museum voor Geschiedenis en Kunst (the predecessor of the present Rijksmuseum) was founded in 1875. At the same time, conservationists started campaigns to save Amsterdam’s heritage from large-scale demolition which was caused by the modernisation that was brought along by the second Golden Age of the second half of the nineteenth century.9 This also had its effects on architecture. In the second half of the 19th century, when Amsterdam and other Dutch cities started growing again after a very long period of stagnation, a new historicist style was developed, called Oud-Hollandsche stijl, or “Old Dutch Style” (Fig. 2). It was inspired on what was now called “Dutch Renaissance”, the Lowlands architecture from the early, formative years of the Dutch Republic. What was later called „Dutch Renaissance‟ architecture emerged around 1600, and was developed by master builders as Hendrick de Keyser (1565-1621) and Lieven de Key (ca 1560-1627) (Fig. 3). It combined local building traditions with Italianate ornamentation. It was first presented by Salomon de Bray, the author of the Architectura Moderna, a catalogue of the works of Hendrick de Keyser. This very first Dutch treatise on architectural design marks an important moment in Dutch architectural theory. Its author, Salomon de Bray, recommended his contemporaries to adopt a critical attitude towards the classic antiquity and architectural theory. Ancient and modern examples should not be imitated unquestioningly, but the Dutch had to build “the way we build in our land, in our situation, as prescribed common use and tradition”, but „somewhat reformed, as if it is covered with the character and appearance of the ancient buildings, as much as possible‟. De Bray obviously recognized the need to take into consideration the climate, the soil conditions, and the availability of building materials. Therefore it was inevitable to follow the building tradition, rooted in local circumstances; knowledge of the architecture of Antiquity could however be used to improve the appearance of buildings.10 Paradoxically enough, this architecture was now embraced as the national style. It was supposed to represent the vigour of the people, and also avoided contemporary controversy about the religious background of architectural style and its creators, which contaminated the Gothic Revival. The first phase of the Dutch Revolt represented a struggle against Spanish repression and for the freedom of the people and not a war of religion. Therefore the Dutch Renaissance Revival represented a non-partisan Dutch Golden Age brought through military, maritime, commercial and stately excellence. The choice for an architecture that was mainly out of brick followed naturally from this stylistic choice.11 The Dutch Renaissance style, with, in architect and academic Eugen Gugel’s words, its “cheerful and picturesque diversity”, turned out to be ideally positioned as an appropriate national architecture as set out by Viollet-le Duc’s rationalism. This brick and stone architecture, while incarnating the national spirit of the Dutch Republic, was also praised for its tectonic qualities, as it showed the structural logic of buildings, in, for instance, its characteristic relieving arches above doors

9 J. E. Abrahamse, De grote uitleg van Amsterdam. Stadsontwikkeling in de zeventiende eeuw, Bussum, THOTH Publishers, 2010, pp. 22-26. 10 « ... alles naar onse Lands wijse en gelegentheyt in gewoonte en gebruyck zijnde»; «... eenigsins verformt, en als overtrocken met eenderhande aert en gelijckenisse der oude ghestichten voor soo veel als lydelijck is geweest»: K. Ottenheym, P. Rosenberg, N. Smit, Hendrick de Keijser, Architectura Moderna: Moderne bouwkunst in Amsterdam, 1600-1625, Amsterdam, Architectura & Natura, 2008, p. 11 (2). 11 C.J. van der Peet, P.T.E.E. Rosenberg, «Overzicht 1850-1875», in De Rijksbouwmeesters. Twee eeuwen architectuur van de Rijksgebouwendienst en zijn voorlopers, edited by Corjan van der Peet and Guido Steenmeijer, pp. 165-195.

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and windows.12 The built projects of leading architects of this early period, Hendrick de Keyser and Lieven de Key, were an important source of inspiration for the architecture of the 19th century.

4. Conclusion From the examples above it becomes clear that the perception of the Amsterdam townscape has greatly varied in different periods, not so much because of changes in Amsterdam itself, but under the influence of the emergence of the European capitals in the 19th century. The concept of identity in built heritage is changeable as well. It is changeable and manipulable, and can be created, (re)attached, and transplanted at will. The national architecture of the Netherlands, invented in the 19th century, was in fact inspired on what was called “Dutch Renaissance”, which was created around 1600 on the basis of what was then believed to be the architecture of classical Antiquity. Architectural history was manipulated and deployed to support the idea of a national culture, to promote the sense of unity. When applied to the problem of mass tourism, the concept of identity is quite useless. Although the growth of tourism is one of the most visible results of successful long-term heritage policies, there might be a perceived loss of identity, but no loss of heritage itself. There are a great many reasons to tackle the problems that are caused by the steep rise in tourism, but the perceived loss of identity is not one of them.

12 P. Brouwer, De wetten van de bouwkunst. Nederlandse architectuurboeken in de negentiende eeuw, Rotterdam, NAi Publishers, 2011, pp. 313-315.

Fig. 3. Street front at the Singel canal. These buildings were designed in Dutch Renaissance style by the

architect Hendrik Leguyt in 1897 and 1905

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1931: orizzonte a quota 20001 Michela Comba, Rita D’Attorre Politecnico di Torino – Torino – Italia

Parole chiave: propaganda, middle-upper class, trasporti, alibi, consumi, mondanità, sport, moda, donna 1. Prima delle città nuove Sestriere è quasi una città di nuova fondazione quando sorge all’alba degli anni trenta. Ancor prima della costruzione di Littoria e Sabaudia e dell’epopea delle bonifiche integrali (e a seguire delle new towns coloniali), uno dei tanti opuscoli pubblicitari, da subito bi e trilingue, prodotti da Fiat per promuovere la località sciistica alpina, reclamizzava: Saint Moritz, Cortina, Davos, Garmish, S. Anton, Zermatt, Chamonix, sono un adattamento, Sestriere è un’invenzione2. L’invenzione dello ski total all’interno di un progetto di turismo estensivo da parte di un grande industriale italiano, per alcuni aspetti (iniziativa privata, capitalismo, individualismo), si discosta e addirittura si pone agli antipodi dell’ambiguità del programma politico di regime

rispetto all’opera di socializzazione delle terre bonificate3. In linea con la politica fascista, determinata ad arginare anche lo spopolamento delle regioni montane, la più grande casa automobilistica italiana, all’inizio degli anni Trenta del Novecento, quasi per ingannare una congiuntura di apparente immobilismo produttivo, provava a sviluppare nuove tecniche per i trasporti – su strada e funicolari – e a far decollare l’industria del tempo libero, a partire dagli sport invernali. Fiat utilizzava ampiamente, soprattutto a scala internazionale, la propaganda che l’impresa Sestriere provocava, proprio come il regime con la bonifica integrale, con cui sembrava aver raggiunto una dimensione pubblica grandiosa e rispettabile. Nella letteratura giornalistica Sestriere è una presenza costante per tutti gli anni trenta e cinquanta del Novecento, simbolo di mondanità ed emancipazione, non solo sulle riviste e i quotidiani nazionali: «Time», «Daily Mail», «Le

Monde», «The New York Herald», «Die Leistung», hanno registrato il sorpasso di popolarità compiuto da Sestriere sulle concorrenti internazionali St. Moritz e Chamonix.

1 I paragrafi 1 e 2 sono di Michela Comba; i paragrafi 3 e 4 sono di Rita D’Attorre. 2 Archivio Storico Fiat Torino, Cinquant’anni di Sestriere, dalle origini alla seconda guerra mondiale, s.d. in Opuscoli pubblicitari misti sugli alberghi e sulle piste da sci, Faldone MSC 0149. 3 D. Ghirardo, Building New Communities. New Deal America and Fascist Italy, New Yersey, Princeton University Press, 1989; R. Mariani, «Trasformazione del territorio e citta di nuova fondazione»», in Gli Anni Trenta. Arte e cultura in Italia, Milano, Mazzotta, 1982, pp. 285-299.

Archivio Storico Fiat Torino, Bozzetto di Mario Puppo (1930) in Opuscoli pubblicitari misti sugli alberghi e sulle piste da sci, Faldone

MSC 0149

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Se con “le città nuove” l’intenzione era quella di stabilizzare la popolazione e ottimizzare le risorse produttive creando una classe sociale di piccoli mezzadri o proprietari agricoli, legati alla terra e alla famiglia (progetto fallito in seguito allo sradicamento dei “bradi” di campagna senza mestiere, braccianti e manovali urbani che stentavano a divenire agricoltori),

l’operazione Sestriere – proprio a cavallo della grande crisi del 1929 - puntava sulla costruzione di una middle-upper class (fatta di operai specializzati, colletti bianchi, tecnici e dirigenti d’azienda), attraverso l’incremento dei consumi e l’invenzione di un alibi: la fuga dalla quotidianità, dall’alienazione salariale e dall’inurbamento – giornaliera, settimanale o stagionale, a piacimento. Per il senatore Agnelli e i suoi collaboratori, i nuovi impianti avrebbero dovuto accogliere nei fine settimana impiegati delle industrie, studenti e lavoratori appassionati di sport invernali e bambini. I campi da sci e gli opuscoli pubblicitari si popolarono di bambini, rispetto ai quali la verticalità e la velocità che segnavano il paesaggio erano ancora più accentuati. I bambini erano potenziali campioni del domani, ma soprattutto futuri consumatori. Un soggiorno a Sestriere era un salutare tuffo nel paesaggio alpino, una spedizione ad altissima quota, dove era nata una città più moderna della città industriale. E quali erano le caratteristiche di questa “città-alibi” dove il tempo libero e la socializzazione si strutturavano intorno al cambio delle situazioni atmosferiche e si organizzavano intorno ai consumi? L’intuizione degli industriali Giovanni e Edoardo Agnelli e di Virginia Bourbon del Monte prese forma per mano di alcuni ingegneri, uno in particolare, e pochi architetti. Come risulterà evidente dai membri della Commissione Nazionale Studi Valorizzazione Autarchica della Montagna e

dalle iniziative promosse nella seconda metà degli anni Trenta (ad esempio il primo Convegno di Ingegneria Montana che si terrà solo a giugno del 1939), i temi della pianificazione delle valli, degli impianti idroelettrici e soprattutto, negli anni Trenta, dei trasporti in montagna – strade, trafori e trasporti su fune – coinvolgevano in primis il mondo professionale dell’ingegneria4.

4 Per il Piemonte e la Valle d’Aosta in particolare gli ingeneri Vittorio Zignoli, Lino Binel, Giorgio Rigotti, Adriano Tournon, Augusto Cavallari Murat.

Archivio Storico Fiat Torino, Manifesto di Gino Boccassile, Amilcare Pizzi S.A. Milano (1936), in Opuscoli pubblicitari, Faldone MSC 0150/2

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2. Accessibilità

La fase costruttiva di Sestriere rientra in una congiuntura (1927-1937) in cui in Italia si stava ancora formando una disciplina urbanistica. Come per le città di nuova fondazione, dal punto di vista della gestione del territorio, non si adottarono soluzioni specifiche né particolari innovazioni, neppure rispetto al modello base delle new towns fasciste (piazza centrale con torre littoria e servizi e quartieri residenziali intorno). Tuttavia due aspetti rendono Sestriere una new town eccezionale: l’apertura rispetto al piano ambientale (mentre le città di nuova fondazione erano quasi sempre circondate da una rigida circonvallazione) e l’architettura. Per la nuova e prima stazione sciistica italiana, nessun tentativo di ibridare razionalismo e forme vernacolari: come mostrano i quattro alberghi della Sestriere degli anni Trenta, entrambe presenti queste componenti, rimangono nettamente distinte, con prevalenza della prima, anche rispetto alle principali stazioni invernali europee. La costruzione del lussuoso ed eclettico Albergo Principi di Piemonte progettato da Giovanni Chevalley si pose fin dall’inizio come episodio a sé rispetto al nucleo dei due alberghi a torre, con una posizione decentrata, un

fronte affacciato sulla valle della Dora Riparia e dell’Argentera e una clientela decisamente élitaria di conservatori. Tra l’essenzialità della Torre destinata a studenti e giovani sportivi e il lusso del Principi di Piemonte, sorgeva la seconda torre, il Duchi di Aosta, dotato di camere singole e doppie, con e senza bagno, quasi tutte con gabinetto di toeletta. L’ingegnere Vittorio Bonadè Bottino, project manager ante litteram dell’operazione Sestriere5, formalizzò ad hoc un nuovo tipo architettonico, l’albergo-torre, che declinato in due versioni (una sportiva e una più popolare)

derivava dall’intuizione della rampa nord dello stabilimento automobilistico Lingotto e anticipava per molti aspetti architettonici il wrightiano Guggenheim

di New York. A Sestriere, e in particolare alla posizione baricentrica e alle caratteristiche formali di una delle sue torri, sembra essersi ispirato anche Le Corbusier, con i progetti per la stazione di Vars. L’architetto in realtà non aveva peraltro rapporti con il senatore Agnelli, ma con un altro importante imprenditore piemontese, il conte Dino Lora Lotino, cui si deve successivamente, dalla fine degli anni Trenta, lo sviluppo infrastrutturale e turistico del comprensorio del Breuil e nel dopoguerra il traforo del Monte Bianco e la funivia dei Ghiacciai Courmayeur-Chamonix . Al centro del piano per Vars Le Corbusier ha posto un hotellerie per tre categorie di utenti, dotata di un garages contiguo all’albergo chiaramente ispirato alla Torre di Sestriere: cilindrico e sviluppato intorno a una rampa a spirale6. Le Cobursier però aveva previsto per Vars anche tre quartieri periferici di chalets, mentre a Sestriere – come in tutte le località 5 V. Bonadè Bottino, Memorie del Novecento. L’avventura di un pioniere dell’industria, a cura di L. Lepri, Milano, Bompiani, 2001. 6 Amènagement station de sport d’hiver et d’été, FLC/ADGP, in Le Corbusier: Oeuvre complète, vol. 4, Zürich, Les Editions d’Architecture, 1938-1946.

