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Conversazione con Franco Motta su «Elogio delle minoranze» Obsolete Capitalism Free Press Archeologia delle minoranze

Archeologia delle minoranze. Conversazione con Franco Motta su «Elogio delle minoranze»

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Uno dei «grandi» piccoli libri politici degli anni Dieci del nostro secolo è stato il testo licenziato nel 2012 da Franco Motta e Massimiliano Panarari con il titolo quanto mai felice di Elogio delle Minoranze. Con un ferreo ribaltamento della prospettiva, i due autori evidenziano come sia più rilevante politicamente e intellettualmente il ruolo delle minoranze, all'interno della società, nei confronti del ruolo delle maggioranze. L'Italia è stata patria, da Machiavelli in poi, del più intransigente realismo politico e, dunque, l'accento è sempre caduto - nelle cosiddette «scienze politiche» - su concetti quali élite, egemonia, governo, potere. La presente antologia di testi a cura di Obsolete Capitalism cerca di ricostruire lo scenario culturale, storico e politico nel quale si è sviluppata l'opera dei due autori, aprendo il volume a recensioni, polemiche e repliche che il libro ha suscitato. Franco Motta è ricercatore in Storia moderna presso l'Università di Torino.

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Archeologia delle minoranze

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RADICAL JOURNALISM/01

"In 1973, Michel Foucault defined himself as a journalist for his attention to the

present and philosophy as a practice of ‘radical journalism’* that tries to transform the

present reality." (Sophie Fuggle, Yari Lanci, Martina Tazzioli)

*Michel Foucault, 2001, ‘Le monde est un grand asile’, in Dits et Ecrits, Vol. 1, Paris: Gallimard, pp. 1301–2.

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Archeologia delle minoranze

Conversazione con Franco Motta su Elogio delle minoranze

Introduzione di Obsolete Capitalism

Obsolete Capitalism Free Press

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Prima edizione settembre 2015Anti-Copyright Obsolete Capitalism Press

somewhere in Algorithmic Planethttp://obsoletecapitalism.blogspot.it

Progetto grafico: Fortress EuropeImmagine di copertina: Ryoichi Kurokawa (Syn _ 2014)

ISBN 999-99-99999-99-x

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Indice : : Archeologia delle minoranze

10 Per una teoria delle minoranze Introduzione di Obsolete Capitalism

46 Conversazione con Franco Motta su «Elogio delle minoranze»

112 Conversazione di Pippo Civati con Massimiliano Panarari @ Prossima Italia, 22 luglio 2012

124 Elogio delle minoranze Introduzione. Un'Italia incompiuta di Franco Motta e Massimiliano Panarari

Recensioni di Elogio delle minoranze144 Sono le minoranze il sale delle democrazie di Franco Motta e Massimiliano Panarari (La Stampa, 25 giugno 2012)148 Quei pochi che (non) hanno fatto l'Italia di Alessandro Lanni (Europa, 03 luglio 2012)154 Capitalizzare il merito di Gilberto Corbellini (Il Sole 24 ore, 29 luglio 2012)160 Il fascino indiscreto delle élite 'virtuose' di Corrado Ocone (Corriere della Sera, 22 luglio 2012)164 Le 'minoranze virtuose'? Una leggenda da salotto di Marcello Veneziani (il Giornale, 23 luglio 2012)

Repliche degli autori172 Replica ai censori di Franco Motta (Marsilio blog, 24 luglio 2012)176 Il fascino discreto delle élite di Massimiliano Panarari (Europa, 25 luglio 2012)

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Per una teoria delle minoranzeIntroduzione di Obsolete Capitalism

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Per una teoria delle minoranze

di Obsolete Capitalism

Delirare i confini

Alcuni anni or sono una visita al Compendio Garibaldino, a Caprera, ci aveva lasciato turbati. Il luogo privilegiato del turba-mento era la superficie bidimensionale di un'inedita rappresen-tazione cartografica d'Italia. La cartina-modello che troneggia-va nella Casa Bianca del 'padre della patria' comprendeva la città di Nizza, l'isola di Corsica, la penisola d'Istria, l'arcipelago di Malta, la regione adriatica e orientale della Dalmazia e la regio-ne transalpina della Savoia. Il sottile sconcerto era legato, a ben vedere, a due fenomeni precisi: il primo era determinato dallo stupore nel vedere una simile cartina geopolitica - evidentemen-te si trattava di una mappa ordinatamente elaborata dalla mente di Garibaldi prima di morire (1882). Il secondo era legato alla riflessione sul ruolo delle azioni di una ristretta minoranza nei confronti di una maggioranza inerte, ancora da conquistare in termini politici, culturali ed economici. Esposta nella camera da letto di Garibaldi, la mappa politica d'Italia riserbava un monito severo alle future generazioni d'italiani. Quella cartina politica di un'Italia 'immaginaria' - e allo stesso tempo iperreale per il suo propugnatore in quanto modello 'ideale' - parlava spiritual-mente ad un futuro 'popolo' italiano, tramite una testimonianza iscritta nella proiezione cartografica.

Più precisamente, era una sfida ciò che la mappa di un'Italia

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garibaldina lanciava all'osservatore interessato e la sfida stava tra il realizzato e il realizzabile. La differenza, ovvero l'irrealiz-zato che il muto dialogo tra rappresentazione e spettatore sug-geriva, aveva la forma di un gesto sospeso e il movimento disar-ticolato di un'azione interrotta. Offerto allo sguardo complice e irrequieto, il gesto sospeso era il compito assegnato alle future genti italiane, ovvero ciò che storicamente era giusto riprendere al più presto e portare a compimento, eliminando l'interruzio-ne. Le superfici ancora mancanti, i volumi non ancora liberati, i tratteggiamenti generosi che impregnavano la carta immagi-naria di una nazione altamente idealizzata, venivano proiettati non solo sullo sguardo sbarrato del patriota ma anche sul fondo segreto e oscuro dello spazio interiore della sua anima. Queste costellazioni di territori irredenti brillavano per la loro assenza nei confronti dei ben più circoscritti confini contemporanei e, allo stesso tempo, erano 'iscrizioni della Storia', quasi fossero la volontà cristallizzata di un esiguo numero di italiani d'ipotecare corpose porzioni di un prossimo futuro. L'auspicio di speranza e di slancio politico che la mappa-testamento dell'Italia menta-le di Garibaldi sembrava trasmettere era il seguente: il riscatto morale di una nazione è il portato storico di una minoranza at-tiva che si legittima come 'corpo provvisorio' di un intero popo-lo, per attivare un processo politico che favorisca la liberazione delle masse popolari ancora soggiogate da potenze straniere.

Il libro 'Elogio delle minoranze' di Franco Motta e Massimi-liano Panarari indaga, con un ìmpeto degno del miglior civi-smo, l'irrealizzato, non più territoriale, che l'attuale generazione d'italiani è chiamata a inverare. All'assenza dei territori dell'ir-redentismo garibaldino sostituiscono la mancanza di un'azione di modernizzazione sociale e istituzionale. L'archeologia delle minoranze virtuose che ci propongono i due autori è la map-

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pa geologico-politica di un'Italia coraggiosa e misconosciuta, la cui narrazione ne raccoglie la sfida di sistema, concedendo la parola, ancora una volta - e dunque accordando nuove possibi-lità di affrancamento - a coloro che, nelle profondità del tempo trascorso e nei distaccamenti minoritari, non hanno avuto che parole azzittite, azioni insabbiate e orologi infranti. Affrontia-mo, prima della disamina del testo di Motta e Panarari, alcune premesse doverose all'episteme della Minoranza.

Ordine e misura: la matematizzazione dell'empirico

La forma della non linearità, della divaricazione, dell'insta-bilità è difficile da decifrare nella freccia direzionale della storia degli ultimi secoli se, tale ricerca, non è sorretta dal confronto tra costanti e differenze, linee e biforcazioni, ripetizioni e stac-chi. La democrazia rappresentativa, rafforzata nel XX secolo dal suffragio universale, è figlia del pensiero politico-filosofico di Rousseau e degli Illuministi francesi tanto quanto del razionali-smo filosofico-matematico di Cartesio. La mediazione razionale tra natura ed esperienza, e tra nuovi livelli di ordine sociale e fondamenti veritativi, porta il secolo XVII a soglie di pura eccel-lenza nella sintesi tra filosofia e pensiero matematico-scientifico. L'habitat delle moderne democrazie 'avanzate' risiede nell'alveo della matematizzazione dell'empirico perseguita dalle forme di pensiero radicale dell'Età Classica. E' da questo spazio ecologi-co del pensiero e del politico che, nelle democrazie occidenta-li, si può parlare correttamente di maggioranza e minoranza. Su questa soglia epistemologica abbiamo sfidato e indagato il pensiero degli autori di Elogio delle minoranze, ponendo loro alcuni interrogativi: la storia del pensiero politico può stabili-re con fondamenti di verità lo statuto delle discontinuità delle

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minoranze portatrici di progetti riformatori rispetto ai poteri costituiti? Quali sono i caratteri prescelti per individuare, isola-re, ritagliare queste ristrette minoranze? Come viene distribu-ito il tempo delle narrazioni e degli accadimenti frammentati? In tempi di democrazia rappresentativa e quindi di aspirazione numerica all'individuazione della maggioranza che garantisca il fondamento del potere e l'equilibrio di 'sistema', quali sono gli spazi di manovra e di proposta delle minoranze numericamen-te individuabili? La democrazia rappresentativa non limita, o addirittura frena, il dinamismo dei soggetti del rinnovamento e del cambiamento?

Le presenti domande riguardano come fare corrispondere in un sistema simultaneo, istituzioni realmente democratiche, dinamismo sociale e processi di cambiamento. Le minoranze, infatti, sono portatrici di istanze di rinnovamento e di per-turbamento della ragione identificante in quanto differiscono dall'Identico sociale che le vorrebbe contenere. Allo stesso tempo le gerarchie elitarie che governano le istituzioni ambiscono alla quiete selettiva e aborriscono il movimento tendente all'oppo-sizione differenziatrice. L'atteggiamento conservatore dei poteri organizzati in istituzioni totali, irrigidisce le stesse, tramutan-dole in organizzazioni ripetitive e materializzandone le contin-genze. E' noto che lo sforzo intenso delle gerarchie uniformanti è volto a far apparire 'naturale' il reale, cioè il sistema vigente, e 'irrazionale' il diverso dal conforme; da ciò la propagazione ocu-lata dell'espressione "il reale è razionale" il cui risvolto negativo è la certificazione di "assurdità irrazionale" per ogni atto di "re-sistenza del diverso alla ragione identificante" (Deleuze, 1997).

Si viene a creare, dati questi presupposti, uno spazio politico smisurato e stridente, situato oltre la contabilità democratica e la proceduralità elettorale; è in questo spazio politico che la filoso-

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fia del pensiero minoritario si deve insediare e l'archeologia delle minoranze trovare il proprio ritmo di analisi e di indagine. Per ora - ma questo è solo l'inizio di una nuova dimensione neo-ma-terialista della Storia - ci si dovrà accontentare di raccogliere, elencare e accatastare le forme di rottura, la morfogenesi delle discontinuità, la meta-stabilità del pensiero del divenire-minore.

Il sapere primo del pensiero classico

Soffermiamoci ancora su quel 'magico' momento in cui Car-tesio universalizza l'atto del confronto, rendendolo, come affer-ma Michel Foucault (Le parole e le cose, 1966), nella "sua forma più pura". Ogni conoscenza è "ottenuta attraverso il confronto di due o più cose fra di loro" (Cartesio, Regulae, 1628). Con qua-li atti collettivi comparativi si apprende la volontà del popolo sovrano se non attraverso l'esercizio democratico e il rito par-tecipativo della competizione elettorale tra eguali e liberi che assegna una maggioranza, più o meno qualificata, in grado di tradurre in azione politica le scelte della totalità approssimata? Si esperisce e si conosce la volontà della maggioranza attraverso il confronto democratico. E' nel confronto tra le proposte po-litiche che si dispiegano identità e differenze, misura e ordine. Il metodo razionale matematico-scientifico cartesiano permette di abbandonare, anche per ricerche circostanziate come quelle di Motta e Panarari che qui analizziamo, le quattro similitudini che hanno svolto una parte "costruttiva nel sapere della cultura occidentale" fino alla fine del XVI secolo: vicinanza, emulazio-ne, analogia e simpatia.

Con Cartesio hanno termine le relazioni esoteriche, i conca-tenamenti instabili, le similitudini intricate, le parentele oscure mentre il confronto tra gli oggetti, anche politici, ne guadagna in

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nitore, trasparenza ed esattezza numerica. Resta in campo solo il confronto tra confronti: quello tra ordine e misura. Se nell'età classica della civiltà greca, e dunque all'apogeo della città-stato - laboratorio storico della grammatica politica contemporanea - il confronto tra misura e ordine veniva risolto, come ultima ratio, dalla stasiologia - la teoria della guerra civile (Agamben, Stasis, 2015) che segna l'integrazione definitiva della famiglia nella mo-bilitazione partitica e nell'ordine politico della città ed esautora di fatto la misura rendendo indecidibile non solo il fratello e il nemico, ma pure il maggiore e il minore - allora, nell'età classica della civiltà europea, all'apogeo delle nazioni-stato, il confronto tra misura e ordine viene, nel caso della prima, ricondotta "alle relazioni aritmetiche dell'uguaglianza e della disuguaglianza", mentre nel secondo caso viene considerato come oggetto di stu-dio, prima il tutto e poi successivamente le parti. La misura ana-lizza in unità, l'ordine fissa degli elementi. L'obiettivo del con-fronto consiste appunto nel ricondurre ogni misura a un ordine seriale, dal più semplice al più complesso.

La civiltà occidentale, sublimando psicologicamente la teoria della guerra civile, assegna al dispositivo misura/ordine lo scopo principale di ordinamento del mondo e da ciò ne discende, nel nostro assetto politico-istituzionale, il marcare le misure attra-verso le competizioni elettorali tra partiti e l'ordinare i poteri attraverso le separazioni equilibrate di organi legislativi, ese-cutivi e giudiziari. Così uno dei cardini fondamentali del pen-siero politico della modernità - la democrazia rappresentativa e la conseguente 'dittatura quantitativa' realizzata attraverso la sovranità parlamentare - è stato plasmato dall'egemonizzante filosofia razionale del XVII secolo. La mathesis assurge, sempre nell'analisi strutturalista di Foucault, a scienza universale della misura e dell'ordine. Chi potrà mai scalfire politicamente e fi-

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losoficamente, ai giorni nostri - il secolo di Google - la potenza astratta e la forza materiale della mathesis, dopo oltre 200 anni di dominio ininterrotto?

Non scalfire ma scartare

Valuteremo a tal proposito alcune teorie, che qui potremmo definire come prime architravi di una teoria delle minoranze in fieri, ritenendole più consone al discorso qui trattato. Filosofi e sociologi come Badiou, De Landa, Deleuze, Guattari, Moscovici e Simondon hanno elaborato, nella seconda metà del Novecento, delle trame concettuali che teorizzano implicitamente l'inutilità di matematizzare la dimensione politica del sociale. Ogni mo-dello numerico-computazionale applicato alla sociologia, com-preso il modello brutalista e neo-aristocratico di Gaetano Mosca dell'antagonismo tra governanti e governati (Elementi di scienza politica, 1896), per quanto logicamente concatenato, si pone es-senzialmente su assiomi necessari per armonizzare e contenere il reale così da renderlo matematizzabile, e dunque pensabile e ordinabile, attraverso processi di astrazione dalla pura contin-genza (Vilfredo Pareto, Trattato di sociologia generale, 1916). Ma il Tutto non è dato, come ci ricorda Bergson (Le due fonti della morale e della religione, 1932). E' dunque sufficiente un mi-nimo scarto, rispetto ai dati operativi di partenza, affinché si consegua un risultato del tutto difforme a quanto preventivato. E qualcosa "sfugge sempre", o come scrive Deleuze (Differenza e ripetizione, 1997) "Dio fa il mondo calcolando, ma i suoi calcoli non sono mai giusti". Nonostante sia sistematizzata, controllata, documentata, archiviata, digitalizzata, la realtà scarta sempre e accelera. Ecco nascere, come antidoto all'eccesso di ratio che tutto illumina, il sistematico abbandono, durante il XX secolo,

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delle trame dell'Ordine, del riduzionismo logico-matematico e dei "cicli di conversione Natura-cultura-Natura" da parte delle filosofie di rottura post-strutturaliste. Detto altrimenti, "diver-samente dalla logica, la questione non è di costruire dei sistemi logici preliminari e poi cercare di vedere come funzionano" ri-spetto al dato empirico, "ma di assemblare alcune unità molto semplici e interessarsi delle proprietà emergenti" (Fabbri, Come Deleuze ci fa segno, 1997). Se applichiamo, a puro titolo di ana-logia, tali scarti, fughe o resistenze, più o meno ideologiche, più o meno arcaiche, alla svolta matematica della razionalità occi-dentale nel campo bellico - contiguo, in ogni caso, al campo socio-politico - vediamo come le minoranze resistenti non oc-cidentali, siano esse dei goliath vietcong o talebani, riescano a superare la logica astraente e matematizzante delle gerarchie militari occidentali offrendo unicamente la propria disintegra-bile corporeità, altèra rispetto alle condizioni di schieramento di robotiche, sistemi lineari di controllo istantaneo e griglie co-ordinate di droni, missili, satelliti e altre sofisticate armi delle attuali guerre non convenzionali. "La Storia", come sostengono Deleuze e Guattari, "è fatta soltanto da coloro che si oppongono alla Storia". Gli oppositori minori alla Storia maggiore contrap-pongono alla bellica ipertrofizzata dell'astrazione logico-mate-matica, la più antica delle strategie caotiche, la stasiologia. La macchina rovesciata della guerra civile invade la città e fa del popolo l'obiettivo stesso della stasis.

Il consenso modulato e il de-popolamento

Nelle democrazie occidentali la frontiera storica tra maggio-ranza e minoranza passa innanzitutto dai sistemi puntuali di configurazione delle forme di pressione di gerarchie al potere.

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Affermare che le azioni dedicate all'uniformità sono sempre in atto, in un dato momento storico, da parte delle gerarchie disci-plinanti, significa che un nucleo centrale di significati, valori, idee, norme e pratiche, espressione della 'supposta' maggioran-za, non è negoziabile da alcun segmento della società. "Se tutto fosse negoziabile", afferma Rorty (Un'etica per laici, 2008) "il di-scorso normale sarebbe impossibile". Il consenso modulato come cemento del nucleo centrale della cultura di 'maggioranza' e come atto di difesa delle gerarchie installate nelle cerchie più ri-strette del potere non è il prodotto di un accordo diretto, grazie al mandato elettorale, tra élite e popolo, volto a eliminare i po-tenziali conflitti sociali tramite redistribuzioni di beni e servizi, bensì un processo continuo di influenza, trasformazione e pu-rificazione della mentalità singola, di gruppo e collettiva. Paul Virilio definì de-popolamento (L'insécurité du territoire, 1976) l'azione metodica di 'bombardamento' incessante della sfera so-ciale, privata delle proprie specifiche tradizioni, anche ideologi-che, attraverso un'azione di livellamento delle credenze e degli stili di vita precedenti, il cui fine ultimo era l'elusione del dis-senso e della devianza, e successivamente, il dispiegamento di strategie di consenso modulare sul popolo de-popolato. 'La con-cretezza del potere' - afferma l'urbanista francese - 'viene salvata dalle sue Istituzioni, non per il loro funzionamento precario, ma grazie alla loro mera esistenza. Quando cederà l'ultima bar-riera, allora il corpo sociale cadrà come una massa informe di materia vivente (...)'. E' dunque il cedimento, sempre imminente e in tutti i punti del sistema, che genera la coscienza catastrofi-ca che attanaglia tutte le élite dominanti, le quali, a loro volta, originano a propria difesa, non solo i dispositivi normativi e i poteri disciplinari, ma anche le ondate costanti di pressione per omogeneizzare il corpo sociale. Il potere delle minoranze

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s'insinua qui, nella costituzione della minoranza come sogget-to negoziante, nell'apertura di un processo di dialogo negoziale, nell'individuazione di una strategia di negoziato, nella scelta dei themata di scambio, nella costruzione di spazi di negoziazione intraistituzionale pensati come ambienti di depressurizzazione e nell'invenzione di veri e propri anti-oggetti maggioritari.

Serge Moscovici è stato il teorico riconosciuto delle forme di minoranza che affrontano il conflitto negoziato con la maggio-ranza. Perdente nei comportamenti collettivi manifesti, la mino-ranza, per Moscovici, si dimostra vincente nei comportamenti individuali latenti in quanto lavora silenziosamente nell'ombra della psiche soggettiva del singolo.

La minoranza attiva di Moscovici

Nell'hommage proposto a un anno dalla morte del sociologo franco-rumeno, Annick Ohayon (À Serge Moscovici, 1925-2014) ci ricorda come il tema del potere delle minoranze sia stato "lega-to alla sua esperienza del razzismo. Per Moscovici, gli Ebrei non avevano, nella società dell'Europa dell'Est da cui provenivano, che tre vie d'uscita: la prima, interiore, nella religione; le altre due, esteriori, nel sionismo e nel marxismo. Scelse la terza (entrò nel Partito Comunista a 14 anni), poi una quarta: l'esilio".

Serge Moscovici nel saggio Psicologia delle minoranze attive (1982) ha ribaltato la concezione dei fenomeni di sottomissione, conformità e obbedienza applicati alle minoranze. Le minoran-ze attive, secondo le analisi dello psicologo sociale, hanno ela-borato empiricamente una psicologia dell'influenza sociale che determina un positivo effetto di azione e retro-azione sulla col-lettività. Qualsiasi sia la forma assunta dalla minoranza attiva, questa appare in grado di condizionare la maggioranza - defi-

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nita da Moscovici maggioranza normativa - e favorire così un cambiamento graduale nelle opinioni, nei giudizi e negli atteg-giamenti individuali, a patto che la minoranza eserciti posizioni alternative chiare, coerenti e reiterate nel tempo. Sono cinque, dunque, le caratteristiche essenziali che una minoranza attiva deve avere: chiarezza, coerenza e costanza relative alla propria posizione, fedeltà e compattezza relative al proprio gruppo.

Le minoranze attive posseggono un codice proprio che ripe-tono coerentemente nel tempo, enunciandolo come antagoni-stico al codice dominante. L'approccio di Moscovici è rilevante ai nostri fini in quanto 'dipinge' le minoranze come agenti so-ciali attivi, il che aiuta il sistema nel proprio dinamismo volto alla trasformazione perpetua; anziché accreditare le minoranze come residui inerti o segmenti devianti della collettività, Mo-scovici ne propone una versione energicamente positiva.

Rimane un'ultima considerazione sull'individuo contempo-raneo e sul suo carattere mimetico, causato dalla schiacciante tendenza all'omologazione: in pubblico egli si conforma alla pressione pro-coesione sociale, in privato opta per l'innovazio-ne e la trasgressione contro l'ordine simbolico prevalente. Tale atteggiamento trova la sua espressione più compiuta, in demo-crazia, nel voto segreto dell'urna elettorale.

Il soggetto anfibio: l'individualità anteriore al collettivo

Proviamo ora ad entrare nel processo di concretizzazione di una minoranza. Abbiamo appreso da Moscovici il carattere mi-metico dell'individuo sottoposto a regimi di indifferenziazione e processi di individuazione indifferenziata. La sagoma dell'uomo mimetico entra in consonanza con la forma del soggetto anfi-bio di Gilbert Simondon (L'individuazione psichica e collettiva,

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2001) sebbene il primo sia il frutto di tattiche di contingenza e sopravvivenza mentre il secondo nasca dai carichi di indeter-minazione della Natura. Nella filosofia di Simondon è all'opera una fraseologia rigorosa che necessita di essere ben analizzata. Per il filosofo francese l'uomo, prima di essere un soggetto, cioè una soggettività ben strutturata, passa attraverso degli stadi. Il primo stadio è la realtà preindividuale in cui l'individuo è un universale indifferenziato. Scrive Simondon: "La Natura non è il contrario dell'Uomo, ma la prima fase dell'essere, là dove la se-conda è l'opposizione tra individuo e ambiente". La fase larvale e naturale dell'uomo è definita dal filosofo francese preindivi-duale, cioè una prima individuazione che condivide con tutti gli altri esseri umani, dunque universale: si tratta dell'impersonale "si nasce, si vive, si muore, si sente", eccetera. Notiamo subito che le due indifferenziazioni che incontriamo nelle riflessioni di Moscovici e di Simondon - sono ineguali. L'indifferenziato di Moscovici è un punto di arrivo politico che giunge dopo un'a-zione di pressurizzazione massificatrice, di morfogenesi sociale; viceversa, l'indifferenziato di Simondon è un punto di partenza biologico, una dotazione naturale frutto della riproduzione ses-suata.

Secondo l'ontogenesi di Simondon, all'individuazione di pri-mo grado segue, nel corso del tempo, il processo di individua-zione, ovvero una transizione dallo stato di natura ad uno stato determinato il cui esito finale è l'individuo individuato. Questa individuazione di secondo grado non cancella il fondo oscuro biologico che la Natura ha fornito a corredo 'primo' dell'animale umano, ma si aggiunge ad esso creando quella che Paolo Vir-no ha definito "singolarità irripetibile" (Moltitudine e principio d'individuazione, 2001). Qui s'installa il soggetto anfibio di Si-mondon, parte realtà preindividuale, parte realtà individuata.

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Vi è, nel soggetto completo, coesistenza di due realtà - da qui la natura anfibia del soggetto - per cui l'individuo non possiede un ambiente proprio, ma oscilla tra lo svincolarsi dalla dotazione biologica e la colonizzazione dell'ambiente sociale. Come colle-gare, dunque, le nature identiche dell'universale indifferenziato con le nature difformi del singolare individuato? Il collegamento verrà effettuato durante la fase della terza individuazione, il gra-do 'terzo' in cui il collettivo non è altro che "una natura associata al suo essere individuato": qui incontreremo le nozioni che ci interessano ai fini dell'opposizione reciproca di minoranza/mag-gioranza.

L'individuazione collettiva

L'associarsi dell'individuo individuato alla società non è esen-te da lacerazioni e conflittualità: "L'individuo si vede proporre degli scopi, dei ruoli da adottare; deve tendere a questi ruoli, nonché a certi esempi e a certe idealità; deve essere guidato da modelli che si sforza di attuare, accordandovisi e adempiendoli. La società presenta all'essere individuale una rete di stati e di ruoli attraverso cui deve passare la sua condotta".

Non esiste, dunque, reciprocità tra il macro-sociale e la sin-golarità irripetibile. Infatti, "l'individuo è obbligato a proiettare il proprio futuro attraverso una rete sociale già esistente; per socializzarsi, l'individuo deve passare; integrarsi significa coin-cidere con la società secondo un reticolo, non secondo la forza immanente al futuro dell'essere somato-psichico". Assenza di coincidenza, irreciprocità strutturale: nulla che faccia presagire l'individuo individuato come adulto integrato.

