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Code 2-18: Surreal - Step One [Anteprima]

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Anteprima del romanzo Code 2-18: Surreal - Step One. Anno 2012. La guerra fredda è sfociata in un conflitto aperto che ha insanguinato e devastato l'Europa. America e Russia si contendono il predominio del pianeta, la scacchiera bellica è immersa nel sangue. Un pilota della US Navy precipita in territorio italiano e quella che dovrebbe essere soltanto una difficile missione di recupero si trasforma nel preludio di un incubo fantascientifico popolato di sicari, trafficanti d'armi, ufficiali senza scrupoli e il più inaspettato dei nemici. Solo un gruppo di eroi bene addestrati potrà fare la differenza e riportare la speranza nel futuro.

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Morning Star Alliance

CODE 2-18: SURREAL

- STEP ONE -

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Il romanzo completo è disponibile ai seguenti link: Edizione Kindle Amazon: http://www.amazon.it/Code-2-18-Surreal-Step-

ebook/dp/B006ZD3L5M/ Versione ePub, pdf e altri formati: http://code218.blogspot.it/2012/09/code-2-18-surreal-

step-one.html Versione cartacea: http://www.lulu.com/shop/morning-star-

alliance/code-2-18-surreal-step-one/paperback/product-20590918.html

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Questo romanzo è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti, persone o organizzazioni realmente esistiti o esistenti è puramente casuale. Nonostante la storia sia ambientata in luoghi reali,

questi sono stati spesso modificati e riadattati per esigenze narrative.

CODE 2-18: SURREAL Morning Star Alliance

http://code218.blogspot.it

ebook realizzato da ePub Yourself: http://epubyourself.wordpress.com

Copyright © 2012 Morning Star Alliance

3° edizione, settembre 2013

Promosso da RAG DOLL http://ragdollit.blogspot.it

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Quella maledetta guerra...

non sarebbe dovuta iniziare.

E vecchi sentimenti di gloria

divennero ben presto

la redenzione di un mondo

che non avrebbe visto il domani.

Un domani utopico.

Un domani...

Per nessun nascituro.

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Prologo

Il Rosso, il Nero e l’Oro Nelle sperdute lande della Russia nordeuropea, dove ogni folata di

vento era un gelido fiato privo di vita, la neve ricopriva ogni cosa con un velo di candida desolazione.

Nella regione di Arkhangelsk, bagnata dal Mar Bianco e dominata dalla tundra, nei pressi della foce della Severnaja Dvina, c’era chi sapeva come fare affari lucrando sulla guerra in corso.

All’interno di un ampio e freddo hangar dismesso, il mercato dei contrabbandieri. Armi ovunque: missili, mezzi leggeri, carri armati, persino alcuni vecchi camminatori quadrupedi, prodotti per il programma di sviluppo e potenziamento dell’Esercito sovietico. In realtà si erano rivelati da subito inefficaci in campo aperto contro normali tank e missili anticarro, ed erano quindi stati relegati a compiti di contro-insorgenza e impiegati in conflitti locali o regionali. Una coppia di questi ingombrava un lato del grande capannone, alti poco più di due metri e mezzo, con quattro zampe metalliche che li assimilavano a grossi ragni, montavano sull’abitacolo mitragliatrici di medio calibro. Alcuni dei compratori si fermavano a osservarli con una certa curiosità e meraviglia, ma nessuno di loro avrebbe mai considerato l’idea di acquistarli.

Dal lato opposto, seduto a una scrivania, con un luccichio avido negli occhi, un uomo stava facendo affari con un acquirente.

Il suo nome era Ivan Grošcev, ma alle autorit{ era noto soltanto con lo pseudonimo di Harlequin: un trentasettenne ceceno, ma dai tratti somatici tipicamente caucasici, con zigomi alti e folti capelli castani, lo sguardo cinico di un animale predatore. Spregiudicato, ambizioso e di dubbia onestà, la sua rete di traffici era talmente vasta da dargli il potere sufficiente per fare da ago della bilancia in uno scontro internazionale, soprattutto in qualità di possessore di un notevole armamento bellico.

Pendeva una taglia sulla sua testa, ma le autorità, in tempi di guerra come quelli, preferivano stargli alla larga. Non tanto perché fosse colluso con le maggiori bande criminali a livello internazionale, ma piuttosto per gli spietati sicari che aveva al suo seguito.

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Una giovane donna dallo sguardo duro, messo in ombra dai lunghi capelli scuri che le scendevano ai lati del viso, si accostò a lui. «Ivan, noi vogliamo chiudere.» Era Irina, una delle sue due assassine più abili.

«Ah sì? Ricordati chi ti staccherà la testa se te ne vai» rispose serafico il ceceno, senza distogliere lo sguardo dalle carte che stava esaminando, per poi tornare a rivolgersi in inglese al suo cliente. Nella sua conversazione, fatta di slang americano misto a un accento marcatamente sovietico, si intromise di nuovo, con insistenza, la voce femminile di poco prima, esprimendosi in russo: «Senti, ne abbiamo già parlato: siamo stanche di questo lavoro, non siamo i tuoi cani!»

«Ti ricordo che se non fosse stato per me tu saresti rimasta una semplice puttanella di strada» ribatté Ivan, seccato da quelle continue interruzioni che di certo non lo mettevano in buona luce agli occhi dei presenti. «E comunque ho già pronti un altro paio di lavoretti per voi, non posso permettermi di pensionarvi così in fretta.»

Irina sbuffò stizzita prima di lanciare un’occhiata alla propria destra, in direzione di una seconda ragazza, sua “sorella”, che aveva preferito starsene in disparte, poggiata a un carro sovietico T-72, assistendo impassibile alla scena.

Irina e Katrina. Erano diventate famose qualche anno prima per la loro spietatezza, le chiamavano “le sorelle dell’Est”. In realt{ non avevano alcuna somiglianza fisica tra loro e probabilmente neppure legami di sangue, ma erano unite da un affetto incredibile e inseparabili. Lavoravano per Harlequin a tempo pieno dal giorno in cui il trafficante le aveva raccolte dai bordi della strada dove vendevano il loro corpo per sopravvivere, corrompendole con l’offerta di una vita migliore, che altro non era se non una mera illusione.

Era già da qualche tempo che le due ragazze si mostravano inquiete. Dopo anni di omicidi e lavori sporchi, consideravano ormai ampiamente ripagato il debito che avevano con quell’uomo e desideravano lasciare quella vita. Erano stanche di sentire il ceceno ripetere loro false promesse di libertà, mai mantenute. Essere le migliori assassine sulla piazza garantiva una certa soglia di tolleranza verso lamentele e iniziative individuali che a un qualsiasi altro soldato sarebbero valse una pallottola in fronte, ma sapevano bene a cosa sarebbero andate incontro se si fossero rifiutate di collaborare con lui. Era un uomo che non perdonava in nessun caso.

«Piuttosto, hai portato quello che ti avevo chiesto?»

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Irina, per tutta risposta, gli scaraventò una valigia sulla scrivania sibilando tra i denti: «La pagherai un giorno! Se non sarò io a tagliarti la testa, ci penser{ l’Interpol o quegli sporchi aguzzini americani!»

Harlequin non gradì affatto quel tono minaccioso, e allertò con un gesto gli uomini della sua scorta. In un attimo, i mercenari nei paraggi alzarono le armi puntandole contro di lei.

Katrina dal suo angolo sobbalzò, stringendo i pugni frementi. Harlequin fece un ghigno soddisfatto. «Mia carissima Irina, fossi in

te non inviterei i miei uomini ad aprire il fuoco.» «Sei un maledetto bastardo...» ribatté lei con rabbia, augurandogli

con lo sguardo ogni tipo di morte possibile. «C’è chi mi chiama bastardo, chi figlio di buona donna... questione di

punti di vista» ridacchiò lui. «Abbiamo accettato di aiutarti per ripagare il nostro debito nei tuoi

confronti, non ti abbiamo dato l’esclusiva sulla nostra intera vita! Tu non hai mai assaporato la guerra dal vivo come abbiamo fatto noi. Sei sempre rimasto su quella fottutissima poltrona a contare rublo dopo rublo, mentre i tuoi uomini crepavano per i tuoi giochetti sporchi. Con che coraggio continui ancora oggi a chiederci di rischiare la vita solo per ingrossare il tuo conto in banca?»