Archivio Storico Fiat Torino, Sestriere (Italia), s.d., in Opuscoli pubblicitari misti sugli alberghi e sulle piste da sci del Sestriere, Faldone MSC 0149

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italiane, di montagna e di mare, che dagli anni Cinquanta saranno invase dal fenomeno delle seconde case – proprio a partire dall’impostazione del 1931, trionferà la tipologia del condominio 7. Anche se non comparivano sulle brossures pubblicitarie e sui manifesti promozionali, furono realizzati diversi condomini dallo stesso Bonadè Bottino (il Paradiso delle Nevi, a esempio, dove avevano casa numerosi dirigenti Fiat) e dal suo più stretto collaboratore, l’ingegnere Luigi Ravelli, autore del condominio Freitève. L’accessibilità per la prima sky city era diventata un principio funzionale e compositivo, con forte valenza metaforica (come rivela il tipo dell’albergo a torre), oltre che uno slogan molto efficace. Accessibilità effimera, ai consumi, ai nuovi costumi e stili di vita prefigurati dal sistema capitalista; accessibilità reale, poichè nessuna stazione sciistica europea negli anni cinquanta era più facilmente e velocemente raggiungibile: a due ore di viaggio da Torino e a una notte da Parigi. Verticalità, movimento, velocità, con lo sci diventavano quasi delle componenti del paesaggio montano. Il paesaggio era un’esperienza estetica ormai derivata dallo sci, posto come pratica eroica ed esotica, esperienza ludica e di consumo8. Individuato il sito ideale per la fondazione sulle Alpi occidentali della futura ski city nel 1931 – la più alta d’Europa – per evitare futuri interventi speculativi, venne acquisito rapidamente il maggior numero possibile di pascoli, compresi nell’anfiteatro naturale tra il Monte Fraiteve-Basset (m. 2701), il Monte Sises (m. 2600) e il monte Banchetta (m. 2823), determinando l’istituzione del comune di Sestriere (1935). Furono aperte le strade da Traverses a Champlas du Col. Tutte le pratiche di acquisizione furono gestite per il senatore e Bottino, da un ingegnere bolognese, Alfredo Poletti. Con le sue tre funivie (realizzate rispettivamente nel 1931, 1933, e 1937), quattro alberghi per i villeggianti, i condomini per i dirigenti d’azienda, i portici commerciali, il grande ristorante turistico, Sestriere è diventata il baricentro delle stazioni successive (Sportinia, Cesana, Claviere, Salice d’Ulzio, Bardonecchia): un anfiteatro naturale per ammirare e imitare campioni di sci, rally, ciclismo e golf; qui i limiti tra paesaggio e set pubblicitario, tra esibizione, professionismo e turismo, tra divertimento (diurno e notturno) diventeranno via via sempre più invisibili. Questo contesto, dove velocità, movimento, modernità degli stili di vita hanno assunto anche una forte valenza estetica, veniva presentato fin dagli anni Trenta come simbolo e occasione di emancipazione, quella della donna. La produzione della ski city è tutt’uno con la messa in scena di un nuovo tipo di soggiorno e rapporto con il paesaggio montano visto il più possibile dall’alto e sempre in movimento. Le automobili Fiat, le corriere Sapav, il torpedone lanciato verso la nuova stazione, lo sciatore immortalato nel passo del fondo, nel volo del salto e nella discesa erano status symbols per tendere a nuovi stili di vita. Ma la peculiarità del “caso Sestriere” era quella di avere uno sfondo ricorrente su ogni manifesto: le torri-albergo, elementi artificiali naturalizzati dalla loro presenza costante e ossessiva al mutare delle condizioni atmosferiche e dei punti di vista. La progettazione delle due torri, in particolare il più popolare Hotel Torre, ha svolto un ruolo fondativo. Nessun’altra stazione sciistica ha potuto impostare una strategia promozionale su un elemento artificiale così forte. Il nuovo tipo architettonico nasce solo in parte per rispondere alla spinosa domanda: “stazione sciistica popolare o di alta destinazione”? che il senatore aveva posto ai suoi collaboratori. Bandito l’edificio rettangolare monacale di tipo svizzero per allontanare la possibilità di una massificazione uniforme e lo chalet di Alta Savoia modello Megève, la torre cilindrica – nelle due diverse versioni – è diventata il simbolo della nuova città dello sci. 7 M. Comba, «Sognando una California lontana», in Costruire a Cervinia e altrove, a cura di L. Moretto, 2004, Annali della Fondation Courmayeur, Musmeci, pp. 83-97. 8 A. Derossi, La Costruzione delle Alpi. Il Novecento e il modernismo alpino (1917-2017), Roma, Donzelli, 2016.

1946

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Qualcuno sosteneva che non si potesse offrire un dormitorio ma si dovesse disporre di un albergo di montagna sul tipo di Saint Moritz; il direttore generale della Fiat e quello delle officine invece appoggiavano l’idea che fosse importante offrire anche un dormitorio per almeno un centinaio di sciatori, che fin dal primo mattino avrebbero potuto trovarsi sui campi di neve. Camerate o stanze singole? Capi-officina ed esperti di carrozzeria parteciparono alle discussioni sulle dimensioni, le forniture e l’arredamento delle cabine. Il progettista delle torri, nel 1931 propose cabine del tipo battello marino a un solo letto e dotate di servizi, senza distinzioni di sesso, mentre una porta tra due cabine garantiva il collegamento tra familiari o intimi.

Le camere erano destinate a una persona (due a due comunicanti), arredate con una ottomana-letto sovrastata da una grande finestra, armadi-parete, pavimenti di gomma, una poltrona, radio, acqua calda e termosifone (riscaldamento centralizzato, molto efficace fino ai piani alti). In realtà nessuna immagine interna delle camere venne divulgata dalle campagne pubblicitarie. La torre poi era nata da un notevole sforzo di razionalità costruttiva, dopo un primo progetto per un albergo dedicato al Duca di Napoli. Si sviluppa in 50 metri di altezza per limitare le opere di sbancamento nella roccia e per contenere il maggior numero di locali indipendenti nel minor volume possibile; concentrava in poche colonne generali le tubazioni degli impianti9. Le colonne compaiono in molte immagini che ritraggono gli interni, soprattutto

negli anni cinquanta: in particolare la sala da ballo dell’albergo La Torre e le sale lettura e ristorante del Duchi d’Aosta. Il cilindro è forato da finestre simmetriche, si articola su 13 piani e contiene 163 camere lungo 10 giri di rampa elicoidale. Il nastro elicoidale delle cabine era la variante di un primo progetto dove le cabine sono sfalsate e organizzate lungo dei ballatoi, intorno allo spazio vuoto centrale molto suggestivo e immediatamente pubblicizzato, anche oltreoceano. 3. Tra turismo di massa e turismo d’élite. Effetti immediati della pubblicità

Nel 1933, in occasione dell’inaugurazione della funivia al monte Banchetta, Gino Pestelli, giornalista e direttore dell’Ufficio Pubblicità Fiat a partire dal 192510, scriveva “Tutto intorno […] sulla via che vi porta oltre 2600 metri, e per tutta quella gran distesa di neve tra le cime e il piano del colle, ferve la più sana serena gaia vita sportiva che la nostra modernità consenta:

9 M. Comba e R. D’Attorre, «Dagli hotel en tour ai villaggi turistici», in a cura di M. Comba, Maire Tecnimont. I progetti di Fiat Engineering (1931-1979), CinisiellO Balsamo, Silvana Editoriale, 2001, pp. 48-70. 10 Con la direzione di Gino Pestelli l’Ufficio Pubblicità Fiat inizia una proficua collaborazione con pittori e grafici tra i quali Cesare Maggi, Massimo Quaglino, Mario Sironi, Carlo Carrà, Giuseppe Riccobaldi del Bava, Mario Puppo, Felice Vellan, Giuseppe Romano, Barbara Mameli e Giuseppe Minetti, autori di numerosi manifesti pubblicitari su Sestriere.

Archivio Storico Fiat Torino, Sestriere You will love it, in Opuscoli pubblicitari misti sugli alberghi e sulle piste da sci del Sestriere, Faldone MSC 0149

1947

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non soltanto ai signori, ma anche ai più umili, alla gente del popolo, agli affaticati degli uffici, delle botteghe, delle officine. Una gran scuola di salute, corsi accelerati per tutti”11. Ecco gli albori della nascente stazione sciistica. Negli anni Trenta, il turismo che frequenta Sestriere è ancora elitario, ma le diverse competizioni sportive organizzate sia d’inverno (le gare di sci) che d’estate (il golf, le competizioni ciclistiche e i rally), erano di per sé uno evento che suscitava un’attrattiva sempre maggiore anche per i “comuni cittadini”, affascinati dalla montagna che stava diventando un’alternativa alla villeggiatura estiva.

L’immagine pubblicitaria veicolata da supporti via via più diversi e raffinati, aiuta a cogliere non solo i tratti distintivi di epoche diverse, ma testimonia la trasformazione del paesaggio montano e del cambiamento del costume sociale. Leggere questi cambiamenti attraverso l’analisi della strategia comunicativa aziendale, che andava dai quotidiani, ai manifesti fino alle riproduzioni fotografiche, apre molteplici piani di lettura: dalla moda con l’emancipazione femminile, agli stili di vita, ai beni di consumo. Il messaggio doveva stimolare un turismo sempre meno elitario ed era quindi rivolto ad un “pubblico anonimo” perché potesse nutrire un desiderio che prima non aveva12. La Fiat chiamò a occuparsi dell’immagine pubblicitaria della nuova stazione artisti e illustratori. I primi manifesti, le affiches, le brochure illustrative, così come fotografie, i quotidiani e le riviste specializzate, che rivolgevano la loro attenzione su Sestriere, mostrano una grafica dove è lo sport il vero protagonista: i campioni di sci, rally, ciclismo e golf assumono forme geometriche schematiche e semplificate, dove i contrasti cromatici e l’interazione immagine-scrittura sono i tratti distintivi; mentre l’immagine del territorio, con le sue montagne appariva sempre più stilizzata, quasi

trasfigurata, come nelle copertine per brochure disegnate da Giuseppe Riccobaldi del Bava tra il 1934 e il 1935. Al turista si sostituisce lo sportivo come principale soggetto del manifesto pubblicitario, fino a farne un vero e proprio fenomeno sociale, sullo sfondo di una stazione sciistica sempre assolata, meta agognata di una clientela elegante e comunque mondana. Ne è conseguito un ritorno d’immagine e popolarità tanto a livello nazionale quanto internazionale, che riusciva ad attirare un turismo però sempre meno elitario; ne è un esempio la costituzione del Circolo Sciatori Sestriere che si sviluppò di pari passo con la stazione stessa, passando da 90 soci nell’inverno 1934 al 1.400 nel 1936; così come la Scuola

11 G. Pestelli, «Sestrières», Torino, gennaio 1933, p. 3. 12 C. De Seta, «Temi e suggestioni di comunicazione pubblicitaria», in Manifesti dell’Archivio Fiat. 1900-1940, Milano, Fabbri Editori, 1991, p. 7.