Ciò che Simondon assegna all'essere è la sua capacità di vivere trasformandosi, frutto di quella Natura residua allocata nella re-

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altà individuata che continua a produrre evoluzione. Qui, però, la singolarità deve colmare un divario: "la società non è il pro-dotto della reciproca presenza di molti individui", bensì "è l'ope-razione, e la condizione operativa, con cui si determina un modo di presenza più complesso di quanto sia la presenza dell'essere individuale isolato". Ecco apparire nel mondo teorico di Simon-don la complessità del reale: la società è un sistema operativo governato grazie a schemi sociali in cui soggetti e gruppi si ma-nifestano attraverso modi di presenza. L'individuo individuato entra in relazione con la sfera sociale attraverso mediazioni che permettono alla sua presenza non strutturata di accordarsi con l'organizzazione organizzata del macro-sociale. Il rapporto con la società passa necessariamente attraverso un'interzona sociale di gruppo. Ma il gruppo, questa collettività minore, non sarà il frutto di un mero agglomerato di personalità già individuate e costituite, ma sarà il risultato di una individuazione di gruppo, cioè di un apporto condiviso di presenza, tensione e ambiente. Questa nuova individuazione non distruggerà la precedente ma sarà la parte attualizzata dell'evoluzione del soggetto, il punto d'arrivo dell'ontogenesi, cioè delle "fasi di sviluppo del singolo io autocosciente" (Virno, 2001). Ogni singolarità si combinerà con gli altri individui della collettività minore in quella parte di indeterminazione costitutiva che risiede in tutti loro, un nucleo di energia potenziale evolutiva pre-individuale.

Il sistema operativo e la zona operativa centrale

Simondon, riassumiamo, teorizza che l'individuo passi attra-verso tre fasi di individuazione: biologica, individuale, collet-tiva. La spinta energetica dei potenziali pre-individuali che lo abitano agisce sempre verso una produzione di potenza anoni-

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ma, immanente sia al singolo che al collettivo. L'individuo indi-viduato incontra con rarità dei gruppi allo stato nascente, non già fondati; e le micro-formazioni del sociale spesso inaridiscono per de-stratificazione interna a causa della limitatezza e gracilità della loro struttura. A causa dell'alto tasso di mortalità dei mi-cro-gruppi, infatti, l'individuo individuato trova nella sfera so-ciale una "naturale competizione" tra i vari gruppi già esistenti e la nascita di un distaccamento minoritario o collettività minore avviene solamente quando "le forze del futuro, implicite in mol-ti individui viventi, pervengono a una strutturazione collettiva". Qualora prevalgano le forze del passato, legate a schemi sociali anteriori dominanti, il risultato è il ripiegamento o il deflusso verso i gruppi già esistenti. Infatti, la singolarità irripetibile indi-viduata può passare attraverso crisi d'individuazione che la fan-no precipitare nelle singolarità ripetibili indifferenziate qualora le 'passioni tristi' riescano a prevalere. E' certo che, essendo il gruppo dominante necessitante di nuove affiliazioni individuali per mantenere "la stabilità organica, strutturale e funzionale" del sistema operativo, l'obiettivo primo delle gerarchie stratifi-cate sarà l'assimilazione diacronica dei nuovi individui in fase di individuazione o degli individui disindividuati appartenenti ad altri gruppi da cui si stanno allontanando (crisi di indivi-duazione). Le gerarchie del sistema operativo sono coscienti che qualsiasi gruppo, anche il maggioritario, se "non si ricostitui-sce assimilando nuovi membri, si dissolve in quanto gruppo". Sorge a questo punto la domanda "sistemica": come indirizza-re, alimentare e controllare la metastabilità dei soggetti e dei gruppi minori? Simondon chiama la zona centrale operativa del trans-individuale quel luogo di relazione in cui gli affetti - il filo-sofo francese li definisce emozioni - si strutturano, internamente nel soggetto, esteriormente nel collettivo. L'emozione è "lo scam-

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bio, all'interno del soggetto tra la carica di natura e le strutture stabili dell'essere individuato", così come lo sono le emozioni di gruppo, in scala maggiore, nella collettività individuata. Il go-verno politico degli affetti è il dispositivo di potere rivendicato dagli operatori della zona centrale del sistema per ordinare la sfera sociale e, così, distribuire e trasmettere la fedeltà alla mag-gioranza normativa.

Un'ultima differenza da segnalare, sulla quale si sofferma Si-mondon, tra collettività minori e maggiori: nei gruppi minori è necessaria la presenza dell'individuo mentre nei gruppi più vasti "le mediazioni tra individui sono più complesse, giacché utiliz-zano modi di trasmissione e di azione che implicano una dila-zione e dispensano alla presenza reale; ma lo sviluppo di queste reti di comunicazione e autorità non conferisce un'essenza a sé stante ai fenomeni macro-sociali nel loro rapporto con ciò che si usa chiamare l'essere individuale". E' a causa di questa 'assenza e dilazione', a tutti gli effetti una spettralità individuale e collettiva, che siamo costretti a subire i costanti bombardamenti mediatici per ottenere il de-popolamento (Virilio) e le perpetue ondate di pressione al conforme (Moscovici) che le élite stratificate orga-nizzano con lucida regolarità. Il loro scopo primario è creare, stimolare e mantenere la fiducia della maggioranza normativa cioè quel luogo comune delle opinioni che si conformano a una sistematica interna al macro-sociale. E il luogo calendarizzato della raccolta di opinioni già strutturate in precedenza - il rito cultuale secolarizzato delle credenze fiduciarie della maggioran-za normativa - avviene, nelle democrazie mature, con le compe-tizioni elettorali.

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Il distaccamento minoritario di Badiou

Nella quindicesima e sedicesima glossa del testo di Alain Ba-diou '24 glosse sull'uso della parola "popolo"' (Che cos'è un po-polo, 2014), il filosofo francese sviluppa il tema della 'misura' quantitativa del popolo inteso come categoria politica. Badiou annuncia, e allo stesso tempo denuncia, la crisi della rappresen-tazione maggioritaria del processo elettorale, problematizzando sia l'inerzia statale del popolo che ne deriva sia la legittimità po-litico-istituzionale. Perché Badiou indaga il tema della misura quantitativa del popolo? Perché contrappone all'inerzia della maggioranza e della sua rappresentazione formale l'attivismo del distaccamento minoritario che combatte la sottomissione all'autorità dispotica. Il popolo, secondo Badiou, può interpre-tare di nuovo il soggetto di un processo politico di liberazione ma solo e sempre nella forma di una minoranza che reclama il proprio essere popolo e annienta l'inerzia della totalità del popolo sottomesso. Al di là della consistenza numerica e della pienezza politica, il distaccamento minoritario può e deve assumere su di sé la totalità di popolo solo se in relazione con "mille canali e azioni, con il vivo della massa popolare". Qui è chiaro il riferi-mento all'avanguardia del partito di massa, anche nella versione di rivoluzione culturale maoista, cioè quel segmento peculiare del distaccamento minoritario che in passato fu svolto dall'or-ganizzazione specifica del Partito Comunista. Perché qui ci in-teressa la riflessione di Badiou su popolo sovrano maggioritario e distaccamento minoritario all'interno dello stesso popolo? Per-ché nel suo interrogarsi sul popolo e le sue differenze quantita-tive, Badiou elabora una tassonomia del concetto di popolo in quanto soggetto politico e pone una serie di quesiti sul tema che ogni minoranza deve affrontare come legittimazione del proprio

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costituirsi in quanto soggetto e come realizzazione possibile di un progetto politico. Legittimità e possibilità: si tratta di pre-requisiti per ogni minoranza culturale, intellettuale e politica della nostra modernità. La minoranza attiva di un popolo - che grazie a questo attivismo e al progetto politico elaborato, dichia-ra di parlare in nome del corpus del popolo - si deve dotare di un distaccamento organizzato, di una comunicazione adeguata e di capacità relazionanti. Ecco emergere, secondo la visione di Badiou, alcuni caratteri che la minoranza deve avere: energia trasformatrice (l'attivismo), organizzazione, relazione, progetto politico, completa identificazione con il corpo pieno del popolo. Sebbene dietro il discorso di Badiou s'intravveda il rimando a situazioni di un recente passato - organizzazioni, gruppi e par-titi socialisti, comunisti, rivoluzionari e/o eserciti, formazioni e fronti di liberazione nazionale anti-coloniali e anti-imperialisti - rimane evidente il lato progressista di tale concetto di mino-ranza. Non si tratta di minoranze elitarie ma di minoranze con grande consapevolezza storica e intellettuale a cui Badiou asse-gna un radicale compito di liberazione.

Il divenire minore di Deleuze e Guattari

Nel labirintico capolavoro del 1980, Mille Piani, Deleuze e Guattari avanzano una consistente teoria micro-politica - al-tresì definibile come teoria del divenire minore - che affronta il problema politico e filosofico delle minoranze all'interno di so-cietà ad alto grado di complessità. Per i due filosofi francesi il maggiore è un 'modello costante' radicato nella propria centra-lità egemonica: si tratta di un blocco di consistenza, con le ca-ratteristiche paradossali della minoranza numerica, i cui tratti distintivi sono riassumibili nell'essere bianco, maschio, adulto,

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cristiano, razionale, eterosessuale, et cetera: in breve, "l'europeo medio qualunque". Charles Wright Mills sostenne nella sua ope-ra del 1956, L'élite del potere, una tesi simile riguardo l'estrazio-ne sociale del detentore del potere statunitense: si trattava di un cittadino bianco, maschio, adulto, protestante, nato nella costa orientale, con studi universitari, et cetera: in breve, l'americano medio, un wasp qualunque del XX secolo. Secondo le tesi dei due filosofi francesi, la società è percorsa da processi di trasforma-zione che, con moto perpetuo, frollano la maggioranza creando dei divenire-altro dall'Uomo Maggioritario, o per utilizzare la fraseologia di Deleuze e Guattari, l'Uomo Molare. Questi "dive-nire" sono inarrestabili in quanto immanenti alle potenzialità espresse dalla società: c'è un divenire-donna, un divenire-negro, un divenire-ebreo e via metamorfizzando. Si diventa minoran-za, in continui processi dinamici che sfilacciano ed erodono il ripetersi del maggioritario. L'Uomo Molare si ripete con diffe-renza e l'incrinamento, la faglia, lo scostamento avviene per-sino all'interno della maggioranza omogenea, con slittamenti orizzontali e canalizzazioni verso la purezza dell'Omogeneo: c'è un divenire-fascista anche dell'uomo bianco razionale. L'omoge-neo, dunque, è sempre affettato dall'eterogeneo, e i processi di trasformazione, i divenire, sono sempre una miscela di contagi, epidemie, forze disgregatrici e riaggregatrici, differenze in mo-vimento, erosioni. "Pensare per flussi e interconnessioni", come scrive Rosi Braidotti (In metamorfosi, 2003), ma "il punto non è sapere chi siamo, ma cosa, in ultima analisi, vogliamo diventa-re". Ovvie le ricadute politiche di tali concetti: l'omogeneità del corpus maggioritario corrisponde a logiche macro, molari nella terminologia di Deleuze e Guattari, quali razzismo, nazionali-smo, classismo, fascismo, fondamentalismo religioso, etc. Vice-versa, il divenire minore è l'ombrello politico sotto il quale è ne-

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cessario annoverare tutte le minoranze politiche, intellettuali, religiose, ecologiste, di genere, linguistiche, d'immigrazione e così via. Non è difficile scorgere dietro a questo cartello mino-ritario il profilo della nuova sinistra occidentale, nata dopo il 1968 e le lotte degli anni Settanta del secolo scorso. Per Deleuze e Guattari, in antitesi palese alla teoria delle élite di Pareto e Mo-sca, "è assurdo gerarchizzare le collettività" (Mille Piani, 2010). La micropolitica delle minoranze - sebbene siano numericamen-te maggioranza, è bene ricordarlo - abbinata alla concezione mi-crofisica del potere propugnata da Michel Foucault (1970), può rifondare la sinistra su basi post-marxiste, libertarie, anti-classi-ste, anti-totalitarie e neo-materialiste. Rimane sempre intrinse-ca, nella teoria del divenire minore, la debolezza del processo di federazione delle minoranze eterogenee e l'individuazione della forma organizzativa all'altezza del compito, in quanto, unire in un solo programma politico, ad esempio, femminismo e riven-dicazioni gay, ecologismo e lotte anti-razziste a favore degli im-migrati, disoccupati e lavoratori cognitivi precarizzati, significa affastellare e rappresentare soggetti senza la necessaria sintesi. Rendere efficace sia il microscopico organismo di lotta sociale che la rivoluzione molecolare sarà il difficile impegno del mili-tante politico del futuro.

Un coro di voci materiali

La filosofia della differenza di Deleuze e Guattari lavora non più sulle identità ma sui processi di trasformazione, mutazione e metamorfosi per cui l'oggetto della loro analisi non è più in-dividuare il maggiore (A) e il minore (B), per poi elaborare una struttura oggettiva che a monte sorregga tutte le serie di A e B, rilevando le differenze e le reiterazioni che si presentano nella

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Storia - questo è stato il compito dello strutturalismo - ma bensì descrivere tutti i processi differenziati che portano da A verso B e ai molteplici sub-B, attraverso un'analisi degli elementi e dei modi che compongono la dinamica del divenire. Tale ipotesi è però coniugata con ritornelli di memorie di spinozisti, bergso-niani, naturalisti, stregoni, teologi e moderni spettatori, i quali agiscono come contrappunti qualificati di oggettività mnemoni-ca - i punti di vista situati - in quanto, per i due filosofi francesi, il divenire è anti-memoria e, dunque, sganciamento dalla matri-ce originaria-radice. Ma è possibile una lettura 'macro-cosmica' della maggioranza e della minoranza, lavorando non più sugli 'elementi', sui 'gradi' e sui 'modi' della trasformazione ma sulle 'scale' dei rapporti e delle forze in atto? Forse che l'Uomo non è minoranza rispetto alla maggioranza dell'Universo? O que-sta domanda ha ancora dentro di sé un 'richiamo', un 'ricordo' dell'uomo maggioritario, l'europeo medio qualunque?

A questo tipo di domande di 'scala' della minoranza all'inter-no di un quadro compositivo di vita non organica, risponde la filosofia neo-materialista del messicano De Landa (Mille anni di storia non lineare. Rocce, germi e parole, 2003) dove l'uomo non è che un elemento tra i tanti sottoposti a speculazione fi-losofica. Nei tre mondi che De Landa analizza - geologico, bio-logico, linguistico - gli sviluppi evolutivi non sono considerati come meri stadi progressivi che portano necessariamente al re-gno umano ma 'ciascuno dei tre strati è animato internamente da processi autorganizzanti e divide con gli altri due le forze e i vincoli a monte di questa generazione spontanea di ordine'. La realtà, dunque, non è che espressione di un unicum di materia-e-nergia-informazione indivisa che rimane soggetta a variazioni e transizioni di fase irregolari, e in essa 'ogni strato di "mate-ria" accumulato non fa che arricchire il serbatoio di dinamica

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e di combinatoria nonlineari a disposizione per generare nuove strutture e processi.' La Storia di De Landa è, dunque, la storia della materia-energia-informazione spalmata non linearmen-te su una trama millenaria dove coesistono e interagiscono le varie forme che di volta in volta si presentano sul palcosceni-co dell'universo. Queste formazioni plurali nascono all'interno delle flussioni continue grazie a sedimentazioni, corrugamenti, indurimenti che alterano, intaccano e interagiscono con rea-zioni di ritorno gli stessi flussi. Queste "forme emergenti" si ce-mentano nel tempo, a causa di intensificazioni e rallentamenti irregolari, e formano delle strutture tendenti alla stabilità grazie ad attrattori e forme di auto-catalisi. Come situare quelle "forme sociali" che Motta e Panarari definiscono 'minoranze virtuose' nel quadro 'speculativo' non-antropocentrico proposto da De Landa? La risposta del filosofo messicano passa attraverso i due termini-concetto di trama e gerarchia, all'interno dei quali le "minoranze" sono catturate in nuove alleanze eterogenee assie-me a minerali, geni, memi, norme e popolazioni di istituzioni e organizzazioni ripetitive.

Trame e gerarchie nell'era dell'Informazione

La distinzione che effettua De Landa in merito alle struttu-re emergenti è la seguente: le strutture che hanno subìto una omogeneizzazione vengono definite gerarchie o strati, mentre le strutture che sono composte in maggioranza da elementi ete-rogenei vengono definite trame o aggregati autoconsistenti. Le gerarchie e le trame si compongono e si mischiano tra loro, in continui movimenti di stratificazione, destratificazione e ristra-tificazione per cui sono presenti sul palcoscenico storico tutte le strutture con diverse gradazioni di miscugli tra componenti ge-

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rarchiche prevalenti o marginali. Le strutture più gerarchizzate sono quelle più stratificate, le strutture meno gerarchizzate sono quelle più destratificate e via di seguito. Inoltre, le trame danno vita a gerarchie, mentre le gerarchie originano trame, in conti-nui processi incrociati di produzione del nuovo. In questo senso, la continua ed enorme interazione dei processi avviene tramite informazione dinamica (non i bit, informazione statica, per in-tenderci), il che permette di riferirci al nostro tempo come 'Era dell'Informazione'.

Gli strati, dunque, sono formazioni storiche e 'sono fatti di parole e cose, di vedere e parlare, di visibile e dicibile, di zone di visibilità e di campi di leggibilità, di contenuti e di espressio-ni' (Deleuze e Guattari, Mille Piani, 1980). Come giustamente afferma De Landa, 'la storia umana, in termini di stratificato e destratificato, non è segnata da stadi di progresso, ma da coesi-stenze di materiali accumulati di vario tipo, oltre che dai pro-cessi di stratificazione e destratificazione cui sono soggette tali accumulazioni interagenti'. Vediamo ora di applicare il paradig-ma neo-materialista di De Landa all'analisi storica della teoria delle minoranze che stiamo cercando di tracciare.

La sistematicità come proprietà emergente dal basso

Per valutarne il funzionamento empirico, riprendiamo i com-ponenti eterogenei delle formazioni storiche, gli strati, prima descritti: parole, cose, vedere e parlare, visibile e dicibile, zone di visibilità, campi di leggibilità, contenuto ed espressione. Sceglia-mo come esempio, tra i sei casi di minoranze virtuose proposte da Motta e Panarari, la minoranza 'socialista riformista-coo-perativista' e proviamo ad applicare il paradigma storico di De Landa.

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Partiamo e ci troviamo subito all'interno dello strato 'nazio-ne-Stato' italiana; tra le parole (rispondiamo al quesito "quali parole"?) di questo stato italiano risuonano, tra le tante, i so-stantivi "solidarietà", "lavoro", "povertà", "proprietà", e i verbi "sfruttare", "cooperare"; tra le cose (quali cose?), gli oggetti-bene comune e di proprietà, i latifondi, le aziende; gli oggetti collet-tivi, quali terreni, mezzi di produzione, spacci, aziende, attrezzi di lavoro. Il vedere (chi vede? cosa vede?) è la classe subalterna, proletaria, lavoratrice, contadina, che vede lo sfruttamento, il latifondo, l'abuso della proprietà privata dei mezzi di produzio-ne, la sperequazione sociale, la povertà dilagante. Il parlare (chi parla? di che cosa parla?) è il linguaggio del povero, del disoc-cupato, del contadino, dell'operaio, del socialista, del riformista, del cooperatore nonché il linguaggio dei libri e degli opuscoli marxisti, socialisti, riformisti, cooperativi. Il visibile (cosa è vi-sibile? e a quali condizioni?), alle condizioni di democrazia, del suffragio per censo e universale, di libertà di riunione, di parola e di stampa, è IL partito socialista e i socialisti riformatori, IL movimento cooperativo e i cooperatori, la manifestazione e la festa cooperativa e socialista. Il dicibile (cosa è dicibile? e a quali condizioni?), alle condizioni precedentemente descritte, è l'ora-toria, la retorica e la propaganda della manifestazione elettorale, o di lotta o di protesta; il dialogo, il dibattito, la riflessione alla festa di partito, alla riunione della casa del popolo da parte dei militanti socialisti e cooperativi; le narrazioni riguardo e intor-no i socialisti e i cooperatori (dai documentari ai giornali, dai libri ai film, dalle lettere alle autobiografie). Le zone di visibilità (dove è visibile?) sono le scuole di formazione di partito e di co-operazione, le cellule, le sedi di partito, di cooperativa, le sezioni e i luoghi della militanza politica socialista, sindacale e coope-rativa, gli archivi dei movimenti. I campi di leggibilità (dove è

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dicibile?) sono gli statuti del partito e della cooperativa, i codici di militanza, le riviste dei socialisti, dei cooperatori, le dispense dei corsi, i materiali di propaganda, i libri delle scuole di partito e di cooperazione. Il contenuto ha una forma, "la cooperativa" o "l'associazione di mutuo soccorso", e una sostanza, i cooperatori o gli associati. L'espressione, a sua volta, ha una forma, il diritto della società cooperativa, la legislazione, e il codice civile con scopi mutualistici, e una sostanza, la "cooperazione" o il "mu-tualismo".

Questi non sono che esempi, ai quali si possono ulteriormen-te aggiungere, sottrarre, integrare o precisare altre parole, altre cose, altre visibilità, altre dicibilità, altre materialità, etc., senza dimenticare che le cose e le persone sono organizzate e organiz-zabili in reti, che altre organizzazioni formali e reti informali possono influire e interagire con i singoli elementi costitutivi della minoranza socialista riformista e cooperativistica, come ad esempio il movimento socialista nel suo complesso, il movi-mento anarchico, la Chiesa, l'associazione dei proprietari terrie-ri, degli industriali, i partiti riformisti, le associazioni operaie o contadine, le organizzazioni criminali del Meridione etc. Il paradigma delandiano andrebbe poi precisato con la seguen-te concettualizzazione sistemica: la genesi e la logica di queste strutture provengono dal basso e non da un'élite, vale a dire che genesi e logica, ad esempio della cooperazione, o del mutuo soc-corso, sono prodotte attraverso processi collettivi generatori di strutture. Allo stesso tempo, sempre utilizzando il paradigma di De Landa, possiamo affermare che il sistema della coopera-zione ha come proprietà emergenti del processo dinamico che lo struttura, proprio la sistematicità, l'auto-generazione e l'au-to-organizzazione.

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Struttura e serie nell'Elogio delle minoranze

Dopo aver indagato alcuni elementi di una teoria delle mi-noranze ancora in fase di abbozzo, torniamo all'operato degli estensori dell'Elogio delle minoranze utilizzando alcune del-le griglie analitiche che abbiamo individuato nel nostro breve percorso tra strutturalismo e post-strutturalismo. Analizzando infatti la struttura del libro vediamo che la controparte con cui si confronta, di secolo in secolo, la minoranza virtuosa è, grosso modo, la società italiana nel suo complesso e in particolare le sue retrive élite dominanti, definite "maggioranza" in ossequio a un pensiero assodato - ma sul quale non concordiamo - per cui le gerarchie al comando non sono altro che le specchiate espres-sioni, sia formali, che sostanziali, del corpo profondo del mondo italiano cristallizzato in quel dato momento storico. Le classi di-rigenti, a partire dal XVI secolo, svolgono una doppia funzione negativa sulla società italiana: nella fase di azione e formazione dello strato storico, le gerarchie sono l'esatta rappresentazione di pregi e vizi del corpo sociale, ma nella fase di retro-azione e stratificazione le gerarchie "forgiano" la fisionomia del popo-lo, plasmando la "maggioranza" degli italiani e delle loro istitu-zioni a propria immagine e somiglianza. Utilizziamo il blocco semantico "società italiana" o "mondo italiano" in quanto, nella realtà dell'opera presa in esame, Franco Motta analizza lo stra-to "civiltà italiana dell'età classica dei molteplici Stati-nazione peninsulari" mentre Massimiliano Panarari analizza lo strato "nazione-Stato Italia".

I due autori sostengono, infatti, che i due strati sono oppressi allo stesso modo da poteri che co-evolvono all'interno di un'u-nica matrice sociale, la società italiana, e ritengono che il potere delle classi dirigenti espresso dalle varie nazioni italiane, o il

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Potere tout court che governa la civiltà italiana del XVI, XVII e XVIII secolo, si estenda senza traumi e si sviluppi senza rotture durante il XIX e XX secolo nella neonata nazione italiana.

Possiamo, dunque, etichettare come A l'insieme delle mag-gioranze, ovvero dei poteri inscalfibili delle élite italiane che si susseguono in tutti i sei periodi, o punti, temporali delle mag-gioranze esaminate, dato che i due autori vi riscontrano una so-stanziale omogeneità (A1 è uguale ad A2, A3, A4, A5, A6); ovvero, il Potere italiano degli ultimi 450 anni è fondamentalmente in-variato nelle sue componenti, diventando così un blocco omo-geneo gerarchizzato e stratificato sino ad ossidare. Si tratta di un Oggetto Totale, un monolite di forze secolarizzate e clericali intrecciate e indissolubili.

Per converso, le sei minoranze esaminate appartengono a sfere affatto diverse della società italiana: religiosa, scientifica, politica, professionale, economica e intellettuale. Assegniamo all'insieme B, le minoranze virtuose, gli elementi B1 (eretici), B2 (galileisti), B3 (giacobini), B4 (igienisti), B5 (cooperatori social-ri-formisti) e B6 (liberali). Abbiamo dunque due serie, la serie delle maggioranze contrassegnata da A, e la serie delle minoranze con-trassegnata da B. Cartesianamente abbiamo sei coppie ordinate che si confrontano (A1B1, A2B2, A3B3, A4B4, A5B5, A6B6); si tratta, in realtà, di un falso isomorfismo in quanto le due strutture non corrispondono. L'insieme A, infatti, comprendente la serie di punti-nodi A1, A2, A3, A4, A5, A6 è sostanzialmente monomorfo mentre l'insieme B è polimorfo in quanto i sei punti-nodi B1, B2, B3, B4, B5, B6 hanno componenti affatto eterogenee tra loro.

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Oltre il criterio seriale

La precedente analisi strutturale ci permette alcuni vantag-gi. Il primo riguarda le dinamiche dei rapporti differenziali, cioè delle relazioni simboliche tra i vari elementi serializzati. La struttura dell'opera disegna uno spazio estensivo storico in cui si valutano, prima i due insiemi A e B attraverso i loro rapporti di determinazione reciproca, poi le differenze manifeste (B1 con B2, ad esempio) e le continuità evidenti (A1 con A2, ad esempio) di ogni singola serie, e per finire i rapporti ordinati a coppie tra le due serie (A1 con B1, ad esempio) che organizzano in tal modo sei sistemi di differenze, o rapporti differenziali, che passano, come un filo unico di pensiero, attraverso i dodici punti-nodi intrec-ciati delle minoranze e maggioranze. E' nello "spazio estensivo storico" che si viene a definire la natura simbolica della strut-tura dell'opera. In questo caso, seguendo la "pura logica delle relazioni", vediamo sorgere un solido isomorfismo, non più tra l'asse delle maggioranze e l'asse delle minoranze, ma tra i rappor-ti differenziali degli insiemi A e B e delle coppie serializzate dei punti-nodi A1B1, A2B2, et cetera.

Vale a dire che il vero soggetto del libro non sono le minoranze ma è il rapporto differenziale stesso esistente tra minoranze e maggioranze italiane. "Se è evidente che degli uomini concre-ti vengono a occupare le posizioni e ad effettuare gli elementi della struttura, è solo perché occupano il ruolo che la posizio-ne strutturale assegna loro" - come, nel nostro caso, sono l'eroe della rivoluzione giacobina, l'intellettuale liberale o il riforma-tore valdese, ad esempio - "e funzionano da supporti ai rapporti strutturali: tanto che i veri soggetti non sono questi occupanti e questi funzionari ma la definizione e la distribuzione di questi posti e di queste funzioni" (Deleuze, Lo strutturalismo, 1976).