Harlequin la ignorò, tornando a rivolgere un falso sorriso di cortesia al suo interlocutore americano, mentre segnalava ai propri uomini di abbassare le armi, che infastidivano non poco gli acquirenti. «Che ci vuoi fare, l’avidit{ genera altra avidit{, il potere persuade ogni mente onesta, e c’è sempre il folle di turno che ne approfitta. Dopotutto questa vita è breve, godiamocela come meglio possiamo» strizzò l’occhio all’uomo che aveva davanti, con fare complice.

Irina, stizzita, si allontanò, ricongiungendosi alla sorella. Katrina aveva un viso infantile e occhi da bambola, portava i capelli

molto lunghi, raccolti sulla testa in due code, per suo vezzo, ma anche per questioni di praticità quando si trattava di combattere. Nonostante all’occorrenza sapesse anche lei dimostrarsi una perfetta macchina da guerra, ora sembrava preoccupata e molto impaurita. Abbracciò calorosamente Irina, cercando conforto. «Sorella... Cosa ne sarà di noi?»

Lei la accarezzò lentamente. «Quello che lui ci farà diventare: cani rabbiosi che prima o poi sbraneranno il padrone.»

Le sorelle avrebbero potuto liberarsi, ma solo a prezzo della vita. Avevano saputo fin dal primo giorno che se ci avessero anche solo provato, sarebbero state fucilate dai soldati scelti dell’uomo.

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Si trovavano in un vicolo cieco, senza uscita. Finché, dal nulla, non era apparso il compagno Sergej. L’avevano incontrato in un locale malfamato di Arkhangelsk e aveva offerto alle due ragazze una comoda via d’uscita. Quali fossero i suoi reali scopi non lo sapevano e non era importante. Dati gli scarsi risultati ottenuti discutendo con Harlequin, la proposta era troppo allettante per essere rifiutata.

Visto che non c’era più bisogno di loro, tenendosi per mano, le “sorelle” si incamminarono silenziosamente verso le stanze sul retro in cui avevano un alloggio provvisorio.

Ivan era troppo impegnato a concludere un affare importante. Il suo interlocutore era una spia venuta a passare documenti riservati, in merito a progetti segreti statunitensi. Col panorama geopolitico attuale, delle buone informazioni potevano valere ben più di un intero carico di armi.

«Cos’hai portato per me, eh?» Chiese con un sorriso malato impresso sul volto.

«Queste sono le informazioni che cercavi sul progetto Genoma... Al Pentagono si sono dimostrati meno arguti di quel che temevamo. Nessuno sa della mia infiltrazione.»

L’uomo si faceva chiamare semplicemente “Nobody”. Imbacuccato in un pesante cappotto con un colbacco di pelo in testa, il volto nascosto da una sciarpa e occhiali scuri. Non amava far vedere il suo vero aspetto.

La sua penetrazione al Pentagono era stata pressoché invisibile, come una cimice stava vicinissimo alle retrovie del Presidente. Consapevole del rischio che correva se fosse stato scoperto, veniva pagato cospicuamente dal commerciante per questi servizi.

Appoggiò la valigetta nera con i documenti confidenziali sul tavolo che li divideva. Uno dei miliziani di Harlequin la aprì, per verificare l’autenticit{ del materiale consegnato.

Il ceceno diede una rapida occhiata al contenuto prima di tornare a riflettere il suo sguardo negli occhiali scuri dell’interlocutore: «Devo dire che fare le spie al giorno d’oggi è un lavoro redditizio.»

«È il mio lavoro» disse tranquillamente il Nobody, ispirando fiducia alla controparte.

Questi gli porse una seconda valigia, che conteneva la ragguardevole cifra di 750.000 dollari statunitensi. Il Nobody la prese e gli voltò le spalle. «Ti saluto, mio caro Messia. Ho del lavoro da svolgere su al

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Pentagono. Anche se il mio alibi mi ha concesso di essere qui oggi.» Si avviò verso l’uscita, seguito dalla sua scorta.

Una folata di vento gelido penetrò nell’hangar mentre gli uomini si portavano all’esterno. Harlequin non se ne curò neppure. Era concentrato e infiammato dalla sua impazienza e dalla sua brama di conquista. Le informazioni che aveva appena reperito gli sarebbero tornate sicuramente utili. Una mossa in avanti sulla sua scacchiera, che lo conduceva sempre più vicino a far capitolare la regina. «Bene bene... È il momento di fare casini in terra straniera.» Ma il suo attimo di compiacimento venne interrotto da un improvviso trambusto proveniente dal fondo dell’hangar. Si sentirono degli spari e l’allarme scattò.

«Laggiù! Nel locale spogliatoi, presto!» avvertì un soldato. «Ma che cazzo succede?!» urlò Ivan. «Le sorelle! Stanno scappando!» «Cosa? Quelle... grandissime puttane!» la sua reazione improvvisa fu

dettata dall’incontenibile rabbia. Prese un fucile da combattimento, lo caricò e insieme alla truppa si diresse nella zona dei disordini per fronteggiarle direttamente e, se fosse stato necessario, annientarle. Maledette sgualdrine!

«Eccole, sono laggiù! Prendetele!» sbraitò mentre imbracciava l’arma e apriva il fuoco verso il locale in cui le due si erano rifugiate.

Gli acquirenti, allarmati dall’improvvisa sparatoria, si affrettarono a darsela a gambe, ammassandosi confusamente verso le uscite del capannone.

Il fuoco si fece intenso. Anche i mercenari presero a sparare, mentre le due, stanate dal loro nascondiglio temporaneo, erano state costrette a rientrare nell’hangar, proseguendo a zigzag tra i mezzi blindati, in direzione dell’uscita.

Schivavano ogni proiettile, fluttuando eleganti nell’aria. Falciavano all’arma bianca gli uomini che le avevano circondate, turbinando in quella mischia selvaggia, mentre urla e spari provenivano da ogni angolazione.

Katrina con le sue spade corte tsurugi, tagliava gole con rapidità, mentre le sue lunghe code disegnavano curve armoniose nell’aria, come l’antica danza di una spadaccina dall’agilit{ straordinaria. Nei suoi occhi ardeva il desiderio di essere libera, il desiderio di spezzare le catene che la tenevano intrappolata, insieme a Irina, tra le grinfie di quell’uomo.

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«Sparate incapaci! Sparate!» Anche il trafficante intervenne esplodendo contro di loro una lunga raffica, ma le due erano troppo agili e i suoi colpi, non abbastanza precisi, finirono con l’abbattersi sui suoi stessi uomini e su coloro che non erano stati abbastanza svelti ad allontanarsi. La tempesta di proiettili andò a deturpare tutto un lato del capannone, coinvolgendo parte dei mezzi e degli equipaggiamenti lì riposti, fino a quando Ivan non intimò ai suoi di cessare il fuoco per evitare ulteriori danni.

Le sorelle infierirono su altri corpi senza sosta, macchiandosi di sangue, cosa che non faceva che aumentare la loro eccitazione.

Si barricarono temporaneamente in uno degli scompartimenti del magazzino per raccogliere in fretta e furia tutto quello che poteva tornare loro utile.

Gli uomini di Harlequin cercarono di forzare l’entrata prima crivellandola di colpi e poi gettandosi a spallate contro la porta, mentre le due donne prendevano l’uscita secondaria per proiettarsi all’esterno. Salirono a bordo di uno dei mezzi blindati parcheggiati fuori dall’hangar.

«Signore cosa facciamo? Le inseguiamo?» chiese uno degli uomini. «Certo che le devi inseguire deficiente! Voglio le loro teste stavolta!»

L’urgenza dell’uomo in quel momento si mischiava alla sua eccitazione per la caccia appena iniziata.

Organizzarono i fuoristrada e tutto quello che si poteva muovere a grandi velocit{, mentre Harlequin si dirigeva verso l’eliporto, intenzionato a salire a bordo di uno dei suoi elicotteri d’attacco Hind per poterle inseguire dal cielo. Scaldare i motori avrebbe richiesto tempo, ma la velocit{ dell’elicottero avrebbe compensato in fretta.

La fuga solitaria delle sorelle fu di breve durata e quasi subito si ritrovarono gli uomini del ceceno alle calcagna. Irina si accorse dei fari degli automezzi che si avvicinavano sempre di più, mentre già i primi spari riecheggiavano in lontananza.

«Sorella, è ora di tirar fuori le armi. Guarda se c’è altro in questo rottame oltre a quello che abbiamo preso nel magazzino» disse Irina, senza staccare gli occhi dalla strada. Katrina rovistò tra il carico sul retro e le rispose dopo alcuni istanti. «Abbiamo tre lanciarazzi anticarro, tre mitragliatori, quattro pistole, un fucile di precisione, una mitragliatrice, granate a frammentazione e due fucili a pompa.»