Archivio Storico Fiat Torino, Manifesto pubblicitario per Fiat 501 di Giuseppe Minetti del 1922 per la pubblicità sulla

rivista «L’Illustrazione Italiana»

1948

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Nazionale di Sci, fondata da Angelo Rivera e diretta dal famoso “arcangelo delle nevi” Hans Nöbl e il cui numero di allievi sale da 1.625 a 11.832 in tre anni13. Gli strumenti utilizzati per veicolare e valorizzare un messaggio pubblicitario, sono diventati con gli anni sempre più vasti ed eterogenei. 4. Giornali, cinema e cinegiornali: mondanità, moda e donne sulla neve

La pubblicità su giornali rimane il mezzo di comunicazione più utilizzato poiché l’uso del manifesto richiede un grande sforzo finanziario, oltre a uno studio accurato del prodotto che si vuole reclamizzare e «la presenza del Sestriere sui quotidiani e le riviste mondane, sulle pubblicazioni sportive e nei Giornali Luce, rappresenta una costante per tutti gli anni Trenta e continuerà nel secondo dopoguerra»14. Il quotidiano della famiglia Agnelli, «La Stampa», è stato uno dei primi e più importanti “veicoli” promozionali dell’immagine della nuova stazione sciistica, già prima della sua fondazione. Le inserzioni pubblicitarie sono per lo più a colori e riproducono elementi figurativi di noti manifesti accompagnati da messaggi semplici, ma di grande impatto: «Sciatori! Gran neve al Sestriere», «bagni di sole sulla neve a 2000 metri», «il Sestriere è per tutti», «dove avete lasciato la neve trovate i fiori». La pubblicità, in tutte le sue vesti grafiche, che immagine restituisce di Sestriere fino a farla diventare meta anche di un “turismo di massa”? Il progetto grafico studiato da Fiat aveva come obiettivo anche quello di portare fuori da Torino, “città dell’industria”, gli spazi dello sport e del divertimento. Spazi in origine destinati a una ristretta cerchia di turisti, e in seguito allargati a un sempre più fitto numero di utenti fino ad assolvere le funzioni del tempo libero dei torinesi così come l’industria automobilistica ne occupava le ore lavorative. L’automobile rimaneva il soggetto privilegiato nelle strategie promozionali, con un vasto repertorio d’illustrazioni che chiariscono sia com’era cambiato nel tempo il messaggio pubblicitario che l’evoluzione stessa del prodotto. Si era creato da subito un fortunato legame tra stazione turistica e automobile, Invito ai boschi e ai monti è lo slogan che accompagna la pubblicità disegnata da Giuseppe Minetti per la 501, l’automobile ideale per il turista che si arrampica sulle cime delle montagne. La 1100, la 2800 o la 1500, reclamizzata con un manifesto di Mario Sironi dal titolo La 1500 invita al Sestriére. Con il secondo dopoguerra, cambia la strategia promozionale, nasce una nuova utenza cui rivolgersi che necessita di uno status symbol e che trova nella 600 l’auto dell’identità nazionale. Sono gli anni in cui al manifesto pubblicitario si aggiunge la fotografia che mantiene ancora come sfondo il colle del Sestriere, meta turistica accessibile a molti, ma non a tutti. Nel 1952 si reclamizza la 500 C Giardiniera Topolino e la 1900, nel 1958 la nuova 500, nel 1962 la 2300 Coupé: sono le auto della classe media, che grazie alle maggiori opportunità lavorative, e quindi di reddito, entrano a far parte del mercato turistico. Il cinema a partire dalla fine degli anni Trenta ha iniziato a includere tra i diversi soggetti messi in scena, anche il tema della neve e delle sue stazioni sciistiche. L’immagine di Sestriere fece la sua comparsa in Italia nel film del 1937, La Contessa di Parma di Alessandro Blasetti, dove la stazione sciistica fa da sfondo ad alcune scene. Negli stessi anni diventava protagonista dei cinegiornali, i filmati dell’Istituto Luce contribuiscono in maniera incisiva alla diffusione della nuova vita del colle intesa come stazione invernale simbolo di progresso tecnico e turistico tutto italiano.

13 Archivio Storico Fiat Torino, Una stazione italiana di sports invernali diventata famosa a tempo di record, dattiloscritto, s.d., Faldone Articoli-Rassegna Stampa 1/148. 14 A. De Rossi, La Costruzione delle Alpi. Il Novecento e il modernismo alpino (1917-2017), cit., p. 223.

1949

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Anche nel secondo dopoguerra emergono nuovi soggetti che fanno riferimento al mondo cinematografico e in cui la società di massa si riconosce, come nel film del 1951 È l’amore che mi rovina, dove il regista Mario Soldati, sceglie Sestriere come location. Nei manifesti pubblicitari per il lancio della pellicola i disegni e le rappresentazioni grafiche utilizzate riportano alla mente il tema della neve e dello sci, con l’inconfondibile torre che campeggia davanti all’immagine dei suoi protagonisti, da Walter Chiari a Lucia Bosè e Aroldo Tieri; un’operazione culturale di ampio respiro in cui convergono suggestioni di diversa natura, le

montagne innevate, il turismo di alpino frequentato dal “bel mondo”, la stazione alla moda fino all’esaltazione della figura femminile15. Già dalla metà degli anni Trenta i turisti che scelgono Sestriere come meta delle loro vacanze erano sempre più numerosi, tanto che durante la stagione invernale ferve un’intensa vita mondana con punte massime di duemila persone che vi soggiornano. In pochi anni dalla sua fondazione la sua fama conquista un pubblico sempre più internazionale, prevalentemente alto-borghese16. Nella letteratura giornalistica Sestriere diventa subito una presenza costante anche nelle sue vesti di simbolo di mondanità e i luoghi di ritrovo sono reclamizzati come le attrezzature che vanno ben oltre quelle usualmente necessarie a una stazione sciistica, diventando un’opportunità straordinaria di scambio culturale tra l’élites dello sci cosmopolita, i turisti e i semplici

spettatori. I saloni degli alberghi, attrezzati di bar, orchestra, grandi sale da pranzo e da ballo, sono allietati da concerti di musica jazz dal pomeriggio a notte fonda, da feste di “gala” che con gli anni diventano sempre più frequentati non solo dall’alta borghesia, ma anche da personaggi dello spettacolo. Le orchestre suonavano anche “all’ora del vermouth e del the”17 presso la the-room La Genzianella, tipico ritrovo modano con ampia terrazza che si affacciava direttamente sui campi da sci, nei pressi del complesso de Il Portico, progettato dell’architetto Mario Passanti, luogo dal carattere prettamente commerciale dove si ritrovano negozi di oggetti di lusso come di prima necessità e che svolgeva una vera e propria funzione di spazio pubblico di aggregazione. Sotto il Fraiteve sfilavano le dive, superbamente impellicciate, a

15 A. Audisio ed A. Natta-Soleri, Snow & Ski. Neve e sci nei manifesti del cinema, Torino, Edizioni Museo Nazionale della Montagna “Duca degli Abruzzi Club Alpino Italiano”, 1997, pag. 16. 16 Anche le testate giornalistiche straniere come il «Time», il «Daily Mail», «Le Monde», «The New York Herald», «Die Liestung» dedicano lunghi articoli alla nuova stazione sciistica, segnalando il sorpasso di popolarità sulle concorrenti internazionali di St. Morritz e Chamonix. 17 Archivio Storico Fiat Torino, Italia Sestriere, dattiloscritto, s.d., Faldone Articoli-Rassegna Stampa 1/148.

Archivio Storico Fiat Torino, Barbara Mameli, Vignette per pubblicità su rivista della Fiat 500 Topolino (1936)

1950

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bordo di auto sportive. Le bellissime di Hollywood: Ava Gardner, Audrey Hepburn, Liz Taylor, Giogio Ducros campione di nautico, la stella del cinema Kate de Naty, il Principe di Piemonte assiduo frequentatore della stazione sciistica, personaggi del jet set internazionale che animavano la vita tanto diurna quanto notturna di Sestriere. Arrivare a Sestriere era come entrare nel cinema e nel sogno americano.

Il fascino e la grazia della donna animava l’immagine di molti manifesti, da cui pervade un’atmosfera gioiosa e solare, con invidiabili situazioni di relax. L’eleganza femminile associata all’automobile rimane una costante fino ad anni più recenti. Ne sono un esempio le vignette dedicate alla Topolino 500 disegnate nel 1936 da Barbara Mameli; il soggetto principale è l’immagine di una donna accostata a un’automobile, considerata ancora un “accessorio” per un pubblico elitario, che ben si adatta a essere utilizzata in luoghi e situazioni diverse, dal mare fino alla montagna: La piccola grande vettura per tutti gli sport è lo slogan che accompagna l’illustrazione che ha come sfondo il Sestriere. Nel manifesto di Gino Boccassile dal titolo La donna in verde, la figura femminile diventa icona della “dolce vita” di montagna, tanto da essere considerata l’immagine pubblicitaria più conosciuta di Sestriere. La donna in primo piano, seduta su una duna di neve in posizione obliqua rispetto alla linea di terra, con cui forma un angolo ottuso, fa da sipario all’anfiteatro e alle sue torri al centro. La trasformazione del ruolo della figura

femminile rispetto al paesaggio e allo sport, ancor più che nelle vignette della Mameli, è evidente; l’attenzione all’abbigliamento diventa ossessiva, anche se si tratta di un corto gonnellino verde su calzamaglia e maglietta attillata della stessa nuance, con una sciarpa ben annodata al collo e occhiali da sole, dove si riscontra una rinuncia volontaria, una sorta di liberazione degli arbitri della moda stile anni Venti e Trenta, Costruire a Cervinia e altrove, a cura di L. Moretto, 2004, Annali della Fondation Courmayeur, Musmeci.

Archivio Storico Fiat Torino, manifesto di Gino Boccassile “La donna verde”, utilizzato per la

pubblicità della Lancia Y10 nel 1994

1951

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Progettare lo spontaneo, mediterraneo e turismo in Sicilia nel primo dopoguerra

Cecilia Alemagna Università di Catania – Catania – Italia

Parole chiave: Architettura minore, Sicilia,Villaggi Turistici, Samonà, Spatrisano, Epifanio, posti di ristoro, Le Rocce, La Pineta.

1. Architettura rustica in Sicilia, studi ed esperienze Lo studio sull‟architettura minore in Sicilia, inizia per le strade, durante il primo ventennio del novecento, disegnando. Gli allievi di Ernesto Basile, Antonio Zanca ed Enrico Calandra, redigeranno nei loro taccuini, manuali fatti di scorci, piazze, scalinate e slarghi, in cui il disegno dal vero, sarà lo strumento più efficace per apprendere i principi e le regole d’insediamento dell’architettura locale. «Per le strade di una Sicilia, in verità quasi senza strade, si avviavano insieme allievi e maestri: Antonio Zanca, Enrico Calandra, Giuseppe Spatrisano, Salvatore Cardella, Edoardo Caracciolo, Giuseppe Samonà e altri. Una fitta rete di itinerari, fatti di piccoli centri arroccati sulle montagne o di una città di pianura, seziona la Sicilia seguendo percorsi da oriente a occidente»1. Il primo a fornire un quadro illustrativo delle tipologie edilizie siciliane appartenenti all‟architettura minore sarà Luigi Epifanio nel 1939, con Architettura rustica in Sicilia2. In quegli anni nell‟architettura mediterranea e vernacolare si rintracciavano gli identici valori di purismo e chiarezza perseguiti dall‟architettura contemporanea. Studi e approfondimenti presenti sia nei programmi accademici della Scuola Romana che diffusi dalle riviste “Architettura e arti Decorative” e “Domus” 3, un terreno comune in cui riuscivano a convergere le ricerche razionaliste con quelle del regime: risale a tre anni prima l’esposizione alla VI Triennale di Milano e la pubblicazione di Architettura rurale in Italia di G.Pagano e G.Daniel, una raccolta critica di foto provenienti da tutta l’Italia4, scattate sul campo dai due autori, che ha sancito istituzionalmente l’importanza del tema e dei soggetti coinvolti: la casa, il contadino e la terra che coltivava: «Finchè era il contadino che si murava la propria dimora per antiche abitudini rispettate e sempre collaudate dalla prova dei fatti, sovrintendeva alla progettazione di nuove cascine, l’architettura rurale procedette su un binario prettamente logico, assumendo quasi il valore di una manifestazione del sub-cosciente5». In questa “manifestazione del sub-cosciente”, descritta da Pagano, Giuseppe Samonà riconoscerà qualche anno dopo, la profonda consapevolezza edilizia acquisita dal contadino-architetto capace di costruirsi la casa adatta a rispondere ai suoi bisogni: «Qui si sostituisce una produzione fatta di consuetudine partigianesca, in cui determinati lavori di tecnica edilizia sono espressi in ogni parte con quella semplicità che nasce da lunga pratica di mestiere tramandato di padre in figlio. L’apporto personale è assai tenue, nascosto dentro un fare 1 P. Barbera, Architettura in Sicilia tra le due guerre, Palermo, Sellerio, 2002, p. 27. 2 Luigi Epifanio (Monreale 1898-Palermo 1976), si laurea nel 1924 in architettura presso la Regia Scuola di applicazione per Ingegneri e Architetti, fu assistente di E. Basile all‟Accademia di Belle Arti, nel 1927, divenendo poi docente presso la facoltà di Ingegneria di Palermo e successivamente di Architettura, fu autore di diversi quartieri abitativi INA Casa nel dopoguerra, Architettura Rustica in Sicilia venne pubblicato dalla casa editrice Palumbo nel 1939. 3 Si veda su: Architettura e arti decorative: E. Cerio, « L’architettura minima nella contrada delle Sirene», Dicembre, 1922; G. Capponi, « Motivi d‟Architettura Ischiana», Luglio 1927; R. Pane, « Tipi di Architettura rustica in Napoli e nei Campi Flegrei», n. XII, 1928; P. Marconi, «Architetture minime mediterranee e architettura moderna», IX, 1930. Si veda su Domus: C.E. Rava, «Spirito latino», Marzo 1930, C.E. Rava, «Di un architettura coloniale moderna», Maggio 1931; L. Figini, «Polemica mediterranea», Gennaio 1932. 4 Alla VI Triennale di Milano del 1936, una documentazione relativa all' edilizia minore siciliana fu prodotta da Edoardo Caracciolo insieme ai suoi allievi Ajroldi, Indovina e Lanza, il gruppo espose i rilievi di case a Boccadifalco, Sferracavallo e Isola delle femmine. 5 G. Pagano, G. Daniel, Architettura rurale Italiana, Milano, Quaderni della triennale, Hoepli, 1936, p. 19.