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Ne consegue che i rapporti tra minoranza e maggioranza sono "determinati come rapporti differenziali che si stabiliscono non tra gli uomini reali o gli individui concreti ma tra oggetti e agenti che hanno anzitutto un valore simbolico"; cioè il potere come oggetto, l'organizzazione come strumento, la composizio-ne eterogenea come attitudine e, infine, il divenire minore come agente dell'anonima potenza delle collettività individuate.

Il secondo vantaggio dell'analisi strutturale è dato da una co-stante che scopriamo avviluppata nell'insieme denominato A. Infatti se esaminiamo tutti i punti-nodi della serialità A, ve-diamo che le coalizioni gerarchiche all'interno del singolo pun-to-nodo sono solo parzialmente dei miscugli omogenei di strati di gerarchie secolarizzate e clericali. In realtà, in ogni singolo nodo della serialità A, l'unico elemento omogeneo e caratteriz-zante è quello religioso - definiamolo nei termini dell'uomo eu-ropeo medio qualunque: bianco, cattolico, adulto, urbanizzato - e questo elemento saturante è sempre ultra-stratificato cioè ap-partiene sempre alle più alte gerarchie cattoliche espresse dalla curia romana o dalla società civile, o spirituale, legata alla cat-tolicità. E' questa omogeneità che ha effetto retroattivo negativo sugli altri elementi, molto più eterogenei rispetto alla costante cattolica, ed è questa gerarchia inossidabile che infila tutti i nodi della serie A e "si muove in essi, non cessa di circolare in essi, e da uno all'altro, con un'agilità straordinaria".

Nessuna 'costante' è data nell'insieme denominato B - le mi-noranze - in quanto prevale tra i sei punti-nodi serializzati la più completa eterogeneità e, per questo motivo, le minoranze investigate si possono definire, seguendo De Landa, come "tra-me a basso grado di stratificazione". Questo, forse, è l'elemento principale di debolezza strutturale - costato assai caro - delle minoranze storiche qui rappresentate, certamente meno coese a

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livello sistemico rispetto alle maggioranze dominanti. Peraltro l'intelligenza degli autori ci ha risparmiato l'opera a tesi, ispirata dal rovesciamento della costante, vale a dire un libro in cui le minoranze narrate fossero unite dalla costante negativa dell'an-ti-cattolicità.

Archeologia, neo materialismo e teoria delle minoranze

Elogio delle minoranze non è la cronistoria delle sconfitte degli italiani 'minoritari', e nemmeno un triste elenco delle occasioni mancate dalle minoranze attive, bensì una riflessione politica, storica e sociologica sul ruolo, lo scopo e l'eredità delle mino-ranze lungo un arco temporale di quattro secoli. Cerchiamo, allora, di cogliere i caratteri specifici del testo di Motta e Pana-rari, come chiusa finale della presente introduzione, secondo le indicazioni emerse nelle pagine precedenti.

Il primo aspetto caratterizzante è la denuncia diretta rivolta alla classe dirigente dominante: essa è essenzialmente il princi-pale ostacolo verso quella omologazione qualitativa occidentale che molti frutti positivi - e qualcuno negativo, certamente - ha fornito alle nazioni europee nel corso dell'ultimo secolo.

Il secondo aspetto è la polemica rivolta ad una specifica gerar-chia stratificata del nostro paese, gli operatori della conoscenza e della informazione, per sfidarli a prendere coscienza dell'ina-movibilità e dell'inadeguatezza delle gerarchie italiane contem-poranee, filiazione diretta della struttura seriale delle élite do-minanti.

Il terzo aspetto è il limite epistemologico che il "reticolo arche-ologico" utilizzato dagli autori implica, ovvero l'impossibilità di una ricostruzione storica 'progressiva' del passato, causata dalle

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discontinuità e dalle faglie irregolari che si riscontrano nei pe-riodi storici presi in esame.

Il quarto aspetto è l'esplorazione qualitativa storica messa in campo da Motta e Panarari - e qui sta, forse, il lascito migliore dell'opera - nella difficoltosa azione di drenaggio e riemersione delle culture 'sommerse' delle minoranze. Il loro sforzo è stato diretto a rendere di nuovo accessibile quel reticolo archeologico prima richiamato, sepolto a grandi profondità da 'gerarchie' del tutto consapevoli di chi, come e perché seppellire nelle fosse li-macciose del tempo.

Ultimo aspetto positivo di Elogio delle minoranze - il più in-teressante ai nostri fini di una nuova teoria delle minoranze - è l'escavazione quale atto intellettuale consapevole, a cui poter as-segnare il termine di archeologia storica. Una proto-scienza an-cora tutta da pensare nei suoi tratti fondativi, ma per la quale è indispensabile, come prosa iniziale, trattenere e mettere a frutto alcune intuizioni presenti in questo libro.

Canguilhem (Morte dell'uomo o estinzione del cogito, 1967) definisce l'archeologia come la condizione di una storia differen-te "entro la quale viene mantenuto il concetto di evento, ma ove gli eventi colpiscono i concetti e non gli uomini". Grazie all'ar-cheologia si verrebbe a delineare una nuova episteme, attenta a soglie, rotture, discontinuità e complessità, da ricercare non solo nell'ambito 'testuale', ancora troppo legato alla sola cultu-ra, ma parimenti in altre discipline, come le scienze naturali e le scienze cibernetiche. Per essere efficace, tale archeologia deve partecipare alla sperimentazione speculativa del nuovo materia-lismo di Deleuze, Guattari e De Landa; materialismo rifonda-to su basi affatto divergenti rispetto al materialismo lineare e 'industrialista' del XIX secolo. Tolto dal luogo del 'conflitto' per eccellenza, l'impresa e l'ambiente di produzione, il neo-materia-

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lismo può proiettarsi in dimensioni non-antropocentriche e in tempi non-lineari, diventando una punta avanzata di creazione del nuovo.

E' giunto il momento, per la nuova generazione di intellettua-li a cui appartengono Franco Motta e Massimiliano Panarari, di acquisire quell'originalità obiettiva e quell'abilità soggettiva necessarie per applicare nuovi linguaggi alle scienze sociali e rendere, ancora una volta, la storia, una sfida grintosa, e il pen-siero, un atto rischioso.

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Bibliografia

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ne Vol. I - Mimesis, 2011

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testo in appendice all'edizione italiana di "L'individuazione psichica e collettiva"

(Gilbert Simondon, Derive e approdi)

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Intervista a Franco Motta

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Franco Motta è ricercatore in Storia moderna presso l'Uni-versità di Torino. Tra i suoi interessi di studio, le strategie politi-che e culturali della Chiesa cattolica tra XVI e XVIII secolo. Ha curato l'edizione della 'Lettera a Cristina di Lorena di Galileo Galilei' (Marietti 2000) ed è autore di una biografia del cardina-le Roberto Bellarmino (Bellarmino. Una teologia politica della Controriforma, Morcelliana 2005). Con Massimiliano Panarari ha pubblicato nel 2012, presso le edizioni Marsilio, il pamphlet storico-politico 'Elogio delle minoranze. Le occasioni mancate dell'Italia'. Ultima pubblicazione nel 2014, tramite le Edizioni Il Sole 24 ore: 'Bellarmino. Teologia e potere nella Controriforma'.

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Sul carattere d'estrazione

Obsolete Capitalism :: Analizziamo il vostro libro "Elogio delle minoranze". Tra tutti gli aspetti della Storia e tra tutte le singola-rità che s'intrecciano al suo interno, come riconoscere l'importan-za di un carattere sul quale avete ritenuto opportuno soffermarvi per la vostra indagine e che ne ha poi determinato l'estrazione e dunque la composizione del libro stesso? Quali sono le caratteri-stiche che avete elaborato per determinare le scelte delle minoran-ze su cui soffermarvi all'interno del libro?

Franco Motta :: La questione che ponete è centrale per capire non soltanto il libro in sé, ma più ancora l’idea che vi sta dietro: un’idea che senza dubbio, come autori, non siamo stati capaci di far vivere di una vita che non fosse quella dell’ordinario decorso editoriale di un saggio – pubblicazione, promozione, recensioni e relative repliche. Da questo punto di vista mi sento di poter dire (e credo che Massimiliano sia d’accordo con me) che l’Elogio delle minoranze è stato un’occasione mancata, ed è davvero un caso che questa affermazione riprenda alla lettera il sottotitolo del libro.

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Mi spiego meglio. In una prospettiva scientifica ponete una questione di metodo: sulla base di quali criteri avete individuato le esperienze storiche che potevano considerarsi paradigmatiche rispetto al fenomeno della “mancata modernizzazione” italiana? La vostra domanda ha un senso pregnante, visto che il nostro si è voluto qualificare come un saggio storiografico condotto – almeno nelle intenzioni, ma sono pronto a discutere anche di questo – con attenzione per il rigore metodologico sulla base del quale abbiamo costruito le nostre tesi. Ma fin qui siamo, per così dire, a metà del progetto, laddove l’altra metà rispecchia invece l’intenzione di comporre un saggio di denuncia, o un pamphlet, se vogliamo usare un termine più incisivo, che sapesse provo-care e collocarsi sulla lunghezza d’onda del dibattito politico, se ancora qualcosa di simile esiste in Italia.

Per rispondere mi sembra di poter essere più chiaro partendo non da quello che c’è ma da quello che manca. Dunque: perché dalla griglia di case studies che abbiamo approntato sono assenti alcune esperienze considerate normalmente fondative dell’iden-tità italiana contemporanea mentre ne sono presenti altre che possono essere legittimamente considerate di secondo piano? Voglio essere esplicito: perché non la Resistenza e invece gli igie-nisti dell’Italia liberale? Perché non i radicali e invece gli eretici del Cinquecento? Le due assenze che ho citato non sono scelte a caso. La Resistenza è stata, per così dire, il progetto mancato di una repubblica giusta e moralmente legittima; il fatto che abbia generato la Costituzione non toglie, infatti, che essa non abbia saputo diventare classe dirigente dell’Italia repubblicana per trasformarsi da subito, invece, in mito originario, e con questo essere relegata all’ambito della memoria nazionale e subire un precoce isterilimento di quelle spore di democrazia che ne han-

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no fatto un fenomeno probabilmente unico a livello europeo. Per quanto riguarda i radicali, e con loro il côté laico e dialetti-co, non dogmatico, del Partito socialista (che restò afono dalla fine degli anni Settanta: al di là delle celebrazioni postume, il craxismo fu culto dogmatico del capo), non c’è dubbio che la loro sia stata una funzione di primissimo piano nell’evoluzione della teoria e della pratica dei diritti nell’Italia medio-novecen-tesca. Perché allora non includere queste due realtà storiche – e naturalmente se ne potrebbero contare altre – tra le minoranze che hanno testimoniato la possibilità teorica di un’altra Italia?

Alla base della nostra scelta stanno due considerazioni. La prima coinvolge il tema della profondità storica. Quello che vo-levamo, al momento di progettare il volume, era restituire allo sguardo politico la misura del lungo periodo. Credo di poter dire che si è trattato di un’opzione pienamente scientifica, di ricerca. La centralità dei fenomeni di lungo periodo ai fini dell’anali-si dei processi di composizione del presente ha dominato indi-scussa negli anni di Braudel e Bloch, insomma delle «Annales», la cui lezione fu recepita in Italia non prima dei tardi anni Ses-santa o anche dopo, con almeno un quarto di secolo di ritardo. Questa chiave di lettura ha prodotto risultati di considerevole spessore – penso prima di tutto alla Storia d’Italia Einaudi – che tuttavia non hanno saputo diventare discorso culturale corren-te, cioè produrre dibattito e riflessione al di fuori delle cerchie accademiche.

Le eccezioni non mancano: la rivista «Storica» ne è un esem-pio. Ma, nel complesso, quell’esperimento si è atomizzato in una pluralità di percorsi di ricerca ai quali ha fatto difetto la capacità della sintesi. Per quanto riguarda il mio personale ambito di stu-

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dio, la storia moderna, posso citare l’esempio della storia sociale della Chiesa, che negli anni Ottanta ha prodotto eccellenti ri-sultati nella conoscenza dei meccanismi del governo diocesano (le visite pastorali, ad esempio) senza però giungere a livelli di ampio respiro quali sono stati, altrove, i lavori di Jean Delumeau o John Bossy. Abbiamo dovuto aspettare Tribunali della coscien-za di Adriano Prosperi o La Bibbia al rogo di Gigliola Fragnito (1996 e 1997, rispettivamente) perché gli effetti secolari dei mec-canismi di controllo della Chiesa tridentina nella formazione dell’identità culturale italiana fossero inquadrati all’interno di un discorso storiografico.

Ecco, da questo punto di vista quello che volevamo recupe-rare al discorso storico era la possibilità di leggere il presente attraverso le persistenze sotterranee di esperienze culturali, po-litiche e religiose apparentemente dimenticate: per tornare ai due esempi che ho fatto sopra, la Resistenza può essere allora considerata a sua volta come un alveo nel quale sono confluiti filoni di prassi e di pensiero precedenti, dal comunitarismo so-cialista al ribellismo popolare dell’età preindustriale; e lo stesso, con altri riferimenti, vale anche per l’esperienza dei radicali.

Poi c’è una seconda ragione della nostra scelta, che rinvia a un’altra chiave di lettura, questa volta pregna di implicazioni più attuali. Quando abbiamo iniziato a concepire il volume, grosso modo sette-otto anni fa, stava avviandosi alla sua fase discenden-te il ventennio berlusconiano, che aveva visto lo zenit attorno al 2001, con il G8 di Genova, e che nel suo deflusso stava lasciando allo scoperto quel cumulo di detriti sociali e culturali che ha pe-netrato il tessuto del nostro paese fino a diventare la palude di immobilismo e impotenza nella quale stiamo annegando.

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Le scorie più tossiche di quella stagione sono chiaramen-te riconoscibili: il dissolvimento dell’idea di etica pubblica, la rincorsa suicida della sinistra alle politiche neo-liberiste e alla brutale fame di privilegio del ceto dirigente, l’attacco ai dirit-ti civili e sociali, a partire da quello al lavoro, l’avversità verso ogni forma di radicalismo progressista, il blocco della mobilità sociale, il soffocamento delle prospettive delle giovani genera-zioni e tanto altro. Nella nostra ottica tuttavia ci sentivamo, ci sentiamo, di rifiutare la dottrina dell’eccezionalità del berlusco-nismo, ritenendo più corretto analizzarlo come epifenomeno di tendenze più profonde e radicate nella società italiana. Come spiegare altrimenti l’indiscutibile egemonia che è stato in grado di esercitare?

Queste tendenze erano già state acquisite da decenni al patri-monio comune del pensiero politico e sociologico. Mi limito a due esperienze seminali: la celebre ricerca condotta da Edward C. Banfield nella Basilicata di metà anni Cinquanta, che fluì in un saggio fondamentale, The Moral Basis of a Backward Society – cui si deve, tra l’altro, la nozione di «familismo amorale» –, e, molto prima, la parabola intellettuale di Piero Gobetti. Già allo spirare della stagione dell’Italia liberale, e, trent’anni dopo, nel magma delle contraddizioni della neonata repubblica – i giorni dimen-ticati dell’occupazione delle terre in Calabria erano trascorsi da pochissimi anni, e così Portella della Ginestra – erano chiarissi-me le caratteristiche sociologiche, culturali, e, insisto, antropolo-giche che minacciavano di rendere l’Italia un corpo inerte e sor-do alla modernizzazione. Dopo la stagione della contestazione e della mobilitazione delle forze progressiste del paese, tra il ’68 e il ’77, quei caratteri originali tornarono allo scoperto, assumendo la veste nuova del discorso mediatico forgiato da Mediaset.

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Elenchiamoli succintamente: privilegio anziché diritto, fedel-tà anziché merito, famiglia anziché individuo; e poi: conformi-smo, anti-intellettualismo, estraneità all’idea di bene comune e, vorrei insistere su questo, rifiuto del conflitto come motore di sviluppo in favore di una visione unanimistica e immobilistica del patto sociale fondata sulla dottrina del compromesso e del negoziato. Le tattiche egemoniche e il localismo della Dc ebbero una parte fondamentale in questo progressivo affievolirsi del-le forze potenzialmente dirompenti che si erano sprigionate nel triennio della Liberazione, ma anche il PCI ebbe in questo le sue responsabilità, e la mutazione del movimento cooperativo ne è un esempio.

Ora, tutte le caratteristiche che ho elencato non sono geni co-stitutivi di una presunta identità italiana astoricamente intesa. Sono, al contrario, prodotti della storia. Meglio, sono conse-guenze della sconfitta storica degli elementi loro antitetici, dei loro “anticorpi”. Il primato del privilegio, il conformismo, il co-munitarismo organicista, il corporativismo, la diffidenza verso i vettori di crisi sociale erano elementi costitutivi delle società di Antico regime in tutta Europa: erano comuni anche all’Inghil-terra, alla Francia e alla Germania del XVIII secolo. Per molti versi, anzi, le élite del triennio giacobino dell’Italia del 1796-99 erano più avanzate delle loro omologhe dei paesi citati. Quello che è mancato al nostro paese è stato il processo di secolarizza-zione, per riprendere i termini weberiani dell’idea.

L’Italia del XX secolo non ha creato nuovi modelli –  e con questo torno alla lettura storica del berlusconismo –, ma ha ri-portato alla luce, sotto nuove forme, modelli antichi che altrove

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erano stati abbandonati. Per questo ritengo che l’Elogio delle minoranze abbia, nel complesso, fallito l’obiettivo, che era quel-lo di far riemergere questa storia ‘altra’, questa storia di conser-vazione, dell’identità italiana.

Con questo torno infine alla tua domanda: con quale criterio abbiamo scelto i case studies trattati nel volume? Semplicemente, compiendo un’operazione al contrario. Se la modernizzazione è individualismo, antidogmatismo, meritocrazia etc. sono esistite esperienze storiche che si sono fondate su questi presupposti? E, se sì, perché hanno fallito? Gli eretici del Cinquecento, gli igienisti, i socialisti cooperativi, i galileiani, i giacobini ci sono sembrati casi sufficientemente rappresentativi di questa fallita modernizzazione. In altri termini, un’opzione alternativa e con-traria a quegli elementi di fondo del profilo culturale italiano che continuano a essere prevalenti.

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Sulla distribuzione del tempo

Obsolete Capitalism :: La storia appartiene alla grande distri-buzione delle narrazioni o dei tempi? Lo storico che cosa è portato a decifrare e quindi a distribuire? All'interno di una massa fram-mentata e oscura di accadimenti, lo storico come sceglie il segno del tempo, tra i tanti segni e i tanti tempi disponibili? Oppure egli opta per il reticolo spesso fitto, inestricabile ed enigmatico delle tante narrazioni singolari e collettive?

Franco Motta :: Con la vostra domanda portate il discorso alle basi del «mestiere di storico». Con questo la questione si fa estremamente complessa, e naturalmente difficoltosa soprat-tutto negli spazi ristretti di un dialogo come questo. A ciò va aggiunto che lo stessa tema è oggetto di dibattito tra storici da diversi decenni: le teorie di Hayden White sul tessuto retorico della storiografia, o quelle della corrente dei subaltern studies, o ancora il linguistic turn sono soltanto gli esempi più noti di una riflessione sullo statuto della narrazione storica che non può non cambiare con il cambiare dei tempi.

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Alla fine degli anni Settanta, in un saggio intitolato Spie, Car-lo Ginzburg attribuì al metodo storico il carattere di «paradig-ma indiziario», ossia di modello scientifico peculiare basato non tanto sull’esame di evidenze fattuali –  che naturalmente pure non mancano, soprattutto man mano che ci avviciniamo al presente e si amplia il bacino delle fonti a disposizione –, bensì sull’individuazione e l’interpretazione di indizi, di “spie”, ap-punto, di tracce lasciate dal passato, spesso frammentarie e in-coerenti, che tocca allo storico ricondurre a una struttura più ampia, quella dei fenomeni storici, con i loro sensi e le loro cau-salità.

Lo storico, in altri termini, fa un lavoro non dissimile da quel-lo del giudice, che spesso è costretto a basare il suo giudizio su semplici indizi di un fatto accaduto del quale mancano le prove. Per restare alla metafora potremmo aggiungere, allora, che an-che lo storico, come il giudice, ha la sua giurisprudenza, e cioè il complesso di interpretazioni e giudizi che ne orientano lo sguar-do e sui quali si è raggiunto un adeguato consenso scientifico. Per fare un esempio, nessuno può negare oggi che sia esistito un fenomeno chiamato Controriforma, o secondo alcuni riforma cattolica o riforma tridentina, anche se non si contano le diver-genze quanto alla sua cronologia, all’operato dei suoi attori etc.

In secondo luogo va tenuto presente che nessuno storico può prescindere da un’ipotesi di partenza nel momento in cui si av-vicina all’oggetto della sua indagine, per il fatto stesso che il contatto con le fonti non avviene ex abrupto, ma procede con un percorso di avvicinamento fatto di competenze acquisite, interessi personali etc. Questa ipotesi di partenza deve essere verificata sperimentalmente, cioè sulla base delle risposte che

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danno le fonti (e in questo è presente un’analogia con le scienze dure), ma ciò non toglie che lo storico interroghi prima di tutto gli oggetti che cerca attraverso un meccanismo di selezione a priori. Questo consente a diversi storici di vedere cose diverse all’interno del medesimo oggetto: per restare all’esempio fatto ora, quello della Controriforma, all’interno dell’oggetto stori-co chiamato ‘gesuiti’ possono coesistere decine di prospettive di ricerca diverse, che addirittura si confrontano con le medesime fonti isolandone ora alcuni aspetti ora altri.

In questo senso non me la sentirei di contrapporre la scelta del segno del tempo a quella per il fitto reticolo delle narrazioni. Anche quest’ultimo può essere oggetto di ricerca storica, a patto naturalmente di volerne cercare il senso; si tratta di un’opera-zione certamente più complessa, e per questa ragione rifiutata a priori da molti studiosi, ma non per questo meno interessante, anzi tutto il contrario.

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Sul divenire maggioranza

Obsolete Capitalism :: Quali sono le cause per cui, a vostro av-viso, una minoranza manca l’appuntamento con la storia, ovvero non accede al proprio destino incompiuto di “divenire maggio-ranza”?

Franco Motta :: Tutto dipende dal contesto nel quale una mi-noranza si trova ad agire. Sarebbe azzardato proporre modelli universalmente validi: la sconfitta di una minoranza è inevita-bilmente legata alle circostanze che la circondano, agli interessi in gioco, alle forme di comunicazione che adotta, ai rapporti che essa sa attivare con gli attori sociali del momento in cui vive. La nozione gramsciana di egemonia può essere ancora considerata centrale nell’analisi di processi di questo tipo, che sono processi di costruzione di senso, prima ancora che di appropriazione del consenso: e questo pone direttamente al cuore della questione il rapporto fra élite e maggioranze.

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Prima di tutto va notato che non necessariamente una mino-ranza è portatrice di un progetto egemonico o inclusivo. Non mancano gli esempi di minoranze che programmaticamente rifiutano la dimensione del mutamento sociale e praticano piut-tosto la separazione dal mondo. La gnosi e il movimento ana-battista, ad esempio, hanno scelto questa strada, e non è un caso che in entrambi i casi abbiamo a che fare con impianti filosofici e teologici fortemente dualisti e con la concretizzazione di ideali di distacco dalle pratiche e dai valori sociali.

In secondo luogo occorre tenere presente che un’élite può sce-gliere deliberatamente di non costruire egemonia per orientarsi invece alla costruzione e al godimento di uno spazio esclusivo fatto di significanti simbolici e di consumi materiali e immate-riali. È la nota critica di Christopher Lasch alle élite che hanno “tradito” la loro missione storica, e a mio parere non c’è dubbio che questo tradimento sia una tra le cause dell’afasia della sini-stra mondiale negli ultimi trent’anni e del tramonto della nar-razione progressista ed egualitarista che si era affermata presso le classi lavoratrici con il socialismo ottocentesco, anche prima di Marx.

Sono convinto, peraltro, che anche nel passato più remoto si possano scorgere fenomeni di questo tipo. Penso ad esem-pio all’evoluzione disciplinare dell’ordine francescano dopo la morte del fondatore, allorché il radicalismo comunitarista dei cosiddetti «fraticelli» fu marginalizzato e represso dal vertice dell’ordine, in accordo con il papato, per inaugurare la defini-tiva normalizzazione di quell’istituto all’interno della Chiesa (la capacità di normalizzare e assimilare le soggettività eversive, del resto, è da sempre una specialità del cattolicesimo romano);

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o penso ancora all’evoluzione conservatrice di Lutero e del ri-stretto gruppo dirigente del primo movimento evangelico dopo la guerra dei contadini del 1525 e l’allestimento degli apparati ecclesiastici di Stato in Germania, allorché si chiuse l’età eroica della proclamazione del vangelo e si aprì invece una lunga fase di burocratizzazione e di clericalizzazione del ruolo dei pastori.

Infine, e credo di non dire nulla di nuovo con questo, mi sem-bra di poter affermare che, a parte determinati passaggi storici, gli elementi che giocano in favore della conservazione (elemen-ti intesi tanto in senso soggettivo, cioè come attori sociali, che oggettivo, come condizioni di fondo) abbiano generalmente un compito più semplice degli elementi che giocano in favore del mutamento (che sia un mutamento graduale o rivoluzionario in questo momento non ha gran peso).

Cerco di spiegarmi. Un’élite, o una minoranza nel senso che abbiamo impiegato nel nostro volume, è tale laddove intende in-nescare e guidare il mutamento, non dove lo subisce. Questa è, come si vede, una definizione funzionale, non assiologica. Tale mutamento, poi, a nostro parere può essere di segno progressivo o conservatore, dato che presupponiamo che anche la conser-vazione dell’ordine richieda uno sforzo continuo di controllo della complessità sociale con le sue “peristalsi” e i suoi inces-santi processi di aggregazione e disgregazione; è per questo che, nell’introduzione al volume, abbiamo esposto la nozione (molto criticata da Corrado Ocone nella sua recensione sul «Corriere della sera», ma a mio parere non veramente discussa) di ‘élite progressiste’ e di ‘élite conservatrici’, leggendo la storia dell’I-talia moderna alla luce della ripetuta vittoria di queste ultime.

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Si dirà: questa è una banale dicotomia tra forze ‘buone’ e ‘cat-tive’, di sinistra e di destra, che non prende in considerazione il fatto che storicamente molti fra i soggetti che possono esse-re variamente identificati con la conservazione, la reazione, la “destra” (perdonatemi quest’accezione quasi metafisica del con-cetto) abbiano determinato profondi cambiamenti sociali. Per rispondere a questo mi limito a osservare che il mutamento può essere di segno doppio, ossia indirizzato a valori di progresso oppure a valori di conservazione, dove per valori di progres-so intendo semplicemente quelli che appartengono all’eredità dell’Illuminismo, a quella del marxismo e ad altre eredità che risalgono più indietro nel passato e si trovano variamente in-trecciate nel tessuto culturale della sinistra (l’umanesimo ne è un esempio). Da questo punto di vista rifiuto – in prospettiva etica, naturalmente, non epistemologica – le tesi differenzialiste e relativiste e credo nell’imperativo morale di ritenere “assoluti” alcuni valori, anche se sappiamo benissimo che sono un prodot-to della storia: la laicità, l’autonomia dell’individuo, la lotta alla povertà e all’ignoranza, la parità di genere etc.