Non appena gli inseguitori furono abbastanza vicini, Katrina si preparò al combattimento. Uscì dal tettuccio dell’abitacolo e sfoderò un

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RPG, puntandolo contro il primo mezzo. Gli uomini all’interno dei veicoli sparavano verso il blindato, ma i loro colpi erano imprecisi, concentrati più sullo svuotare i caricatori che nell’andare a segno.

«Fuoco» disse lei mentre premeva il grilletto. Nell’arma venne innescato l’impulso elettrico che accese il razzo e lo

fece partire in direzione del primo fuoristrada. Fu così veloce da anticipare i riflessi del conducente, che si ritrovò il proiettile conficcato nell’abitacolo come un arpione. L’esplosione fu immediata, non gli lasciò neppure il tempo di avere paura.

Venne coinvolto anche un altro mezzo, che si capovolse, investito in pieno dall’onda d’urto a grande velocit{.

«Cosa?! Hanno armi pesanti?!» urlò Harlequin alla radio. «Sì, signore sono armate! Ci stanno puntando contro un

lanciarazzi!» «Continuate a inseguirle» ordinò il ceceno. «L’elicottero è quasi

pronto per il decollo.»

* * * «Stiamo perdendo velocit{. Scarica loro addosso tutto l’armamento,

sorellina» esclamò Irina tenendo le mani ben salde sul volante. «Ci sto provan...» stava per risponderle la sorella quando venne

raggiunta di striscio da una raffica di proiettili. Più che il suo fisico allenato ne risentirono i vetri del veicolo che, non essendo resistenti quanto la carrozzeria, andarono in frantumi dopo pochi colpi.

Nonostante Katrina avesse indossato il giubbotto antiproiettile, alcune schegge penetrarono nella sua carne, nelle zone non coperte dal kevlar. Eppure lei parve non avvertire nulla, come una bambola di pezza, non si lasciava sfuggire un lamento.

Gli altri fuoristrada le raggiunsero, accerchiandole. Due ai loro fianchi, più uno davanti e uno dietro. Katrina prese un secondo lanciarazzi e devastò il mezzo che le precedeva, mentre Irina continuava a guidare in linea retta, andando a collidere prepotentemente contro la carcassa in fiamme per aprirsi il passaggio.

«Gira a destra, sperona l’altro e mandalo fuori strada!» urlò Katrina mentre ricaricava il lanciatore. Irina non si fece pregare troppo. Una rapida frenata portò il muso del blindato in linea col posteriore dell’altro veicolo. Subito dopo, con un deciso strattone al volante, mandò il suo mezzo a schiantarsi contro la fiancata dell’auto nemica,

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facendola finire in testacoda sul lato opposto della carreggiata. L’altro fuoristrada si ritrovò con il cammino di colpo ostruito, il conducente non ebbe il tempo di cambiare direzione e finì con lo schiantarsi contro il veicolo dei suoi compagni.

A quel punto lo Hind, con a bordo soltanto Harlequin e il pilota, arrivò da lontano a velocità sostenuta, fino a raggiungere le due fuggitive per dare man forte agli inseguitori.

«Non scapperete via di qui!» Con lo sguardo infiammato dalla sete di vendetta, Harlequin abilitò al fuoco la cannoniera e iniziò a sparare nella loro direzione. La distanza alla quale si trovava, tuttavia, fu sufficiente perché il blindato potesse schivare i colpi con una serie di sterzate brusche, che misero a dura prova l’abilit{ di guida di Irina. Katrina, vedendo sopraggiungere l’elicottero, rientrò un attimo nell’abitacolo per evitare la prima raffica e rovistò tra le armi reperendo una mitragliatrice M60E4, poi si sporse di nuovo, con gli occhi gi{ puntati sulle tacche di mira dell’arma.

Scatenò una tempesta di fuoco che, seppur non molto precisa, riuscì a raggiungere la cabina di pilotaggio dello Hind. I proiettili rimbalzarono sul vetro rinforzato, incrinandolo soltanto.

«Maledetta puttana! Questo vetro è antiproiettile!» esclamò Harlequin sghignazzando.

La ragazza, dal canto suo, continuava imperterrita a tenere il dito sul grilletto. Ben consapevole della resistenza del velivolo nemico, non avrebbe cessato il fuoco se non al completo esaurimento del nastro di munizioni.

Altri colpi raggiunsero e danneggiarono i sensori esterni del sistema di puntamento. Da quel momento il mitragliere si sarebbe visto costretto a mirare “a occhio”, cosa non tanto facile col vetro incrinato. L’elicottero era ormai a una distanza di centocinquanta metri. Continuava a fare fuoco, ma la mira non più accurata non gli permetteva di andare a segno. Harlequin imprecava dimenandosi nella sua postazione mentre muoveva da un lato all’altro la leva che orientava la direzione della cannoniera, cercando di star dietro al continuo zigzagare del blindato.

La canna dell’M60E4 stava diventando incandescente e Katrina, sempre più nervosa, cessò momentaneamente il fuoco. Prendere la mira e stabilizzare il tiro procedendo su una strada dissestata come quella non era cosa facile. E le ulteriori sterzate imprevedibili della sorella non andavano di certo a semplificarle il compito. Cercò di tenere

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ferma la pesante arma per riprendere a sparare. «Merda!» esclamò quando un sobbalzo la fece quasi volare fuori dal mezzo. «Ehi, sorella! Evita le buche almeno!»

«Qui è tutta una buca!» Ribatté Irina. La ragazza cercò di stabilizzare la mira sull’abitacolo, sgranando i

proiettili di un nastro da duecento colpi che sembrava pressoché infinito, il corpo teso e contratto per resistere al forte rinculo.

Una scia di pallottole incrinò più pericolosamente il vetro, alcune lo trapassarono fin quasi a farlo cedere, ma senza procurare alcun danno all’equipaggio.

Lo Hind si tirò momentaneamente indietro dalle raffiche incessanti, mentre il blindato delle sorelle veniva raggiunto dall’ultima camionetta nemica che era rimasta indietro per non incappare nel fuoco amico dell’elicottero. Questa le speronò colpendo il loro paraurti e facendole sbandare, tanto che la mitragliatrice di Katrina le cadde di mano, rotolando nella neve fresca ai lati della strada.

La ragazza si ritirò all’interno in cerca di una nuova arma mentre, dall’ultimo fuoristrada rimasto, anche i soldati continuavano a fare fuoco e l’elicottero si riavvicinava per riprendere a sparare.

Irina continuava la sua folle guida con il piede ben piantato sull’acceleratore e il sudore che le grondava dalla fronte.

Facendosi spazio tra le armi gettate alla rinfusa, Katrina raggiunse il lanciarazzi RPG agganciato alla paratia del mezzo con dei perni, ma era scarico.

La ragazza si mise all’opera con mano esperta e, dopo aver innestato il razzo nel tubo di lancio, si assicurò che tutti i collegamenti per l’innesco fossero pronti, prima di sporgersi per tentare un ingaggio diretto.

«Ora la ammazzo quella sgualdrina!» Esclamò Harlequin esasperato, mentre continuava a sparare dalla cannoniera principale. «E cerca di tenere stabile questo coso, mi sembra di stare sulle giostre! Non me ne frega un cazzo se non ci vedi!»

Ormai era abbastanza vicino da perforare il blindato e mandare le sorelle all’altro mondo.

Il fuoco dello Hind investì però l’ultimo fuoristrada della scorta di Ivan, facendogli perdere il controllo e mandandolo a schiantarsi contro un albero.

Katrina, vedendo la via libera, urlò alla sorella: «Frena! Stai dietro di lui!»

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Irina senza pensarci e fidandosi ciecamente, inchiodò il mezzo in modo da ritrovarsi dietro la coda dell’elicottero.

«Ma cosa...!?» balbettò Ivan quando il blindato sparì dalla sua visuale.

«Adesso crepa, bastardo!» sentenziò la ragazza con la sua dolce voce. Poi prese la mira e sparò.

Il pilota non fece nemmeno in tempo a rendersi conto di che cosa stesse succedendo: in pochi secondi, il razzo raggiunse l’Hind ed esplose contro il suo rotore di coda.