1953

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Fig. 1. L. Epifanio, Architettura rustica in Sicilia, Palermo, Palumbo Editore, 1939

tradizionalmente precostituito, in cui si implicano congiuntamente forma e struttura, in un costruire estraneo al tormento creativo che quasi sempre disgiunge, nello spirito di artisti minori, l’unità della espressione in un momento formale e in uno istruttivo, mai completamente riassunti in unità6». Il risultato di questo processo inesplorato rappresentava per gli architetti una verifica rispetto a ciò che era valido, razionale e resistente, rispetto ciò che al contrario, era supplemento, decoro, autoreferenziale. In Architettura rustica in Sicilia, Epifanio sembra aderire a questa sottrazione di sovrastrutture scegliendo una maniera elementare e lineare di rappresentazione, volta a cogliere le caratteristiche del luogo attraverso il minor numero di linee (fig.1).

Oltre la varietà dei tipi edilizi presenti nell‟isola, distinti per modalità compositive e insediative, diversità topografiche e climatiche, verrà messa in risalto da Luigi Epifanio anche la corrispondenza spirituale delle forme rurali all’animo di chi le vive. Alle note sulle case sono associate considerazioni sulle ripercussioni dei modi di abitare nel suo temperamento. Una lettura “sentimentale”, tesa ad evitare che la nuova progettazione, trascurando questi caratteri, potesse causare fenomeni di spaesamento e squilibrio con le abitudini di vita degli isolani. Un’attenzione, che se in quel momento era impregnata della retorica del regime, acquisì dopo la guerra, un’autonomia ideologica, che prese forma nei progetti nei quartieri abitativi e nelle esperienze dei primi villaggi turistici. Architettura rustica in Sicilia diverrà un testo a sostegno della progettazione dei Borghi rurali che sarà attuata dell’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano tra il 1939 e il 1941, il testo rielaborato dall’autore, verrà presentato sotto forma di lezione nel Marzo 1940.

2. G. Spatrisano, architettura per il turismo in Sicilia nel dopoguerra

2.1. I villaggi turistici

«Ma a quell’epoca la ricostruzione era, insieme alla musica e ai film americani, il simbolo di una vita pulita, moderna e brillante a cui tutti aspiravamo7». Nel dopoguerra, la tutela del “sentimento rurale” espressa da Epifanio è accompagnata dalla volontà di dover migliorare il livello di vita, è necessario risollevare il mezzogiorno dall’ambiente arcaico in cui giace. Gli sforzi degli architetti siciliani si concentrano nella progettazione urbana e in quella dello spazio all’aperto. Spazi all’aperto costituti da parti di una geografia prossima alla città, la cui espansione stava iniziando a tirarsi dentro. I nuovi volumi dei quartieri abitativi si dispongono organicamente tra residui di antichi parchi e di coltivazioni agricole, in prossimità dei fiumi e delle coste, rispondendo caso per caso e in maniera manualistica a questioni precise come quella del ruolo delle nuove strade interne al quartiere (si veda il Nucleo sperimentale Borgo Ulivia a Palermo di Samonà, Bonafede, Calandra, Caracciolo, 1956-62), dell’adesione al suolo e della topografia (si vedano le case INA a Petralia Sottana di Spatrisano, 1950), delle connessioni con la città costruita e della qualità e la funzione sociale degli spazi verdi pubblici e privati (si vedano: Il Villaggio Santa Rosalia a Palermo 6 G. Samonà, «Architettura spontanea: Documento di edilizia fuori della storia», in: P. Lovero (a cura di), G. Samonà, L’unità,architettonica;urbanistica, Scritti e progetti 1929-73, Milano, Franco Angeli, p. 200. 7 M. Augé, Rovine e Macerie, il senso del tempo, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, p. 85.

1954

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di Spatrisano-Tortorici,1953-63 e il quartiere INA Casa a Sciacca di Giuseppe Samonà, 1950-52 e il Villaggio del pescatore a Termini Imerese di Caronia nel 1956). Ma sarà nell’architettura del turismo che si riverserà la possibilità liberatoria di mescolare questi temi con quelli legati al tempo libero, al viaggio, alla socializzazione e alla valorizzazione del patrimonio artistico-paesistico isolano8. Giuseppe Spatrisano9, realizzò su incarico della regione siciliana numerose strutture ricettive tra queste nel 1954 i villaggi “la Pineta” ad Erice e “Le Rocce” a Taormina.

In entrambi i villaggi, l’architetto dispone tutto affinché appaia spontaneo, non progettato: «In questo ambiente le camere, isolate o in gruppo, vennero ad assumere la funzione di un albergo decentrato in cui le camere, le costruzioni per i servizi sembrassero germinate dallo stesso terreno come grossi cespugli, gli alberi antichi e le monumentali agave. In particolare si tenne conto dell’opportunità di disporre i terrazzini verso le più ampie vedute del mare e di evitare, nel contempo, le vedute introspettive. Nei villaggi di Taormina e di Erice, il colloquio tra il paesaggio naturale e il contenuto espressivo delle forme costruite può avere spesso un accordo armonioso nel 8 Per una approfondita lettura della storia moderna della balneazione in Sicilia si veda: I. Fera, «Cartoline dalla Sicilia. Architetture balneari 1950-1970», sta in Lexicon, n.12 , anno di edizione 2011, pp. 50-51. 9Giuseppe Spatrisano (1899-1985) fu insegnante, storico dell’architettura, progettista, disegnatore di mobili, autore della Casa del Mutilato a Palermo ’35-45 e dell’Istituto Nautico, Palermo, ’48-52. Uno studio approfondito della sua opera è contenuto nel testo monografico: V. Balistreri (con scritti di R. Piazza e A. Sinagra), Giuseppe Spatrisano Architetto (1899-1985), Palermo, Fondazione Culturale “Lauro Chiazzese”, 2001, Il suo archivio è ospitato presso La Fondazione per l’arte e la cultura Lauro Chiazzese di Palermo, Palazzo Branciforte.

Fig. 2. Villaggio Turistico “Le Rocce”, Mazzarò, Taormina (ME), G.Spatrisano (1954-59) cartolina postale.

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1955

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quale risuonano talvolta quegli accenti poetici che si riscontrano nelle più genuine architetture spontanee10». A Taormina, la topografia è immortalata nel disegno dei percorsi. Un sistema articolato, scandito da piccoli piazzali di sosta panoramici e cortili comuni collega le case sparse lungo il promontorio con i fabbricati dei servizi collettivi situati nella parte alta del promontorio in cui sorge. Preesitenze, dislivelli e componenti naturali sono coinvolti nel funzionamento di questa promenade: alberi e agavi segnano l‟ingresso alle case, rafforzano le singolarità dei differenti ambiti, assolvono il ruolo di cerniere nei percorsi, le modalità aggregative delle case stabiliscono la forma e il carattere più o meno privato degli spazi in comune e delle terrazze. Un percorso pensato in maniera fluida, che non si conclude nei belvederi, ma prosegue ininterrotto dentro le abitazioni, ciò che avviene fuori determina la sequenza delle vedute interne (fig. 2). «Una strada è un atto spirituale, morale: ha un suo carattere, una sua fisionomia, una sua funzione, se non vogliamo dire addirittura una sua missione11». Spatrisano aveva proseguito gli studi iniziati a Palermo sui centri urbani e sulla città antica a Roma, con Roberto Pane, Plinio Marconi e Piacentini, e sarà in queste indagini, volte rintracciare i nessi tra tipologia edilizia e morfologia urbana, in cui farà affluire nel corso della sua professione, contenuti più “giovani” appartenenti a quel mediterraneo esteso ed internazionale importato da Sert, Coderch, Scharoun e Ponti.

Le case dei due villaggi, sono intese come dispositivo paesaggistico, modellate dal profilo del suolo, ruotano e si aprono a secondo dell’inclinazione del sole e degli scenari offerti dal paesaggio (fig. 3). Un chiaro principio costruttivo ne governa la costruzione: recinti in pietra calcarea a vista, su cui si reggono le coperture intonacate di bianco e rivestite in terracotta, sia la pietra che i coronamenti mutano lungo il percorso di altezza, forma, funzione, trasformandosi di volta in volta in pareti abitative, muretti, sostegni, terrazze, passaggi, affacci. Ad Erice il villaggio costeggia le vecchie mure puniche e si affaccia sul Golfo di Bonagia e sul monte Cofano. Gli edifici dei servizi collettivi sono raggruppati al centro e le case si concentrano in due nuclei distribuiti lungo le stradine principali. L‟impianto della “Pineta” sembra riprendere il fitto tessuto arabo della città, in cui terrazze, patii e belvederi, diventano punti di connessione e di orientamento urbani, trasformandosi in zone di incontro, sosta e ombra. Un recupero dei luoghi 12, che accomuna sia nella

genesi che nella realizzazione i villaggi alla poetiche neorealiste italiane e che si esprime a Taormina ed Erice nel rispetto dell’identità del luogo e nell’instaurazione di uno scambio costante e mutevole tra l’uomo e le emergenze paesaggistiche. 10 G. Spatrisano, I villaggi turistici, Palermo, 1954, pp. 7-8. 11 M. Piacentini, Architettura d‟oggi, Roma, 1930, p. 15. 12 M. Tafuri, Storia dell‟ architettura italiana, 1944-1985, Torino, Piccola biblioteca Einaudi, 1982, pp. 12-14.

Fig. 3. Villaggio Turistico “La Pineta ”, Erice (TP), G.Spatrisano (1954), Piante Case E

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2.2. I posti di ristoro

«I musei, le residenze per gli addetti, i soprintendenti e i custodi devono essere disposti in luoghi non visibili e non devono entrare nella composizione del sito archeologico, quali interferenze estranee alla sua atmosfera particolare»13. Nel 1952 Spatrisano progetta l’Antiquarium e il Punto di Ristoro a Solunto (fig. 4), nel 1954 quello del Monte Pellegrino e il piccolo Albergo con posto di ristoro a Piana degli Albanesi nel 1959. L’edificio normalmente dava le spalle al sito turistico e il visitatore veniva accolto in sale aperte su ampi panorami. La matura adesione all’architettura organica si esprime nella prevalenza della direzione orizzontale, nell’uso di setti in pietra e di volumi leggermente ruotati tra loro, nella distribuzione delle funzioni su quote coincidenti con l’orografia del suolo, nel dispiegarsi di aggetti, terrazze, pensiline e frangisole. Alla natura, infine, era sempre concessa la possibilità di poter appropriarsi di parte del costruito. Opere appartenenti ad un regionalismo minore, meno conosciuto, capaci di rileggere e strutturare il territorio, che in quegli anni hanno offerto in una varietà di possibilità progettuali date dal connubio tra storia, paesaggio, materiali e abitanti.