Ciò detto, prendiamo in considerazione alcuni esempi. Il pri-mo è il fascismo, o meglio i fascismi. Certo il fascismo, nel caso italiano, è stato una forza rivoluzionaria: ha abbattuto la clas-se dirigente del vecchio Stato liberale, ha creato l’industria di Stato, ha dato un grande impulso all’ammodernamento infra-strutturale etc. Ma se analizziamo gli attori sociali che hanno beneficiato della dittatura scopriamo che essi sono esattamen-te gli stessi che esercitavano il privilegio nel secolo precedente: la borghesia industriale, quella rurale del Nord, l’aristocrazia agraria del Mezzogiorno, gli ordini professionali, l’alto clero etc. Quanto agli assi portanti della cultura fascista –  l’esaltazione

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della violenza, lo schiacciamento della donna sul ruolo mater-no, l’enfasi posta sulle differenze, il culto del capo e il primato della gerarchia, la marginalizzazione delle diversità etc. – avrei sinceramente difficoltà a indicarne uno solo che non possa esse-re interpretato come prosecuzione nell’età industriale dei valori che erano propri delle minoranze aristocratiche ed ecclesiasti-che dell’Antico regime.

Lo stesso biologismo razzista, che forse è il tratto più inno-vatore dei fascismi degli anni Trenta, è l’avatar scientistico del principio della insuperabilità delle differenze etniche che trovia-mo, ad esempio, negli statuti di limpieza de sangre della Spagna quattrocentesca o nelle tesi aristoteliche sulla schiavitù natu-rale dei neri e degli indios che sostenevano gli interessi degli encomenderos spagnoli e dei commercianti di schiavi inglesi e francesi. Letta in questa prospettiva, l’idea di “mutamento con-servatore” appare forse meno ossimorica di quanto sembri. Na-turalmente il caso del fascismo ci mostra anche qualcos’altro, e cioè che non possiamo ridurre alla semplice coppia conserva-zione/progresso il ruolo storico delle minoranze. Prendo altri due esempi.

I gesuiti, la grande élite intellettuale della Chiesa della Con-troriforma, furono innovatori straordinari nei campi della pe-dagogia, della comunicazione, della lotta politica, della pratica religiosa (penso all’impatto straordinario che ebbe nel XVI se-colo la preghiera mentale come veicolo di conversione); ma dif-ficilmente si può dubitare del fatto che il loro obiettivo, sullo scacchiere europeo, fosse quello di difendere e rifondare, anche su basi nuove, alcuni princìpi di fondo che appartenevano alla tradizione della Chiesa romana dai tempi di Gregorio VII: il pri-

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mato papale, la Chiesa gerarchica, la rigida separazione fra clero e laicato, la funzione direttiva del magistero romano rispetto alle autorità civili. Se passiamo ai territori extraeuropei scopriamo invece che i gesuiti vi svolsero un ruolo assai più duttile. In Cina e in India, seppure per motivi apologetici, seppero valorizzare la diversità delle culture grazie alla teoria e alla pratica del cosid-detto «accomodamento», e di certo i conservatori non furono loro, bensì i loro avversari domenicani nelle querelle dei riti ci-nesi e malabarici; allo stesso modo le celebri reducciones del Pa-raguay furono uno straordinario esperimento di costruzione di una possibile ‘alternativa coloniale’ nella quale gli indios erano affrancati dall’assoggettamento brutale imposto dagli encomen-deros. Così come i giacobini del Comitato di salute pubblica del 1793-94 furono da un lato i primi fautori in assoluto dei diritti sociali con il loro attacco all’intangibilità della proprietà priva-ta, ma al tempo stesso furono profondamente conservatori nella loro fedeltà al mito della piccola proprietà quale cittadella delle virtù civiche e repubblicane.

A valle di queste considerazioni credo possa risultare più fondata la mia tesi secondo la quale molti fallimenti delle élite progressiste possono essere imputati alla maggiore forza sto-rica oggettiva dei loro avversari, cioè delle élite conservatrici. Ogni società complessa – e uso questo aggettivo in un’accezione larghissima che include tutte le società con un certo grado di stratificazione sociale e di specializzazione delle funzioni – ha la tendenza a disporsi in strutture piramidali, nelle quali la ric-chezza, il potere e la forza di coercizione sono monopolio di un vertice più o meno ristretto di soggetti individuali e collettivi. Ne consegue che le forze che difendono la stabilità e la conserva-zione del sistema possono contare su risorse generalmente mag-

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giori di quelle delle forze che invece operano per un’alterazione del sistema.

Un caso classico è quello della presa del potere da parte di Mussolini: certo l’élite socialista ebbe più d’una responsabilità nella propria sconfitta (l’incapacità di capire davvero la novità rappresentata dalla violenza fascista, il tentativo di difendere le posizioni acquisite attraverso il negoziato con il ceto politico li-berale, le divisioni interne etc.), ma non si può dimenticare che, a differenza che in Russia, in Italia l’apparato dello Stato uscì dalla guerra perfettamente integro, e che esso favorì, o addirit-tura appoggiò l’azione delle squadre fasciste allorché smantel-larono le organizzazioni operaie e contadine, le cooperative e le amministrazioni locali socialiste.

Questo a mio parere non vale soltanto per le opzioni rivolu-zionarie, come quella che fu perseguita dalle élite dirigenti della classe operaia italiana, tedesca o ungherese fra il 1918 e il 1921, ma anche per le opzioni di riforma e di mutamento graduale. Gli illuministi vinsero la loro battaglia culturale – ad esempio sul tema della tolleranza religiosa – perché nella seconda metà del XVIII secolo la presa delle istituzioni ecclesiastiche sulla so-cietà e sui ceti dirigenti francesi era in crisi conclamata, mentre meno di un secolo prima l’espulsione dei calvinisti dalla Fran-cia, decretata da Luigi XIV nel 1685, fu accolta dal paese come un fatto normale.

Con questo, la responsabilità diretta delle élite nei loro falli-menti non deve essere posta in secondo piano, e spero che l’E-logio delle minoranze sia riuscito a chiarire come la nostra po-sizione sia estranea a quello «sconfittismo», e cioè alla ricerca

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della propria identità nell’insuccesso che preserva l’integrità del-la virtù, che è costitutivo della tradizione della sinistra italiana.

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Sul popolo contro l'élite

Obsolete Capitalism :: Lo scenario politico post-fallimento Leh-man Bros (2008) ha visto il ritorno prepotente del populismo nell’a-genda politica del mondo occidentale. Una delle caratteristiche sa-lienti del populismo di destra, in versione europea, è sia l’attacco oltranzista alle élite, all’establishment, sia una profonda repulsio-ne per tutto ciò che è cultura e intellettualità. Oggi il populismo è la forma più riconoscibile tra i competitori anti-establishment e dunque è il  “nemico” delle minoranze come le propugnate nel vostro libro, ovvero élite positive con ambizioni di “governance” e di militanza intellettuale riformista/rivoluzionaria. Con modalità acerbe e virulente allo stesso tempo, questo populismo pugnace - impersonificato in Italia dalla Lega di Salvini ma dal quale non sono immuni né il M5S di Grillo né Forza Italia di Berlusconi - te-matizza che il “popolo” è contro le élite. A vostro avviso, quali vie d’uscita esistono per evitare l’acuirsi dello scontro tra democrazia rappresentativa - e le élite politiche, culturali e intellettuali che la informano - e il popolo, ovvero il soggetto fondativo della concezio-ne liberale della democrazia contemporanea? Il populismo rappre-senta una vera minaccia per la democrazia rappresentativa oppure è un fenomeno transeunte destinato, presto o tardi, al tramonto?

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Franco Motta :: Parto dalla fine di questa vostra considera-zione. Se intendiamo il populismo nella sua accezione minima, e cioè come richiamo al ‘popolo’ in quanto aggregato sociale indistinto, depositario di virtù definite per antitesi rispetto ai presunti vizi dei ceti dominanti (corruzione, doppiezza etc.), al-lora mi sembra di poter dire che il populismo sia un fenomeno tutt’altro che transeunte, e che sia invece connaturato alle di-namiche politiche che percorrono diacronicamente ogni società complessa nelle fasi di conflitto tra vecchi e nuovi attori del po-tere.

Di questo abbiamo, credo, prima di tutto evidenze storiche. Come ha mostrato fra gli altri Luciano Canfora con il suo con-sueto rigore filologico (Democrazia. Storia di un’ideologia), il regime di Pericle ad Atene, ricordato come l’archetipo della de-mocrazia greca, si configurava in realtà come un sistema perso-nale di potere del «primo cittadino» che, nel nome del bene del popolo, comprimeva le libertà assembleari; questo carattere po-pulista del governo democratico ateniese è lucidamente descrit-to da Tucidide nel secondo libro della Guerra del Peloponneso.

Anche in altri passaggi storici si fanno leggere, se non ideo-logie vere e proprie, quantomeno culture e narrazioni politiche che si lasciano qualificare come populiste: quella che consente ad Augusto la pacifica assunzione del principato è certamente la più nota, ma nella lotta sociale nelle città italiane del tardo me-dioevo (gli episodi più noti sono quelli dei Ciompi di Firenze e di Cola di Rienzo a Roma), come pure nella Guerra dei contadini tedesca del 1524-25, nei gruppi radicali della rivoluzione inglese di metà Seicento e, con un profilo più limpidamente moderno –  ed esplicitamente reazionario – nelle insorgenze anti-giaco-

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bine dell’Italia del 1799 abbiamo altri esempi che, almeno in parte, rinviano al discorso populista (per inciso noto che questi ultimi tre fenomeni condividono un altro sintomo caratteristico della sindrome populista, il profetismo).

Storicamente, dunque, il populismo si sviluppa nei contesti storici in cui i ceti subalterni, o se preferiamo le masse, costi-tuiscono una fonte di legittimità politica. Non protagonisti di azione politica, intendo, ma semplicemente fonte di legittimità: il populismo presuppone la passività del popolo cui si appella, proprio perché solo nella passività e nella staticità possono con-servarsi la purezza, la verità, l’onestà, e insomma tutte quelle virtù cui esso in genere si richiama. Forse, quantomeno in po-tenza, l’unica eccezione a questo principio è data dal movimen-to che dà il nome stesso a questa categoria politica, e cioè il po-pulismo russo di Aleksandr Herzen e Nikolaj Černiševskij, che a metà Ottocento perseguiva l’idea di risvegliare le masse rurali dall’assoggettamento al feudalesimo zarista per ricondurle al presunto comunismo agrario delle origini; lo stesso socialismo marxista, peraltro, tenne inizialmente un orientamento quanto-meno attento nei confronti di questa opzione, salvo poi respin-gerla nella conversione al dogma dell’esclusività rivoluzionaria della classe operaia.

A parte questo caso, mi sembra che il populismo e le ideolo-gie del progresso abbiano generalmente preso due strade diver-se, e che il primo abbia acquisito nel proprio corredo genetico, per così dire, i caratteri del conservatorismo e della pulsione reazionaria, declinati secondo le esigenze del momento. Il che non significa, naturalmente, che le ideologie democratico-libe-rali e quelle di ispirazione marxista siano state del tutto scevre,

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nel Novecento, di elementi populistici, anzi. Ma con il conflitto sociale che prende vita dalla fine del XIX secolo l’opzione po-pulista si qualifica definitivamente come ricorso strumentale a un’idea astratta di popolo che assume rilievo essenzialmente in relazione ai nemici che si vogliono combattere, siano essi le élite liberali, i socialisti, i comunisti, gli ebrei, i radical della East Co-ast, i tecnocrati e quant’altro, a seconda delle circostanze con cui si ha a che fare. Poiché questa opzione è a tutt’oggi pienamente percorribile e anzi pienamente efficace, come tu stesso affermi citando la Lega Nord, il berlusconismo e il grillismo, mi sem-bra di poter concludere che il fenomeno populista possa essere considerato tutt’altro che una presenza effimera nel panorama storico dell’Occidente e forse anche del mondo.

Questa conclusione è suggerita anche da una seconda conside-razione, questa volta di ordine non storico bensì concettuale. La radice verbale del concetto di cui stiamo discutendo, che le lingue romanze e l’inglese ereditano dal latino populus, sconta una di-varicazione a mio parere straordinaria tra la propria forma agget-tivata e quella sostantivata. L’aggettivo ‘popolare’ conta una gam-ma di significati abbastanza consolidata: sappiamo tutti a cosa ci riferiamo quando parliamo di ‘cultura popolare’, ‘gusti popolari’, ‘musica popolare’, persino ‘cucina popolare’. ‘Popolare’ è tutto quanto funzionalmente si oppone a ‘colto’, senza che questa op-posizione si connoti necessariamente secondo elementi valutativi (anzi per Gramsci, come sappiamo, nello humus popolare pren-deva nutrimento ciò che rendeva tale una nazione). La differenza è prima di ordine quantitativo che qualitativo, laddove ciò che è popolare si denota per un consumo allargato mentre ciò che è col-to per un consumo ristretto. Ma se volessimo definire il sostantivo ‘popolo’ dovremmo rinunciare, mi sembra, a una tale precisione.

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Che cos’è il popolo? Nel mondo classico il populus, il dém-os greco, era l’insieme dei cittadini liberi associati a funzioni produttive, e in quanto tali distinti da un lato dagli ottimati, identificati dall’appartenenza di lignaggio, dall’altro dalla plebe, la massa dei diseredati privi di proprietà. Quest’accezione di po-polo continuò a lungo a restare valida. Nei Comuni medioevali il popolo era il ceto degli artigiani e dei commercianti riuniti nelle corporazioni, e ancora alla nascita degli Stati Uniti il peo-ple citato nel preambolo alla Costituzione americana si colora di queste tinte: è l’insieme dei liberi coloni, dei grandi proprietari terrieri e dei professionisti delle città, legato da vincoli di cul-tura e di interesse ma non di lignaggio né di religione, e quindi implicitamente contrapposto ai funzionari della corona inglese come pure agli indentured servants, i braccianti bianchi nulla-tenenti, e naturalmente ai mondi alieni degli schiavi e dei nativi americani, del tutto invisibili agli occhi dei padri costituenti.

I rivoluzionari francesi, che dovettero erigere uno Stato dal-le macerie della monarchia assoluta in un quadro sociale enor-memente più complesso, rinunciarono alla parola preferendo-le quella di ‘nazione’, che appunto si connotava semplicemente come antitesi dell’assolutismo, del diritto divino e della tradizio-ne, ossia dell’Ancien régime. La parola ‘popolo’ perse da allora la sua perspicuità e fu soggetta a un rapido processo di frammen-tazione e di offuscamento semantico. Al popolo appartenevano i sanculotti parigini che assediarono Versailles e la Convenzio-ne per il pane e la giustizia («L’ami du peuple» era il loro fo-glio, diretto da Jean-Paul Marat) come pure i contadini della Vandea che combattevano per il re e il Sacro cuore di Gesù e i sanfedisti calabresi del cardinale Ruffo che fecero strage di gia-cobini. Il movimento socialista e comunista fu probabilmente

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l’ultimo esempio di inquadramento lessicale preciso, e di segno progressista, del termine, allorché il popolo si identificò con la classe degli operai e dei braccianti agrari, estendendosi succes-sivamente ai mezzadri e ai piccoli artigiani. Questa accezione fu in uso alla sinistra fino almeno alla metà del Novecento, ma essa era intrinsecamente refrattaria alle spore del populismo poiché il popolo non era inteso come un’entità positiva di per sé, ma in quanto classe rivoluzionaria la cui coscienza e le cui potenzialità dovevano essere fatte emergere dalle élite intellettuali marxiste (la critica che Asor Rosa mosse a Pasolini cinquant’anni fa in Scrittori e popolo è un eloquente esempio di questa posizione).

Con la rottura della Rivoluzione francese e la genesi della mo-dernità politica, tuttavia, la nozione di ‘popolo’ fu disarticolata dalle sue precedenti incarnazioni storiche e consegnata al lessi-co dell’ideologia. Il romanticismo tedesco di Fichte, Schlegel e dei fratelli Grimm, come pure la mitologia controrivoluzionaria di De Maistre e Chateaubriand furono, come noto, i laboratori intellettuali di questa operazione, che pure dovette molto alle pulsioni anti-elitariste eternamente riverberate dall’egemonia cattolica sulle masse contadine.

Probabilmente contribuì a questa risemantizzazione – o forse a questo svuotamento semantico – la presenza di lungo periodo di un’altra accezione di popolo, quella cristiana e agostiniana di ‘popolo di Dio’ che si era innestata sul mito biblico del popolo di Israele quale comunità dei fedeli nella quale le differenze di ceto si stemperavano nell’adesione universale al patto religioso e ai precetti rituali e dottrinali. Fatto sta che, da allora, il concetto di ‘popolo’ si è trasformato in una forma culturale, o in quello che la psicologia analitica definisce archetipo: un significante

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entro il quale diversi significati possono essere riversati, e che in quanto tale è rielaborato e muta di contenuto a seconda del contesto in cui lo si impiega, pur conservando una propria effi-cacia intrinseca capace di produrre emozioni e reazioni di segno analogo – quali, ad esempio, il senso di appartenenza e la perce-zione di valori che trascendono l’individuo.

I populismi del Novecento si incaricarono di definire questa nuova accezione astratta di popolo con i criteri più diversi: quel-lo biologico per il nazismo, quello religioso per il franchismo, quello nazionale per il fascismo italiano. Il craxismo, il berlu-sconismo e il chavismo – il primo con la sua esaltazione dell’ac-caparramento individualista, il secondo con la sua visione del popolo come massa dei consumatori, il terzo con il suo amal-gama di indigenismo, comunitarismo e anticapitalismo – sono soltanto gli esempi più recenti di questa potenza proteiforme del populismo nella creazione di miti identitari.

Questo non significa, naturalmente, che l’opzione populista sia l’unico vettore di senso a disposizione dell’anti-democrazia. Le alternative sono note a tutti e ne menziono solo alcune. Il pa-radigma post-maoista vigente in Cina, che legittima il potere del Pcc attraverso la contaminazione tra la razionalità burocratica e il recupero dell’ideologia confuciana dell’armonia e della pro-sperità; il paradigma economicista che è discorso dominante in Occidente dal turning point degli anni Ottanta, con cui le élite politico-finanziarie si legittimano attraverso il ricorso a enti metafisici come la crescita e il mercato (la sua ultima versione è quella dottrinaria della Commissione europea); il paradigma teocratico, che vide lo zenit in Europa nel secolo delle guerre di religione (1550-1660) e che è oggi patrimonio del radicalismo

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islamico. Tutti e tre questi paradigmi sono ferreamente anti-po-pulisti, nel senso che nessuno di loro vede nel popolo la sorgen-te della legittimità del potere quanto piuttosto l’antagonista di un principio sovraordinato di altra natura, che sia tecnocratico, economico o religioso.

Il radicalismo islamico, in particolare, mi sembra l’antitesi ge-ometrica del discorso populista: nella sua teologia il popolo, con le sue consuetudini e le sue credenze, si fa scorgere non come fonte di legittimità ma come causa di corruzione della verità, che invece discende nella sua purezza dalla parola del Profeta (l’obiettivo dell’eradicazione di ogni residuo idolatrico, come le tombe dei santi berberi o le tradizioni non direttamente discen-denti dal Corano, era perseguita ieri dal Fis in Algeria e oggi dal Califfato); se popolo e parola profetica sono in disaccordo, allora è il primo a dover soccombere. Come sappiamo questo duali-smo senza compromessi, che produce costantemente un surplus di violenza come proclamazione della parola divina, è estraneo alla tradizione islamica (che fra le altre cose non ha mai previsto lo sterminio dei dhimmi, i non musulmani), e dunque rispetto ad essa deve considerarsi rivoluzionario. Questa natura rivolu-zionaria ammantata di volontà di ritorno a un presunto ordine originario e l’uso della violenza come arma politica potrebbero avvicinare il radicalismo islamico ai fascismi occidentali; il suo anti-populismo, al contrario, lo pone al capo opposto rispetto a loro. Ma questo era soltanto un inciso.

Per concludere, laddove mi chiedete come si possa evitare lo scontro tra democrazia rappresentativa e popolo – inteso questa volta, immagino, non come entità organica ma come insieme dei cittadini – non posso che rispondere che senza popolo non

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c’è democrazia rappresentativa, ma solo post-democrazia nel senso in cui voi applicate questa nozione alla lettura del pre-sente. Io credo che quella che stiamo osservando sia una formi-dabile sfida all’idea stessa di rappresentanza per come è stata elaborata alla fine del XVIII secolo per ovviare alla crisi dell’An-tico regime, se non proprio la sua implosione. L’esaurimento del racconto della sinistra novecentesca ha determinato, a mio av-viso, la scomparsa delle élite progressiste per come le abbiamo conosciute – quelle che agivano attraverso i partiti, l’università, il sindacato etc. –, o nel migliore dei casi la loro transustanzia-zione in camere di compensazione delle misure imposte dagli attori del potere economico. E visto che la pratica della rappre-sentanza è stata storicamente difesa solo e soltanto da queste élite progressiste, mi pare acclarato che sia necessario elaborare qualche cosa che compensi un tale, enorme deficit di democra-zia superando il principio di rappresentanza.

Gli istituti della democrazia partecipativa sono, allo stato at-tuale, credo, l’unico tragitto percorribile, laddove siano accom-pagnati da processi di allargamento della cittadinanza e della conoscenza diffusa dei processi e degli interessi in gioco. Con tutti i suoi limiti, come l’Encyclopédie fu uno strumento for-midabile della pedagogia politica degli illuministi, forse oggi il nuovo enciclopedismo digitale può essere il motore fondamen-tale di questo cambio di paradigma.

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Sull'identità tra minoranza ed élite

Obsolete Capitalism :: La scelta teorica di fondo del vostro libro è data, a vostro avviso, dall’identità, a determinate condizioni, di minoranza ed élite. Ora tra minoranza ed elite c'è sicuramente "convenientia" per usare una categoria culturale del XVI secolo, ma i due termini non sono sinonimi: Voi ne fate risuonare l'iden-tità come pura reciprocità. Com’è nata questa scelta? 

Franco Motta :: Il nodo terminologico si è posto certamente già dall’inizio del lavoro, ed era inevitabile che fosse così. Stori-camente il lessico della politica ha avuto, e ancora ha a disposi-zione una significativa rosa di lemmi correlati al campo seman-tico ascritto al concetto di minoranza attiva, ma essi non sono mai stati esattamente sovrapponibili. Del resto già agli esordi del pensiero politico occidentale la nozione di minoranza è letta nel segno della diade oppositiva, con la coppia aristocrazia/oli-garchia che Aristotele associa a un’opposizione valoriale e a un processo di decadimento organico (l’aristocrazia secerne pato-logicamente l’oligarchia, come la democrazia l’anarchia etc.). E non c’è bisogno di ricordare come questa diade abbia dominato

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per secoli le categorie politiche europee, fino a quando Gaetano Mosca ha rovesciato i termini mostrando come l’oligarchia sia propria di tutti i regimi di governo, compresi quelli democratici: non la patologia, ma la loro ordinaria fisiologia.

Ciò detto, minoranza ed élite di certo non sono sinonimi, come nemmeno lo sono, rispetto a loro, classe dirigente o ceto dirigente, oppure etichette più in voga oggi quali superclan o su-perclass. Quando ci siamo trovati a ragionare sul lessico siamo stati quindi costretti a cercare un termine adatto ad abbracciare esperienze così storicamente diverse, seppure strutturalmente affini; e la scelta si è imposta da sé sulla base dei contenuti.

Con che cosa avevamo a che fare, infatti? Non tutti i gruppi considerati nel nostro studio erano stati realmente classe diri-gente e nemmeno oligarchia di potere – o meglio non da quan-do avevano assunto le caratteristiche identificative che abbiamo scelto, come nel caso degli eretici e dei giacobini –, e se è per questo non erano stati nemmeno élite in senso stretto, dal mo-mento che il concetto di élite implica l’esercizio di potere politi-co, o economico, o ancora religioso o culturale, e quindi il con-seguimento di una posizione di forza rispetto al corpo sociale. I gruppi identificati erano élite allo stato embrionale: minoranze – più o meno diffuse, più o meno omogenee – che stavano per diventare élite, cioè per conquistare primati egemonici, e il cui percorso era stato interrotto nella fase ascendente della curva, allorché il processo di condensazione delle forze su cui potevano contare si arrestò prima di raggiungere la soglia critica necessa-ria a imprimere un nuovo orientamento alla società ambiente.

Il centro del nostro discorso sta infatti nell’assunzione delle

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potenzialità rivoluzionarie dell’azione delle minoranze di pro-gresso che abbiamo analizzato. Non mi stancherò di ripeterlo: le minoranze di cui abbiamo fatto “l’elogio” pensarono il muta-mento in termini di rottura con lo spazio culturale e politico in cui agirono; la loro sconfitta fu la conseguenza della loro inca-pacità di rendere effettivo tale mutamento, e si configurò come un processo, spesso traumatico, di riassorbimento e neutraliz-zazione delle loro istanze da parte dei poteri esistenti, cioè delle forze della conservazione.

Lo scontro fra élite progressive ed élite conservatrici – ora, per semplicità, assumo la sinonimia di ‘minoranza’ ed ‘élite’ – è l’orizzonte sul quale si è consumato, e continua a consumarsi, il dramma del meccanismo improduttivo italiano: macchina celi-be che produce energie con il solo fine di annichilirle, orologio il cui sessantesimo minuto non fa avanzare la lancetta delle ore – o, in termini più espliciti, massa inerte refrattaria alle spinte del rinnovamento.

Questa prospettiva d’analisi chiama immediatamente in cau-sa un nucleo centrale del nostro studio, anzi, vorrei dire, il suo nucleo fondante. Abbiamo provato a scardinare un meccanismo mentale e lessicale che si è fatto pensiero comune nel XX secolo, in particolare nella seconda metà del XX secolo, come proverò a spiegare sotto. Questo meccanismo mentale si configura come un automatismo, o se preferisci come una ragione apodittica. Io lo definirei senza dubbio nei termini di mistificazione concet-tuale, vale a dire di inganno: un inganno nel quale ritengo che le élite dominanti del declinare del secolo scorso, che sono ancora, mi pare, quelle dominanti oggi, hanno avuto una responsabilità fondamentale. Questa ragione apodittica si esprime come segue:

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le élite – politiche, economiche, culturali etc. – perseguono ine-vitabilmente il loro proprio interesse; l’interesse delle élite è op-posto a quello delle maggioranze; le élite, dunque, sono un osta-colo al conseguimento degli interessi propri delle maggioranze. Dunque sono costitutivamente antidemocratiche, conservatrici, egoiste.

Come vedete ho posto la questione nei termini di un sillo-gismo, per “asciugare” il tema ai suoi costituenti primari. Ora, in termini aristotelici ti direi che questo ragionamento è in re-altà un paralogismo, ossia un ragionamento viziato da errore. Perché mai dobbiamo assumere come un dato incontestabile il fatto che l’interesse delle élite sia opposto a quello delle maggio-ranze (la premessa minore)? Perché mai, in altri termini, non possiamo pensare minoranze morali, capaci di farsi carico degli interessi delle maggioranze, dove per maggioranza intendo l’in-sieme di coloro che non hanno voce in capitolo, le non-élite, o, detto altrimenti, le classi subalterne?

Il problema, posto in questi termini, si traduce come vedi in un confronto tra pensiero conservatore e pensiero progressista. Asserire che le élite siano inevitabilmente orientate alla chiusu-ra, alla riproduzione dei propri privilegi e, insomma, alla dife-sa dell’ingiustizia è a mio parere un assioma di segno limpida-mente conservatore, poiché nega la perfettibilità dell’uomo, una nozione che, volens nolens, è il grado zero di ogni programma progressista, vorrei dire di ogni filosofia progressista.