L’elicottero, destabilizzato, perse potenza e iniziò a scendere di quota disegnando nel cielo una scia di fumo nero. Per rallentare la caduta il pilota mandò in autorotazione il velivolo, che andò a schiantarsi tra la boscaglia.

La manovra permise allo Hind di toccare il suolo con meno violenza e la caduta non fu letale. Tra le lamiere accartocciate e i vetri infranti, Harlequin riuscì a strisciare all’esterno, nella gelida neve, imprecando e battendo i pugni.

Le sorelle ripresero la fuga. Avevano con loro un armamento sufficiente a fronteggiare qualsiasi

cosa si fosse messa sulla loro strada. Katrina rientrò nell’abitacolo e si portò una mano alla spalla

sanguinante per i colpi di striscio di poco prima. Cercò rifugio tra le braccia della sorella. Ora sembravano entrambe impaurite e bisognose di protezione.

«Sorellina, ti amo» sussurrò Katrina. «Anche io. Nessuno riuscirà a dividerci. » Le loro tracce si persero più in là. La fredda notte avrebbe fatto il

resto per nasconderle, rendendole irraggiungibili. Due messaggere di morte ora libere per il mondo. Forse in un altro

momento sarebbero ricomparse per poter cacciare e vivere. Ma ora più che mai il loro legame era forte ed esclusivo, un gioco intenso solo per le due donne, che le avrebbe coinvolte per tutta la vita. Se una delle due fosse morta, l’altra avrebbe seguito lo stesso percorso. Un percorso che ben presto si sarebbe rivelato segnato, sin dalla loro nascita, e indelebile.

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SURREAL

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Siamo agli inizi del XXI° Secolo. Le due grandi potenze, Russia e Stati Uniti, sono di nuovo ai ferri corti. L’evoluzione tecnologica ha raggiunto il suo apice. I russi hanno avuto successo dove prima avevano fallito: dal

programma spaziale Buran II alla corsa agli armamenti nucleari. Gli USA hanno sviluppato al massimo la tecnologia stealth; lo scudo

stellare – il sistema di difesa missilistico – è stato installato sul territorio europeo.

La Corea ha portato avanti i suoi test nucleari. L’astro nascente della Cina ha espanso il suo impero economico in

molte zone del globo, spostando la sua sfera di interesse anche sulle risorse umane dell’India.

Il Medio Oriente è intaccato dalla piaga del fondamentalismo religioso

e medita vendetta verso le potenze occidentali. La guerra del petrolio è solo la punta dell’iceberg di una situazione in discesa libera verso il prosciugamento delle risorse.

Dalle dittature islamiche nasce una pericolosa alleanza con i sovietici che minaccia di strangolare l’Occidente dietro il ricatto della fornitura di gas e petrolio a prezzi esorbitanti e in quantità ridotte.

L’Europa è la prima vittima di questo gioco di forze: da una parte la crisi economica partita dall’America in seguito alla distruzione del World Trade Center (2001), dall’altra la crisi energetica dovuta alla totale dipendenza dalle forniture russe e mediorientali. Un sistema sull’orlo del collasso che è divenuto il punto debole di tutta la struttura.

Il potere di persuasione sovietico si espande anche ai paesi del Sud

America a forte maggioranza socialista. Il 2002 è l’anno della “Revolución” contro lo strapotere capitalista, che impegna gli Stati Uniti in un conflitto di repressione: costretti ad arginare le continue rivolte armate nel confinante territorio messicano, nonché a far fronte a un’emergenza umanitaria in seguito alla massa di clandestini ispanici che si riversano illegalmente sul loro suolo.

Nel 2003, dopo estenuanti trattative, Cina e Russia giungono alla

stipula di un piano segreto di espansione: se la Cina si alleerà con i sovietici contro gli USA, avrà piena libertà riguardo alle sue mire egemoniche sul sud-est asiatico.

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Nel giugno dello stesso anno, la Russia può finalmente mettere in atto il suo piano di conquista. Con l’obiettivo dello smantellamento dello scudo stellare, approfittando delle difficoltà in cui versano gli USA, ancora impegnati sul fronte sudamericano, lancia il suo attacco all’Europa indifesa.

Inizia così una guerra di logoramento guidata da giochi di potere che investiranno tutto il pianeta, uno scontro totale che, spinto dallo spirito di conservazione delle due superpotenze, non sfocia però nel conflitto nucleare che potrebbe distruggere ogni cosa.

Forte del sostegno dei paesi dell’ex blocco sovietico, la prima a

capitolare è la Germania, pressata sul confine dalla Polonia, che rivede il film della Seconda Guerra Mondiale a ruoli invertiti.

Dopo di essa cade il centro Europa: Danimarca, Belgio, Olanda, Austria e persino la perennemente neutrale Svizzera.

Dal Mediterraneo parte l’offensiva dai paesi arabi, alleati con i russi, che mettono in ginocchio gradualmente la Spagna e l’Italia.

La Francia, scossa dai disordini interni delle periferie, non riesce a reagire alla morsa che la accerchia.

L’unica superstite è la Gran Bretagna, difesa dal mare e divenuta importante roccaforte statunitense.

La penisola scandinava viene conquistata e poi in parte liberata dalle forze Americane (MERT – Multi-Emergency Reunion Treaty – 2008).

Verso il 2010 una brusca inversione di fronte si ha sul versante

orientale, quando la Russia, infrangendo il trattato, tenta la conquista militare della Cina.

I cinesi decidono allora di richiedere l’aiuto dell’America, che, riuscita ad arginare il problema sudamericano, sta lentamente riguadagnando terreno.

In cambio la Cina offre le sue risorse e la promessa di mantenere l’ordine nel sud-est asiatico. (Trattato di Hong Kong del 2010)

Nello stesso anno, la controffensiva statunitense inizia a raccogliere i primi frutti. Gradualmente, partendo dalla Spagna, i territori sotto l’egemonia sovietica vengono riconquistati e liberati, seguono Francia, Germania, centro Europa e nord Italia.

Solo una parte di Roma e il centro-sud restano in mano al nemico...

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U.S. DEPARTMENT OF DEFENSE

PROT.NR.: 4-S7885-TC

DATA: 18 Febbraio 2012

FONTE: Centro Controllo USEUCOM

ATTENZ.: Gen. Menškov - Id.nr.6185P

OGGETTO: Codice 2-18 - Avvistamento oggetto non identificato

Allegati: da A1 a A11

N.PAG.: 1 di 12

RAPPORTO:

La stazione spaziale ISS-41 “Shutter” ha rilevato un’alta

concentrazione di calore sul suolo terrestre italiano,

coordinate 43.30N-13.40E, ora locale 02.18, data 10 c.m.

Successivamente a tale rilevazione, altri avvistamenti

termici sono stati individuati nella zona circostante di

diversa circonferenza l’uno dall’altro (vedere allegati).

Le fonti di calore sembrano essere generate da un oggetto

non identificato, accertata origine non americana, probabile

atteggiamento ostile.

Da osservazione ravvicinata è stato appurato non trattarsi

di velivolo o mezzo meccanico, ma di creatura dalle fattezze

antropomorfe, probabile arma sperimentale sovietica. Sulla base

dei rapporti presenti in archivio sugli avvistamenti UFO degli

anni precedenti, non si esclude l’origine non terrestre.

Allegate n.11 rilevazioni satellitari

Si richiede intervento immediato.

Riunione fissata in data odierna ore 10:00.

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Capitolo 1

Il Muro del Terrore

18 Febbraio 2012, ore 10:10 – Pentagono, Washington D.C. Divisa blu con le quattro stellette, aveva optato per la versione con i

pantaloni. I lunghi capelli rossi e mossi erano raccolti in una crocchia, ma un ciuffo più lungo le sfuggiva sul davanti a ricoprire l’occhio sinistro, attraversato da una cicatrice che andava dal sopracciglio allo zigomo. Occhi color acciaio e un’espressione che faceva trasparire appena una certa irritazione.

Il Generale Galiya Menškov afferrò il foglio con le insegne del Dipartimento della Difesa su cui era stampato il rapporto e si avviò verso la stanza in cui erano riunite le alte cariche dell’USEUCOM, il Comando europeo dell’Esercito statunitense, trasferito a Washington dopo lo scoppiare del conflitto che aveva spazzato via la vecchia sede di Stuttgart, in Germania. La riunione era stata fissata in fretta e quel documento era all’ordine del giorno.

