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COLLAGE PER ROCCO SCOTELLARO- Antonio Devicienti rocco scotellaro a tricarico A Scotellaro E mentre guardo immagini di te, dei riti apprendo a Sant’Antonio abate, la transumanza, pantomime e nastri, il mondo alle radici, Rocco, mi chiedo: quale forza traevi da tua terra e quanta ne infondevi? E che parole ti insegnava tua madre, ché la mia mi insegnava le tue? Anna Maria Curci 21 agosto 2014 Può anche accadere che si effettui un viaggio guardando con gli occhi di un altro: nella seconda metà di agosto Anna Maria Curci ha postato nella sua pagina Facebook alcune foto di cui mi sono letteralmente innamorato e le ho chiesto di poterle usare; molto generosamente Anna Maria non solo mi ha autorizzato a farlo, ma me ne ha inviate altre scattate da suo marito, Antonio Zanza. Si trattava di foto di Tricarico nate durante una sorta di loro laico pellegrinaggio intellettuale e spirituale nel paese di Rocco Scotellaro (da tempo Anna Maria è impegnata a ricordare in tutti i modi possibili la figura umana, politica ed intellettuale

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COLLAGE PER ROCCO SCOTELLARO-

Antonio Devicienti

rocco scotellaro a tricarico

A Scotellaro

E mentre guardo immagini di te, dei riti apprendo a Sant’Antonio abate, la transumanza, pantomime e nastri, il mondo alle radici, Rocco, mi chiedo: quale forza traevi da tua terra

e quanta ne infondevi? E che parole ti insegnava

tua madre, ché la mia mi insegnava le tue?

Anna Maria Curci 21 agosto 2014

Può anche accadere che si effettui un viaggio guardando con gli occhi di un altro: nella seconda metà di

agosto Anna Maria Curci ha postato nella sua pagina Facebook alcune foto di cui mi sono letteralmente

innamorato e le ho chiesto di poterle usare; molto generosamente Anna Maria non solo mi ha autorizzato a

farlo, ma me ne ha inviate altre scattate da suo marito, Antonio Zanza. Si trattava di foto di Tricarico nate

durante una sorta di loro laico pellegrinaggio intellettuale e spirituale nel paese di Rocco Scotellaro (da

tempo Anna Maria è impegnata a ricordare in tutti i modi possibili la figura umana, politica ed intellettuale

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di Scotellaro) ed io, che purtroppo non sono mai stato a Tricarico e che fin dai tempi del Liceo leggo il

poeta lucano, ho idealmente accompagnato Anna Maria e suo marito in questo viaggio grazie alle loro

fotografie. Dalla nostra corrispondenza è nata l’idea di questo collage: Anna Maria aveva pensato ad un

lavoro che associasse i versi di Rocco alle foto, io a brevi miei testi di commento, diciamo così,

sentimentale. Ed essendo io Salentino riconosco nei colori e nei luoghi di Tricarico il mio Sud, mentre so

che per Anna Maria questo viaggio è stato anche un ritorno alle radici nel nome della sua mamma (come si

comprende dai bei versi qui in apertura) e i luoghi della Lucania che ha attraversato oltre a Tricarico le

hanno donato incontri indimenticabili.

.

porta e torre della rabata- foto anna maria curci

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La porta, l’accesso alla città, la salita, la luce di un’Estate che fascia tutto del calore canicolare ed abbaglia: i

pensieri, il muoversi delle membra verso la mèta, l’emozione che ha portato la mente e lo sguardo fin qui.

Amo in modo particolare una lirica di Scotellaro che dice del mio (nostro) Sud più di qualunque libro di

sociologia, o forse questo accade perché i ricordi della mia adolescenza e gioventù si sovrappongono,

traditori e (forse) menzogneri: un vagare di paese in paese appena avuta la possibilità di una scassata

automobile, l’adorante corte (ma spesso maldestra e buffa) ad una ragazza, una musica che acuisce la

vertigine del sangue e delle attese, le prime, assolute passioni politiche:

Di gioventù cresciuta a suon di jazz

Ci ronza un motore

stamane nella nostra scorribanda. E a noi tormento il bacio metallico

della corriera con le acacie, queste cicale che riprendono

ai confini del campo d lino, azzurro mare in quest’arsa terra, e la presa diretta del Fiat è musica nel piano tra gli ulivi. Gioventù cresciuta al lamento del jazz! Amammo io e te, ragazza, la vita

come due docili passeri in gabbia

dietro le tende dei nostri balconi. Subito il jazz come anima ci attenne, e adesso, a nostro amaro consenso, quelle note hanno dato una trama

alla nostra segreta vicenda, ci han segnato un destino di noia, cara, con musica ossessa (1947).

porta e torre della rabata- foto antonio zanza

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Per comporre questo collage ho preso dalla libreria e messo accanto a me il libro degli Oscar Mondadori che comperai in terza Liceo (è fatto giorno) e che reca in copertina il dipinto di Carlo Levi in cui Rocco

parla non ad una folla, ma in mezzo ad una folla di contadini (ci sono anche dei bambini, l’occhialuto amico

intellettuale, altri contadini in lontananza che si avvicinano e lo sfondo brullo ed ondulato della campagna di

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questa parte di Lucania: le case di Tricarico sulla destra). C’è speranza e slancio in questo dipinto, un’eco

commossa di stagioni, sembrerebbe, ormai passate. Ma io mi ostino a non disperare.

CARLO LEVI

Noi che facciamo?

Ci hanno gridata la croce addosso i padroni per tutto che accade e anche per le frane

che vanno scivolando sulle argille. Noi che facciamo? All’alba stiamo zitti nelle piazze per essere comprati, la sera è il ritorno nelle file

scortati dagli uomini a cavallo, e sono i nostri compagni la notte

coricati all’addiaccio con le pecore. Neppure dovremmo ammassarci a cantare, neppure leggerci i fogli stampati dove sta scritto bene di noi! Noi siamo i deboli degli anni lontani quando i borghi si dettero in fiamme

dal Castello intristito. Noi siamo figli dei padri ridotti in catene. Noi che facciamo?

Ancora ci chiamiamo

fratelli nelle Chiese

ma voi avete la vostra cappella

gentilizia da dove ci guardate. E smettete quell’occhio

smettete la minaccia, anche le mandrie fuggono l’addiaccio

per qualche stelo fondo nella neve. Sentireste la nostra dura parte

in quel giorno che fossimo agguerriti in quello stesso Castello intristito. Anche le mandrie rompono gli stabbi per voi che armate della vostra rabbia. Noi che facciamo?

Noi pur cantiamo la canzone

della vostra redenzione. Per dove ci portate

lì c’è l’abisso, lì c’è il ciglione. Noi siamo le povere

pecore savie dei nostri padroni. La Porta della Rabàta, toponimo quest’ultimo di derivazione araba che indica una cittadella fortificata (la

Rabatàna è luogo famoso della poesia di Albino Pierro) è l’accesso allo spazio protetto ed antichissimo della

città.

Che cosa è rimasto di Rocco qui a Tricarico? Si va per le stradine strettissime e in salita ricordando i suoi

versi, cercando d’immaginarsi l’Italia dei suoi anni, appena uscita dalla guerra, scossa dai movimenti per

l’occupazione dei latifondi e dei terreni incolti. Oggi nelle campagne meridionali lavorano nuovi schiavi e,

leggo sui giornali, non si tratta solo di manodopera di provenienza africana (i raccoglitori di pomodori, ad

esempio, protagonisti dell’inchiesta di Fabrizio Gatti sull‘Espresso di qualche estate addietro), ma anche di

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Italiani che hanno perso il lavoro e che, nella nuova condizione di sfruttati e sottopagati, si contendono i

posti disponibili nelle campagne proprio con i lavoratori d’origine africana.

Senza retorica e senza intellettualismi d’accatto: l’emancipazione di moltissime (troppe) persone attraverso

e grazie al lavoro è ancora di là da venire. Ed allora continuiamo a leggere Rocco Scotellaro andando per le

strade del paese dove nacque e del quale fu sindaco, guardando ed imprimendoci bene nella memoria gli

stessi muri, le stesse svolte di vicolo, le stesse piazze che egli conosceva fin da ragazzo. Ed amava.

Non sto parlando di un posto per turisti e se qualcuno arriva qui come turista direi che ha sbagliato meta.