Il realismo politico – non il realismo storico machiavelliano, ma il realismo politico, ossia il realismo come orizzonte dell’a-zione politica – è nemico del mutamento, e lo liquida come uto-

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pia, come mera costruzione intellettuale. Il più venerato padre del pensiero conservatore, Edmund Burke, fa ruotare proprio attorno a questo il suo attacco alla Rivoluzione francese e ai diritti dell’uomo. Poiché non possiamo negare, a meno di non voler compiere un esercizio di falsificazione, che ogni società complessa produca nei fatti élite egemoniche, il rifiuto della pos-sibilità di élite progressive si traduce nel rifiuto della plausibilità del progresso stesso. Ma questa è una contraffazione della storia, che in quanto tale risponde in genere a imperativi politici.

Chi ha creato le premesse del movimento operaio e contadino nell’Italia liberale? Possiamo non essere concordi sull’attribu-zione dei meriti specifici, ma difficilmente si potrebbe negare che l’azione delle minoranze socialiste e anarchiche –  spesso provenienti dall’élite delle professioni –  sia stata il motore del processo di pedagogia politica, di pedagogia dei diritti che ha completamente mutato il volto delle masse popolari rendendole protagoniste della loro storia. Un processo non dissimile, anzi probabilmente uno fra gli archetipi di questo modello storico, si presenta un secolo prima sia con l’élite di avvocati e giornalisti che fa nascere l’Assemblea nazionale del 1789 e proclama l’abo-lizione della feudalità e del sistema giuridico dell’Antico regime, sia con gli “agitatori” che trasformano i sanculotti di Parigi in forza d’urto rivoluzionaria. E per tornare al Novecento, tutto il processo di decolonizzazione è guidato dall’élite terzomondiale che si era formata nelle università europee al pensiero marxi-sta o liberale; ovviamente va riconosciuto che quella stessa élite africana e asiatica, una volta edificata una nuova statualità, si è spesso tramutata in classe politica rapace e autoritaria: ma que-sto non determina una falsificazione della mia critica di base, semmai impone di interrogarsi sulle ragioni storiche che hanno

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favorito questo processo decompositivo. Personalmente, infatti, non ho difficoltà a confrontarmi con un’ipotesi di “fisiologia” delle classi di potere, se vogliamo contemplare cicli di crescita, stasi e corruzione, ma nessuna analisi dei fatti umani può co-munque prescindere dal filtro della critica storica dei fenomeni.

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Sulla grammatica della minoranza politica

Obsolete Capitalism :: Nell'introduzione della Vostra opera scrivete di "minoranza come elitismo" con segno "positivo". E' dunque possibile stabilire, attraverso la vostra ricerca, una gram-matica (dove per grammatica s'intende quell'insieme di parole e prassi quotidiane che auto-enunciano le loro proprietà ) della mi-noranza politica, culturale e sociale, seppur declinata all'interno del contesto italiano?

Franco Motta :: La possibilità di una grammatica minima del pensiero e della prassi delle minoranze progressive è in effet-ti un corollario dei presupposti teorici del nostro lavoro, visto che individuiamo quelle minoranze proprio sulla base della loro antiteticità sia rispetto al pensiero e alla prassi delle minoranze conservatrici, sia in rapporto alla cultura consolidata dell’Italia contemporanea. Ma una premessa è indispensabile.

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Se parliamo di minoranze progressive e minoranze conserva-trici è perché riteniamo che il progresso e la conservazione siano due forze effettive, aggregatrici di idee e di energie, rilevabili nella dinamica storica mondiale. In nessun modo, però, le cre-diamo entità metafisiche atemporali e universali (naturalmente mi sto riferendo al progresso civile e sociale e non al progresso tecnologico, che data dalla comparsa del genere homo e si avvi-cina di più a essere un universale).

L’idea di progresso si sviluppa in determinate circostanze sto-riche, le circostanze in cui è germogliata e fiorita la cosiddetta modernità nell’Europa del XV-XVI secolo; l’idea di conserva-zione, nell’accezione politica che assumiamo, prende forma di conseguenza. Dunque una tale grammatica non può che essere esemplata su “regole” che acquisiscono senso e uso nella moder-nità, e che a noi restano a tutt’oggi riconoscibili.

Temporalità e consonanza lessicale, dunque. Con questo non nego che alcune istanze sociali, culturali o politiche possano as-sumere rilievo anche in altre epoche e in altre realtà geografiche, ad esempio rivendicazioni di giustizia sociale, di affrancamento da condizioni di soggezione e servitù, e senza dubbio parecchio altro. Il punto, a mio parere, è che solo nelle condizioni della modernità quelle rivendicazioni si aggregano su un piano er-meneutico del tutto peculiare, che è quello della lettura del reale come entità passibile di mutamento e dunque di miglioramento. Reinhart Koselleck ha scritto pagine giustamente note su questo tema quando ha svelato la mutazione semantica in cui era incor-so il termine ‘rivoluzione’ tra il XVI e il XVIII secolo.

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Comprendo bene che queste mie considerazioni possano sol-levare sospetti di etnocentrismo e di un privilegio del momen-to della modernità che può suonare teleologico. Provo allora ad aprire un inciso di chiarimento.

Il tornante fondamentale nell’evoluzione dell’intelletto pro-gressista risiede nella nascita dell’idea dei diritti dell’uomo.

Non c’è dubbio che i diritti dell’uomo siano stati concepiti e impiegati come una leva atta a scalzare precedenti gerarchie di potere e a sostituirle con il potere del soggetto borghese produt-tivo, con la ragione produttiva che, alla fine del Settecento, era opposta alla ragione delle élite cetuali e feudali. Il fatto stesso che tra questi diritti sia stato incluso, prima con le carte della Ri-voluzione americana e poi con le Costituzioni francesi del 1791 e del 1795, il diritto intangibile di proprietà, con le conseguenze che questo ha avuto nell’edificazione dei regimi liberali del XIX secolo, è un’evidente prova in favore della natura egemonica del discorso dei diritti umani. L’uso spregiudicato che ne hanno fat-to gli Stati Uniti durante la Guerra fredda come strumento di lotta ideologica è un’ulteriore prosecuzione di questa originaria vocazione polemica.

Il fatto è che il dispositivo concettuale dei diritti dell’uomo è un dispositivo aperto, un dispositivo che contiene in sé la nega-zione dei propri limiti in direzione di un’apertura universale del proprio significato ultimo: se i diritti fondamentali pertengono all’uomo in quanto tale, allora le diverse condizioni in cui vive l’uomo producono costantemente nuovi diritti che mettono in discussione i confini sanciti dai diritti precedenti. In quanto tale, esso è un dispositivo duale, perché è al tempo stesso a disposi-zione del potere e delle forze antagoniste che si muovono contro

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il potere. Il discorso dei diritti ha svolto un ruolo irrinunciabile nella lotta per l’emancipazione delle classi lavoratrici – benché celato dalla filosofia del materialismo storico –, o nel processo di decolonizzazione, o ancora nel movimento per i diritti civili in America, per fare tre esempi di dialettica storica rivolta contro il predominio di modelli di sfruttamento costruiti sul primato della ragione produttiva e proprietaria.

Il tema su cui vorrei richiamare l’attenzione è però che i di-ritti dell’uomo sono incontestabilmente un prodotto della cul-tura europea del XVIII secolo. Non perché essi, in astratto, non avrebbero potuto essere pensati altrove, ad esempio nel mon-do indiano: la connected history di Sanjay Subrahmanyam ci ha mostrato come la cultura indiana del ‘4-‘500 abbia prodotto fe-nomeni culturali paralleli e paragonabili a quelli che si ritene-vano esclusivi del contesto europeo, come la capacità di produr-re storiografia, fatte salve le differenze nei referenti discorsivi. Semplicemente, l’Europa moderna ha esperito le condizioni sto-riche perché il concetto di diritti naturali acquisisse uno speci-fico spessore politico, e prima ancora culturale.

L’Illuminismo è stato il fattore fondamentale, certo, ma Rous-seau e Condorcet non hanno pensato i diritti dal nulla: la loro esperienza intellettuale è stata il delta in cui sono confluite espe-rienze precedenti, in larga parte extrasoggettive, cioè indipen-denti dalla riflessione filosofica e dall’azione pubblicistica dei singoli. Tre esempi, i più macroscopici.

Il primo: il diritto alla libertà di coscienza, la cui esplicitazio-ne non avrebbe potuto concretizzarsi se non a valle della frattu-ra religiosa data dalla Riforma e dal problema dello Stato a con-

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fessione mista, che è il problema che sottende la pratica politica del Cinque-Seicento.

Il secondo: la rivoluzione scientifica, che fu certo affermazione della ragione matematica e quindi dell’egemonia della razionali-tà cartesiana, ma anche, e prima di tutto, potente generatrice di pensiero dialettico, di confronto fra teorie sottoposte all’onere della prova, e dunque di rottura del tabù della tradizione come fonte suprema di legittimità (questo sì, peraltro, un universale antropologico).

Il terzo: la scoperta del Nuovo Mondo, il contatto con l’alteri-tà dei «selvaggi», dei popoli allo «stato di natura», com’era d’uso dire all’epoca; un contatto che nella cultura dell’epoca deter-minò la pensabilità dell’evoluzione delle civiltà umane, e quindi proiettò la visione dell’uomo e delle sue istituzioni su un’oriz-zonte di temporalità, ergo di relatività. Non a caso Étienne de la Boétie compone il suo straordinario Discorso sulla servitù volontaria, la prima vera denuncia della natura mistificatoria e artificiale del potere, nel clima di eccitato interesse che la Fran-cia di metà Cinquecento riservava alle relazioni di viaggio dal Brasile.

Né il protestantesimo, né la scienza moderna né le esplorazio-ni oceaniche hanno direttamente nulla a che fare con la nozione di diritti umani. Eppure questi tre fenomeni storici, come certa-mente altri, hanno svolto la funzione di lievito di quel pensiero che solo con la seconda metà del Settecento ha esplicitato e ri-vendicato quei diritti. E non c’è dubbio che questi stessi fenome-ni, per le cause storiche più diverse, abbiano trovato nell’Europa moderna il proprio luogo di nascita.

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Lo stesso si potrebbe dire se volgiamo queste considerazioni sul piano temporale. Erano realizzabili le fondamenta del pen-siero di progresso prima della cesura della modernità? A mio parere no, non nella stessa accezione.

La democrazia delle póleis greche precede la democrazia con-temporanea, ne costituisce il mito fondativo e ne detta alcune regole di base, a partire dalla regola della maggioranza. Ma la distanza fra le due resta tale da presentarsi come una distanza qualitativa invalicabile. La democrazia greca, e questo lo spiega bene Hannah Arendt in Vita activa, è una democrazia delle élite eretta sull’esclusione – delle donne, degli schiavi, dei meteci – anziché sull’inclusione; un’esclusione di natura, non di cultura, e in quanto tale pretesamente immutabile, laddove il pensiero progressivo per sua definizione (progredior, ‘avanzare’) non può che muoversi entro l’orizzonte del superamento della preteso ca-rattere naturale delle differenze sociali e giuridiche.

Un secondo esempio, altrettanto paradigmatico: le comunità dei primi cristiani, la cui memoria, trasfigurata in mito, è sta-ta un filo rosso che ha percorso il pensiero eterodosso –  non soltanto cristiano: il Gesù rivoluzionario fu una potente figura di propaganda dell’immaginario socialista ottocentesco – lun-go tutta la storia dell’Occidente. In effetti l’archetipo protocri-stiano della povertà, dell’eguaglianza e della condivisione dei beni è stato un regolare controcanto agli assetti consolidati del potere politico e religioso: da quell’archetipo presero respiro le esperienze del monachesimo altomedioevale, del catarismo, del francescanesimo radicale, della devotio moderna del XV secolo e ancora oltre.

Possiamo considerarlo allora un modello di critica progres-

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sista ai diversi avatar storici dell’ingiustizia sociale, della dise-guaglianza? Senza dubbio no, se non altro per la sua sostanziale identità escatologica. L’escatologia è un potentissimo dispositivo culturale di sovversione del potere, ma non è in alcun modo un discorso di progresso, poiché proietta in un mondo altro, non in questo, il desiderio di emancipazione del soggetto. Il profilo ca-rismatico di Paolo è eloquente: il suo radicale superamento delle differenze di status, di genere e di etnia proclamato nel celebre passo della Lettera ai Galati (3,28) deve essere letto sull’orizzon-te del Regno, che è realtà escatologica e non entità storica, e per questo si accompagna all’altrettanto celebre apologia dei poteri costituiti dell’assioma nulla potestas nisi a Deo di Romani 13,1. Sospendo il giudizio in proposito soltanto in riferimento a due casi tra loro coevi, quello degli anabattisti della precoce traiet-toria espansiva della repubblica comunista di Münster e quello del Bauernkrieg, la rivolta contadina evangelica che infiammò la Germania meridionale nel 1524-25. Ma come si vede siamo già nel cuore della modernità religiosa, allorché il politico, in senso ampio, è piena parte in causa.

Questa lunga premessa mi è servita per tracciare un termi-nus a quo della genesi del discorso progressista, che è appunto discorso pienamente discendente dalla cesura della modernità. Per riprendere il filo della tua domanda provo allora a isolare alcune regole minime della grammatica delle minoranze di pro-gresso. Cerco di sintetizzare.

La prima regola che mi viene in mente è il rifiuto della ragione dogmatica. Il dogma, ‘ciò che è decretato’, è il corrispettivo della tradizione nel campo intellettivo, ovvero l’esercizio dell’obbe-dienza applicato all’acquisizione di conoscenze e convinzioni.

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Su questo ci sarebbe molto da dire: la dogmatica cattolica della modernità, ad esempio, ha un suo punto iniziale, il concilio di Trento, che sancì l’intangibilità della tradizione come fonte del-la fede accanto alla Scrittura, e un suo punto finale, il Sillabo di Pio IX del 1864, che legò i credenti al rifiuto sic et simpliciter dei cosiddetti errori del mondo moderno, dalla democrazia al libero pensiero. Ma sarebbe sbagliato circoscrivere la ragione dogmatica alla cultura della Controriforma o della Restaurazio-ne: l’attuale primato incontestabile della ragione, o meglio della narrazione economico-finanziaria è un caso esemplare di dog-matismo applicato all’analisi delle dinamiche sociali. In questo senso l’apparato tecnocratico che governa la cosiddetta eurozo-na è un caso lampante di élite conservatrice, laddove fa uso di un lessico apodittico –  rigore, crescita, pareggio di bilancio, Pil etc. – che non è giustificato da evidenze statistiche, ma si auto-alimenta nel contesto di una potente mistificazione concettuale pseudoscientifica che rigetta le prove e contrario.

Una seconda regola individuabile è collegata all’esercizio di idee e pratiche emancipatorie. Se lo statuto del programma pro-gressista è radicato nella genesi della modernità, allora il suo obiettivo non può che essere il superamento degli obblighi e delle appartenenze che caratterizzano il mondo premoderno: gli obblighi e le appartenenze di comunità, di ceto, di credo, di genere, di condizione giuridica e quant’altro. Il quadro natural-mente non si esaurisce qui: la modernità, a sua volta, forgia co-stantemente obblighi e appartenenze; la modernità produttiva, in particolare, nella forma di bisogni: il bisogno di consumi, in primo luogo, che nel paradigma del tardo capitalismo si tramuta in bisogno di identità plasmato dal mercato (nell’ultimo tren-tennio, in particolare, dal mercato dell’immateriale).

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Le minoranze progressive si sono storicamente assunte il compito di abbattere le appartenenze, cioè di creare emancipa-zione. L’igienismo, ad esempio, aveva l’obiettivo di tutelare l’uo-mo nella sua integrità fisiologica universale, svincolandolo dalle fisiologie differenziali, di classe, che legittimavano la realtà della condizione patologica dei ceti subalterni. Gli eretici del Cinque-cento contestavano in primo luogo lo statuto del laico come sog-getto dipendente dall’intermediazione del divino attribuita in via esclusiva al clero. Il movimento femminista, nelle sue varie traduzioni storiche, è forse il caso più evidente di tutti, al pari del movimento antischiavista (e non a caso la prima metà del XIX secolo ha assistito a un’interazione ripetuta fra i due). A tutt’oggi il caso del movimento altermondialista, o no global, è un esempio tra i più recenti di minoranza progressista orienta-ta verso l’emancipazione dal discorso e dalla pratica egemonica delle corporations. Il fatto che sia stato liquidato con la violenza a Genova rinvia, ancora una volta, alla natura paradigmatica della traiettoria storica italiana.

Una terza regola della grammatica delle minoranze di pro-gresso rinvia a un’idea più generica di apertura, cui ho fatto cen-no poco sopra in merito al discorso dei diritti umani. Apertura significa universalizzazione, non di identità, ma di possibilità: in altri termini, estensione indefinita dei soggetti che si consi-derano interlocutori. La pratica progressista non fornisce mo-delli validi a priori, bensì strumenti che possono essere applicati alla varietà delle condizioni storiche di partenza. I giacobini, ad esempio, avevano nell’istruzione repubblicana dei ceti infe-riori uno dei capisaldi della propria azione politica, e persino all’estremo più rigido e dottrinario dello spettro progressista, quello delle élite marxiste-leniniste, la formazione umanistica e

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artistica, e non soltanto quella politica, identitaria, era conside-rata indispensabile ai fini della creazione dell’«uomo nuovo». In questo senso credo che l’attitudine maieutica possa essere con-siderata un carattere originale delle minoranze di progresso, e anche forse un buon metro per distinguere, a tutt’oggi, progetti e pratiche di emancipazione da progetti e pratiche di asservi-mento, soprattutto nel labirinto delle applicazioni delle nuove tecnologie.

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Sulla strategia come via del paradosso

Obsolete Capitalism :: Cerchiamo di approfondire la ‘ratio’ di élite e minoranza. Come vi ponete, dal punto di vista storiografi-co e politico, rispetto alla scuola della ’teoria delle élite di Pareto e Mosca? Se, come afferma Sun Tzu, la strategia è la via del para-dosso, perché non inserire nel vostro libro la scuola dell’élitismo italiana nel novero delle minoranze intellettuali, per poi confu-tarne i contro e sottolinearne i pro all’interno di un capitolo a loro dedicato?

Franco Motta :: Questa vostra domanda riporta al centro del discorso la nostra scelta lessicale. Non potevamo non confron-tarci, infatti, con la semantica dominante del termine ‘élite’: sa-rebbe stato, francamente, suicida, a meno di non impegnarsi in una ridiscussione complessiva dell’accezione corrente dell’eliti-smo, che era al di là delle nostre intenzioni. Curiosamente, il discorso inaugurato da Mosca e Michels è rimasto aperto, in-concluso: la teoria delle élite si è ossificata in puro e semplice

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realismo politico, che è la matrice di ogni discorso reazionario; come notavo prima, la possibilità di pensare una modernità giu-sta, progressiva, in termini di azione rivoluzionaria – o anche soltanto riformatrice – condotta da gruppi morali e consapevoli è rimasta priva di voce.

La svolta si è giocata probabilmente fra gli anni Trenta e Qua-ranta del secolo scorso. Con la sua celebre Managerial Revolu-tion, del 1941, James Burnham ha tacitato una tale eventualità dipingendo un futuro di élite tecnocratiche sorde alle sollecita-zioni esterne e dedite alla cooptazione, dunque all’esclusione e alla pura e semplice gestione e riproduzione del privilegio. Alla luce dell’analisi sociologica americana le élite sono mutate in casta, e questa svolta semantica ha continuato a essere domi-nante nei decenni successivi. George Orwell ne ha fatto il filo conduttore della sua distopia totalitaria. Nulla di nuovo sotto il sole, in un certo senso: di Machiavelli fu passata sotto silenzio la vocazione civica ed egualitaria, antimagnatizia, e il Principe restò l’archetipo di ogni programma di cruda conquista e pre-servazione del potere. Un’élite conservatrice di raffinata capa-cità egemonica, quella delle teste pensanti della Controriforma, fu all’origine di questa operazione selettiva, che resta una tra le più efficaci imprese di contrabbando culturale della storia della politica moderna: la madre del primato della ragion di Stato – questo sì un feticcio dell’elitismo conservatore –, che dalle paci di Westfalia agli accordi di Yalta (ma potrei fare un esempio più recente di cinquant’anni, gli accordi di Dayton) è stata il basso continuo delle politiche spartitorie delle potenze fondate sul controllo e lo “riempimento statuale” dello spazio, quello che Carl Schmitt definì lo Ius publicum Europaeum.

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L’imperio della ragion di Stato del pieno Novecento, ulterior-mente avvelenato dalle risorse dell’ideologia, ha fatto il resto. L’essenza mostruosa e schizofrenica del dispositivo di potere na-zista, dipinta già nel 1942 (un anno dopo Burnham) dal Behe-moth di Franz Neumann – socialdemocratico di Weimar esule negli Stati Uniti ed esperto di problemi tedeschi per l’Oss –, ri-velò come il connubio fra élite politiche e monopolistiche po-tesse dare vita a esperimenti di repentino successo e di energia devastante come il regime della Nsdap. Questa lettura lucida e circostanziata si applicò facilmente, e con fondate ragioni, non soltanto al totalitarismo sovietico, che nel suo zenit staliniano si era nutrito di élite cannibali che divoravano loro stesse, ma allo stesso modello della democrazia vincitrice per eccellenza: a Neumann si ispirò esplicitamente Charles Wright Mills per il suo celebre The Power Elite del 1956, che smascherò il sistema castale imperniato sulle corporations, l’esercito e le università delle Ivy League che governava gli Stati Uniti e che a sua vol-ta dettò a Eisenhower la sua denuncia della forza sotterranea dell’apparato militare-industriale americano.

L’irruzione del neoliberismo fu, politicamente e ideologicamen-te, l’effetto della mutazione di questa analisi critica in apologia, e più ancora, in virtù della veemenza ipnotica dell’immaginario rea-ganiano, in mitopoiesi: è memoria appena dell’altro ieri il tripudio tecnocratico degli anni Ottanta, l’esaltazione di nuovi teologume-ni come il primato dogmatico della finanza, la pretesa legittima-zione scientifica delle discipline economiche, la canonizzazione del ceto manageriale e quant’altro. Nella remota provincia italiana l’idea craxiana e dalemiana del «partito del presidente» non è sta-ta che un simulacro artigianale e truffaldino di questa narrazione che soltanto adesso comincia a rivelare la sua natura dottrinaria.

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Quello che resta, allora, è un lampante strabismo interpre-tativo: la nozione stessa di élite schiacciata sulla sua accezione negativa, la perdita della consapevolezza della natura di impe-rativo morale che il progresso ha avuto nella piena moderni-tà novecentesca, la scarnificazione di ogni progetto egemonico – progressista o conservatore che sia – alla pura avidità preda-toria, secondo modelli che comprendono la Russia eltsiniana, l’Italia berlusconiana (attualmente nella fase epigonica del ren-zismo), gli Usa dell’età di Bush e tanto altro. È ovvio che dietro questo gap analitico si colloca la precisa volontà di falsificare la realtà negando la pensabilità del progresso, ma questo esula dalla domanda. Mi sembra però evidente, di fronte a questo, che la scuola elitista italiana sia rimasta tutto sommato sterile, e quindi difficilmente valutabile come minoranza intellettuale con potenzialità egemoniche.

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Sulle varianti diacroniche

Obsolete Capitalism :: Seguendo il vostro schema interpretati-vo di 'Elogio delle minoranze', un nucleo di potere retrivo si è au-to-conservato evolvendo nei secoli, dominando di fatto la società italiana, grosso modo dal XVI secolo fino ai giorni nostri. Da Bel-larmino a Berlusconi, si è trattato dunque di una co-evoluzione di élite / oligarchie che potremmo definire ‘varianti diacroniche’ di uno stesso sistema di potere. Perché tale processo evolutivo non ha interessato le minoranze virtuose da voi presentate nel libro? Questo quesito, ci pare di capire, non ha attraversato la vostra ricerca. Perché? 

Franco Motta :: In realtà non abbiamo ritenuto di poter con-trapporre una continuità conservatrice e una variabilità pro-gressiva nella storia italiana, quantomeno da un punto di vista fenomenologico. Del resto sarebbe difficile trovare qualcosa che formalmente unisca il cardinale Bellarmino a Berlusconi, se non altro perché il primo è un santo e il secondo un malvivente (il che, peraltro, non ha impedito alla Chiesa di riservare onori all’uno e all’altro).

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Le oligarchie, le minoranze di conservazione, hanno segnato a volte una discontinuità di forme e di modi anche maggiore di quanto non sia stata quella delle minoranze di progresso: basti pensare, per citare un esempio più che noto, all’idea di statua-lità – autoritaria, classista, corporativa, ma pur sempre statua-lità – che permeava il regime fascista e al profondo rigetto della funzione dello Stato che caratterizza l’evoluzione del fascismo nella sua variante berlusconiana. Il fascismo, del resto, è protei-forme, e fa di questa sua capacità uno dei suoi grandi punti di forza. Ma se ci volgiamo ad analizzare la sostanza del discorso conservatore allora, a mio parere, questa multiformità tende a scolorire. La policromia fenomenologica del polo conservatore non deve essere scambiata per vigore evolutivo: per abilità mi-metica, semmai. Dalla Controriforma alla Seconda repubblica sono mutate le parole e le fisionomie: non il discorso, non l’iden-tità profonda del parlante.

Provo a rovesciare il discorso. Ho cercato poco fra di abboz-zare una grammatica minima, o meglio un lessico minimo delle minoranze di progresso. Ho premesso a questo tentativo una considerazione, naturalmente confutabile: la stance progressiva, il punto di vista riformatore-rivoluzionario – perdona l’ossimo-ro: prima del Novecento i due termini procedevano di pari pas-so: il protestantesimo fu una rivoluzione che si chiamò Riforma, e agì come riforma della Chiesa – ha un periodo di nascita, e un periodo di sviluppo. Ha, in altri termini, una storia.

Anche la conservazione ha una storia? Il conservatorismo porta una data di nascita? La mia risposta di storico non può che essere positiva. Tutti i fenomeni umani hanno una storia, la storia è la natura dell’uomo, per parafrasare Lévi-Strauss.

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La conservazione nasce quando nasce il progresso. In termini meno apparentemente ideologici: la ricerca di stabilizzazione nasce quando nasce la ricerca di mutamento, perché senza que-sta la prima, semplicemente, non si dà. È soltanto realtà, forza immanente, legittimazione, come nelle società arcaiche.

Se la nozione di mutamento nel qui e ora, cioè di mutamen-to politico e sociale, nasce con la modernità, ne consegue che anche la nozione di conservazione nasce con essa. Il concilio di Trento fu un sensazionale sfregio alla tradizione compiuto nel nome della tradizione stessa. Fu reazione, nel suo senso più au-tentico. Contro i protestanti fu inventata una tradizione, che era quella di una teologia in realtà abbastanza recente, la teologia degli ordini mendicanti del tardo medioevo. A nessun teologo del XIII e del XIV secolo sarebbe apparsa accettabile la teologia tridentina, con la sua insistenza sul libero arbitrio, sulla premi-nenza del papa sui vescovi, sulla relatività del peccato originale. Eppure il concilio di Trento si narrò, e fu narrato, come il risve-glio della tradizione contro l’innovazione luterana.