«Che significa tutto questo?» chiese Galiya con tono autoritario mentre raggiungeva gli ufficiali. Sbatté il foglio sul tavolo. «Una creatura... aliena?! Cos’è, uno scherzo di benvenuto? Non credevo che ci fosse tempo da perdere con certe stupidaggini!» Fissò in silenzio tutti i presenti in attesa di una risposta, o di una frase di scuse. Eppure nessuno di loro si scusò, né tantomeno smentì il contenuto di quel rapporto. Il leader della componente aerea dispiegata in Europa, l’Ammiraglio di Generale di Squadra Aerea Scott Conroy, si schiarì la voce con un colpo di tosse e poi si decise a rispondere: «Siamo spiacenti, Generale Menškov, e condividiamo il suo disappunto. Purtroppo non si tratta di uno scherzo. Una copia di quel rapporto è giunta stamattina sulla scrivania di ognuno di noi ed è assolutamente autentico. Abbiamo già fatto i controlli necessari.»

Galiya sospirò passandosi una mano tra i capelli, scoprendo la sua cicatrice: «Ci mancava solo questa... Siamo in guerra! Non abbiamo tempo di giocare alla caccia agli alieni! È molto più probabile che si tratti di un qualche esperimento segreto russo. Qualcosa di analogo al nostro progetto Genoma.»

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«Non possiamo escludere che i russi siano coinvolti nella vicenda... di fatto gli avvistamenti sono avvenuti in una porzione di territorio sotto il loro controllo» disse il Generale di Brigata Aerea Luis Walker.

«Dunque...» Aggiunse Conroy, «terremo monitorata la situazione, per quanto ci è possibile, con la collaborazione della Resistenza italiana. E abbiamo pensato di affidare a lei la questione.»

«Cosa?» ribatté Galiya con astio, sapeva bene che le stavano rifilando quella patata bollente per intralciarla. «Siete consapevoli che attualmente sto seguendo una questione molto più importante di questa?»

Il Generale Conroy la interruppe con un cenno della mano: «Suvvia Generale Menškov, non possiamo perdere di nuovo tempo con le sue questioni personali, credo che occuparsi di questa situazione marginale non le ruberà troppo del suo tempo.»

Galiya replicò seccata: «D’accordo, tralasciamo un attimo le mie questioni personali e la caccia all’UFO. La situazione in Italia è critica, la base di Grosseto da sola non può fare molto. Abbiamo avuto una riduzione di budget e siamo stati costretti a sospendere le operazioni di terra. Non credete che almeno dovremmo garantire una copertura aerea decente?»

«Ci stiamo organizzando» rispose Walker chiamato in causa. «Trasferiremo a Grosseto il 44° Stormo Caccia e anche la Marina ci darà una mano.» Volse lo sguardo verso Conroy, il suo diretto superiore, che annuì: «Abbiamo già fatto in modo di allertare il Gruppo Aereo da Combattimento della portaerei Truman, in più ci sarebbe un’altra questione...»

«Certo, il Thunderbird» disse Walker finendo la frase per lui. Galiya, all’oscuro di tutto, lanciò loro un’occhiataccia: «Di che

parlate?» Walker sorrise cordialmente: «La nostra squadriglia speciale.

Contiamo di sferrare un attacco decisivo via aria e mettere in ginocchio i russi. Ma per questo abbiamo bisogno di un pilota particolarmente dotato per il nostro aereo sperimentale» fece un cenno, a indicare i documenti sulla scrivania di Galiya. «Come vede abbiamo selezionato un elemento che si trova attualmente sulla Truman. È per questo che abbiamo deciso di dislocare la sua squadriglia a Grosseto, ma si tratta di una questione top secret. Abbiamo dei documenti confidenziali per l’Ammiraglio Setterman che sarebbe più sicuro consegnare a mano. Può

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mandare lei un incaricato?» Anche se suonava come una domanda, Galiya sapeva bene che era una richiesta perentoria.

«Manderò il Maggiore De Céline» rispose seccamente. La riunione si protrasse per un’altra mezzora, mentre gli ufficiali

definivano piani e strategie. Quando finalmente gli argomenti all’ordine del giorno si furono

esauriti, Galiya, sbuffando, voltò le spalle ai suoi colleghi e lasciò la riunione, camminando decisa per tornare alla sua postazione. Estrasse il cellulare dalla tasca componendo un numero breve. Non appena il suo interlocutore prese la linea, ordinò seccamente: «AI, Nel mio ufficio. Subito.» Poi riagganciò senza attendere risposta.

* * *

Il Maggiore Beatrix “AI” De Céline, si affrettò per i corridoi della

struttura e si diresse verso l’ufficio di Galiya. Ventisette anni, la divisa blu dell’esercito con la gonna che mostrava

un paio di gambe che non passavano inosservate, i capelli neri raccolti in una coda e due occhi azzurro intenso. Eppure la cosa che chiunque notava di lei al primo sguardo era la mezza maschera antigas che le nascondeva la parte inferiore del viso.

Entrò in silenzio. Per un attimo si udì soltanto il suo respiro ritmato sibilare attraverso i filtri.

Si mise sull’attenti e fece il saluto militare. «Agli ordini Generale.» La sua voce, che altrimenti sarebbe risultata alterata dalla maschera, era amplificata da un “voice projector” che avrebbe dovuto renderla più pulita. Nonostante questo, suonava distorta e artificiale.

«Riposo» rispose Galiya con noncuranza, ma dal suo tono traspariva una certa irritazione. «Lei ha ricoperto un ruolo operativo durante la guerra del 2010 in Cina, è così?»

Beatrix annuì, colta di sorpresa. Lavorava con il Generale da più di un anno, ma era la prima volta che veniva fatto un cenno diretto al suo passato. A prima dell’incidente.

Il Generale proseguì: «Vanta un curriculum di tutto rispetto nella Marina, come pilota di elicotteri e successivamente nello staff di comando e controllo del Comando Operazioni Speciali dell’Esercito.»

«Ehm... Sì, esattamente.»

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Galiya la fissò, con i gomiti sulla scrivania e le mani poggiate sotto il mento. Il suo sguardo si indurì. «E... in particolare, ha già lavorato in precedenza con il Capitano di Corvetta Ghost Freightner, giusto?»

Quel nome la fece trasalire per un attimo. Deglutì infilando un dito nel colletto della divisa, come se le mancasse l’aria. «Sì... è... è da un paio di anni che non lo vedo.»

Galiya, decise di non indagare oltre. Per lei tutto ciò che aveva a che fare con le relazioni interpersonali non aveva la benché minima rilevanza. Si mise a sfogliare la cartella confidenziale della sua sottoposta. «Ho bisogno che lei consegni dei documenti all’Ammiraglio Setterman, sulla portaerei Truman, che si trova ora nell’Atlantico. Approfitterà del viaggio per prelevare anche il Capitano Freightner e scortarlo qui al Pentagono, dove è atteso per una riunione top secret. Tutto chiaro?»

«Ricevuto Generale.» «Dovrà prendere un aereo. Ci sono problemi?» AI si irrigidì. Galiya aveva letto i suoi fascicoli e sapeva ciò che era

successo in Cina due anni prima. La stava mettendo alla prova per vedere se avesse superato il trauma oppure no.

«Nessun problema, Generale» rispose lei con fermezza. Anche se ciò significava volare di nuovo e rivedere l’unica persona che era mai riuscita a spezzarle il cuore. Ma era un soldato e non c’era spazio per i sentimenti, né per le debolezze.

Erano due anni che non vedeva Ghost, dal giorno in cui quell’incidente aveva cambiato per sempre la sua vita, costringendola a non poter più respirare come un essere umano normale. Ma non se ne faceva un problema, ognuno aveva la sua croce. Eppure lui non l’aveva mai accettato, e pur di non vederla in quelle condizioni aveva deciso di andarsene, di chiedere il trasferimento a un altro reparto. Lei era rimasta ancora per qualche tempo dietro a una scrivania della Marina, ma poi, non riuscendo più a sostenere quella situazione e quell’ambiente, aveva deciso di chiedere i permessi necessari per cambiare Forza Armata e mansione.

Cercò di mantenere l’autocontrollo e fece un sospiro per reprimere un moto di ansia che le era salito a serrarle la gola, si sforzò per respirare normalmente, continuando a ripetersi che stava solo facendo il suo lavoro.