13 D. Pikionis, Keimena, a cura di: A. Pikionis e M. Parousis, pubblicato dalla Fondazione Culturale della Banca Nazionale di Atene, 1985, p. 144 tratto da: Y.Economaki-Brunner, «D.Pikionis: la trasformazione di un sito», in Casabella, n. 585, Dicembre 1991.

Fig.4. Punto di Ristoro Parco Archeologico di Solunto (PA), 1954. Fondo Spatrisano - Fondazione per l’Arte e la Cultura Lauro Chiazzese, Palermo, Palazzo

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Worker housing, fondamenta Santa Marta (1922-1926), Photography J. Fichte 2017

The Completion of The Urban Form of Venice Alexander Fichte

Technische Universität Dortmund – Cologne – Germany Keywords: city image, urban development, urban form, tourism, worker housing.

1. Myth, city image and urban development Nowadays, Venice is one of the main tourist cities1. Most visitors are attracted by the sensual romantic atmosphere and the melancholy of the remains that show the glory and beauty of a distant past2.

Although, it is often argued that Venice is a dying city, this myth is deliberately used in order to increase its touristic success3. The city did not cease to exist after the Napoleonic conquest. Like in every other European city, the impact of industrialization and demography in the XIX

1 S. Woolf, M. Isnenghi, la costruzione della città turistica, in Storia di Venezia l‟Ottocento e il Novecento, Rome, Marchesi Grafiche Editoriali Spa, 2002, p. 1124. 2 E. Horst, Venedig, die Stadt im Meer, Freiburg, Olten, Walter-Verlag AG, 1978, p. 18. 3 M. Isnenghi, Postfazione, in la grande Venezia, Venice, Marsilio Editori, 2002, p. 191.

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and XX century was significant and should not be neglected. This “Venice after Venice”4 struggled to find its place between the major Italian industrial hubs of the late XIX century, and also between those of Europe in the early XX century. In the interwar period, when the industrial and demographic growth could no longer be handled by the island only, worker housings were erected on the edges of the island to address the demographic needs, which in their urban form connected with the historic city center. In Venice the visual impact of the city on its visitors was always considered important. For centuries literature, art and music, and the city itself were effectively used as means for conveying Venetian self-perception and its claimed central role in the world. For centuries, the self-perception of the Venetian Republic changed and with it the stories told by its citizens. Around 1500 the Venetian supremacy in the Mediterranean began to fade. The bird‟s eye view of Jacopo de Barbari shows the island isolated in the lagoon focusing on itself. The city state redefined its own identity and defined its “forma urbis” for the centuries to come5. On the arrival of the Napoleonic troops in 1789 Venice represented only a shadow of its former glory and had become a place of art, amusement and pleasure. During the ensuing repression under foreign rule, the decay of the city and what was left of its economy began and the myth of the dying romantic city was born. The end of the Venetian state marks the beginning of the poetic potential of the city6. Meanwhile the occupying forces started the modernization of the city. The opinion was that Venice had to adapt to modern times. In 1846 Venice was connected via railway to the mainland. This new connection significantly modified the old urban hierarchies. The principal point of arrival shifted from St. Mark‟s Square to the former backside of the city where the train station was built7. To improve the pedestrian circulation on the island many bridges were built in the following years. In this mixed atmosphere of urban decay and renewal, John Ruskin wrote his “Stones of Venice” in 1851. He documented the former image of the city before it could vanish due to the modernization process. Ruskin was not driven by historical or archeological interests in the old buildings. He was eager to highlight the value and the dignity of an aging city as pole of continuity in a changing world. For example, he was astonished to find modern gas lamps, which were not special nor Venetian at all, on his trip to Venice in 18468. According to Ruskin, every new building project had to be modified and changed in a way that all innovation would be lost when facing the strong Genius loci of Venice9. The connection between port and railway was essential for the further economic development of the city. The new trade port was built on the north-western end of the island near the station in 1880. The city‟s economy began to evolve and Venice became one of the most important trade ports in Italy. Again the industrialization of the island was opposed by those who feared the loss of the romantic uniqueness of Venice. In his article “Delendae Veneziae” published in 1887, Pompeo Molmenti complained about the poor decisions made by the Venetian government regarding the preservation of the special image and character of the lagoon city. At the same time he acknowledged the need for urban development concerning

4 M. Isnenghi, Postfazione, in la grande Venezia, Venice, Marsilio Editori, 2002, p. 191. 5 E. Concina, A history of Venetian architecture, Cambridge, Cambridge University Press 1998, p. 149. 6 A. Corbineau-Hoffmann, Paradoxie der Fiktion, literarische Venedig Bilder, Berlin, De Gruyter GmbH, 1993, p. 6. 7 D. Calabi, Dopo la Serrenissima, societá, amministrazione e cultura nell'Ottocento veneto, Venice, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 2001, p. 472. 8 J. Ruskin, Ruskin in Italy letters to his parents 1845, Oxford, Harold I Shapiro Clarendon Press 1972, p. 198. 9 G. Zucconi, Grande progetti per una più grande Venezia, in Venezia „900, Venice, Quaderni documenti sulla manutenzione urbana di Venezia n.4 anno II september 2000, p. 60.

1960

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the creation of workplaces and for a solution to the sanitation problems of old habitation districts10. Despite the industrialization and the economic success, the myth of Venice remained unchallenged. The second Venetian industry, tourism, became a serious source of income. Hotels and restaurants opened all over the island, the art exposition “Biennale” was installed in 1885 and the first public transportation boats (the so-called “Vaporetti”) made touring the city more comfortable. The myth of the dying city was renewed when the bell tower of St. Marks collapsed due to poor maintenance in 1902. Its reconstruction in 1912 shows the importance of the city image not to be altered by that time. The island could not provide enough space for further development of industry and demography in the early XX century. To remain capable of competing on a national and international level it was decided in 1917 to construct a new industrial zone on the mainland, including a linked port. In the following decades the industrial port of Marghera grew and with it the economic importance of the once subsidiary mainland. Also in the touristic sector Venice was widening its territory. On the Lido of Venice, the long island that separates the lagoon from the open sea, many hotels and coastal resorts were built. The contrast of the late romantic atmosphere of the early XX century and the further industrialization is described in Thomas Mann‟s “Death in Venice” , where the protagonist resides in one of the new hotels on the Lido instead one of the old hotels on the main island11. To return the former wealth and glory of the Venetian Republic12 the metropolitan region of Venice, called “Great Venice” (“la grande Venezia”), was born. The Ministerial Council in Rome approved the inclusion of settlements and small cities around the lagoon, including Mestre and Marghera, on July 28, 1926. The mainland and the island were considered as two poles of one city: The island as the administrative center with touristic potential, and the urban expansion on the mainland as an industrial area with spacious worker housing. The creation of the official tourist office in 1929 can be linked to the dependence of the island to its touristic potential as a source of income, further contributing to the separation of the two city poles. The special law N. 1901, published in 1937, aimed at saving the unique urban environment of the lagoon and the monumental character of Venice. The urban masterplan followed in 1939. This plan has to be understood as a guideline for future progress of the city development. The main objective of the masterplan was the modernization of the infrastructure, while maintaining its unique character. Not only new channels and new pedestrian connections were planned but also new residences in those areas where it was possible. The plan consolidated the urban planning practice of the previous decades and determined the progress for the years to come13.

2. Blank spaces and worker housing At the beginning of the XX century the development of the island was determined by the need to respond to the demographic and sanitary challenges, while maintaining its urban image. The law N. 251 (called “Legge Luzzatti”) introduced worker housing as a convenient instrument to respond to these requirements. It was approved by the Italian parliament in 1903 and emerged out of the government experiences of its Venetian creator Luigi Luzzatti.

10 P. Molmenti, Delendae Venetiae, Florence, Nuova Antologia, Volume settimo 1887, p. 414. 11 I. Musu, Economia e ambiente: Marghera e la fine del sogno della Venezia industriale, in Venezia ' 900, Venice, Quaderni Documenti sulla manutenzione urbana di Venezia n. 4, anno II, september 2000, p. 79. 12 Per la più grande Venezia, Venice, Rivista mensile della città di Venezia, june 1926, p. 234. 13 G. Bellavitis, G. Romanelli, Le città nella storia d'Italia, Bari, Editori Laterza, 1985, p. 238.

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Urban districts on the margin of the island (1918-1939) (in red), figure ground plan, A. Fichte 2017

Following article 22 of the law the enterprises of the newly founded municipal agencies had to be linked to social principles instead of the rules of profit and were part of the public administration. Using old industrial sites, former back gardens or by means of tearing down old housing there were still some blank spaces left in the interior parts of the island. Until 1914 most of these spaces were filled with residences. A perfect example is the quarter that was erected on the area occupied by the former iron foundry Neville around S. Rocco from 1909 to 1912. The current buildings are arranged in simple rows and vary only in height, color and in the design of the windows. Due to their front gardens they are separated from public space by brick walls and fences. This kind of approach to worker housing later was described as being focused on economic and hygienic aspects and as a result, the buildings would be characterized by a sense of monotony and aesthetic apathy14. Another law that benefited the construction of worker housing in Italy was the T.U. N.89. It was passed in 1908 and brought innovations to the already existing law N.251. New standards for the construction, sale, succession and sanitation rules were introduced and bank credits linked to worker housing projects were easier to get. These benefits were focused on a certain type of companies founded, following the Luzzatti law and excluded private venturers. At this point it was also determined who was allowed to live in the newly built worker housing15. The autonomous institute of working class housing (called “IACP”, for “Istituto Autonomo Case Popolari”) emerged out of the communal agencies in 1913. As an autonomous agency it was allowed to engage in free market operations but at the same time was bounded to the 1903 and 1908 laws. Thus, it benefited from special treatment by local administration and credit institutes while respecting social principles without political interests or motivation. 14 P. Donatelli, La casa a Venezia nell'opera del suo istituto, relazione del presidente dell‟istituto autonomo per le case popolari di Venezia, 1928, p. 21. 15 M. Di Sivo, Normativa e tipologia dell'abitazione popolare, Volume primo l'origine e lo sviluppo nelle leggi della casa dal 1902 al 1980, Florence, Alinea Editrice, 1981, p. 29.

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In the law N.1858 passed in 1919 the character of worker housing was defined. In order to keep the above mentioned advantages, buildings had to remain property of the official agencies authorized by law or had to be constructed by companies providing residence for their members to rent or buy. Also, the single apartments needed to include their own entrance from the stairway, a WC, water (if possible drinking water) and more than six rooms without a bath, kitchen and storage room. Furthermore, buildings had to comply to the sanitation rules of the local administration16. After the Great War, a shift in building practices became visible, the aesthetic demands that were imposed onto worker housing. A pleasant environment was considered to have an educative aspect on its residents and would contribute to make them better individuals17. In Venice, according to Dulio Torres, such an environment was to be linked to the history and tradition of the city. The mere application of sanitation rules and stipulations of worker housing would deny its peculiarity18. The first regulations and statute of the IACP published in 1915 did not mention the importance of this aesthetic aspect19. Because there was no more space left within the island, the new building projects of the interwar period took place on its margins, which in part had to be fixed or created before the building activity could be started20. Compared to the residential districts on the mainland, which were influenced by the garden city movement, the dense quarters on the edges of the island needed to adapt to the existing city in various ways. The quarters Madonna dell‟Orto (1919-1921), Sant'Alvise (1929-1930), San Girolamo (1929-1930), and Celestia (1938-1939) completed the northern edge of the city. The quarters of San Giacomo Giudecca (1919-1921) and Campo di Marte Giudecca (1919-1929) filled the blank spots left on the Giudecca. The eastern and western points of the island were completed by the quarters of Sant'Elena (1922-1927) and Santa Marta (1922-1930). Despite being built during the same period, the quarters differ in their characteristics. On the northern edge, building design is simple even though the typology is becoming more complex over time. In the Giudecca, design and typology are simple and quarters mostly seem to be responding to the demographic need. Nevertheless, historical decoration of the facades is not missing. In comparison, quarters on the eastern and western point of the island are complex in their urban form. In particular Sant'Elena, it is defining a modern approach to continue the special “forma urbis” of the island. All quarters are not accessible by boat; they focus only on pedestrians and seem to be aiming to complete the fishlike shape of the city, determined almost 500 years before, by Jacopo de Barbari. The new worker housing quarters are located in the former periphery of the island and therefore are not of direct touristic interest. They aim to correspond with the image of the historic city center in their urban form while satisfying the needs of sanitation and demography. In 1951 the population of the island reached its peak with 174.808 inhabitants. In the following decades an increasing number of Venetians preferred the more comfortable habitations on the mainland, which were also closer to the industrial areas. In 2014 the number of the inhabitants of the island was 56.311. At the same time, the tourist relevance peaked. From 1949 to 2015 the number of tourists staying in Venice for three nights in average rose from 382 760 to 2.615.006, not including daily visitors, whose number is

16 Ibidem, p. 49. 17 P. Donatelli, La casa a Venezia nell'opera del suo istituto, relazione del presidente dell‟istituto autonomo per le case popolari di Venezia, Rome, Stabilimento poligrafico per l'amministrazione dello stato, 1928, p. 21). 18 D. Torres, Urbanismo Veneziano, Venice, Rivista Mensile della città di Venezia, august 1922, p. 213). 19 Istituto autonomo per le case popolari, statuo e regolamento, Venice, Stab. tipo-litografico F. Garzia, 1915, in Archivio Comunale di Venezia busta 1926-1930, IX, 1, 4. 20 Further informations about the “Sacce” and their development in F. Cosmai, S. Sorteni, L' economia del fango. La “sacca” come ridefinizione dei limiti urbani tra Sette e Ottocento, in limiti di Venezia, Venice, Quaderni, documenti sulla manutenzione di Venezia, N.17, anno V dcember 2007, pp. 49-55.