Qualcosa di molto simile accadde nel contesto delle insor-genze controrivoluzionarie di fine Settecento. Fu esemplato un credo, il credo delle catene e dell’obbedienza («ci teniamo care le nostre catene», dicevano i predicatori antigiacobini della Napoli del 1799), e fu spacciato come tradizione. Operazione di erculea potenza: le plebi dell’Italia settecentesca, che tutto erano meno che frementi guardiane della feudalità e dei principati assoluti, si scoprirono le loro prime e più preziose alleate. Nulla di stra-no in questo: un’azione concepita con lucidità e consapevolezza dei propri mezzi dalle élite conservatrici che si erano formate in secoli di scuola di direzione delle coscienze. In questo senso, lo

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dico per inciso, la Controriforma maturò i suoi frutti “miglio-ri”, ossia i più velenosi, negli anni a cavallo fra il XVIII e il XIX secolo; in questo senso De Maistre è il figlio più diretto del car-dinale Bellarmino, fatte salve le debite distinzioni.

Seguito fino a questo punto, il mio discorso presta il fianco a una critica. Se progresso e reazione sono figli paritetici del-la modernità, perché il primo, almeno in Italia, perde, mentre il secondo vince immancabilmente? Questa critica, in realtà, porta al cuore del nostro discorso sulle minoranze. Avanzo una risposta in termini sintetici: questa presunta parità è un’illusio-ne. È un tema che probabilmente resta in secondo piano nella nostra analisi, e che per questo ora merita di essere esplicitato.

Il politico ha sempre un retrostante referente culturale, an-tropologico. Ce lo ha spiegato con mirabile raffinatezza argo-mentativa Pierre Clastres: se le società arcaiche sono prive di Stato questo è dovuto al fatto che esse sviluppano meccanismi di repressione e di neutralizzazione delle spore della statualità, altrimenti detto delle pulsioni verso l’accumulazione del potere e il consolidarsi di gerarchie.

Questo significa che l’egualitarismo non è naturale, ma artifi-ciale: è proprio della natura – della natura umana – sviluppare la differenza, e quindi la subalternità; è proprio della cultura porvi un freno, fino a quando lo permettono le dinamiche sociali e po-litiche – demografiche, secondo Clastres – del gruppo. Superata questa soglia, che è quella che evidentemente segna l’ingresso nelle società complesse, nelle società agrarie-tributarie che ve-diamo all’opera dall’età del bronzo, la gerarchia (referente ultimo del pensiero conservatore) si fa cemento della coesione sociale. Si pensa definitivamente natura, quindi immutabilità – malgrado

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sia essa stessa cultura, poiché la differenza originaria perde il suo carattere naturale in seguito alla dialettica con l’egualitarismo tribale. Dal tempo senza storia delle società contro lo Stato oc-corre procedere fino al tempo senza tradizione della rivoluzione moderna: in mezzo, la lunga fase del predominio delle gerarchie.

Posta in questi termini la questione muta di segno. La lotta delle minoranze progressive della modernità non è lotta contro la storia, ma lotta contro la natura – la natura artificiale, ovviamen-te, della narrazione conservatrice –, o contro quelle sue incarna-zioni che sono il diritto divino dei re, l’antichità immemorabile delle aristocrazie, la storia sacra e tutto quanto rinvia all’archeti-po del vero in quanto esistente. La dialettica che portò alla nascita dei diritti dell’uomo fu una titanica battaglia contro l’idea della naturalità delle differenze. Perché mai un popolano avrebbe do-vuto avere dalla nascita gli stessi diritti di un patrizio?

Questa dialettica non ha un vero termine, una vera sintesi. La tragedia delle minoranze progressive sta tutta qui: muovere guerra all’esistente corrisponde sempre a muovere guerra a una presunta natura. Se le circostanze storiche lo permettono, com’è stato per le democrazie europee del Novecento, questa guerra si risolve con la genesi di una seconda natura, la natura a tutti noi oggi nota, che è quella proclamata dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e acquisita dal discorso pubblico dell’Oc-cidente contemporaneo. Che dietro questo esito si celino altri conflitti, interessi vincenti e nuove differenze è verissimo, ma ora non fa parte del nostro discorso. Obama è certamente una ma-schera vincente di Wall Street, ma Obama non è Berlusconi, né Renzi né Grillo.

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Ecco allora la specificità italiana. La lotta delle minoranze di progresso contro la presunta naturalità della tradizione, contro la inemendabilità dell’esistente, in Italia non è mai stata conclu-sa. Il che equivale a dire che la modernità italiana è una moder-nità inconclusa, una modernità ancora soggetta a un confronto che altrove è stato superato, e nel caso sostituito da altri conflitti. Gli elementi di questa dialettica peculiarmente italiana possono essere facilmente identificati. Lo si può fare, semplicemente, leg-gendo in negativo il lessico delle minoranze di progresso.

Riprendo i termini esposti poco sopra: rifiuto della ragione dogmatica, emancipazione, apertura. Li rovescio, e ne desumo le conseguenze: obbedienza al dogma, soggezione, chiusura. Ecco tre princìpi che, nello specifico quadro culturale italiano, riven-dicano naturalità, quindi immutabilità. Resto ancorato allo spe-cifico italiano perché ritengo sia un caso paradigmatico, un case study che avrebbe molto da dire su di un piano universale.

Dunque: obbedienza al dogma, in primo luogo. L’oligarchia italiana, l’oligarchia eterna che si riproduce in forme e sembianti diversi, non ha mai rinunciato a questo principio fondativo. Il dottrinarismo della Chiesa non ha bisogno di ulteriori spiega-zioni. Ma che dire dei dogmatismi che prescindono, in parte o in tutto, dal momento religioso? Il fascismo fondò la propria identità sul dogma dell’indiscutibilità del capo, e forgiando que-sta categoria la mise a disposizione di tutti i movimenti reazio-nari europei, che a volte la tradussero in principio carismatico di organizzazione della macchina amministrativa – il Führerp-rinzip nazista, che peraltro ebbe nel cattolico Carl Schmitt uno dei “padri costituenti” –, altre volte in replica secolarizzata dell’infallibilismo papale – il caudillismo, che dall’edificio cleri-

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cal-fascista del franchismo si moltiplicò nella genìa sanguinaria e turbolenta delle dittature sudamericane.

L’ideologia provinciale e cattolica dell’Italia democristiana degli anni Cinquanta e Sessanta è un altro esempio di dottrina-rismo applicato alle dinamiche politiche (il rifiuto puro e sem-plice della diversità nelle sue varianti culturali, sociali, sessuali), che del resto fa il paio con il dottrinarismo del Pci degli stessi decenni, in una riduzione in sedicesimo delle guerre di religione che visse di un’opposizione antropologica fra l’Italia contadina e l’Italia operaia. Da ultimo, il discorso neoliberista, dominan-te anche in Italia a partire dagli anni Ottanta, è puro dottri-narismo concettuale e lessicale, come ho sostenuto prima; e va notato che esso, malgrado la crisi indotta dal crack del sistema speculativo, non ha ancora rinunciato alla sua originaria voca-zione di pensiero unico, di teologia secolare che liquida come utopiche, o distopiche, le voci contrarie.

In secondo luogo, il filo rosso del principio dell’assoggetta-mento. Come potremmo individuare nell’emancipazione del soggetto generale, cioè del soggetto che non è ascritto all’élite, un dato costitutivo di fondo dell’azione delle minoranze di pro-gresso, così la cristallizzazione dei rapporti di subalternità è un articolo di fede del credo delle oligarchie conservatrici.

Come ho detto poco sopra, l’egualitarismo è un costrutto cul-turale proprio di determinate società, essenzialmente le società arcaiche dei cacciatori-raccoglitori – contemplino o meno forme di agricoltura di sussistenza – e le società storiche di tipo noma-de-pastorale. L’uccisione del capo ne è una costante archetipica. In entrambi i casi si tratta di società che non toccano la soglia di produzione di beni oltre la quale si verifica l’accumulazione di

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ricchezza, e dunque la nascita delle gerarchie sociali, oppure, se vi si avvicinano, esercitano meccanismi di dépense atti a neu-tralizzarla. Si tratta, ripeto, di meccanismi culturali, e in quanto tali soggetti alla fragilità propria delle culture, sottoposte a pe-renni processi di ridiscussione. Le civiltà complesse, per come le intendono la storia e l’antropologia, ossia di fatto le società urbane, sono di per sé società gerarchiche perché fondate sulla divisione delle funzioni, che non è semplice divisione del lavo-ro ma segmentazione di ruoli che dà vita a una stratificazione funzionale arricchita di simboli e identità: la funzione ammi-nistrativa, quella militare e quella religiosa ne costituiscono gli archetipi più primitivi e universali.

Entrate in questo paradigma, le società fanno il loro ingres-so nella storia, a partire dal fatto che producono scrittura, che è di per sé funzione elitaria di cui è incaricata una corpora-zione di addetti alla produzione, alla riproduzione e all’inter-pretazione di documenti. Abbiamo esempi di società storiche immuni dal fato della gerarchia? Non mi risulta. Per fermarsi al mondo antico, fra l’altro, le società europee non sono le più rappresentative al riguardo: le evenienze più coerenti con que-sto modello provengono dall’Asia –  la società castale indiana, le dinastie confuciane cinesi –, dall’Africa – i regni del Sudan fondati sul commercio degli schiavi – e dall’America – gli impe-ri militari-sacerdotali del Meso- e Sudamerica. L’Europa, l’Eu-ropa moderna, ha semmai sperimentato in una scala inedita di espressioni il raffinamento delle strutture di differenziazione gerarchica, inventando quei dispositivi di disciplinamento e di marginalizzazione dei quali Foucault ha così ampiamente rico-struito la genesi ideologica.

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L’Europa dell’età delle crociate era indubbiamente meno gerarchica dell’Europa dell’Illuminismo: non perché non co-noscesse le diseguaglianze, ma perché era estranea a quella “microfisica” della gerarchia che fu il prodotto della specializ-zazione dei saperi e delle funzioni che si innescò essenzialmen-te con lo sviluppo del capitalismo agrario e commerciale, con l’introiezione delle istanze del disciplinamento religioso e con l’espansione degli apparati amministrativi e militari dello Stato moderno. È esattamente in questa fase, che decolla dallo scorcio del XVI secolo (i decenni della grande inculturazione religiosa praticata da tutte le confessioni, come hanno certificato le ricer-che che fanno capo a Heinz Schilling e Wolfgang Reinhard, che sono anche i decenni del germogliare delle società per azioni e delle compagnie commerciali, nonché della guerra continenta-le generalizzata, fino alle paci di Westfalia del 1648), che élite di progresso ed élite di conservazione si fanno soggetti attivi di una dialettica che ruota tutta attorno agli obiettivi opposti dell’abbattimento e del consolidamento delle barriere gerarchi-che. La posta in gioco, è chiaro, non è sempre e soltanto socia-le: può essere religiosa, culturale, epistemica (come nel caso dei galileisti del Seicento); ma resta il fatto che l’emancipazione del soggetto resta il fulcro del conflitto.

Di quale soggetto stiamo parlando? Il soggetto del mondo del commercio e delle professioni – il soggetto borghese, in altre parole – che è il protagonista delle rivoluzioni atlantiche della fine del XVIII secolo non è il soggetto contadino e operaio delle rivoluzioni del secondo e del terzo decennio del XX. Come il soggetto lavoratore della fabbrica novecentesca non è l’«occu-pato» dell’età neoliberista, che subisce la disarticolazione delle tutele contrattuali e la dissoluzione delle istanze sindacali. Ecco

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che interviene la dinamica della stabilizzazione del potere: le oli-garchie conservatrici interpretano, di volta in volta, secondo le relative condizioni storiche, i programmi dei blocchi sociali di potere, a volte denotati da contrapposizioni ideologiche ma ce-mentati dal comune interesse verso la tutela di posizioni di pri-vilegio, che in crudi termini sociologici si declina in pratiche di esclusione dei gruppi che ne restano estranei. Lette sotto questa luce, le élite politiche e sindacali appartenenti all’alveo della si-nistra storica italiana del secondo Novecento non sfuggono alla regola: se i loro referenti sono segmenti privilegiati della società, e i loro avversari sono tutti quei soggetti che, a partire dall’ul-timo decennio del XX secolo, sono rimasti esclusi dalla cittadi-nanza piena – che è quella che nella società capitalista vive entro il flusso delle regole che garantiscono la giusta rispondenza fra lavoro e retribuzione –, allora vediamo che l’oligarchia conser-vatrice si allarga, si fa poliedrica e ideologicamente contraddit-toria, perde colore politico e guadagna sostanza di materialismo storico. Questo discorso è rimasto in secondo piano nel libro; credo che vada posto nella giusta evidenza, poiché l’ultima cosa che vorrei è di essere tacciato di manicheismo.

Infine, il terzo rovesciamento di principio: chiusura contro apertura. L’oligarchia conservatrice disconosce i nuovi sogget-ti. Assume come irrinunciabile l’imperativo tassonomico. La conservazione ha bisogno dell’ordine come dell’aria che respira; nell’ordine trova la giustificazione ultima della propria rivendi-cazione di naturalità. Mi riferisco, ovviamente, alla sfera cultu-rale: sul piano del puro gioco politico e militare tanto l’ordine quanto il disordine sono funzionali alle strategie oligarchiche, come ci indica la politica estera degli Stati Uniti di questi ultimi tre lustri.

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L’ordine di cui parlo è prima di tutto lessicale: ‘noi’ contro ‘loro’, con il relativo ventaglio semantico che rinvia al motivo dell’appartenenza contro l’alterità. Coppie lessicali analoghe si moltiplicano secondo le infinite declinazioni del principio di chiusura, secondo logiche transeunti di cui resta a volte soltanto lo scheletro fossile della dicotomia: l’opposizione ortodosso/ere-tico dominò per almeno un secolo e mezzo il discorso pubblico europeo, fino alla fine del Seicento; quella bianco/nero è ancora oggi possente alle periferie dell’Europa e degli Stati Uniti, men-tre ha perduto valore nei centri della produzione di ricchezza, e lo stesso si potrebbe dire della coppia eterosessuale/omoses-suale; quella anglosassone/latino, o nordico/mediterraneo, pare conoscere attualmente rinnovata fortuna europea e americana. Questo vocabolario duale genera una grammatica, e quindi un discorso della chiusura, il quale a sua volta dispone una serie di pratiche che rinviano al disconoscimento, alla negazione dell’u-niversalità del soggetto.

La pratica che da questo punto di vista connota più fortemen-te le oligarchie conservatrici italiane, e che più di tante altre ha determinato il profilo sociale e culturale della penisola, resta a mio parere il rifiuto sistematico delle regole. Occorre chiarire: non sto contraddicendo l’idea di poco fa circa il bisogno clas-sificatorio, e dunque normativo, dei gruppi di conservazione. Le norme proprie delle oligarchie italiane sono le norme non scritte, consuetudinarie e comunitarie che scandiscono la vita delle famiglie e dei gruppi, e che in quanto tali rispondono al dualismo originario appartenenza/non appartenenza, successi-vamente declinato secondo i casi. Le regole di cui parlo, invece, sono quelle positive, scritte e universali che sono un portato del-lo Stato moderno: la produzione legislativa, in altri termini, e i

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testi subordinati. Queste regole della comunità organizzata in Stato hanno un’originaria radice emancipatoria in quanto uni-versalista; il loro referente è il cittadino senza specificazioni, e per questo esse sono costitutivamente proiettate sull’orizzonte dell’apertura, cioè dell’inclusione. È per questo che i meccani-smi di cittadinanza dovrebbero essere uno fra i poli d’interes-se delle élite progressiste, soprattutto oggi che le barriere delle identità etniche e religiose stanno acquistando, purtroppo, nuo-va solidità. Al contrario, il rifiuto della regola, l’evasione e lo sprezzo della regola, che sono pratica e bandiera comune del-la destra italiana della seconda metà del Novecento e che sap-piamo tutti essere diventati programma politico con la galassia berlusconiana, sono meccanismi di riproduzione del privilegio, poiché è noto che dove non esiste il diritto garantito dalla legge vige, indisturbato, il privilegio, e con esso la chiusura oligarchi-ca. Spero di essere stato sufficientemente chiaro, pur in questo tentativo di sintesi.

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Sulle continuità e le differenze

Obsolete Capitalism :: Nel vostro libro confrontate dialettica-mente la continuità della "lunga durata conservatrice" con le di-scontinuità discrete generate dai contrappunti delle "minoranze positive". Discontinuità è differenza. Le figure e le determinazioni delle discontinuità non sono così facili da individuare per la sto-ria in generale, soprattutto se esse non generano macro-eventi come il 1917 e il 1968 per rimanere al "secolo degli estremi". Come avete deciso di ritagliare, anche arbitrariamente, la linea maggio-ritaria della continuità e le corrugazioni delle differenze? 

Franco Motta :: L’identificazione delle discontinuità rivolu-zionarie-riformiste è stata una naturale conseguenza dell’acce-zione di élite cui abbiamo fatto ricorso. Il riscontro di “possibi-lità” di mutamento nella storia italiana ne è stata per così dire la chiave euristica: quali minoranze hanno raggiunto quel livello critico che avrebbe permesso loro di diventare élite egemoni-che? È su questo piano, che a mio parere resta un piano definito da coordinate per quanto possibile oggettive – l’effettiva pene-

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trazione nella società, le potenzialità dei progetti di mutamento, la presenza di istanze analoghe in altre realtà europee –, che ab-biamo individuato quelle «corrugazioni» di cui parlate. Livelli orografici, mi verrebbe da dire, percepibili a distanza.

Partiamo da un dato: da quasi un secolo, dalle «Annales» in poi, l’idea che il decorso storico possa essere determinato da “bivi”, da scarti, da congiunture nelle quali si riassumono e si confrontano percorsi diversi, giungendo a risoluzione repentina nella vittoria dell’uno o dell’altro, non è più seriamente argo-mentabile. La storia controfattuale può essere un interessante terreno di sperimentazione di modelli, ma non un terreno di ricerca storica. Ciò detto, le minoranze che abbiamo preso in esame sono state il portato di percorsi pluridecennali, quando non secolari, di sviluppo e di evoluzione di forze che a un certo punto hanno condensato una massa critica – culturale, politica, economica – tale da permettere loro di influenzare l’evoluzione del contesto storico nel quale si muovevano. I galileisti non nac-quero certo sull’onda del Sidereus nuncius o della politica acca-demica di Galilei; dietro di loro agivano storie multiple, e non sempre omogenee, come quella del platonismo rinascimentale e dell’empirismo naturalistico dei gabinetti di meraviglie del tar-do Cinquecento. Allo stesso modo, gli igienisti dell’età positivi-sta ereditarono le pulsioni del socialismo non marxista, fourie-rista, ad esempio, e quelle dell’anticlericalismo risorgimentale.

In questa prospettiva possono essere individuate altre visibili corrugazioni che non abbiamo preso in esame: la costellazione resistenziale che rimanda all’esperienza di «Giustizia e libertà» ne fa parte, come pure quella dei radicali italiani fino a tutti gli anni Settanta. Se dovessi pensare a casi più recenti mi rifa-

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rei al movimento altermondialista della fine degli anni Novanta del XX secolo, che pure fu un’élite progressiva in nuce, ancora lontana però –  se non altro per l’assenza di un pensiero forte di riferimento – dalle potenzialità egemoniche che credo defi-niscano un’élite rivoluzionaria vera e propria. Se dovessi ragio-nare sull’immediato presente citerei il movimento per i diritti animali, che tuttavia, allo stato attuale, denuncia un’eterogenei-tà d’azione che rischia di renderlo ancora a lungo marginale nel discorso pubblico.

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Sul potere delle minoranze

Obsolete Capitalism :: Non ritiene che le minoranze, soprat-tutto nel campo spirituale, esprimano un potenziale di riscatto e redenzione sociale e politica di notevole portata? Citiamo, a solo titolo d’esempio, il caso dei cristiani e il loro proselitismo tra la classe degli schiavi nell’Impero Romano dei primi secoli dell’E-ra volgare oppure il caso dei musulmani nella società indiana, quando la parola del Profeta fu l’occasione per milioni di ‘outcast’ di affrancarsi dal regime delle caste e dalla schiavitù della contin-genza. Voi affrontate tale questione nel capitolo del vostro libro dedicata ai ‘riformatori’ del Cristianesimo in Italia: perché in Ita-lia non è accaduto un fenomeno analogo, assumendo l’esistenza nella nostra penisola di milioni di poveri e diseredati nel corso del XVI e XVII secolo?

Franco Motta :: Alcune realtà storiche sono più sensibili a un programma di riforma di matrice religiosa, altre meno. Alcu-ni contesti si alimentano alla fonte della religione, altri a quella della politica, altri ancora al primato dell’economia. Non saprei come inquadrare altrimenti questo tema, che pure giustamente

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ponete. L’Italia del Quattro-Cinquecento era considerata dalle culture prossime un paese di atei; che sia stato un portato del paganesimo rinascimentale o della reazione al sistema di potere della Chiesa non saprei dire: fatto sta che il messaggio religioso della Riforma in Italia fu sempre mediato da istanze di natura politica e, in senso lato, culturale, e fu su questo terreno che esso perdette la sua battaglia, allorché le aristocrazie e i patriziati si schierarono con la Chiesa romana su basi di reciproco interes-se. Il potere del discorso religioso non ha mai avuto in Italia quello spessore che ha avuto in Germania, negli Stati Uniti o in tanti paesi slavi, come la Serbia e la Polonia. Nemmeno la para-digmatica campagna elettorale del 1948, quella delle madonne piangenti, fu uno scontro fra religione e irreligione, malgrado le forme in cui essa si presentava, ma fra appartenenze locali, esperienze di emancipazione e di consuetudine, prossimità par-titiche e comunitarie.

Non che il successo della Riforma in Germania o nei Paesi Bassi sia stato privo di fattori politici ed economici, sia chiaro. Resta però il fatto che l’attenzione diffusa alle implicazioni teo-logiche del luteranesimo e del calvinismo trovò terreno più fer-tile in quei paesi che non nel nostro. L’impegno caritativo della Chiesa cattolica fu senza dubbio un elemento fondamentale del-la sua presa sugli strati inferiori della società, dal XVI al XIX se-colo, ma questo, a mio parere, non chiude la questione. Ci sono culture intimamente religiose e altre che non lo sono: la Cina è un lampante esempio di cultura irreligiosa – cioè non dominata da imperativi morali di ordine religioso – che ha costruito la propria identità sul primato dell’appartenenza comunitaria e, al tempo stesso, del successo economico.

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Negli Stati Uniti, al contrario, il successo economico è inti-mamente legato all’identità religiosa protestante. Per scanda-gliare efficacemente l’influenza di questi elementi occorrerebbe un ambizioso lavoro comparativo che trascende i limiti della nostra ricerca. Ma che varrebbe comunque la pena di tentare.

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Elogio delle minoranze

Conversazione di Pippo Civati con Massimiliano Panarari

@ Prossima Italia, Albinea, 22 luglio 2012

Pippo Civati: [Presentando Massimiliano Panarari] Abbiamo un'esperto di minoranze. Ci sentiamo anche noi, un po', una minoranza. Ha scritto un libro "Elogio delle minoranze". Io l'ho subito cercato in libreria perché mi riconoscevo moltissimo nel titolo, sia nell'elogio, sia nelle minoranze. (...) Massimilia-no Panarari ci deve spiegare il libro che parla delle minoranze: la riforma protestante, il liberalismo ottocentesco - che poi è sparito, in Italia di liberali non è più rimasto nessuno, il che è un dramma per tutti quanti noi, anche per la sinistra, a mio avviso. Ci parlerà di minoranze finite male con roghi e vicende del genere. Io vorrei evitarlo il rogo, state tranquilli, al massimo c'è una discussione con la Bindi, cose così, non succede nulla di male.... Quale può essere un ruolo di speranza delle minoranze, qual'è la loro funzione storica, cosa possiamo essere noi, la mi-noranza, per essere funzionali all'insieme delle cose.

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Massimiliano Panarari: Grazie a Pippo per l'invito. Io vi consiglio un altro libro che, penso, conoscerete: "Dieci cose buo-ne per l'Italia che la sinistra deve fare subito" (NdR: Giuseppe Civati, Laurana editore, 2012). Prefazione di una persona abba-stanza conosciuta, Paolo Virzì. Questo libro, "Elogio delle mino-ranze", che gentilmente Pippo mi invita a raccontare, è in realtà un tentativo di fare una riflessione sulle minoranze - e questo è un luogo davvero consono alle minoranze, tutti i presenti lo sanno perfettamente - e sull'importanza e la necessità che ci si-ano delle minoranze in una democrazia liberale. Per raccontar-velo in filigrana mi permetto di leggere una recensione uscita sul "giornalone" della borghesia italiana che si chiama Corriere della Sera, giornale che avrebbe dovuto svolgere una funzione progressiva. Si tratta di una recensione al curaro: vi leggo so-lamente una ventina di righe perché indicative di quello che il nostro paese non riesce a essere e del perché le minoranze sono importanti.

Scrive il recensore del Corriere della Sera, Corrado Ocone:"Affermare come fanno Massimiliano Panarari e Franco Motta

- Franco Motta è un bravissimo storico modernista dell'Univer-sità di Torino, co-autore con me di questo libro - nell'introdu-zione al loro libro "Elogio delle minoranze. Le occasione mancate dell'Italia", che ci sono "élite positive portatrici di visione di pro-gresso ed élite regressive, garanti di equilibri di potere di lunga durata", aggiungendo poi che in Italia hanno sistematicamente vinto le seconde e sono state sconfitte le prime, è passare dall'ana-lisi sociologica a quella politica e partigiana.

In effetti il volume è un esempio quasi idealtipico di quella che Croce - grande intellettuale post-moderno - chiamava "storia prammatica", cioè volta a servire un fine politico. Nella fattispe-

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cie, quello di una certa sinistra indignata e 'radical-chic', che ri-duce ai suoi fini di parte la complessa dinamica storica. Il modo di ragionare dei due autori si fonda su alcuni luoghi comuni - invece radical-chic non è un luogo comune, no, no, guardate come sono vestito o come è vestito Pippo Civati! -. Innanzitutto la retorica del "Paese normale" che l'Italia non sarebbe mai sta-ta - perché invece l'Italia è un paese normalissimo - perché le élite che hanno sequestrato il potere sono corrotte, familistiche, incapaci di vedere oltre l'orizzonte del loro interesse privato - e invece noi siamo caratterizzati da élite, per l'appunto, che ve-dono sempre oltre il loro naso -. Al contrario, "normale" il no-stro Paese sarebbe stato se la minoranza virtuosa avesse prevalso (tipico esempio di "storia con i se"). Il che finisce per creare una sorta di paragone ellittico fra una democrazia ideale che si ha in testa e il processo storico reale - che invece è sempre giusto, come ci insegnava Hegel, altro intellettuale post-moderno, ma-estro di Croce. Un antistoricismo che non fa onore alle nostre tradizioni. Quale poi sia il modello di "normalità" auspicato, è l'idea della nostra mancata modernizzazione ad indicarlo. Ma come conciliare questa asserita carenza di modernità con il fatto che siamo diventati comunque una potenza industriale? - Oibò, si vede: de-industrializzazioni a ripetizione, un apparato mani-fatturiero, come ci racconterà più tardi Filippo Taddei, in via di progressiva dismissione.

Ecco che interviene il concetto di"modernizzazione senza svi-luppo": da noi non sarebbe mai esistita una borghesia capace di educare e, come dicono i due autori, di "mutare le strutture men-tali" del popolo. Emerge qui un pedagogismo che è il contrario dello spirito liberale. Il quale, come ci hanno insegnato i maestri, non si fonda su esempi sedicenti virtuosi, ma sulla capacità che ognuno deve avere di provare, sbagliare, riprovare, per conto suo,

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andando comunque avanti da solo sulla strada della formazione della propria personalità.