A Galiya non sfuggì quel momento di esitazione: «So tutto del suo incidente di due anni fa» la freddò. «Non so quale amico o parente lei

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abbia tra le alte cariche per aver ottenuto un simile trasferimento, da un incarico d’ufficio presso uno squadrone di elicotteri Seahawk, fino al Pentagono, passando per l’ARSOC... ma sappia che i raccomandati non mi sono mai piaciuti. Lei ha commesso un errore di valutazione che è quasi costato la vita ai suoi uomini. Se fossi stata il suo superiore a quei tempi, l’avrei cacciata dalle Forze Armate senza pensarci due volte» detto questo si appoggiò allo schienale della sua poltrona in pelle e si accese un sigaro, aspettando la sua reazione.

AI strinse i pugni, sentì il calore della rabbia che la pervadeva. Come poteva quella donna giudicarla così? Non sapeva niente di lei. Puntò i piedi e le rispose a tono: «Generale, ho sempre fatto ciò che ho reputato fosse la cosa giusta. Ho sudato sangue per arrivare dove sono arrivata. Anche... in queste condizioni. Non le permetterò di insinuare che sono un’incapace.»

Galiya fece un sorrisetto. Non era chiaro se fosse compiaciuta o se la stesse deridendo. Sbuffò una voluta di fumo nell’aria, poi appoggiò il sigaro nel suo posacenere e si rimise composta sulla poltrona.

Firmò uno dei fogli che aveva davanti e lo spinse verso di lei. «Può andare, Maggiore. Attendo il suo rapporto non appena sarà di ritorno.»

AI afferrò il foglio per poi ribattere seccamente: «Signorsì, signora!» dopodiché si voltò e lasciò la stanza.

Galiya si rilassò sullo schienale della poltrona. Sentiva il brivido di una nuova sfida. Sentiva che qualcosa di grosso stava per succedere, pericoloso e quindi esaltante. Fece un sorrisetto ripensando alla reazione di AI. L’aveva provocata di proposito: c’erano in gioco delle vite umane e non poteva corre il rischio di avere anelli deboli nella sua catena. Aprì il cassetto dove teneva i suoi effetti personali e ne estrasse un portaritratti con una foto che la raffigurava insieme a un ufficiale americano in divisa. Il suo padre adottivo.

Accarezzò per un momento il bordo e poi lo posò sulla scrivania, accanto al monitor del suo computer. «Lo so che mi stai guardando, Colonnello Reed. Non ti deluderò.»

* * *

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18 Febbraio 2012, ore 16:50 - Portaerei Harry S. Truman (CVN-75) Le stagioni si erano susseguite velocemente e quell’anno l’inverno

sembrava essere finito leggermente in anticipo. Al largo dell’Oceano Atlantico, si respirava un soffio di aria primaverile.

Delle voci si propagarono per i corridoi della grande portaerei. Era una bella giornata e favoriva il buonumore.

«Ehi dongiovanni, cosa pensi di fare stasera? Provi a rimorchiarti quella tipetta di un ufficiale eh?»

«Eddai, finiscila! Non è assolutamente vero.» «Ma almeno ammettilo che le hai messo gli occhi addosso, cazzone!»

Si diffusero risate divertite tra i militari. Uno di loro era il Capitano di Corvetta Ghost Freightner. In realtà il

suo vero nome era Götz, che tradiva fin troppo le sue origini teutoniche, tanto che fin da ragazzo aveva sempre preferito farsi chiamare Ghost, fantasma, che da semplice nome di battaglia usato per gioco era poi diventato quasi il suo nome ufficiale. Gli piaceva l’idea di essere associato a qualcosa che instillava terrore.

Alto, capelli neri tagliati molto corti, fisico robusto, occhi grigi. Da sempre era stato un tipo riservato e un po’ misterioso, però era di buona compagnia e non rinunciava a divertirsi e scherzare con i suoi commilitoni. Nell’ambiente militare era diventato piuttosto famoso negli ultimi anni per il suo innato talento come pilota degli aerei più disparati.

Il gruppetto giunse agli spogliatoi per cambiarsi prima di una sessione in palestra. «Io quella tipetta su alla sala controllo me la farei!» lo stuzzicò un suo compagno.

«E perché mai una così dovrebbe cagarsi una feccia della Marina come te?» rispose lui, mentre apriva lo sportello del suo armadietto. «Lascia perdere, Mr. Winchester, non fa per noi!»

Il tipo a cui si stava rivolgendo si chiamava Frederick Guns, col nomignolo non ufficiale di “Mr Winchester” a causa della sua brutta abitudine di restare in fretta senza ordigni durante i combattimenti più accesi. Era suo compagno di alloggio, un tipo dalla battuta facile e dalla lingua lunga, nonché suo degno gregario.

Gli scherzi e lo scambio di battute pesanti erano il modo migliore per passare il tempo tra un’attivit{ e l’altra sulla portaerei statunitense: briefing e corsi di formazione in pieno Oceano Atlantico occupavano

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quasi tutta la loro giornata, senza contare gli allenamenti e le simulazioni di addestramento.

«Comunque stasera andiamo a bere qualcosa? Offre il sottoscritto!» Mr Winchester tirò fuori dal portafogli un ventaglio di banconote da fare invidia.

«Vaffanculo damerino sovrappagato!» commentarono i compagni, anche se in realtà il denaro non proveniva dal suo stipendio da militare ma dal fondo fiduciario elargitogli dalla sua facoltosa famiglia.

Una decina di metri sopra le loro teste, la sala controllo stava completando gli ultimi preparativi per ricevere un aereo da trasporto COD C-2A Greyhound. Con un rapido scambio di comunicazioni in gergo tecnico, l’ufficiale LSO sul ponte diede al pilota le indicazioni per l’atterraggio: «Black Jack Uno, un miglio. Call the ball.»

«Black Jack Uno has the ball.» Rispose il pilota, confermando di avere sotto gli occhi il meatball, l’apparato ottico di segnalazione che doveva guidarlo sul sentiero di discesa.

«Black Jack Uno, mezzo miglio, siete un po’ a destra.» «Black Jack Uno in corto-finale, bene così.» «Black Jack Uno in finale, bene così.» «Black Jack Uno, ok tre» concluse l’ufficiale confermando che il cavo

tre era stato agganciato e l’atterraggio si era concluso con successo. Dal velivolo scese una donna in divisa, con i gradi da Maggiore e una

maschera antigas sulla faccia. Particolare che attirò subito l’attenzione del personale in transito sulla pista, alcuni fischi si levarono da chi preferiva soffermarsi sullo stacco delle sue belle gambe.

Beatrix continuò a camminare, impassibile. Aveva imparato a ignorare gli sguardi curiosi che accompagnavano ogni sua entrata nel mondo degli esseri umani fisicamente sani.

Con passo sicuro si avviò verso la sala di controllo, nella parte centrale della portaerei. Raggiunse la stanza dell’Ammiraglio Setterman, bussando discretamente.

«Avanti» le fu risposto. Entrò facendo il saluto: «Maggiore Beatrix De Céline, incaricata

dell’USEUCOM a rapporto.» L’Ammiraglio, notando lo strano accessorio che le copriva la faccia,

immediatamente spense la sigaretta che teneva tra le dita e attivò l’aria condizionata. Ricambiò il saluto militare.

Era un vigoroso ufficiale sulla cinquantina, i capelli castani appena brizzolati, occhi scuri e un viso gioviale: «Benvenuta a bordo della USS

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Harry Truman, Maggiore. È un onore accoglierla qui» le fece segno di accomodarsi con un sorriso.

Beatrix si guardò attorno: l’ufficio aveva un’ampia scrivania rivolta verso l’ingresso, attorno erano sistemati scaffali pieni di libri, fotografie, onorificenze e trofei. Su un lato della stanza erano posizionati alcuni ingombranti schedari d’acciaio, circondati da arredi di stile, per rendere l’atmosfera più accogliente. Prese posto su una comoda poltrona in pelle.

«Mi dica, Maggiore, cosa avete per me?» Lei mise mano alla sua valigetta ed estrasse il plico contenente i

documenti confidenziali da consegnare all’Ammiraglio. Questi li prese, tralasciando momentaneamente le buste sigillate con la dicitura “top secret” e si concentrò su uno dei fascicoli: «Mi è stato gi{ anticipato da quella gran donna del Generale Menškov che avete bisogno dei nostri piloti, giusto?»

«Esatto, signore. Il 335° Stormo d’Attacco. Inoltre sono incaricata di scortare il Capitano Freightner fino a Washington.»

L’Ammiraglio Setterman lesse il documento, sfogliando la cartella. «Ah, quel tipo sveglio... Mi domando il motivo di questa insolita procedura di trasferimento.»