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estimated to be between 30.00 and 60.00021. With the increasing tourist movement and decreasing population after the Second World War, the insular infrastructure was constantly focused on the touristic needs. A process that already begun in the 1930s with the attempt to introduce the automobile into the city (“Ponte Littorio, Piazzale Roma, Rio Nuovo”). Until today the myth of the dying city is consistent and was renewed several times, for example by the high tide in 1966, the impact of the big cruise ships or the building of the flood system MO.S.E.. The worker housing projects realized in the interwar period deserve special attention, because they show a sensibility towards the Genius loci in order to keep the island a functioning city, before mass tourism revived the myth of the dying city. They highlight the fact that Venice is a fragile, but by no means dying city.

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La costruzione di un’identità tra costumi locali e turismo internazionale. Il caso di Agadir

Edoardo Luigi Giulio Bernasconi Politecnico di Milano – Milano – Italia

Parole chiave: identità, turismo, colonialismo, tradizione, Marocco, paesaggio, modernità, ricostruzione.

1. Agadir. Il luogo e il suo carattere Agadir è una località costiera a sud-ovest del Marocco. La città oggi è una destinazione di villeggiatura apprezzata da quella categoria di pubblico più incline al comfort degli alberghi internazionali e alle spiagge attrezzate. Capoluogo amministrativo della regione Souss-Massa, ospita circa 350 mila abitanti, impiegati per lo più nel settore turistico e della lavorazione del pescato. La sua posizione è, da sempre, una caratteristica cardinale per il suo sviluppo trovandosi nel punto in cui gli impervi monti dell’Atlante si abbassano per sfiorare le rive dell’oceano, a presidio del solo passo litoraneo verso la fertile vallata dello uadi Souss. La storia ha dotato questo luogo di una personalità plurale. La sua identità è, infatti, il risultato di relazioni e contrasti tra costumi millenari locali e usanze nuove, lasciate dal transito dell’era coloniale; tra il paesaggio ostile dei monti e dell’oceano e quello prolifico della vallata del Souss; tra natura incontaminata e abitato umano; tra stanzialità e turismo1.

2. Addizioni e mutamenti: brevi cenni di storia urbana Le prime fonti storiche dell’esistenza di insediamenti nell’area risalgono agli inizi del XVI secolo2, ma ritrovamenti archeologici permettono di datare la presenza dell’uomo in questi luoghi alla preistoria3. È presumibile che il primo manufatto degno di nota sia stato un granaio collettivo fortificato, e che da questa costruzione (agadir in lingua Amazigh) sia derivato il nome dell’insediamento. Nel 1913 Agadir è occupata dall’esercito francese e nei primi anni Venti, il governo coloniale, intuendo il potenziale della sua collocazione, incarica il Service de l’Urbanisme4 di trasformare il piccolo borgo in città-modello. Il piano si basa sulla tripartizione – Casba, medina, quartiere europeo – che connota il disegno di tutti i maggiori piani di espansione urbana concepiti nella

1 Il presente articolo sintetizza e rielabora parte del capitolo 1.2 della tesi di Dottorato di Ricerca in Composizione Architettonica di E. L. G. Bernasconi, Verso un’antica lingua moderna. La città di Agadir e l’opera di Jean-François Zevaco, discussa nel 2016 presso l’Università IUAV di Venezia. 2 Si tratta delle testimonianze della presenza della fortezza portoghese di Santa Cruz do Cabo de Gué, voluta come punto di controllo sia sulle rotte carovaniere dirette in Mauritania che su quelle marittime verso le Indie. Nei quattro secoli successivi alla sua fondazione l’avamposto diviene il porto principale del Marocco meridionale. Tale ruolo non viene meno neanche a seguito alle rivolte che portano alla deposizione dell’ultimo governatore portoghese, Guterre de Monroy, per mano delle tribù locali nel 1541. La sua fortuna termina solo nel 1760, quando il sultano Sidi Mohammed Ben Abdullah, motivato dall’instabilità politica della regione, decide di deviare tutte le rotte sul porto di Mogador (oggi Essaouira). Per ulteriori approfondimenti storici si rimanda a M.-F. Dartois, Agadir et le Sud marocain. À la recherche du temp passé. Des origines au tremblement de terre du 29 février 1960, Paris, Courcelles Publishing, 2008. 3 È indubbiamente intrigante lo studio pubblicato in M. Adams, Meet Me in Atlantis, New York, Dutton, 2015, e che espone, mediante deduzioni e interpretazioni di fonti storiche, la teoria per la quale Agadir sorga sul sito della leggendaria città perduta di Atlantide. 4 Il Service spécial d’architecture et des plans des villes (poi semplicemente Service de l’Urbanisme) è l’organo che dal 1913 al 1968 si occupa di realizzare tutti i piani di espansione urbana e di amministrazione del territorio in Marocco. Voluto dal maresciallo Lyautey, governatore generale del Marocco, ha avuto come suo primo direttore l’architetto e urbanista francese Henri Prost (Parigi, 1879-1959). Per approfondimenti cfr. J.-L. Cohen and M. Eleb, Casablanca: mythes et figures d’une adventure urbaine, Paris, Hazan, 2004.

1967

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prima fase dell’epoca coloniale in Marocco, nati dalla volontà di tenere separati gli indigeni dai coloni5. Il progetto vede l’edificazione, a est della Casba, di due quartieri dal disegno eclettico, distinti da una netta connotazione formale. Di questi, il settore situato ai piedi del promontorio della Casba – il Talbordj6 – è destinato a ospitare la popolazione locale, mentre quello più a est, a forma di ferro di cavallo, è dedicato all’accoglienza della popolazione europea.

J. Raymond, Agadir. Schema della città futura, 1923

A seguito del secondo conflitto mondiale7, il governo coloniale sancisce la messa in atto di un nuovo piano di espansione basato sulla volontà di valorizzare le due attività chiave del territorio: l’industria di manifattura del pescato e, per la prima volta, il turismo. L’allora a capo del Service de l’Urbanisme, Michel Écochard8, presenta un progetto che se da un canto si pone in continuità con l’idea di suddividere in zone distinte la città, dall’altro prevede l’organizzazione delle singole parti entro un sistema funzionale unitario9. Inoltre, la costruzione dei primi alberghi, l’ampliamento del porto e la bonifica della spiaggia fanno di Agadir una delle prime mete per il turismo di massa in Marocco.

5 Il piano è redatto dall’ingegnere Jean Raymond ed è pubblicato in J. Raymond, «Dans le Sous mystérieux, Agadir», in La Géographie. Bulletin de la societé de Géographie, 3, 1923, pp. 321-40. 6 La bibliografia dedicata ad Agadir riporta sovente la traslitterazione Talborjt . Tuttavia, per questo articolo si è scelta la dicitura utilizza dagli stessi ideatori del nuovo piano regolatore. Cfr. «Agadir. Plan d’amenagement», in a+u - Revue africaine d’architecture et d’urbanisme, 4, 1966, inserto. 7 Si tratta di un momento di radicale cambiamento per il Marocco. Infatti, se da un lato il paese vive un rapidissimo sviluppo industriale e un conseguente boom economico, dall’altro il veloce cambiamento dell’assetto sociale interno porta a un improvviso svuotamento delle campagne in luce di un inurbamento incontrollato. Così, mentre nelle città si progettano soluzioni per garantire a tutti alloggi dignitosi, nel territorio si intentano strategie di potenziamento delle infrastrutture per disincentivare la migrazione A tal proposito cfr. M. Ben Embarek, «Urbanisme et aménagement du territoire dans les pays sous-développés», in a+u - Revue africaine d’architecture et d’urbanisme, 3, 1965, pp. 6-11. 8 Michel Écochard (Parigi, 1905-1985) è una delle figure più importanti nella storia dell’architettura del Marocco moderno. Direttore del Service de l’Urbanisme dal 1946 al 1952, svolge il ruolo di tramite tra il dibattito architettonico moderno internazionale dei CIAM e i giovani architetti che operano in Marocco nel secondo dopoguerra. La sua ricerca progettuale è per lo più incentrata sul tentativo di trovare soluzioni progettuali capaci di fare convivere le teorie del Movimento Moderno con le modalità abitative tradizionali. 9 Cfr. M. Écochard, «Les quartiers industriels des villes du Maroc», in Urbanisme, 11-12, 1951, pp. 26-39.

1968

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Nella notte del 29 febbraio 1960, un terremoto rade al suolo l’intera città, seppellendone l’immagine tra le macerie. Il Paese si dimostra, però, da subito capace di replicare con una vigorosa mobilitazione di tutta la popolazione unita nel realizzare una grande opera urbana e architettonica corale. La calamità, d’altronde, marca un passaggio storico cruciale, occorrendo in una delicata fase di transizione del Regno che, da soli quattro anni, ha riottenuto la sovranità politica. In questo quadro, dunque, la risoluzione dell’emergenza non si limita a rispondere all’esigenza di ridare un tetto agli sfollati o riattivare il turismo internazionale, ma diventa l’emblema di una volontà di riscatto e di asserzione dell’identità di un popolo10. In questo momento, il Marocco gode di una solida esperienza in fatto di urbanistica grazie all’eredità teorica e partica lasciata dal Service de l’Urbanisme di Écochard, sotto la cui egida si forma la gran parte dei progettisti rimasti dopo la fine del colonialismo, e che ora si ritrova a unire le diverse competenze nella ricostruzione.