A ben vedere, in Italia è lo spazio per fare questo che sembra oggi mancare. Ma se così è, il problema è essenzialmente politico, non morale: la nostra è una società in preda al corporativismo, ingessata da una scarsa mobilità sociale. Detto altrimenti, il plu-ralismo italiano è collusivo e non competitivo." - Bene, esatta-mente quello che diciamo noi, quindi il gentile recensore cade in contraddizione.

Qual'è il senso della storia delle minoranze, perché è impor-tante ricordarlo a nostro giudizio. La storia d'Italia è stata carat-terizzata da alcune minoranze che abbiamo cercato di raccon-tare le cui idee, per quanto non amate dal "giornalone" Corriere della Sera, hanno cercato di introdurre dei semi molto positivi.

Sono davvero 'medaglioni storici' quelli che raccontiamo: gli eretici del Cinquecento, i galileisti del Seicento, i giacobini - gli unici autori di una rivoluzione! Questo paese, come sapete, non è in grado di fare rivoluzioni - il perché ce lo raccontava in manie-ra psicoanalitica Umberto Saba con una sua frase celeberrima: Gli italiani non riescono a fare rivoluzioni, perché le rivoluzioni richiedono il taglio del rapporto edipico - cioè bisogna che i figli insorgano contro i padri. In Italia, invece, succede che il figlio maggiore si mette con il padre per "fregare" il secondogenito, e in questo modo consolidare la propria rendita di posizione. E' davvero la storia dell'Italia, e i giacobini napoletani al prez-zo della loro testa e dell'essere de-collati, per l'appunto, fecero questa battaglia straordinaria. Poi c'è un'altra minoranza molto importante, cui noi teniamo molto, perché è l'espressione mi-gliore della borghesia, quando, raramente, nella storia italiana, si è impegnata per cercare di mutare le condizioni generali della popolazione. Era un pezzo, una frazione dei positivisti, nell'Ot-

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tocento. Voi tutti, forse, conoscete i positivisti: c'era una frazione composta da parlamentari, medici, scienziati - alcuni di loro, a Milano, dettero origine all'associazione dei medici condotti, per esempio; erano i medici socialisti dell'Ottocento milanese che lavoravano per migliorare le condizioni igieniche, per cercare di costruire un sistema sanitario decente, all'interno di questo nostro paese che, nell'Ottocento, era davvero Terzo Mondo, altroché potenza industriale, anche in questa zona e anche in Lombardia. Poi ci sono i socialisti dell'Ottocento - cosa a noi molto cara - i cooperatori dell'Ottocento - Camillo Prampolini, Ugo Rabbeno e tantissimi altri - quelli che fecero dell'Emilia un luogo cooperativo e un luogo in cui le classi subordinate potes-sero aspirare a un futuro migliore. Infine, c'è questa categoria complicatissima: l'abbiamo chiamata un liberalismo speciale, in cui stanno tanti, stanno personaggi che voi conoscete come gli azionisti, i liberal-socialisti, i fratelli Rosselli, Gobetti, ma anche alcuni personaggi meno noti, e un pochino più conserva-tori, come Pannunzio, il fondatore della rivista Il Mondo, come il grandissimo Adriano Olivetti, fondatore dell'Espresso, come Nicolò Carandini, che era un liberale tutto d'un pezzo, più del signore che ci recensisce, e che fondò Alitalia. Alitalia come vei-colo di modernizzazione di questo paese - naturalmente, non l'Alitalia sfasciata dal governo Berlusconi e dai suoi accoliti. L'A-litalia come fattore di modernizzazione. Tutte queste minoran-ze erano gruppi caratterizzati da una visione coerente e molto orientata verso un'idea di modernizzazione accompagnata dallo sviluppo e dall'idea di modernizzazione che traguardasse e tra-ghettasse insieme il paese. Erano molto interclassisti da questo punto di vista, ritenevano che il ruolo delle élite potesse essere svolto unicamente in presenza di una serie di oneri: onori ed oneri. E gli oneri consistevano nell'idea di una responsabilità

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sociale - la chiameremo così - cioè nell'idea di doversi impegna-re, di godere anche di privilegi, di fare battaglie di minoranza ma per la responsabilità generale, collettiva, per quel termine che oggi suona tragicamente medievale e che in tanti hanno di-menticato, nei gruppi dirigenti e nelle caste: il bene comune.

Ecco, per questo il giudizio della Storia va raccontato ed è per questo che le minoranze servono. Evangelicamente le potrem-mo chiamare 'il sale della terra'. Le minoranze servono, le batta-glie che fate qui sono indispensabili, non lo dico per piaggeria, il punto è che per rovesciare lo stato di cose serve che le mino-ranze siano considerate autorevoli. E' questo il grosso problema con il quale ci confrontiamo oggi. Per potere avanzare un'idea di bene comune, per poter essere 'challenging' e trascinanti nei confronti del resto del paese e delle maggioranze, per l'appunto, occorre disporre di quel bene immateriale e fondamentale che è l'autorevolezza. La ragione della sconfitta di tante di queste minoranze non era l'autorevolezza, era la difficoltà di costruire consenso, ma in quell'epoca non si stava all'interno di democra-zie competitive. In quel tempo non c'era il potere contendibile. Il potere era tutto da una parte. Nelle nostre poliarchie, come le chiamerebbe un celeberrimo scienziato della politica, ameri-cano, Robert Dahl, il potere è teoricamente contendibile. Teori-camente, perché in realtà, soprattutto in epoca neo-liberista, si sono stratificate strutture di potere che ricordano molto l'antico regime e non hanno niente a che fare con il liberalismo, infatti quando sul Corriere della Sera certi soloni, in prima pagina, ci educano e ci ammansiscono sul liberalismo - avete sentito pri-ma - che "noi siamo contrari allo spirito liberale" mi viene da ridere se non fosse invece una questione maledettamente seria e anche un po' tragica che ci dice molto dell'idea e della visione delle classi dirigenti.

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Allora il problema è la conquista dell'autorevolezza, credo che valga anche all'interno del PD, che valga all'interno di tutte le organizzazioni complesse. Roberta Pavarini prima diceva una cosa molto interessante e diceva - è una questione decisiva - che bisogna convincere la signora Maria. Per convincere la signora Maria, naturalmente, bisogna ridurre il più possibile certi angli-cismi che vanno molto, appunto, all'interno di circoli ristretti, o magari all'interno della Bocconi, però io penso che ci si debba riappropriare - lo dico con tutto l'affetto per la Bocconi, sia ben chiaro, non c'è davvero nessun intento polemico, sarebbe me-glio che la Bocconi fosse più pluralista ma questo è un altro tipo di ragionamento, perché noi amiamo davvero il pluralismo - ma occorre reintrodurre un elemento di pedagogia, quella roba che fa incazzare e fa venire la mosca al naso al Corriere della Sera. C'è bisogno di pedagogia. Credo che questa sia una parola, ma-gari possiamo inventarci dei sinonimi, perché questo è l'unico paese - come sapete - in cui utilizzare la parola 'pedagogia' fa innervosire le classi dirigenti. Il che è un paradosso perché il nostro paese si è costruito per via militare, come sapete, con un grandissimo, straordinario e ineguagliabile ministro della pub-blica istruzione, che si chiamava Francesco De Sanctis, che fece delle cose pazzesche - che raccontiamo nel libro - come chiama-re dalle Fiandre un signore che si chiamava Jacob Moleschott, che la Chiesa aveva scomunicato, e che sosteneva una visione del corpo umano terribilmente materialista, assolutamente fisiolo-gica, e che lui chiamò sulla prima cattedra di medicina dell'Uni-versità La Sapienza. Con un'idea di sapere pubblico elitario, na-turalmente, ma molto forte, molto strutturata e all'insegna di un progetto. Allora la riconquista dell'autorevolezza è esattamente quello che ci dobbiamo porre come tema, insieme all'idea che le minoranze devono continuare; dovrebbero essere messe nelle

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condizioni di svolgere il loro lavoro da un sistema, appunto, po-liarchico e liberale. Se questa cosa non accade, non devono mai dismettere il loro ruolo, non devono mai abbassare la guardia, non devono pensare di essere predicatori nel deserto. Quello che dobbiamo cercare di fare è inventarci una pedagogia declinata all'insegna di questi temi. Perché io continuo a nutrire dei dubbi fortissimi sul fatto che distruggere il principio di competenza, dire che siamo tutti uguali, io non amo per niente Baricco, ma non credo che sia sufficiente mettere un post e che Baricco è una testa di cazzo e non è in grado di scrivere, perché scrivere è un lavoro, significa leggere tanti libri, significa esercitarsi nella scrittura. Ho dei forti dubbi nell'esistenza del fuoco sacro e del furore sacro del genio, tranne che per un paio di persone, una di queste era Shakespeare, e credo sia difficile, per tanti troll che popolano la Rete, uguagliarlo.

Ecco, noi dovremmo rimettere al centro del nostro ragiona-mento il principio di competenza, il fatto che le competenze si conquistano con la fatica, studiando, facendosi il mazzo, pas-sando delle giornate, magari anche in casa, e non solamente in piscina, altrimenti entriamo in un trip da cui non si esce.

L'orizzontalità, che è un principio importante, non può arri-vare al livello di una distruzione completa, per l'appunto, dell'i-dea che ci sono dei saperi che vanno coltivati, che c'è una peda-gogia che si conquista anche con lo sforzo, altrimenti entriamo in un buco da cui non usciamo. E mi permetto di dire una cosa, forse non particolarmente popolare: io penso che all'interno del vasto arcipelago del Movimento 5 Stelle ci siano tante persone per bene, tante persone capaci, che ci siano molte persone delu-se, ma io credo che una parte del grillismo non sia concepibile se non all'interno di un ragionamento berlusconiano. Le cose un po' si tengono, il mio liberismo e il populismo hanno degli

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elementi di contatto evidenti, degli elementi strettissimi. Il po-pulismo fa sempre il lavoro sporco per il neo-liberismo perché se sono tutti corrotti, se la politica è sempre merda, se quelli che fanno politica sono lì unicamente per arricchirsi, e soprattutto se continuamente qualcuno potrà alzarsi e dire, dopo aver mes-so 'mi piace' o dopo aver cliccato, perché c'è lui al posto mio, en-treremo davvero in una situazione in cui non se ne esce, ed è per questo che minoranze motivate, attive, virtuose, attente al bene comune, in grado interpretare, con senso di responsabilità, il proprio ruolo, sono indispensabili. Sono indispensabili per spo-stare le posizioni della maggioranza, e per evitare che si getti il bambino con l'acqua sporca. Allora, la pedagogia, secondo me, è un elemento essenziale. Sapete, quella cosa - come dire - molto elefantiaca, un po' da Leviatano che era il Partito Comunista, che aveva tantissimi difetti e non era particolarmente liberale, questa idea ce l'aveva ben chiara. E tra i tanti difetti che ha avu-to, ha avuto il merito, secondo me indiscutibile, - merito che ha avuto anche la sinistra democristiana e che hanno avuto altre culture che, naturalmente, il Corriere della Sera giudichereb-be terribilmente illiberali - di aver aiutato le masse; masse che ora stanno in situazione di disgregazione pazzesca, a tal punto che - come dire - quella che era considerata l'alternativa sociale alle masse, cioè i ceti medi, le classi medie sono state desertifi-cate dalla rivoluzione neo-liberista, non a caso. Mentre invee [la pedagogia liberale] c'insegna che dovremmo diventare tutti ceto medio: ceto medio illuminato, ceto medio colto, ceto medio consapevole, soprattutto. In questo modo eleveremmo anche il livello economico della nostra nazione e torneremmo ad essere una potenza industriale - checché ne dica il Corriere della Sera che non ha nessuna intenzione di coltivare questo progetto e preferisce finanziarizzare - ma per farlo dobbiamo darci degli

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strumenti, dobbiamo cercare di convincere ed effettuare un'o-pera di persuasione nei confronti degli altri. Questa cosa la fan-no davvero le minoranze; l'hanno fatta le minoranze del partito Comunista, l'hanno fatte le minoranze all'interno della sinistra democristiana, l'hanno fatto tantissimi liberali laici che noi cerchiamo di raccontare. Bisogna cercare di proseguire questo progetto magari anche rileggendo la Storia, che non è magistra vitae, banalmente, ma che, quanto meno, ci consentirebbe di evitare alcuni errori. Grazie mille.

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Elogio delle minoranzePrefazione: Un'Italia incompiuta

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Un’Italia incompiutadi Franco Motta e Massimiliano Panarari

Italia terra di santi, poeti, navigatori... E minoranze, che han-no pensato e realizzato un modo diverso di vivere la religione, la scienza, l’economia, la politica, le relazioni sociali: a tal punto, a giudizio di chi scrive, che l’affermazione maggioritaria delle loro tesi ci avrebbe resi una nazione compiutamente moderna e civile. Ovvero, quel paese normale di cui spesso (e correttamen-te) si sente lamentare la mancanza dalle nostre parti, e che da qualche tempo a questa parte occupa una porzione significativa del dibattito politico e culturale.

Come insegnano i manuali di metodologia storica e delle scienze sociali si deve, naturalmente, partire dalle definizioni.

E, dunque, che cos’è una minoranza? Un gruppo articolato e composito di individui uniti da un’identità culturale comu-ne, che può esprimere la volontà di operare in funzione di un progetto di ordinamento sociale alternativo a quello dominante o prevalente1. Questa è una delle diverse possibili accezioni di minoranza contemplate dalle social sciences, ed è quella che farà da filo rosso alle narrazioni che seguono. L’abbiamo prescelta perché la lettura che questo volume propone individua nell’im-pegno politico-civile e culturale di alcuni soggetti collettivi del-

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la storia italiana una serie di disegni di riforma della società che avrebbero consentito, qualora vittoriosi, di modernizzare con forza il paese, allineandolo alle esperienze dell’Occidente più avanzato.

Con modernizzazione intendiamo la costruzione di assetti sociali e contesti culturali riconducibili alla nozione popperiana di open society, al criterio della libertà di coscienza e di scelta (che nella contemporaneità si traduce nel liberalismo dei diritti civili), alla riduzione delle diseguaglianze e all’ampliamento dei settori centrali della società (anche nei termini della fluidità del-la mobilità sociale, così carente in Italia), alla circolazione delle idee e all’affrancamento dai dogmatismi dei pensieri unici di vario orientamento, al ricambio delle élite dirigenti.

Da questo punto di vista, ‘minoranza’ ed élite per noi varran-no, il più delle volte, come sinonimi.

La storia, è inutile nascondersi dietro un dito o negare l’evi-denza, pullula di élite, siano esse consapevoli oppure no. Élite che è dato ritrovare anche nelle circostanze e nei frangenti po-litici più (apparentemente) insospettabili. A questa categoria, ad esempio, apparteneva il partito bolscevico, avanguardia del proletariato, che si fece protagonista della rivoluzione del 1917; lo stesso dicasi per le dirigenze dei vari partiti comunisti oppure per le cosiddette aristocrazie operaie all’interno dei movimenti sindacali del XIX e del XX secolo. Esistono élite ovunque si dia-no una società politica e una società civile.

Il punto è un altro, e rimanda al ruolo che esse svolgono all’in-terno della dinamica sociale e culturale. E, dunque, ci sono, du-ramente in lotta tra loro, élite positive portatrici di visioni di progresso ed élite regressive, garanti di equilibri di potere di lunga durata; sono queste ultime ad avere forgiato la mentalità e molte delle strutture di questo paese nei termini di un Ancien

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régime che, senza soluzione di continuità, ha attraversato molti secoli, e tuttora dispiega i suoi effetti. Questa interpretazione di-stingue, così, tra un elitismo opportuno e vantaggioso per la co-munità e il sistema-paese, e un elitarismo reazionario che mira a impedire progresso collettivo e promozione sociale, bloccando qualsiasi ricambio negli ambiti di governo della società.

Quante sono le minoranze? Almeno quante le maggioranze, ma, in genere, molte di più. Percorse, il più delle volte, da pro- getti che le accomunano; ragione per la quale abbiamo proce-duto, anche forzando un po’ (com’è nella natura dei saggi che intendono provocare il lettore), a ricomprendere minoranze non perfettamente assimilabili sotto un profilo storiografico, riconducendole alla stessa famiglia di opinioni. E, soprattutto, giustapponendole all’interno della categoria comune di moder-nizzazione – declinata nei termini precedentemente illustrati – lungo i secoli della storia dell’Italia moderna e contemporanea.

Riteniamo che un intero patrimonio di intuizioni, visioni, idee per modificare in termini positivi questo nostro paese (ov-vero, per riformarlo, restituendo a questa parola il giusto signi-ficato usurpato da legioni di controriformisti di epoche diverse) possa essere significativamente ritrovato già nelle elaborazioni e nelle azioni delle minoranze che affollano queste pagine, senza avere, malauguratamente, popolato con analoga intensità le cro-nache e le vicende della nostra penisola.

Sono minoranze che hanno lasciato orme fondamentali, che vale la pena riportare alla luce sotto il giusto angolo visuale, valorizzandole appieno. Perché, ne siamo ben consapevoli, e lungi da noi la benché minima volontà di peccare di hybris, in-tere biblioteche sono state scritte sulle vicende di ciascuno dei gruppi qui raccontati, ma, giustappunto, è la cifra ermeneutica a risultare differente. La nostra operazione, augurandoci che si

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possa considerare almeno in parte profittevole, è quella non di aggiungere alcunché alla rigorosa ricerca storiografica finora svolta, ma di riscoprire le energie fondative di quella che sarebbe potuta essere un’altra Italia.

Un’Italia di eccezionale qualità, ma incompiuta, perché non vi è dubbio che la vittoria non abbia arriso alle forze che cerca- vano di generarla. Anzi, queste ultime, le minoranze descritte nelle pagine che seguono – e certamente tante altre che vi sono assenti per mere ragioni di spazio – non soltanto hanno assistito in vita alla dissoluzione dei loro progetti, ma sono state anche oggetto di dimenticanza o di damnatio memoriae, sottratte al patrimonio condiviso dell’identità italiana contemporanea. In controluce, questo libro può anche essere letto come un saggio sulla lotta politica e culturale nel nostro paese, sui modi con cui è stata condotta e sui risultati cui ha portato.

E, come una constatazione, quanto più realistica possibile, delle tante, troppe battute d’arresto subite dal progresso civile in Italia e dalle minoranze che ne sono state interpreti.

All’alba dell’età moderna l’Italia era, come noto, una realtà (o un insieme di realtà) all’avanguardia sotto molti punti di vista, da quello amministrativo a quello più generalmente culturale. In buona sostanza, era alla testa di parecchi dei processi di mo-dernizzazione del Vecchio continente.

L’Umanesimo e il Rinascimento, tuttavia, rappresentarono il canto del cigno di una straordinaria stagione di espansione e rinnovamento che durava da qualche secolo. Da allora non si uscì più a riveder le stelle. Il processo di decadenza e, quindi, di stagnazione complessiva divenne una sorta di costante nella sto-ria della penisola dal XVI secolo circa, con tempi differenziati in ciascun ambito della vita sociale. E viziò a tal punto gli anni e le vicende a venire da produrre quell’anomalia italiana che ci

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trasciniamo come un fardello secolare.Un’eredità pesantissima, che ci impedisce di essere quel “pa-

ese normale”, frutto di una rivoluzione liberale, che è la con-dizione consueta del resto dell’Occidente. La cronaca di questi ultimissimi decenni e, in particolare, del cosiddetto ventennio berlusconiano, fino ai balletti dello spread, può venir letta, a no-stro parere, come il precipitato di una vicenda intessuta di per-manenze, residualità, atavismi sempre attivi. E la loro origine va per l’appunto rintracciata, a parer nostro, nella lunga durata conservatrice e nelle spinte anti-moderniste impresse alla sto-ria nazionale dalle élite “maggioritarie” che l’hanno orientata. E che hanno costruito quel ponte che, quasi senza soluzione di continuità, conduce dall’Antico regime pre-moderno a quello postmoderno nel pieno del suo splendore, fino all’attuale con-giuntura di (temporaneo?) ritiro della politique politicienne e di governo dei tecnici.

Unici contrappunti a questa neverending story quelle élite “minoritarie” che continuarono, talvolta anche all’elevatissimo prezzo dell’emarginazione, se non direttamente della vita, a pro-muovere progetti alternativi di società ed economia e un’idea di progresso e modernità.

Dalla tempra civile, dalla vigoria intellettuale e dalle quali-tà di leadership delle élite dipende precisamente lo stato di sa-lute di un paese (ma anche, attualmente, del mondo globale). Esattamente quanto posseduto dalle minoranze qui passate in rassegna, le quali, per giunta, erano spesso titolari di progetti più all’avanguardia di quanto fosse dato vedere nell’Europa del loro tempo. A caratterizzare queste minoranze positive, difatti, era proprio lo sguardo lungo, oltre i confini nazionali, e talvol-ta compiutamente cosmopolitico: l’antitesi di tanto strapaese e provincialismo che contraddistinguono il DNA di gran parte

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delle élite “maggioritarie” regressive.Questo non significa che le minoranze che raccontiamo fos-

sero fatte di “anti-italiani” – come non lo erano, ovviamente, di “arci-italiani”. Piuttosto si trattò di italiani di un genere diffe-rente – una differenza spesso rivendicata con orgoglio, ma vor-remmo dire mai con arroganza o senso di superiorità – che si trovarono a non essere capiti dalla maggioranza dei loro, nostri connazionali, e a volte a esserne rifiutati, quando non aperta-mente combattuti (anche con le armi, come si vedrà nelle pagine seguenti).

Furono esponenti di un’altra Italia, senza dubbio più vicina ai modelli sociali e culturali che risultarono vincenti in buona parte dell’Occidente sviluppato – il consesso politico e culturale per noi naturale e ovvio nel quale, recentemente, alcuni segnali sembrano dirci che stiamo rientrando a pieno titolo.

Le minoranze italiane infatti ebbero la capacità di recepire da subito le suggestioni provenienti dal mondo che stava oltre le Alpi, ma sempre interpretandole con intelligenza e coraggio, cercando soluzioni alternative ai medesimi problemi, sforzan-dosi di adattarle alle condizioni, spesso ostili, del loro paese, e soprattutto restituendo all’Occidente, a loro volta, nuove sugge-stioni e nuovi orizzonti di pensiero.

Se si vogliono trovare tratti comuni alle esperienze che se-guono si può anzitutto ritenere che esse condivisero, ciascuna a suo modo, un atteggiamento mentale critico, consapevole, ma sempre distinto dal pragmatismo e dall’anti-dogmatismo.

Se le élite maggioritarie fecero dello scontro, dell’opzione di-cotomica, dell’intolleranza la loro cifra, oltre che la loro arma vincente, le élite progressive si distinsero per una generale as-senza di atteggiamenti rigidi e preclusivi: un tratto distintivo positivo, per taluni versi, e, tuttavia, al tempo stesso, anche un

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elemento di debolezza, laddove impedì di condurre fino in fon-do battaglie durissime e di conquistare consensi presso mag-gioranze sempre esposte alla forza d’attrazione del capro espia-torio. Il pensiero critico, banalmente, non cresce in fretta, ma richiede attenzione, educazione, tempi lunghi: condizioni che regolarmente erano merce troppo rara nelle congiunture stori-che qui esaminate.

La necessità dell’azione pedagogica e la coscienza del fatto che mutare le strutture mentali di un paese richiede un imponente sforzo di educazione non mancarono mai alle nostre élite.

Nessuna di esse rifiutò mai il contatto con le masse, anzi lo cercò programmaticamente, nel linguaggio e negli atteggia-menti: quasi mai ricorrendo alla demagogia – che è invece re-gistro intimamente reazionario in quanto rifiuta le masse come soggetto autonomo e passibile di mutamento –, ma sforzandosi sempre di portare alla luce le contraddizioni come elemento di crescita.

Alcune riuscirono a realizzarlo, quel contatto, e dovettero ce-dere soltanto di fronte alla violenza conclamata della repressione o a quella silenziosa del controllo delle coscienze; altre fallirono nel tentativo, non si fecero mai capire dalle masse e a volte non le capirono, e comunque in tali casi non fu la volontà a mancare loro, semmai la corretta comprensione degli strumenti.

Tutte queste minoranze, si potrebbe dire parafrasando Kant, si sforzarono di far uscire le maggioranze dal loro stato di mi-norità. Se un peccato può essere ascritto loro, questo è probabil-mente l’eccesso di fiducia nella virtù e nell’opera di redenzione delle ragioni della giustizia.

Insomma, i gruppi organizzati descritti nelle pagine che se-guono manifestarono, seppure con sfumature e approcci diversi (dettati anche, come naturale, dai contesti del loro agire e ope-

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rare), un’attitudine che oggi definiremmo problem solving, che risulta tanto più evidente se confrontata con l’intransigenza su presunte Weltanschauungen non negoziabili, la quale consentì alle minoranze regressive, dai famigli dell’Inquisizione fino agli squadristi del 1922, di tenere la presa sulle masse e di vincere lotte all’ultimo sangue per la conservazione del potere.

A perdere, insomma, furono gruppi virtuosi, talora conno-tati da una «vocazione minoritaria»2, e talvolta, invece, da una diretta aspirazione maggioritaria, ma sempre molto, davvero molto, più pragmatici dei loro competitor, cioè dotati di apparati valoriali più elastici e, altro aspetto assai significativo, alquanto meno ideologici e conchiusi.

Storicamente essi furono inclini ad abbracciare e a sostenere (indubbiamente anche per ragioni di realismo politico) la strada delle riforme più che quella della rivoluzione – la quale, quando anche (e specialmente se) liberale, non si è mai veramente aperta una via sul suolo italico. D’altronde – di questo siamo persuasi – in un paese complicato come il nostro ogni seria riforma as-sume caratteri rivoluzionari.

Fortunato è il paese che non ha bisogno di eroi, diceva Ber-tolt Brecht in una delle sue massime più famose e ripetute. Noi italiani ne abbiamo avuto – e continuiamo ad averne – bisogno, il che non è sicuramente sintomo di un diffuso benessere civile.

Eroiche, le nostre minoranze, spesso lo furono, e questo è un altro dei tratti che ne compongono un possibile profilo comune. In tutti i casi il loro eroismo fu subìto, mai cercato. Dell’eroismo ebbero l’etica, non certo l’estetica che invece compete a tutti co-loro che hanno sfiducia nell’individuo autonomo e ritengono che solo la grazia soprannaturale e i suoi derivati secolari possa-no infondere dignità all’uomo.

L’etica eroica delle élite che descriviamo derivò loro dal corag-

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gio di scelte difficili, isolate, e dalla coerenza con cui tali scelte furono rese concreto impegno di lotta. Un eroismo che, in più di un caso, seppe mirabilmente oltrepassare la canonica dicotomia tra l’etica della convinzione e quella della responsabilità e che fu suggellato dalla sconfitta, dalla marginalizzazione, talvolta anche dalla morte, senza rivelarsi mai fine a se stesso né esito di alcun ideale di distinzione. Fra le nostre élite si possono trovare molti martiri, e di certo, però, nessuno dei loro componenti può essere ascritto alla categoria dei santi.

Da quanto detto sinora potrebbe sembrare che, a nostro pare- re, l’Italia non abbia mai conosciuto la modernità. È un’impres-sione vera e falsa al tempo stesso, e in quanto tale da spiegare.