«Purtroppo non sono stata informata riguardo ai dettagli» tagliò corto lei.

«Capisco... Eh, ultimamente sono sempre i tizi del Pentagono a fregarci gli uomini migliori. In tempi di guerra come questi.»

«Spero che le abilità di volo del Capitano siano quelle di un tempo» si interrogò Beatrix. L’Ammiraglio la rassicurò: «È un tipo in gamba il ragazzo. Anche se penso che un’alta carica del Pentagono come lei sappia già ogni cosa riguardo alla sua carriera militare, altrimenti non l’avreste convocato» fece una risatina.

«Senza dubbio, Ammiraglio.» «Comunque, se vuole posso convocare qui il Capitano, così potrà

farsi un’idea lei stessa su che tipo di persona è. Mi faccia avvertire la mia attendente.» Prese il telefono, ma subito lei lo fermò: «Ehm... No... no. Aspetti! Non... non è necessario farlo venire qui. Già ci conosciamo.»

L’uomo riattaccò: «Qualcosa non va Maggiore? Non la vedo molto a suo agio.»

AI si schiarì la voce con un colpo di tosse, cercando di sviare il discorso: «Se permette, preferirei andare a parlargli da sola.»

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L’Ammiraglio fece un sorriso cordiale e si alzò, tendendo una mano come per accompagnarla alla porta: «Molto bene, Maggiore. A quest’ora dovrebbe trovarsi in palestra per gli allenamenti, mi segua, le faccio strada, ho proprio voglia di sgranchirmi un po’ le gambe.»

La guidò in quel complesso di corridoi stretti e monotoni, scesero una rampa di scale per accedere al ponte inferiore.

Una chiamata raggiunse il cercapersone dell’Ammiraglio, che si congedò con il saluto militare, lasciando Beatrix da sola.

La palestra era una grossa stanza fornita dei più svariati macchinari. Un sottofondo di Hard Rock ravvivava l’ambiente, trasmesso da una radio portatile poggiata in un angolo, dove un gruppetto di marine aveva improvvisato una specie di gara di sollevamento pesi. L’aria ristagnava dell’odore di sudore che AI percepiva appena grazie ai filtri della sua maschera.

Entrò ignorando i commenti e le occhiate poco garbate dei presenti e si diresse con passo deciso verso Ghost che, solitario, stava facendo con aria concentrata le sue trazioni alla sbarra. Nonostante i tacchi della donna rimbombassero sonoramente sul pavimento, lui parve non sentirli.

Beatrix si fermò e cercò di rendere la sua voce il più chiara possibile, anche se un filo di tensione era comunque percettibile: «Capitano di Corvetta Freightner. Le dispiace staccarsi un minuto da quell’attrezzo e prestarmi attenzione?»

Ghost voltò la testa verso di lei, la sua espressione non mutò di una virgola. Il motivo era che già si era accorto della sua presenza nel momento stesso in cui era entrata nella stanza. Ignorarla non era stata un’idea così efficace come sperava, del resto le possibilit{ che Beatrix si trovasse lì per qualcun altro erano praticamente zero.

In silenzio si staccò dalla sbarra, prese un asciugamano per tergersi il sudore, poi con noncuranza si grattò la testa mormorando: «Ecco, ci mancava pure questa...»

La donna lo fissò leggermente irritata: «Lo sa che facendo così mi sta mancando di rispetto?»

Lui ignorò il rimprovero e si incamminò con calma verso gli spogliatoi.

«Ehi! dove sta andando! Capitano!» «Ecco, ci risiamo! Scommetto venticinque dollari che ne rifarà

un’altra delle sue!» disse Frederick agli altri che gi{ iniziavano a

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rispondere alla puntata, molto divertiti dalla scena che i due stavano tirando in piedi.

Ghost lanciò un’occhiata ai compagni che se la ridevano e parevano fin troppo interessati alla situazione e si giustificò: «Non mi va di dare spettacolo.»

Lei lo seguì. Appena arrivato negli spogliatoi, Ghost lanciò l’asciugamano

bagnato in un angolo e aprì l’armadietto. «Allora che vuoi?» «Sono qui per scortarti al Pentagono» rispose Beatrix seccamente. «Se sei venuta a soffocarmi l’esistenza puoi anche andartene» disse

lui mentre prendeva delle cose dal suo armadietto, senza degnarla di uno sguardo.

AI esitò un istante. Erano due anni che non si vedevano, da quel maledetto giorno in cui lui era stato dimesso dall’ospedale e aveva chiesto il trasferimento. Da un giorno all’altro, senza una spiegazione, aveva chiuso la loro collaborazione e la loro storia. Si era ripromessa di non fare scenate e di comportarsi in modo professionale, ma la reazione di lui aveva fatto fuoriuscire tutta la sua frustrazione e umiliazione. Non riuscì a trattenersi ed esplose: «Non sei cambiato di una virgola. Ti comporti sempre come se il mondo girasse intorno a te.»

Lui si fermò un secondo, senza aprir bocca. Non aveva l’intenzione di dire cose di cui si sarebbe poi pentito, visto che lei sembrava già sull’orlo di una crisi.

Dato il suo ostinato silenzio, Beatrix riprese: «L’unico motivo per cui sono qui è perché mi è stato ordinato. Non sono certo qui per supplicarti! Ma sembra che tu voglia continuare a ignorarmi come hai fatto negli ultimi due anni!» fece una pausa mentre sentiva la tensione crescere dentro di lei incontrollabile, non era lì per perdere tempo in questioni personali, ma era la prima volta in quei due lunghi anni che aveva occasione di dirgli quello che pensava: «Sei... sei stato un vigliacco! Come hai potuto andartene così?!»

Ghost sbatté lo sportello dell’armadietto, ma il suo sguardo restava impenetrabile, voleva solo che quella storia si chiudesse per entrambi, nient’altro. Mentre si dirigeva fuori dagli spogliatoi pronunciò le sue ultime parole: «Fai ciò che vuoi. Per me la questione è chiusa da un pezzo. Ho voltato pagina Bea, dovresti farlo anche tu.»

Uscì, lasciando che la porta si chiudesse da sola. Lei rimase lì in piedi, stringendosi nelle braccia, mentre sentiva le prime lacrime pungerle gli occhi. Si portò le mani alla maschera. All’improvviso le

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mancava l’aria. La sgradevole sensazione della gola che si serrava, l’istinto di togliersi quella cosa dal viso e liberarsi, ma non poteva farlo o sarebbe stato peggio.

Iniziò a tossire violentemente. Si costrinse a fare respiri lunghi e profondi, che risuonarono come

sibili. Si appoggiò alla parete con il cuore le martellava a mille nel petto, cercando di riprendere il controllo di sé.

È solo una crisi respiratoria, si disse, è solo nella tua testa, calmati e passerà tutto. Appoggiò la fronte a un armadietto, continuando a respirare mente tutto tornava regolare.

Ghost era rimasto immobile dietro la porta, sentendo i suoi colpi di tosse e i suoi rantoli, finché tutto non era finito.

Guardò con la coda dell’occhio attraverso il vetro, vide che Beatrix iniziava a riprendersi, tornava eretta, si aggiustava i capelli e l’uniforme. Allora si allontanò, incontrando gli sguardi curiosi dei suoi compagni, e lanciò loro un’occhiata furente, prima di lasciare la palestra.

* * *

18 Febbraio 2012, ore 18:37 – Stanza dell’Ammiraglio

Sentì bussare. L’Ammiraglio Setterman sollevò lo sguardo dai fascicoli riservati

arrivati qualche ora prima, girò sottosopra le prime pagine, in modo da nasconderne il contenuto, e diede al proprio visitatore il permesso di entrare.

La porta si aprì con una certa esitazione. Era di nuovo Beatrix, alquanto provata dalla crisi avuta dopo la discussione con Ghost.

Anche l’Ammiraglio notò che qualcosa non andava: il Maggiore aveva gli occhi rossi e sembrava molto a disagio. Si sedette in silenzio.

«Va tutto bene?» le chiese Setterman con apprensione. «Sì, non si preoccupi, è solo una delle mie crisi respiratorie, niente di

grave» si mise con compostezza sulla poltrona e si aggiustò la voce con un colpo di tosse. «Sembra che il Capitano Freightner non sia molto propenso ad accettare i miei ordini» concluse.

L’Ammiraglio comprese la situazione e alzò la cornetta per chiamare l’attendente: «Mi mandi il Capitano Freightner.»