Questo è un luogo per chi ha due minuti di vita tra le dita, uno per sé e l’altro per il mondo, un posto per chi

sente l’urgenza di allontanarsi da tutto e di avvicinarsi a tutto (Franco Arminio, Vento forte tra Lacedonia e

Candela, Laterza, Bari, 2012, pag. 52).

Rieccola la voce di Rocco:

Primo sciopero

A passi volenterosi siamo qui giunti io e te

come truppa di riserva, compagno della Camera di Bernalda, e possiamo solo emettere un grido. Sperduti siamo in questo mezzogiorno

nella lunga mulattiera

cordonata da agavi sempreverdi. E ancora dietro le agavi i padroni puntano i fucili sulle bocche

dei foresi silenziosi come bestie (1947).

.

una strada (a. z.)

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.

Si vede bene l’accumulo del tempo sui muri e sui portoni, sulle inferriate che proteggono le finestre. La

pietra può essere letta come pagina di manoscritto: piogge, nevicate, orribili grandinate (il terrore dei

contadini), lunghe siccità (anch’esse orribili e devastanti), il sole infocato dei mesi canicolari, il vento, suo

immane strumento a fiato i vicoli.

Queste città murate hanno una loro intimità, restituiscono un senso di ventre protettivo e la pietra, che

assume colori tra il dorato e il verde-grigio con il succedersi plurisecolare delle stagioni, è viva, così come il

legno delle imposte, anche quello più roso dalle intemperie e dall’incuria umana.

Venire a visitare questi luoghi significa venire a meditare e, mentre guardo e riguardo i muri scabri ed

antichissimi, mentre guardo il silenzio mi viene alla mente un testo che Ilaria Seclì ha pubblicato il 12

agosto nel suo bellissimo spazio che si chiama Le ragioni dell’acqua – eccolo:

Era sorprendente per i figli del morto l’invito a coprire gli specchi. Le motivazioni ormai incerte e sbavate avrebbero convinto tutti se meno scoperchiata e trasparente la voce di nonna si fosse imposta col suo garbo. È sempre difficile dire del silenzio, delle cose scucite alla didascalia, la vita oltre la pista che il buio coccola e allarga, storie più vere di questo vero digitale e senza desiderio. Le voci si sentono o no e le anime, con o senza riverenza, fanno quello che devono. La vita no invece, non ci perdona di essere funzionari insufficienti, svogliati.

Nel silenzio e nella solitudine della città murata non si può non pensare anche alla morte ed Ilaria parla di

un’usanza antichissima che consisteva nel velare gli specchi della stanza ove fosse presente un defunto; ma

parla anche della nostra epoca tecnologizzata e senza identità, delle nostre superficialità e ignavie. I muri e

le porte e i vicoli di una città così antica fanno appello alla nostra mente affinché ritorniamo a noi stessi.

Anche Rocco racconta dei riti funebri della sua terra, perché essi dicono una continuità della memoria e

dell’affetto, impediscono la dispersione di sé nell’indistinto del rimosso:

E’ un ritratto tutto piedi

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Nella grotta in fondo al vico stanno seduti attorno la vecchia morta, le hanno legate le punte

delle scarpe di suola incerata. Si vede la faccia lontana sul cuscino

il ventre gonfio di camomilla. E’ un ritratto tutto piedi da questo vano dove si balla (1948).

. paesaggio (a. z.)

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.

Quello lucano è un paesaggio peculiare, spesso aspro, terra che dà con avarizia frutto. Dopo il 18 aprile

1948, data della sconfitta del Fronte popolare alle elezioni politiche, Scotellaro scriveva Pozzanghera nera

il 18 aprile che termina con i versi famosi:

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Oggi ancora e duemila anni porteremo gli stessi panni. Noi siamo rimasti la turba

la turba dei pezzenti, quelli che strappano ai padroni le maschere coi denti.

La rabbia, la delusione cocente (espressa anche da Umberto Saba in un’altrettanto nota lirica) portano il

poeta ad impiegare espressioni forti con impeto indimenticabile. La lotta per il lavoro e la giustizia sociale

non è finita, ha assunto nuovi aspetti e nuove motivazioni, ma rimane il nodo irrisolto che milioni di persone

vengano ancora sfruttate ed offese. Rileggiamo Scotellaro in giorni come questi nostri, antiumani e brutali.