Veduta della spiaggia di Agadir dalla Casba, 1956

3. Progettare il paesaggio e l’identità collettiva Il presupposto teorico che sottostà all’intero piano di ricostruzione è che esso non sia la mera applicazione di un disegno su carta, frutto di schematismi e calcoli quantitativi, ma che tenga conto della natura sensibile dell’essere umano nel suo rapporto con il paesaggio. Quest’ultimo, infatti, è interpretato come il contenitore dell’identità del luogo. Per questa ragione, il progetto è ideato congiuntamente dall’urbanista Pierre Mas11e dal paesaggista Jean Challet12. La collaborazione tra queste due figure fa sì che il piano diventi 10 Cfr. T. Nadau, «La reconstruction d’Agadir ou le destin de l’architecture moderne au Maroc», edited by M. Culot and J.-M. Thiveaud, Architetures françaises outre-mer, Liège, Mardaga, 1992, pp. 147-75. 11 Pierre Mas (Cannes, 1923 - Grenoble, 1999). Diplomato in ingegneria agraria nel 1943 presso l’École Nationale d’Horticulture di Versailles, dal 1946 prosegue gli studi di paesaggio presso l’Institut d’Urbanisme de l’Université de Paris. Dal 1947 al 1949, partecipa a due stage estivi presso il Service de l’Urbanisme marocchino, durante i quali conosce Écochard. In questa fase si interessa ai problemi di urbanistica legati al maggior numero. Si laurea nel 1950 con una tesi intitolata Phénomènes d’urbanization et les bidonvilles du Maroc, discussa assieme al suo relatore, il geografo Maximilien Sorre (Rennes 1880 - Messigny, 1962). Finiti

1969

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occasione per rivalutare le metodologie correnti dell’urbanistica, tramite gli strumenti forniti dalla disciplina della progettazione del paesaggio. La rovina è assunta come lo strato archeologico sul quale si fonda la legittimità della nuova proposta. In questo caso, tuttavia, essa non testimonia una civiltà persa nel tempo, ma contiene in sé la memoria dell’immediato presente. Ciò rende necessario che il piano instauri un dialogo con i resti. Ne consegue un progetto che, da un lato, si avvale delle tracce fisiche risparmiate dal sisma e, dall’altro, rielabora la componente simbolica del luogo. Il progetto è sviluppato partendo dai princìpi della Carta di Atene13, ma nella sua configurazione spaziale dimostra una profonda lettura della tradizione insediativa locale. Quest’ultima non è considerata come deposito da cui attingere trovate stilistiche, ma come fonte per comprendere le dinamiche atemporali dell’abitare, necessarie a indicare il punto di partenza per l’ideazione del nuovo. Tali dinamiche sono frutto del millenario rapporto tra l’essere umano e gli aspetti fisici e simbolici del territorio. Questa unità è ciò che permette di riconoscere e riconoscersi e che consente la formazione di un’autocoscienza e quindi, con essa, la costruzione di un’identità14. La nuova ripartizione in settori della città non cerca di segregare, ma di favorire un processo di identificazione tra gli abitanti e il luogo che li ospita, mantenendo, per ciascuna zona, caratteri specifici, così da renderli familiari malgrado la novità del linguaggio espressivo dell’architettura. Come avviene nella città tradizionale marocchina Agadir è divisa in quartieri autosufficienti15. Essi sono posti in relazione diretta con un Centro urbano16, sede dei servizi d’interesse comunale e caratterizzato da un’architettura internazionalmente moderna. I pezzi che compongono la città sono tenuti insieme dal sistema del verde che, estendendosi negli avvallamenti del suolo – i confini naturali tra i quartieri – disegna la figura di una mano aperta le cui dita indicano le direzioni per le future espansioni della città17. A sud-est del Centro urbano, si trova la zona residenziale detta quartiere industriale e a nord-est, sulle tracce del vecchio quartiere europeo, è costruito un secondo conglomerato abitativo il cui disegno in pianta rsiluta dal suo rapporto con la forma del terreno.

gli studi si trasferisce stabilmente a Rabat e collabora con Écochard. Con la partenza di Écochard, nel 1952, assume il ruolo di direttore del Service de l’Urbanisme fino all’indipendenza. Resta membro attivo dell’istituzione fino al 1966, anno in cui lascia il Marocco. 12 Jean Chalet (Cholet, 1924 - ?, 2006). Diplomato in ingegneria agraria nel 1945 presso l’École Nationale d’Horticulture di Versaille e in botanica alla Sorbona. Nel 1946 effettua il proprio stage a Copenaghen presso lo studio di Axel Andersen (1903-1952). Dopo aver lavorato per qualche tempo a Parigi, nel 1951 si trasferisce in Marocco sollecitato da Pierre Mas. Nel 1954 ottiene il diploma di paesaggista. Presso il Service de l’Urbanisme si occupa di piani urbani e di sistemazioni per il turismo con l’obiettivo di integrare gli interventi al proprio sito. Pianifica le alberature per le principali città e gli spazi verdi per le nuove espansioni urbane. Lascia il Marocco nel 1967. 13 Cfr. Le Corbusier, La Charte d’Athenes, Paris, Plon, 1938. 14 Per Challet il sito è “una porzione di spazio terrestre che offra un’unità geografica, biologica o umana”, in J. Challet, «Urbanisme et paysage», in a+u - Revue africaine d’architecture et d’urbanisme, 3, 1965, p. 17. (TdA). 15 Tradizionalmente, le città marocchine sono circondate da mura difensive e organizzate, al loro interno, in quartieri autosufficienti (separati a loro volta da mura) suddivisi in base ai clan familiari. Secondo i principi urbanistici dell’usanza marocchina, per essere indipendente ogni zona deve disporre di una moschea, una madrasa, un hammam, una fontana e un suq. Per il piano di Agadir, ogni quartiere residenziale dispone di una moschea, una scuola, un centro sportivo, una piazza e una zona commerciale. Cfr. S. Bianca, Urban Form in the Arab World, London - New York, Thames & Hudson, 2000. 16 Questa parte di città viene denominata Centre urbain sia nel testo di T. Nadau (op. cit.), sia nel numero nomografico della rivista a+u dedicato al piano per la ricostruzione di Agadir. Per questo articolo si propone la traduzione letterale in italiano. 17 L’idea riprende esplicitamente quella per il Fingerplanen di Copenaghen. Questo riferimento è dovuto alla forte influenza che l’esperienza di soggiorno lavorativo in Danimarca ha avuto su Challet.

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P. Mas e J. Challet, Piano regolatore di Agadir: schema concettuale, 1962.

L’area a est del Centro urbano, tra i primi due quartieri residenziali, è occupata dal nuovo Talbordj. Il quartiere nasce dalla volontà di trovare un connubio tra città moderna e modalità abitative tradizionali evitando, al contempo, di “cedere al gusto del pastiche […] e al lassismo dell’anarchia estetica che accompagna progetti simili più recenti”18. La disposizione delle singole unità famigliari fa sì che in ogni isolato si formino vie pedonali strette, intervallate da piccoli slarghi a richiamare la spazialità della medina. Infine, lungo la costa, nettamente separata rispetto alle zone residenziali da un’ampia area verde adibita allo sport, il piano prevede la costruzione del settore turistico. La scelta di dedicare il litorale al solo turismo genera aspre polemiche. Il timore è che si crei una nuova forma di segregazione tra turisti e popolazione locale. Malgrado i contrasti, tale decisione è supportata da considerazioni basate sull’attenta interpretazione della natura del luogo: Agadir, infatti, è da sempre connotata dal rapporto tra un entroterra antropizzato e una costa brada. Inoltre, è possibile supporre che Mas e Chalet volessero, da un lato, evitare che l’attività turistica prevaricasse le altre, determinando gli sviluppi futuri dell’intero sistema-città19 e, dall’altro, credessero la natura incontaminata del litorale fosse una peculiarità da risaltare per attirare i visitatori. 18 T. Nadau, op. cit., p. 156. (TdA). 19 Questo timore nasce dall’esperienza di ciò che, negli stessi anni, accade sulla costa spagnola. A tal proposito Mourad Ben Embarek scrive: «Il boom turistico che ha devastato [...] la costa spagnola è spesso citato come esempio. L’assenza di piani urbani, la libertà quasi totale della quale gioiscono promotori, sviluppatori e costruttori sono frettolosamente considerati come i fattori principali del successo. [...] È ben noto che l’urbanista, che non ha colpa, non ha potuto avere accesso a queste aree. Invece, gli è stato solo concesso di dispiacersi del fatto che i magnifici paesaggi della Costa Brava e della Costa del Sol non siano stati uti lizzati con più discrezione. [...] L’insufficienza di controllo ha soprattutto favorito la speculazione sui terreni e la cattiva qualità delle eccessive lottizzazioni e costruzioni». In M. Ben Embarek, «Tourisme et urbanisme», in a+u - Revue africaine d’architecture et d’urbanisme, 4, 1966, p. 65. (TdA).

1971

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Perciò, il piano prevede che la costruzione di attrezzature disupporto alla balneazione e strutture alberghiere siano diffuse e integrate al disegno naturale della costa.

4. Esiti e conclusioni Nonostante le migliori intenzioni dei progettisti, cinque decenni di amministrazioni più attente agli interessi economici che a preservare l’identità del luogo, hanno portato a un’Agadir molto diversa da come previsto. La costa è disseminata di resort-città autosufficienti. Il Centro urbano è disertato sia dai turisti, sia dagli abitanti che vivono in aree periferiche. La città si è ampliata per addizioni di quartieri-satellite, indipendenti sia sul piano dei servizi che su quello della forma architettonica, collegati tra loro da strade a solo uso veicolare. La perdita del centro ha portato a disequilibri, cambiamenti all’intero delle forze di attrazione tra gli elementi architettonici che avrebbero dovuto costituire l’immagine della città e che ora permangono, celibi, come resti archeologici di quella che sarebbe dovuta essere una potente visione urbana.

Bibliografia M. Ben Embarek, «Tourisme et urbanisme», in a+u - Revue africaine d’architecture et d’urbanisme, 4, 1966, pp. 64-65. M. Ben Embarek, «Urbanisme et aménagement du territoire dans les pays sous-développés», in a+u - Revue africaine d’architecture et d’urbanisme, 3, 1965, pp. 6-11. E. L. G. Bernasconi, Verso un’antica lingua moderna. La città di Agadir e l’opera di Jean-François Zevaco, tesi di Dottorato di Ricerca in Composizione Architettonica presso l’Università IUAV di Venezia, 2016. S. Bianca, Urban Form in the Arab World, London - New York, Thames & Hudson, 2000. J. Challet, «Urbanisme et paysage», in a+u - Revue africaine d’architecture et d’urbanisme, 3, 1965, p. 12-18. J.-L. Cohen and M. Eleb, Casablanca: mythes et figures d’une adventure urbaine, Paris, Hazan, 2004. M.-F. Dartois, Agadir et le Sud marocain. À la recherche du temp passé. Des origines au tremblement de terre du 29 février 1960, Paris, Courcelles Publishing, 2008. M. Écochard, «Les quartiers industriels des villes du Maroc», in Urbanisme, 11-12, 1951, pp. 26-39.

P. Mas e J. Challet, Modello del piano di sviluppo per Agadir, 1961

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P. Mas and J. Challet, «Agadir. Plan d’amenagement», in a+u - Revue africaine d’architecture et d’urbanisme, 4, 1966, inserto. T. Nadau, «La reconstruction d’Agadir ou le destin de l’architecture moderne au Maroc», edited by M. Culot and J.-M. Thiveaud, Architetures françaises outre-mer, Liège, Mardaga, 1992, pp. 147-175. J. Raymond, «Dans le Sous mystérieux, Agadir», in La Géographie. Bulletin de la societé de Géographie, 3, 1923, pp. 321-430.

1973

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Cinema e turismo: un rapporto ambiguo per il racconto e la fruizione del territorio

Delio Colangelo Fondazione Eni Enrico Mattei – Milano – Italia

Parole chiave: cinema, turismo, sviluppo territoriale, paesaggio. 1. Cinema, paesaggio e città

Un'ampia riflessione geografica e filosofica (Assunto 1973; Turri 1998; D'Angelo 2010) tende a collocare il paesaggio all'incrocio tra natura e cultura, tale da essere considerato come "natura percepita attraverso una cultura". Secondo tale prospettiva, guardare è interpretare e rappresentare e, in questo senso, non si tratta più solo di un atto individuale e indipendente, ma di un'operazione vincolata alla società di appartenenza e, dunque, al suo sistema di valori. E' per questo che un territorio può dar vita a paesaggi differenti, cioè a rappresentazioni differenti dello stesso pezzo di territorio (Raffestin 2005). Da questo punto di vista, l'arte assume un ruolo importante per definire e trasmettere l'idea di paesaggio. D'Angelo, infatti, ha messo in luce come: "l'origine pittorica del termine paesaggio ha fatto si che per lungo tempo il paesaggio reale sia stato percepito e concettualizzato come la proiezione sulla natura di quello che la pittura ci ha insegnato a vedere" (D'Angelo 2010, 50). Le arti figurative e, in seguito, la fotografia, la letteratura, i media, il cinema permettono quindi una rielaborazione e rappresentazione del paesaggio contribuendo, al tempo stesso, a fissarne alcuni caratteri principali. Con l'avvento del cinema possiamo ritenere che vi sia stata una modificazione importante nel nostro modo di osservare il paesaggio. In uno dei pochi saggi dedicati al rapporto tra cinema e paesaggio, Bernardi (2002) evidenzia come il paesaggio nella modernità non è più considerato come un luogo associato alla contemplazione distante, ma diventa un campo di esperienze o, addirittura, di dominazione dell'uomo sulla natura. Ed è proprio in questo senso che risulta interessante guardare al cinema come interprete privilegiato di questo cambiamento. Come già detto, vi è un'interconnessione circolare tra produzione artistica, paesaggio e sguardo: l'avvento della modernità modifica in modo sostanziale la percezione dei luoghi e il cinema interviene annullando la distanza che la pittura aveva prodotto tra l'osservatore e il paesaggio che lo percepisce, per entrare al suo interno e scrutarlo nei minimi dettagli. Negli anni '30 Walter Benjamin aveva avuto questa intuizione sostenendo che "nel suo lavoro, il pittore osserva una distanza naturale da ciò che gli è dato, l'operatore cinematografico invece penetra profondamente nel tessuto dei dati. Le immagini che entrambi ottengono sono enormemente diverse. Quella del pittore è totale, quella dell'operatore è multiformemente frammentata, e le sue parti si compongono secondo una nuova legge" (Benjamin 1966, 18). A differenza del gesto del pittore, che cerca di cogliere la totalità del paesaggio, la cinepresa penetra in esso, offrendo allo spettatore quella visione "multiformemente frammentata" che consente un'efficace analizzabilità dello spazio. In questo senso, il cinema non "rappresenta un paesaggio" come fa la pittura, ma "mostra il modo in cui il paesaggio è vissuto" (D'Angelo 2010, 22), entra letteralmente nella sua realtà (Benjamin 1966). Secondo Benjamin, la rivoluzione del cinema è paragonabile a quella psicoanalitica: come quest'ultima ha liberato l'inconscio, così la prima ha enormemente approfondito la sensibilità ottica. La riflessione benjaminiana sembra utile anche per la riflessione contemporanea sulle città e riafferma il ruolo del cinema come punto di osservazione privilegiato sul paesaggio cittadino. L'attenzione su tale paesaggio, infatti, cresce con la crisi dell'identità politica e territoriale della città che da organismo unitario e limitato, diventa sempre più un luogo indefinito (Ferriolo 2009, Benevolo 2011). Secondo Agamben (2007) la nascita della metropoli segna la nascita di un nuovo modo di intendere la città o, in termini foucaultiani, di un nuovo