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Conosceva fin troppo bene il suo modo di fare irrispettoso e lo aveva anche ripreso più volte per questo motivo, ma senza grossi risultati.

Ghost si era spostato nell’hangar a supervisionare la manutenzione ordinaria che il personale stava effettuando sul suo F-35C. «Se mi sistemaste quella vibrazione che si avverte sul carrello d’atterraggio sinistro sarebbe un sollievo. E ho anche notato un certo ritardo nell’acquisizione dei bersagli quando uso l’HMDS del casco.»

«Per far girare una diagnostica completa dell’avionica ci vorr{ un bel po’, ma riusciremo a sistemare tutto quanto prima del prossimo volo» rispose il tecnico.

Ghost lo ringraziò per poi raggiungere il suo collega che si era già messo a ispezionare il carrello d’atterraggio. Una voce gracchiante si levò dagli altoparlanti: «Il Capitano di Corvetta Ghost Freightner è desiderato immediatamente a rapporto presso la stanza dell’Ammiraglio.»

Ghost non si stupì, anzi era in tensione e si aspettava di essere chiamato da un momento all’altro. Mr Winchester, che l’aveva da poco raggiunto, non perse l’occasione per stuzzicarlo: «Ohi ohi. Mi sa che l’uccellino è andato a cantare dall’Ammiraglio.»

«Sta zitto e pensa alle tue!» seccato, Ghost si affrettò a raggiungere l’ufficio. Bussò alla porta senza tergiversare. Quando gli venne detto di avanzare, entrò.

Si prese qualche secondo per notare che AI era nella stanza e che non si era neppure voltata al suo ingresso, poi, leggermente infastidito, si mise sull’attenti e si presentò con le formalit{ di rito: «Capitano di Corvetta Ghost Freightner a rapporto, signore!»

Setterman si alzò, con le mani giunte dietro la schiena: «Capitano, è stato informato della sua convocazione a Washington?»

«Signorsì, signore.» «E perché non ha seguito il Maggiore sull’aereo?» Ghost serrò la mascella. «Ho delle cose da sistemare, Ammiraglio,

non posso partire senza la mia squadra.» Lo sguardo di Setterman si fece severo. «Le ricordo che il qui

presente Maggiore è una carica del Pentagono e se le viene ordinato di partire, lei raccoglie le sue cose e si imbarca.»

«Signore, io...» L’Ammiraglio sbatté le mani sulla scrivania e alzò la voce: «Non

accetto obiezioni! Lei stasera lascerà questa nave secondo le necessità del Generale Menškov! »

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Ghost cercò comunque di replicare. «Ma la mia squadra...» L’Ammiraglio non gli diede il tempo di finire. «La sua squadra la

raggiungerà in Italia. Le ragioni di questo trasferimento le verranno chiarite al Pentagono.» Fece una pausa, poi riprese con tono perentorio. «E non voglio vederla mancare ancora di rispetto al Maggiore De Céline. Mi sono spiegato bene?» scavò nello sguardo del suo interlocutore in attesa di quella parola magica...

«Sissignore.» Ghost la disse con costrizione e a denti stretti, quasi per inerzia.

Beatrix invece restava in silenzio, si udiva solo il sibilare del suo respiro attraverso la maschera. Non una volta si era voltata per osservarlo.

L’Ammiraglio frugò tra le carte sparse sulla scrivania e quando trovò la lettera di trasferimento, senza indugio la firmò con la sua stilografica, poi la consegnò al Maggiore: di fatto Ghost si poteva ritenere già riassegnato.

«La ringrazio, Ammiraglio Setterman» disse lei sollevata, rompendo finalmente il suo silenzio.

Si alzò ed entrambi, all’unisono, fecero il saluto. Appena usciti dalla porta, però, presero due direzioni opposte.

Ghost si sentì strattonato per una manica: «Adesso tu vieni con me, e senza discutere.»

«Dammi il tempo di prendere...» Gli arrivò un sonoro schiaffo. «Ti voglio subito all’hangar, sull’aereo,

tu vieni a Washington, e se provi a disobbedirmi, ti posso garantire che ti farò passare dei guai con il Generale.»

Lui le afferrò i polsi e la sbatté contro la parete, fissandola con durezza. «Vado solo a prendere la mia roba» scandì.

Poi la lasciò andare e si incamminò lungo il corridoio. Entrò nella sua stanza senza dire nulla, lasciò soltanto un biglietto

con un breve messaggio:

Mi dispiace, mi stanno trascinando a Washington. Abbi cura di te Winchester.

Ci ritroveremo in Italia, è una promessa. Senza di te sarà la solita noia!

Ghost.

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Vuoto. Ordine. Silenzio. Così si presentavano la sua branda e il suo armadietto.

Riempì la sacca con lo sguardo perso nel vuoto, controvoglia, quasi apatico. Gli dispiaceva andarsene, non c’era dubbio, ma era costretto a obbedire.

* * *

18 Febbraio 2012, ore 19:35 – Ponte di Volo

Il sole stava calando. L’arancio del tramonto contornava d’oro le

onde, trasformando il mare in una distesa luminescente, uno spettacolo che si poteva apprezzare appieno solo da una nave.

Il Greyhound era pronto. Il rombo dei motori copriva ogni suono, le pale delle sue eliche vorticavano sollevando turbini di aria e polvere.

Ghost attraversò in silenzio la pista, con in spalla la sacca che conteneva i suoi effetti personali. Tutta la sua vita racchiusa in quel minuscolo spazio.

Camminò diretto e deciso verso quello che per lui era solo un vicolo cieco. Si fermò a metà percorso, solo un istante, giusto il tempo di voltarsi indietro e osservare ancora una volta la sua nave, fare un cenno di saluto ai suoi compagni. Neppure lui poteva dire se quella sarebbe stata l’ultima volta che li vedeva, se quello sarebbe stato il suo ultimo giorno su una portaerei.

Non era ancora pronto per una partenza così improvvisa. Anche se sapeva che i ricordi di quella nave lo avrebbero tormentato per sempre, non rimase a pensarci a lungo, non era nella sua natura, tutto quello che faceva era andare avanti per la sua strada. Perciò riprese a camminare in direzione dell’aereo che portava a bordo anche Beatrix. Ancora una volta il destino lo spingeva a tornare da lei.

Fece una smorfia seccata mormorando: «Maledetto destino...» si aggiustò meglio la sacca sulle spalle poi si aggrappò per salire sull’aereo.

Lei lo fissò con la solita vena di preoccupazione negli occhi. Sapeva che se era stato convocato al Pentagono, era per qualcosa di pericoloso. Non poteva negare che le importasse ancora di lui.

Ghost fece un sospiro, distogliendo lo sguardo, fissando dritto davanti a sé con un sorriso sprezzante in faccia: «Spero proprio di restarci secco stavolta. Almeno non dovrò più vederti con

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quell’espressione... Tsk, Le donne! Chi ha deciso che potessero entrare nell’Esercito?»

L’aereo iniziò le manovre di rullaggio. Il tempo di calibrarlo sulla pista con il Cat shoot, la catapulta capace di fargli acquisire la velocità sufficiente per il decollo in quel poco spazio a disposizione, e si librò in volo.

AI osservò dal finestrino la sagoma della portaerei che pian piano diventava più piccola, fino a ridursi a un puntino indistinto nell’oceano.

«Sei il solito irrispettoso cafone... Mi chiedo perché il Generale ti abbia convocato.»

«Forse perché voi bambocci del Pentagono siete dei buoni a nulla» rispose lui alzando le braccia e portandosi le mani dietro la nuca come per mettersi più comodo. Sembrava alquanto soddisfatto e sicuro di sé.

«Forse perché ci serviva carne da macello e non volevamo sprecare i nostri uomini» disse lei in tono freddo, continuando a guardare l’oceano sotto di loro. Ma la sua espressione non era quella di chi stava facendo una battuta scherzosa.

«Carne da macello? Questo è tutto da vedere! Non crederai di liberarti di me così facilmente, eh?» Ghost fece una risata spavalda.

Beatrix rispose con un sospiro impercettibile attraverso la sua maschera antigas, portò la mano a una delle cinghie che le sparivano sotto i capelli, come a volersela sistemare meglio. Sembrava avere intenzione di replicare, invece non disse nulla.

Non una sola parola per tutto il resto del viaggio. Non incrociarono mai lo sguardo, si ignorarono a vicenda per un

tempo che sembrò durare un’eternit{.

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Continua...

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