Ma Rocco era anche poeta tenero e sensuale:

Alla figlia del trainante

Io non so più viverti accanto

qualcuno mi lega la voce nel petto

sei la figlia del trainante

che mi toglie il respiro sulla bocca. Perché qui sotto di noi nella stalla

i muli si muovono nel sonno

perché tuo padre sbuffa a noi vicino

e non ancora va alto sul carro

a scacciare le stelle con la frusta. E’ calda così la malva

E’ rimasto l’odore

della tua carne nel mio letto. E’ calda così la malva

che ci teniamo ad essiccare

per i dolori dell’inverno.

torre normanna (a. z.)

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In queste regioni d’Italia i castelli rimandano ai Normanni, oppure ai Saraceni o a Federico II di Svevia, più

tardi ad Angioini ed Aragonesi: sovrapporsi di dominazioni, sempre nuovi arrivi di culture, lingue,

tradizioni. A Tricarico la Torre normanna e quello che poi è diventato il convento delle Clarisse si lasciano

leggere anch’essi, con quei muri scoscesi e verticali, le piante che nascono spontanee nelle intermessure tra i

blocchi di pietra (mi piace pensare siano capperi che tra le loro trecce a cascata sembrano fiorire di stelle

bianco-violacee) come concrezioni di tempo e di memoria.

Anche una pietra

Anche una pietra che frange

l’aria, scagliata alla campagna, è un’anima che cade

è un’anima che piange. Pure la croce di ferro che stride

della chiesa a picco al monte, i vestiti sulle canne, l’albero smilzo

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coi rami allividiti. E un gallo riprende

da una guglia sulla valle. E l’autunno, un uomo riverso, volge le foglie gialle

alle salme composte delle tombe

e la terra può non palpitare

può non rinverdire desolata. Grida la guerra lontana sui treni (1943).

La pietra è presenza continua ed affascinante, nient’affatto fredda o esanime, ma viva ed enigmatica, codice

da decifrare. Un altro grande poeta, nato molti anni prima di Rocco a poca distanza da qui, sui due Mari di

Taranto, Raffaele Carrieri, così cantava con sapienza la pietra:

Ti confida la pietra i segreti

Ti confida la pietra i segreti dei cicli, delle ere. Intravedi dove gli altri sono ciechi nell’irraggiungibile solitudine. Intendi ciò che ti chiede

e taci come la pietra tace

nel silenzio sacro. Come al tempo degli Dei insieme agli astri roteate

e amate, la radice

oscura d’ogni origine

ricominciando ogni volta la luce (da Poesie scelte, Oscar Mondadori, Milano, 1976).

cattedrale s. m. assunta (a. z.)

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La grande chiesa, nei paesi meridionali, s’accampa con la sua mole e, verrebbe quasi da dire, “alle pendici”

della Cattedrale ecco una piazza, un bar dove ritrovarsi, ecco i balconi e i terrazzi. Le linee architettoniche

della città sembrano imitare o comunque armonizzarsi con il paesaggio scabro ed ondulato che si stende

intorno alla città stessa. Un tempo in queste piazze giungevano i cantastorie e si tenevano accesissimi

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comizi politici: un centinaio di chilometri più a sud di qui Ignazio Buttitta ancora ripeteva il miracolo di dire

poesia mentre la gente lo ascoltava imparandone i versi di ribellione e lotta. Potrebbero le piazze essere il

luogo privilegiato dei poeti, se non fosse che i poeti hanno perso il contatto con le piazze, con la gente, con

la mente colma d’ansie delle persone.

Rocco scriveva:

I padri della terra se ci sentono cantare

(ai poeti, a me stesso)

Cantate, che cantate?

Non molestate i padri della terra. Le tredici streghe dei paesi si sono qui riunite nella sera. E solo un ubriaco canta i piaceri delle nostre disgrazie. E solo lui può sentirsi padrone

in quest’angolo morto. Noi sapremo di vincere la sorte

fin che dura la narcosi del mezzo litro di vino, se il coltello dello scongiuro

respinge la nube sui velari nei boschi dei cerri, se le campagne scacceranno

il vento afoso che s’è levato.