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"dispositivo". La riflessione di Agamben, che si colloca sulla scia della ricerca di Michel Foucault sul potere, parte dall'etimologia greca del termine "metropoli" che significa "città madre" e si riferisce al rapporto tra la polis e le sue colonie. In questo senso, la metropoli ha in sè, fin dal principio, l'idea di una "dislocazione e disomogeneità spaziale e politica" (Agamben 2007). Così, secondo Agamben "benché la città abbia cercato di difendere come ha potuto la sua originaria natura di organismo politico, è certo però che, nella nuova spazializzazione metropolitana, è all’opera una tendenza de-politicizzante, il cui esito estremo è la creazione di una zona di assoluta indifferenza fra privato e pubblico" (Agamben 2007, p. 30). In altre parole, se la polis greca aveva al suo centro uno spazio pubblico, l'agorà, la nuova spazializzazione metropolitana tende a frammentarlo e ridurlo a tanti piccoli centri "commerciali" e di "sorveglianza". In questa situazione di perdita dello spazio politico, il cinema ha avuto, e forse lo ha ancora, un ruolo importante nella ri-politicizzazione dello spazio cittadino. In questo senso, nella definizione di questa operazione compiuta dal cinema, può essere utile richiamarci a un autore come Michel Foucault che, come abbiamo visto, è il punto d'origine della riflessione di Agamben sulla metropoli e che, in un suo saggio, considera il cinema come una "eterotopia". Secondo Foucault, infatti, le eterotopie sono «quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l'insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano» (Foucault 2006). Il termine eterotopia, secondo Foucault, rispetto all'utopia che rimanda a spazi irrealizzabili, ha l'effettività di essere un luogo dentro e fuori contemporaneamente: un contro-luogo. In altri termini, esso mantiene la sua alterità rispetto a "tutti quei luoghi che li riflettono e di cui parlano". Lo scopo dell'eterotopologia foucaultiana è quello di volgere uno sguardo diverso verso i luoghi dentro i quali si situa la nostra vita quotidiana.

2. Cinema e turismo Una delle componenti fondamentali nelle produzioni cinematografiche, oltre alla storia e ai personaggi, è il luogo in cui si svolge la narrazione. Quest’ultimo, lungi dall’essere esclusivamente la cornice di una storia, in molti casi ha un ruolo di primo piano nella diegesi filmica. La fascinazione che la scenografia naturale produce nello spettatore può trasformarsi nel desiderio di diventare turista della location, alla ricerca del filo emotivo che lega il film al luogo. A partire dagli anni '90, infatti, una serie di studi sulla formazione della destination image (Butler 1990; Gartner 1993) e sugli impatti economici e turistici prodotti dai film (Riley, Van Doren, Baker 1998; Schoefield 1996; Macionis 2004; Beeton 2005), hanno messo in risalto le potenzialità dell'immagine cinematografica per la promozione territoriale e il loro effetto anche turistico sul territorio. Con il termine film-induced tourism o film tourism si indica quella forma di turismo che ha come motivazione principale la fruizione delle destinazioni utilizzate come location di prodotti cinematografici (Evans 1997). La letteratura scientifica sul rapporto tra cinema e turismo (Riley, Van Doren, Baker 1998; Schoefield 1996; Macionis 2004; Beeton 2005) ha individuato tre principali benefici dei film a vantaggio del territorio: l'hallmark event, la longevity e il vicarious consumption. In uno dei primi studi sul turismo cinematografico, realizzato da Riley e Van Doren (1992), il film viene considerato per il territorio che lo ospita un “evento di qualità” (Ritchie 1984) in quanto si svolge in una temporalità limitata ma può avere un'influenza sul lungo periodo ed è in grado di stimolare la conoscenza, il fascino e la redditività di una destinazione. Il cinema, infatti, in qualità di hallmark event crea interesse e attenzione verso il luogo apparso sul grande schermo; la location ne guadagna in notorietà, seduce lo spettatore con la sua nuova veste di celluloide e, quindi, può anche divenire meta di incoming turistico. Secondo Beeton (2005), poi, tutti i prodotti audiovisivi sono caratterizzati da una longevità intrinseca che garantisce

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una continua riproposizione delle immagini. Nel caso del cinema, i film, oltre alla loro apparizione nelle sale cinematografiche, possono sfruttare passaggi televisivi o in streaming, realizzazione di dvd, rassegne ecc.. In questo senso, la forza dell’immagine autonoma può contare sulla lunga coda del prodotto filmico che garantisce la riattivazione dell’attenzione verso il film e la località in cui è stato girato. La letteratura sul rapporto tra turismo e immagine cinematografica insiste molto anche sul concetto di consumo indiretto, evidenziando la possibilità data allo spettatore di pre-consumare la destinazione turistica attraverso la visione di un film. Si parla, infatti, di vicarious consumption (Schofield 1996, Macionis 2004) per indicare l’importanza della possibilità di visionarne i luoghi principali nel processo di scelta e acquisto di una destinazione. La forza dell’immagine cinematografica, quindi, non sta semplicemente nel veicolare le informazioni sulla destinazione, ma anche nella capacità di mostrare quest’ultima all’interno di una narrazione che coinvolge lo spettatore. L'hallmark event, la longevity e il vicarious consumption sono aspetti che, come vedremo nel prossimo paragrafo, possono influenzare sensibilmente il processo di destination choise dei turisti. Il cineturismo può essere inteso come un fenomeno che pone in risalto l'intrusione del medium filmico nella realtà. Secondo autori come Zimmermann e Escher, il cinema ri-prensenta e ri-costruisce i luoghi e i paesaggi in modo tale che non è più possibile la distinzione tra mondo cinematografico e mondo reale, tra real e reel (Escher, Zimmermann 2001). In questo senso, è utile citare un caso che, nella letteratura sul tema film tourism, è stato analizzato: “Il Signore degli Anelli” (2001-2002-2003). Si tratta di una trilogia fantasy, girata in Nuova Zelanda e che ha avuto un grande successo di pubblico. I film raccontano di un mondo immaginario e, quindi, non hanno alcun legame con l'identità territoriale del luogo e, tuttavia, la richiesta di visitare i luoghi in cui il film è stato girato è cresciuta di anno in anno (Tzanelli 2004). La tesi di Tzanelli è che il cinema è capace di compiere un'operazione di "staged authenticity", di costruzione dell'autenticità di un luogo. I cine-turisti, pur essendo consapevoli di avere a che fare con una finzione, vivono il tour cinematografico come un’esperienza autentica in cui la Nuova Zelanda viene percepita davvero come se fosse la “Terra di Mezzo” in cui si svolgevano le storie di fantasia del film. Il cinema, quindi, agisce sul paesaggio in modo ampio, non solo registrandone le trasformazioni ma come produttore di senso e identità Un altro caso interessante riguarda il film “The Passion” di Mel Gibson e la città di Matera. La città dei Sassi, infatti, è nella lista Unesco dal 1993 ma solo a partire dal 2004, data di uscita del film, che ha avuto un vero e proprio boom di flussi turistici, in particolare da paesi esteri (De Falco, 2007). Tale incremento sostanzioso del turismo, che è stato replicato nel 2015 con la designazione di Matera come Capitale Europea della Cultura 2019, è con buona probabilità da associarsi all’effetto di visibilità internazionale determinato dal film di Mel Gibson. Matera è diventata agli occhi dei turisti la Gerusalemme italiana, continuando ad attirare nuove produzioni cinematografiche a tema biblico: si contano, infatti, circa una decina di film che hanno utilizzato Matera come fosse Gerusalemme, l’ultimo dei quali è Ben Hur (2016), remake del celebre kolossal.

3. Conclusioni

Il rapporto tra paesaggio, città e cinema va studiato nella complessità delle sue relazione e non semplicemente dal punto di vista estetico (analizzando il paesaggio all'interno della poetica di un autore), o dal punto di vista urbanistico o, recentemente, dal punto di vista turistico (equiparando il film a uno strumento di promozione territoriale). È importante ribadire che il cinema, come narrazione dei luoghi, concorre alla costruzione del paesaggio e alla produzione di identità territoriali e, tuttavia, può andare incontro a evidenti contraddizioni (Pollice, Urso 2013). I film possono raccontare storie vicine all'identità del territorio, tessendole in un

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autentico sfondo economico-sociale, ma possono essere anche completamente avulse da esso. Vi sono, infatti, produzioni cinematografiche che utilizzano un luogo esclusivamente per ambientarvi vicende che, nella finzione, avvengono in altri luoghi o in posti immaginari. Da una parte, abbiamo analizzato l’asse teorico Benjamin-Agamben-Foucault secondo il quale il cinema sembra essere l'eterotopia per eccellenza proprio perchè rappresenta e racconta i luoghi cittadini ma donando loro un’irriducibile alterità. I luoghi sullo schermo diventano altro, un paesaggio "politicizzato", perchè restituititi allo spettatore nella loro relazione tra spazio e uomo e, quindi, come luogo di riflessione e di confronto. E, in particolare, in una fase in cui la città si modifica in modo sempre più dinamico e assume una spazializzazione metropolitana, il cinema ha mostrato una particolare predisposizione nell'osservazione di tutti quei luoghi periferici in cui appare in modo emblematico la tendenza de-politicizzante. Alcuni registi del "cinema moderno", da Antonioni (Bernardi 2002; Gandy 2003) a Kiarostami (Nancy 2004) hanno colto le potenzialità del cinema in rapporto al paesaggio e hanno fatto di quest'ultimo il centro della narrazione. Tale scelta poetica non è scaturita solo dal bisogno di "recuperare il paesaggio", di posare uno sguardo non frettoloso su di esso, ma anche dalla necessità di esprimere la perdita della centralità narrativa del personaggio e, probabilmente, anche della centralità dello sguardo dell'autore (Bernardi 2002). In altre parole, il cinema non solo ci offre una rappresentazione del paesaggio ma può porre la questione dell'instabilità dello sguardo, che si dimostra sempre precario, sempre work in progress tra la dimensione fisica del paesaggio e la sua rappresentazione. Dall’altra parte invece, abbiamo sottolineato una tendenza del cinema a utilizzare i luoghi come semplice scenografia naturale, o senza alcun riferimento all’identità locale (e spesso ambientando storie che avvengono in altri luoghi) oppure con una superficiale rappresentazione della cultura del luogo in chiave di promozione turistica. In Italia, tale tendenza a inquadrare il cinema esclusivamente per le sue potenzialità di promozione territoriale ha avuto un’impennata negli ultimi anni in seguito al sempre maggiore investimento delle Regioni nel cinema, finanziando le imprese cinematografiche attraverso le film commission. Tale finanziamento concesso a fronte, spesso, di una richiesta di valorizzazione delle risorse culturali e turistiche ha creato una sorta di circolo vizioso per cui si chiede agli autori e produttori un ruolo sempre più vicino alla promozione territoriale e più lontano a quel ruolo politico e critico che è stato messo in luce. Il cinema come strumento di promozione territoriale, benchè porti benefici in termini economici e turistici sul territorio, mostra una serie di criticità, per quanto riguarda la diffusione/rappresentazione dell’identità locale di un territorio, rischiando di fare proprio lo sguardo superficiale del turismo massificato.

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