Ma i ciottoli frattanto

si affogheranno nel vallone, i fanciulli vogliono cogliere

i bianchi confetti della grandine

sulle lastre dei balconi. La grandine è il trofeo

dei santi maligni di giugno

e noi siamo i fanciulli con loro alleati tanto da sorridere

sulle terre schiaffeggiate. Ma così non si piegano gli eroi con la nostra canzone scellerata. Nei padri il broncio dura così a lungo. Ci cacceranno domani dalla patria, essi sanno aspettare

il giorno del giudizio. Ognuno accuserà. Dirà la sua

anche la vecchia sbiancata dai lampi: lei contro la grandine

spifferava preghiere sul grembo

dalla porta a terreno della casa.

.

torre saracena (a. m. c.)

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Torri, muraglioni, porte d’accesso, cisterne: ovunque si rende visibile la stratificazione temporale. Una

torre, dunque, ancora: salire in cima all’edificio e guardarsi intorno, spingere lo sguardo con moto rotatorio,

accordarsi ai movimenti circolari e ciclici che abitano il nostro corpo e l’universo fuori dal nostro corpo.

Ma questa torre ricorda anche le moltissime piccionaie sparse nelle regioni del Sud, gli anfratti nel muro

nidi di tufo dai quali i piccioni partivano per recare messaggi e nei quali moltiplicavano la loro razza di

volatili postali. Oppure è luogo delle rondini, animali dall’incessante gridato volo, angeli nell’Estate:

Leonardo Sinisgalli, altro eccelso poeta lucano, nella Vigna vecchia (San Marco dei Giustiniani, Genova,

2005) scrive:

Il grido arabo

Il grido nel cavedio

dove si accumulano

polvere e piume

tarantole e tedio, il grido arabo delle rondini…

E in Scotellaro leggiamo:

I lucani cantano monotoni

Urla la nostra canzone araba

perché solo agli zingari noi abbiamo creduto. Gli zingari rubano

le mandrie ai padroni e noi cantiamo cantiamo

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nella notte con loro. Il re degli zingari è con noi mangia con noi la carne rubata. E noi cantiamo le lodi solo al re degli zingari. La donna zingara è la più bella

di quante donne che ci hanno guardato. E noi cantiamo le grazie

delle femmine belle. Gli animali degli zingari hanno l’occhio mansueto

dei compagni di viaggio. E noi compriamo i cavalli che ci vendono gli zingari. E solo gli zingari ci fanno ridere e piangere

così per diletto. Il fuoco degli zingari nel petto

le notti che il nostro tamburo

aduna i cafoni lucani battendo nel viottolo scuro.

.

veduta dalla torre normanna (a. z.)

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E adesso spingere lo sguardo nei cortili, nelle finestre, non per voyeurismo, ma perché lì dentro abita la

mattinata: nel meditante silenzio delle stanze delle Clarisse, nelle case forse già strette dall’afa agostana e i

tetti spioventi, le tegole amaranto fanno immaginare giorni di neve, il vento che sale dalla piana lungo i

pendii fino a cercare di espugnare la città (ma oggi il caldo estivo così assolato allaga i muri e le grondaie, il

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colmo dei tetti, i chiusi rettangoli delle case a corte, la città è un’immensa meridiana al variare di ombra e di

luce).

Desiderio

Io sento la neve ancora

io sento il suo cadere placido

dal mio mondo sparuto. Le mie piccole cose qui, la mezza matita che non mi abbandona. I miei volti nelle fiamme tanti che hanno lo stesso colore. E gli anni passano così nel cuore della notte di neve.

E ancora Sinisgalli, in versi cui sono particolarmente affezionato:

Camera di ragazzo

Mi ricordo ancora

quello che scrissi alla pigra passiflora

quando il cuore tremava

al lamento notturno degli infissi. Lungo l’inverno intero

coi piedi sulla brace

e la testa di ghiaccio. Più pesante di fuori era la neve io dentro

spegnevo le candele

e coi tizzi lucenti stavo solo a far niente (da La vigna vecchia).

Molte le poesie di Rocco dedicate alla sua non facile famiglia. Doveva essere un uomo forte e tenero al

tempo stesso: si fece ingiustamente la galera (e che fosse ingiusta fu ampiamente comprovato), emigrò, morì

d’infarto a soli trent’anni. Deve aver conosciuto più di una volta la separazione e la nostalgia il “ragazzo dai

capelli rossi”, anche lui emigrante come tantissimi Italiani, ieri come oggi.

Al padre

Sono quello che più ti ha assomigliato

dovrei ancora uccidere un uomo

come te senza volerlo. Ma spero che non ce ne sia bisogno

perché la galera per un motivo o per l’altro

è la stessa e l’ho fatta. E come te, uscito come un panno

nuovo dal bucato, me ne sono andato dal paese

a quell’estero che mi era aperto

nelle varie città italiane. Tu a Patterson, ti vedo, alla mia età

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soffrivi la vanità del sacrificio

proprio come me ora, e te ne tornasti. Comprasti però la vigna e sopraelevasti una casa

e avesti bottega e comando. Io sento la pena del tuo ritorno

del tuo carcere che durò nella bottega. Ho poi imparato, in più di te, che i fatti maturano da soli e so che saranno disgrazie

inevitabili, come la tua morte

avvenuta proprio quando forse dovevi metterti a riposare

con una gamba sull’altra campando

sul lavoro dei figli.

A una madre

Come vuoi bene a una madre

che ti cresce nel pianto

sotto la ruota violenta della Singer

intenta ai corredi nuziali e a rifinire le tomaie alte

delle donne contadine?

Mi sganciarono dalla tua gonna

pollastrello comprato alla sua chioccia. Mi mandasti fuori nella strada

con la mia faccia. La mia faccia lentigginosa ha il segno

delle tue voglie di gravida

e me la tengo in pegno.

Tu ora vorresti da me

amore che non ti so dare. Siamo due inquilini nella casa

che ci teniamo in dispetto, ti vedo sempre tesa

a rubarmi un po’ di affetto. Tu che a moine non mi hai avvezzato.

Una per sempre io ti ho benvoluta

quando venne l’altro figlio di papà: nacque da un amore in fuga, fu venduto a due sposi sterili che facevano i contadini in un paese vicino. Allora alzasti per noi lo steso letto

e ci chiamavi Rocco tutt’e due (1948).

Ma, mi accorgo, questo collage (e forse proprio in quanto collage) sembra richiamare da sé, grazie alle foto,

grazie a Rocco, altri ritagli, altre immagini e voci, come quella di Luciano Nota il quale molto degnamente

continua, nella sua complessa ed originale poesia, anche l’alta tradizione lucana:

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Le anziane lucane

Le puoi ancora incontrare

con bluse rammendate e scialli neri poggiate agli usci delle case. Col santino nel grembiale

parlano ligie dei figli lontani limano con cura i grani dei rosari. Sono loro le anziane lucane

abili querce che sfuggono i tempi. Con gli occhi dipinti d’antico

e la tremola mano

sembrano tutte mia madre (da Tra cielo e volto, Edizioni del Leone, Spinea, 2012).

E il mio amato Bodini, dalla Luna dei Borboni:

Sulle soglie, in ascolto, le antiche donne sedute

- o macchie che la luna ripercuote nell’aria - socchiudono pupille d’una astratta durezza

dai palmi delle mani, aperte pietre sui grembi.

.

per rocco (a.z.)

.

Spesso orridi i monumenti e le lapidi: in questo caso, almeno, la laconicità e la semplicità corrispondono

bene alla nobiltà di Rocco: Sindaco socialista di Tricarico, quando il Socialismo sapeva essere ancora una

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speranza ed una promessa d’emancipazione; poeta della libertà contadina è una definizione che, penso,

l’avrebbe inorgoglito e contadino è, qui, un aggettivo che reca con sé anche i valori della memoria.

Ci congediamo allora da Tricarico e da Rocco Scotellaro (un grazie di cuore Anna Maria, un grazie di

cuore, Antonio) ripetendoci i suoi bellissimi versi:

Sempre nuova è l’alba

Non gridatemi più dentro, non soffiatemi in cuore

i vostri fiati caldi, contadini.

Beviamoci insieme una tazza colma di vino! che all’ilare tempo della sera

s’acquieti il nostro vento disperato.

Spuntano ai pali ancora

le teste dei briganti, e la caverna - l’oasi verde della triste speranza - lindo conserva un guanciale di pietra…

Ma nei sentieri non si torna indietro. Altre ali fuggiranno

dalle paglie della cova, perché lungo il perire dei tempi l’alba è nuova, è nuova.

.

Antonio Devicienti