Che il nostro sia un paese moderno in senso sociologico è fuo-ri di dubbio: statistiche di importante rilevanza lo segnalano, da quelle sui comportamenti individuali (l’aumento dei matrimoni civili e dei divorzi, delle coppie di fatto, delle adesioni a religioni non tradizionali, o la regressione del pregiudizio anti-omoses-suale, pur nella persistenza di preoccupanti sacche d’intolleran-za, ad esempio) a quelle sui consumi (nuove tecnologie, alimenti biologici, domanda di cultura e spettacolo e molto altro). Basta questo per conferire un segno progressista alle dinamiche che muovono una società? In verità no.

I gusti e i comportamenti dei singoli, se non affiorano da un tessuto connettivo che dia loro coerenza e li trasformi in pro-getto politico e culturale, restano impulsi frammentari, discon-tinui, distaccati da qualsiasi idea di bene comune come bene pubblico. E in quanto tali non restano che segnali che possono coesistere con altri di segno opposto, regressivo, quali se ne con-tano copiosi nell’Italia contemporanea, dai localismi xenofobi alla parossistica ossessione per gli status symbol, fino al ritorno in scena delle identità religiose “forti”.

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Quella italiana è stata insomma, fino a oggi, frequentemen-te una «modernizzazione senza sviluppo», come l’ha definita Giulio Sapelli: senza intellettuali che l’abbiano guidata, senza un popolo che l’abbia interpretata, senza modelli che l’abbiano diretta3.

Il trionfo di un “paradigma piccolo-borghese” ostinatamente privo di dimensione civile e incapace di pensarsi in una proie-zione di profondità temporale. La tutela gelosa dell’esistente è l’occupazione che nel nostro paese continua ad assorbire consi-stenti quote di energie.

Elencare le persistenze anti-moderne del carattere di noi italiani è un’attività che può contare su illustri esponenti. Dal familismo amorale al primato del privilegio sul diritto, dalla diffidenza verso la pratica della virtù all’opzione in favore del vantaggio immediato a scapito dell’interesse razionale, gli ele-menti della backward society descritti da Edward Banield nel 1958 appaiono ancora perfettamente operativi.

Sosteneva Leopardi nel suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani (scritto nel 1824, ma pubblicato solo nel 1906) che la causa di fondo dell’inciviltà italiana consiste-va nell’assenza di società, ovvero nel mancato sviluppo di quel senso di condivisione e di appartenenza a una comunità di liberi ed eguali dal quale germogliano i sentimenti dell’onore e della vergogna: «Le altre nazioni civili [...] hanno un principio con-servatore della morale e quindi della società, che benché paia minimo, e quasi vile rispetto ai grandi principii morali e d’illu-sione che si sono perduti, pure è d’un grandissimo effetto. Que-sto principio è la società stessa»4.

Nelle «nazioni civili», per Leopardi, agivano le élite, ossia co-loro che, dispensati dalla fatica del soddisfacimento dei «bisogni primi» potevano dedicarsi alle occupazioni intellettuali, i «biso-

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gni secondi», dando così tono alla vita collettiva e trattenendola dalla perenne minaccia della dissoluzione. Il poeta la definiva «società stretta»: «Per mezzo di quella società più stretta, le cit-tà e le nazioni intiere, e in questi ultimi tempi massimamente l’aggregato eziandio di più nazioni civili, divengono quasi una famiglia, riunita insieme per trovare nelle relazioni più strette e più frequenti che nascono da tale quasi domestica unione, una occupazione, un pascolo, un trattenimento alla vita di quelli, che senza ciò menerebbero il tempo affatto vuoto, e tali sono, rigorosamente parlando, tutti gli uomini»5.

Il ruolo storico delle minoranze – Leopardi, va ricordato, scri-ve appena trent’anni dopo gli ultimi lampi dell’Illuminismo, e il suo canone intellettuale discende direttamente da quella tempe-rie – era consistito nel dare un significato all’interesse collettivo, nel praticare l’uso della ragione, nell’affinare i costumi alla virtù e alla sociabilità civile.

In Italia esse non avevano fallito quel ruolo: semplicemente, l’avevano ignorato, con un esito fatto di indolenza e di apatia ge-neralizzate che prendevano la forma del più corrosivo scettici-smo verso l’idea stessa del bene pubblico: «L’opinione pubblica, per la mancanza di società stretta, pochissimo giova favorevole e pochissimo nuoce contraria, e la gente per quanta ragione abbia di dir male o bene di uno, di pensarne bene o male, prestissimo si stanca dell’uno e dell’altro; si dimentica affatto delle ragioni che aveva di far questo o quello, benché certissime e grandissi-me, e torna a parlare e pensare di quella tal persona con perfetta indifferenza, e come d’una dell’altre»6.

Nell’indifferenza verso i torti e le ragioni, e dunque verso il giusto e l’ingiusto, sprofondava il terreno su cui puntellare an-che le prime fondamenta del progresso civile, mentre si ripro-ducevano all’infinito le strutture mentali in cui allignavano il

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privilegio e la subalternità: «Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico de’ popolacci»7.

Quella che veniva soffocata, in una parola, era l’etica, sbeffeg-giata da trasformismi e gattopardismi, consociativismi e oppor-tunismi. Quell’etica che invece stava al cuore delle elaborazioni e delle pratiche delle minoranze virtuose, portatrici e stakehol-ders dell’utopia possibile e realizzabile, quella della discontinu-ità, ferocemente e durissimamente avversata dai custodi delle longues durées conservatrici e reazionarie d’Italia. Sarebbe scor-retto, oltre che antistorico, proiettare sull’Italia contemporanea i caratteri della società della Restaurazione che Leopardi aveva davanti a sé. Ciò detto, è innegabile che questa diagnosi conser-vi ancora un timbro che ci suona amaramente familiare.

Secondo molti, la specificità italiana avrebbe uno spessore an-tropologico, cioè si concretizzerebbe in una forma mentis cri-stallizzata al punto da dirigere come un automatismo culturale i comportamenti, i discorsi e le stesse coordinate del pensiero.

Pasolini, come noto, fu il primo a inquadrare in quei termini il mutamento dei gusti e dei linguaggi popolari cui assisteva ne-gli anni del boom economico.

Un giudizio di questo tipo riteniamo vada ripensato. E, allo-ra, se ogni costante culturale di lungo periodo informa, di per sé, il modo stesso di percepire la realtà, dando senso, entro certi termini, ai ragionamenti intorno alle componenti di una poten-ziale “antropologia” degli italiani, non crediamo per nulla a ipo-stasi e astrazioni come il “carattere nazionale” che ci condanne-rebbero per sempre a recitare, in maniera iterativa, solo riveduta e corretta secondo lo spirito dei tempi, una parte immutabile nella commedia degli eventi.

Non si dà un codice genetico biologisticamente immutabile

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di una popolazione, ma lunghe durate storiche e permanenze culturali che si sedimentano e si consolidano, orientando usi e costumi, concezioni e comportamenti: e se esse si sono potute sedimentare nel tempo la ragione va ricercata nel fatto che non hanno mai trovato correttivi sufficientemente forti, capaci di in-staurare equilibri diversi, analoghi a quelli che si riscontrano in altri paesi.

Una peculiarità italiana si dà, certo; ma essa è piuttosto il frutto di precise vicende storiche, di conflitti e pacificazioni che il nostro paese, unito da soli centocinquanta anni, e percorso, anche nelle sue vicende recenti, da contrapposizioni che è dif-ficile ritrovare altrove nel mondo occidentale, sconta ancora in termini brucianti.

Di qui i peccati originali dell’italianità, a partire dal confor-mismo e dall’estrema debolezza – purtroppo sempre più eviden-te – dell’idea di interesse pubblico, il cui contraltare sta nell’e-terno predominio del tornaconto individuale – il «particulare» guicciardiniano –, una costante che negli ultimi anni è diventa-ta davvero dirompente per virulenza nei confronti della stessa tenuta complessiva della comunità nazionale.

Se noi italiani siamo quello che siamo, in altri termini, lo dob-biamo alla storia e non a qualche preteso “spirito delle nazioni”; la storia degli ultimi secoli e quella degli ultimi decenni, che si intrecciano in uno stupefacente intrico di rimandi e analogie nel quale è possibile individuare alcuni elementi che si ripresen-tano con insistenza.

Il più macroscopico, a nostro parere, è l’assenza dello Sta-to quale sintesi degli interessi dei corpi intermedi e cornice di sviluppo delle opportunità dell’individuo. Lo Stato, in Italia, malgrado la statura della Costituzione repubblicana e gli sforzi realizzati nel darle sostanza di democrazia – dalla riforma del

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diritto di famiglia a quella del codice penale –, si è sempre di-mostrato argine troppo fragile verso gli interessi dei gruppi e delle corporazioni e quindi, di converso, cattivo tutore dei dirit-ti di eguaglianza dei cittadini.

Le ragioni di questa mancata maturazione storica dell’istanza statale sono molteplici. Probabilmente una tra le più incisive è la presenza della Chiesa romana – non certo del cattolicesimo (non ci dovrebbe essere neppure bisogno di ribadirlo), ma della Chiesa come istituzione sovrana dotata di un proprio autonomo potere politico ed economico –, la quale, per sua natura, ante-pone il proprio diritto a quello dello Stato e privilegia l’ossequio alla morale rispetto all’osservanza della legge.

Senza dubbio si tratta di una presenza consolidata nei secoli, se la dinamica appariva chiara a un religioso eretico come Pao-lo Sarpi nel 1623 in termini sorprendentemente attuali: «Veggo con molto despiacere un’infinità de libri, quali affermano che non sia peccato fraudar li dazi, che il governo civile sia opera profana e non grata a Dio, che la disubidienza al principe non sia peccato, né soggietta ad altra pena che alla temporale, con infinite altre tal massime, le quali mi rendono incapace come sia possibile ben governar persone impresse di queste opinioni»8.

Beninteso, non si può imputare alla Chiesa cattolica di agire secondo logiche che si sono sedimentate nella sua tormentata storia e che difficilmente sarebbero separabili dal suo complessi-vo profilo religioso. Certo è che la sua tradizionale diffidenza nei confronti dell’individuo quale portatore di diritti e di istanze di libertà e di autodeterminazione, la sua visione sociale fondata sulla centralità della famiglia e della comunità, la sua sostanzia-le indifferenza verso la legge civile in quanto norma che regola le azioni reciproche tra i cittadini e non incide sulla salvezza dell’anima, hanno informato in profondità il modo peculiar-

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mente italiano di concepire la convivenza e l’interesse comune.A rigor di termini, per la verità, bisognerebbe sempre ricorda-

re che la Chiesa, l’ekklésia, è l’insieme dei cristiani e non un ente sovraordinato che li trascende: ma la storia del nostro paese ci ha resi poco familiari a una concezione simile.

Non soltanto la Chiesa, però. Storicamente, lo Stato moderno è stato opera di un determinato attore sociale, quello che la so-ciologia definisce ceto medio.

Lo Stato è nato contro le aristocrazie, contro le corporazioni, contro le confessioni: ma in Italia è stato piuttosto curatore degli interessi di tutte queste, contro il proprio stesso interesse, che è quello dei cittadini nella loro singolarità, e questo è dovuto anche al fatto che la borghesia italiana non ha mai realmente interpretato, né in larga parte conosciuto, questa vocazione che invece è stata fatta propria da altre borghesie europee.

Una parte della borghesia italiana ha finito per prendere a modello l’identità sociale dell’aristocrazia, che è fondata sul pri-vilegio anziché sul diritto; ha scelto la via della chiusura corpo-rativa e delle sue tutele anziché quella della competizione del merito; è stata ligiamente cattolica, forse più per timore verso ogni principio di eversione dell’ordine che per intima convin-zione religiosa. Ha usato lo Stato come argine verso le rivendi-cazioni dal basso, provenienti dalla classe operaia, invece che come strumento capace di assorbirle entro il perimetro dell’in-teresse collettivo.

Dell’istinto di chiusura di un pezzo di borghesia nazionale, il fascismo è stata la massima espressione storica. Non perché esso abbia monopolizzato il riflesso di reazione verso le richieste di giustizia, ma semplicemente perché si dimostrò il più forte sul calcato proscenio di attori sociali intenti, ciascuno a suo modo, a perseguire il proprio interesse corporativo come minoranza

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di conservazione. «In Italia – scriveva Piero Gobetti nel 1923 –, dove le condizioni sia economiche che politiche sono singolar-mente immature, le classi e gli uomini interessati a una pratica liberale devono accontentarsi di essere una minoranza e di pre-parare al paese un avvenire migliore con un’opposizione orga-nizzata e combattiva. Bisogna convincersi che non erano e non potevano essere, come non sono, liberali i nazionalisti e i side-rurgici, interessati al parassitismo dei padroni, né i riformisti che combattevano per il parassitismo dei servi, né gli agricol-tori latifondisti che vogliono il dazio sul grano per speculare su una cultura estensiva di rapina, né i socialisti pronti a sacrificare la libertà di opporsi alle classi dominanti per un sussidio dato alle loro cooperative. Poiché il liberalismo non è indifferenza né astensione ci aspettiamo che per il futuro i liberali, individuati i loro nemici eterni, si apprestino a combatterli implacabilmen-te»9.

Sono state proprio le minoranze (comprese quelle interne alle grandi culture politiche maggioritarie, come nel caso, nel se-condo dopoguerra, di alcune correnti democristiane, comuni-ste e socialiste) a definire in ogni epoca le visioni e i progetti di modernizzazione della nazione. Non potevano che essere loro gli agenti del cambiamento, in quanto anticonformiste e pronte a sfidare gli unanimismi, e non timorose, ma anzi impegnate nel conflitto.

Il conflitto è motore di sviluppo, e come tale crediamo che debba essere riconosciuto: conflitto anche duro, naturalmente, ma sempre corretto, “gentile”, dotato di quell’attributo di mi-tezza che ha indicato Norberto Bobbio e che si fa vera e propria virtù laica quando respinge la passività dell’accettazione e della rinuncia cui sembriamo ormai abituati10.

Un conflitto da praticare con fermezza, e in maniera condi-

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visa, superando quel male novecentesco della delegittimazione del nemico ontologicamente assoluto. Che deve, invece, essere oggetto di riconoscimento e visto nei termini di avversario poli-tico, all’insegna di un processo di addestramento alla democra-zia del quale tutti noi italiani abbiamo, in definitiva, seppure in percentuali differenti, un qualche bisogno. Se non una dramma-tica necessità. E di cui, con le loro storie personali di avversati e ostracizzati, tanti dei componenti delle nostre minoranze civi-che sono stati diretti testimoni.

Piero Ignazi, in un articolo sul «Mulino», invocava la necessi-tà (ed esprimeva la speranza) che all’indomani di una fase sto-rica nella quale il nostro paese ha perso punti di dignità (oltre che di spread) agli occhi di un’opinione pubblica europea sem-pre meno disposta a transigere, finisse per prevalere la triade «razionalità, pensiero critico, pragmatismo»11. Questa laicissima trinità non è stata soltanto il terreno d’elezione sul quale, altro-ve, hanno vinto le rivoluzioni liberali, ma ha anche segnato le traiettorie delle minoranze qui raccontate.

Minoranze sconfitte, l’abbiamo già detto, ma estremamente provvidenziali. Minoranze schiacciate, ma, per ricorrere alle parole dell’immortale Ennio Flaiano, anche, indiscutibilmente e onorevolmente, «schiaccianti minoranze» che ci hanno resi, almeno un po’, migliori.

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Un’Italia incompiuta (note al testo)

1 Vedi ad esempio la definizione in Dizionario di politica, a cura di Norberto Bobbio,

Nicola Matteucci, Gianfranco Pasquino, Torino, Utet, 1983.

2 Goffredo Fofi, La vocazione minoritaria, a cura di Oreste Pivetta, Roma-Bari, La-

terza, 2009.

3 Giulio Sapelli, Modernizzazione senza sviluppo. Il capitalismo secondo Pasolini,

Milano, Bruno Mondadori, 2005.

4 Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, qui in

Id., Franco Cordero, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani. Seguito dai

pensieri d’un italiano d’oggi, Torino, Bollati Boringhieri, 2011, pp. 9-48.

5 Ibid., p. 15.

6 Ibid., p. 22.

7 Ibid., p. 29.

8 Paolo Sarpi, Sopra una bolla pontiicia in materia delli eretici abitanti in Italia, in

Lettere a gallicani e protestanti. Dalla Relazione dello stato della religione. Trattato delle

materie beneficiarie, a cura di G. e L. Cozzi, Torino, Einaudi, 1978, pp. 1220-1223, qui

1223.

9 Piero Gobetti, La Rivoluzione Liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, a cura di

Ersilia Alessandrone Perona, Torino, Einaudi, 1995, p. 51.

10 Norberto Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Torino, Einaudi, 1994.

Ma vedi anche Miguel Benasayag, Ripensare il conflitto, in «Micromega», 8, 2011, pp.

104-106.

11 Piero Ignazi, Vent’anni dopo, in «il Mulino», 6, 2011.

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Testi in appendice

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Massimiliano PanarariFranco Motta

Sono le minoranze il sale della democrazia

La Stampa, 25 giugno 2012

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Dai galileisti del '600 ai giacobini del '700 ai socialisti riformisti dell'800 alle varie famiglie del liberalismo progressivo del '900: in un libro di Panarari e Motta le occasioni mancate dell'Italia

Si intitola 'Elogio delle minoranze', sottotitolo 'Le occasioni man-cate dell’Italia', il libro di Massimiliano Panarari e Franco Motta in uscita per Marsilio (pp. 221), di cui anticipiamo qui uno stralcio della postilla conclusiva. Il volume è un viaggio attraverso i secoli, dagli eretici del Cinquecento al liberalismo avanzato del Novecento, alla riscoperta di quelle minoranze che sono state finora sottratte al patrimonio condiviso dell’identità nazionale. Panarari, collabora-tore della Stampa, insegna Comunicazione politica all’Università di Modena e Reggio Emilia e Marketing politico alla Luiss di Roma. Motta è ricercatore di Storia moderna all’Università di Torino.

La dinamica di desertificazione e spappolamento dei ceti medi è diventata particolarmente eclatante in Italia, dove le classi medie, nucleo sociale delle minoranze civiche, non hanno (praticamen-te) mai trovato un terreno di coltura o una sponda istituzionale a loro confacente e favorevole. Ancor più lungo gli scorsi decenni, nei quali, per parafrasare lo storico Tony Judt che constatava come la Gran Bretagna fosse diventata meno elitaria e meno populista, l’Italia si è svegliata, al contempo, maggiormente elitaria e più po-pulista (ma meno elitista, nell’accezione positiva qui descritta), anche sotto il profilo degli stili di vita e dei consumi culturali.

C’è, quindi, bisogno di nuove minoranze e di élite che non sia-no ciniche, né «indecise», ma capaci di praticare una meritocrazia autentica, che non è (e non deve essere, come paventano alcuni) uno «strumento di classe» e di perpetuazione dello status quo, ma l’interruttore per far ripartire il preziosissimo e irrinunciabile

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ascensore sociale, senza il quale una nazione muore.

È il tema, ben conosciuto, della circolazione e del ricambio del-le élite. Élite democratiche, permeabili e inclusive - e non fondate sull’appartenenza di casta, sulla cristallizzazione dei privilegi o sulla cooptazione al ribasso - realizzano, all’interno di una so-cietà aperta, le condizioni dell’uguaglianza.

Al riguardo, il problema di fondo, e in maniera estremamente acuta da noi, rimane sempre sostanzialmente lo stesso. Ovvero la legittimazione (e la rappresentatività) di chi esercita un ruolo di direzione; una questione che si è accentuata nel corso di questi ul-timi anni, e che ha visto la classe dirigente della politica trascinata (spesso, e per una parte rilevante di essa, molto a ragion veduta) sul banco degli imputati. Ne deriva l’esigenza - non ulteriormente differibile - di sviluppare processi di autentica selezione dei più meritevoli, che permettano di rilevare e valorizzare le capacità, in primis, dei soggetti esclusi - dai giovani alle donne, ai «nuo-vi italiani» che possono costituire, da questo punto di vista, una speranza - confinati fuori dai luoghi decisionali da un potere di tipo molto tradizionale e dalle consorterie che troppo spesso gli si stringono a coorte.

Di élite un corpo sociale e una nazione hanno bisogno, e il loro rigetto si tinge, di frequente, di accenti rabbiosi provenienti da settori politico-culturali intessuti di sentimenti e fobie che con la democrazia c’entrano ben poco. Le minoranze civili costituisco-no precisamente un argine e un antidoto indispensabile al popu-lismo. Perché, come malauguratamente non è abbastanza chiaro a tutti, la democrazia non coincide con il populismo - e quindi rigettiamo serenamente al mittente le accuse, che pare già di sen-

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tire, riguardo l’antidemocraticità di queste tesi. Noi rivendichia-mo con forza l’antipopulismo come componente di ogni dottrina e pensiero democratici. Analogamente a quanto facciamo con il «mecenatismo», volto a sostenere la cultura e gli individui capaci, che dovrebbe costituire un imperativo etico per i poteri pubblici e le istituzioni, ma di cui, in momenti di crisi fiscale e di disorienta-mento valoriale come l’attuale, potrebbero e dovrebbero, giustap-punto, farsi carico le élite.

All’interno di una democrazia liberale, riteniamo che il ruo-lo dirigente delle élite risulti irrinunciabile - e, perciò, rilevia-mo come un errore la diffidenza e la disattenzione nei riguardi di questa problematica così delicata di larga parte della sinistra e del mondo progressista. Altrimenti, visto che il vuoto in poli-tica e nelle faccende di potere non esiste, si lascia che a colmar-lo, come avviene in questa fase, siano certe oligarchie del denaro che avvertono i valori democratici come fardelli o lacciuoli di cui sbarazzarsi. L’unico antidoto efficace, insieme alla mobilitazione democratica degli individui e al loro coinvolgimento nella vita pubblica, coincide precisamente con delle élite testimoniali, one-ste e competenti, portatrici di un progetto di pedagogia civile. E dotate di quella credibilità e autorevolezza che, sola, può garan-tire, in via esclusiva, la piena accettazione della loro condizione speciale da parte della cittadinanza. Nel passato ne abbiamo avu-te diverse - e sono quelle che qui vengono raccontate: gli eretici del Cinquecento; i galileisti del Seicento; i giacobini del Settecen-to; i positivisti, gli igienisti e i socialisti riformisti e cooperati-vi dell’Ottocento; le varie famiglie del liberalismo progressivo e avanzato del Novecento. Tenere viva la loro memoria è, dunque, un esercizio utile anche per il tempo presente.

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Alessandro LanniQuei pochi che (non) hanno fatto l’Italia

Europa, 3 luglio 2012

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«Io, anche in una società più decente di questa, mi troverò sempre con una minoranza di persone». La rivendicazione che lo “splendido quarantenne” Nanni Moretti rivolge in Caro dia-rio a un giovanissimo e perplesso Giulio Base al volante di una Mercedes cabrio sarebbe stata una chiusa finale azzeccata per lo stimolante viaggio che il politologo Massimiliano Panarari e lo storico Franco Motta compiono attraverso la storia delle mino-ranze che (non) hanno fatto l’Italia. Moretti ne fa da trent’anni una cifra, un tratto distintivo e d’orgoglio: sono diverso, sono in minoranza e mi sta bene così, in fondo. Nei secoli, raccontano Panarari e Motta, in molti in Italia sono stati marginali senza volerlo e senza poter partecipare alla costruzione dell’identità nazionale.

Elogio delle minoranze (Marsilio) è un libro “rammaricato”. C’è l’amarezza di star tirando fuori una storia che inizia con la lotta contro la Riforma luterana e l’eresia italiana del XVI seco-lo e prosegue fino alla fine del millennio e oltre. Una vicenda costituita, col senno dell’oggi, di occasioni mancate da un pa-ese che non è riuscito a diventare normale perché in nome di culture dominanti ha messo all’angolo minoranze virtuose che avrebbero saputo contribuire in maniera decisiva alla moder-nizzazione.

Verrebbe da dire che i due autori ricompongono (dividendo-si la scrittura dei capitoli) quasi una storia controfattuale della nostra identità culturale, politica e civica: cosa sarebbe potuta essere l’Italia se molte delle grandi minoranze fossero divenute élite e fossero riuscite a plasmare almeno un po’ della nostra cultura?

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Già, perché una cosa è essere minoranza e una è essere élite; una cosa è stare ai margini della storia e l’altra è farne parte e a volte condurre anche la danza. Benché spesso – lo scrivono fin da principio i due autori – minoranze ed élite siano sinonimi, in un punto divergono: avercela fatta o meno. E le straordinarie avventure intellettuali ripercorse nel libro sono la fotografia di alcuni sentieri interrotti della storia italiana.

Il rivoluzionario è un pazzo visionario finché non riesce ad affermare – se ci riesce – le proprie idee. E l’Italia della prima metà del Seicento è uno dei teatri su cui si svolge lo scontro tra due idee di mondo, di sapere e di uomo. Nei granducati italiani nei decenni del secolo d’oro della scienza assistiamo si assiste all’esplosione della novità ma all’altrettanto rapida reazione di un sistema di culturale e di potere vecchio e in difficoltà.

La stella del pisano Galileo Galilei tramonta presto e la pa-tria dei novatores, dei nuovi scienziati della natura, divengono le corti europee di Francia, Inghilterra o del Nord Europa e non San Pietro. «Se ancora oggi in Italia – scrive Motta – il dibatti-to pubblico sulle ricadute etiche della scienza, dalla nascita alla morte, è costretto all’inderogabile presenza del magistero ec-clesiastico lo si deve anche agli esiti della lotta delle idee che fu combattuta in quel tornante epocale della modernità».

Panarari e Motta hanno un giudizio di fondo sugli elementi che hanno contribuito a far diventare questo paese quello che è oggi. È chiaro che per i due autori spesso ha vinto la parte che non meritava di imporsi, ovvero quella parte che non ha permesso all’Italia di trasformarsi in un paese più civile, meno conflittuale e più aperto.

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Tra gli sconfitti meno noti della storia ottocentesca italia-na c’è l’arcipelago di intellettuali, medici e scienziati igienisti che intuirono quanto un costume diverso nella cura del corpo avrebbe reso più solido il nascente corpo unitario dello Stato e della società italiani. La modernizzazione non ha fatto breccia nel sistema sanitario che nasceva sul finire XIX secolo e nei pri-mi anni del XX e quello degli “igienisti” rimane dunque un case study poco noto ma molto istruttivo.

Stessa marginalizzazione ebbero i giacobini italiani, che a ca-vallo tra Sette e Ottocento avrebbero voluto importare in Italia lo spirito rivoluzionario ed egalitario di Parigi. Furono bollati da Benedetto Croce come «grandi idealisti e cattivi politici» e Antonio Gramsci definì «fenomeno tutto borghese» il triennio di insurrezioni di fine Settecento.

Nei capitoli conclusivi di questa storia dell’intellighenzia marginale era impossibile che rimanessero escluse alcune del-le nicchie più significative dell’altra Italia politica: il socialismo riformista, il liberalismo e l’azionismo. E qui Panarari ha buon gioco nel mostrare quanto queste esperienze politiche del Nove-cento avrebbero potuto e non son riuscite a fare per la cultura e l’identità italiane. «Una minoranza di intellettuali lucidissimi e “scomodi”, sempre e comunque, questi esponenti di una forma “di lotta e di governo” del liberalismo che, a ben guardare, si bat-teva per convertirci finalmente in un paese normale». I fratelli Rosselli e Piero Gobetti insieme a tutti coloro che prima, duran-te e dopo il ventennio fascista hanno sostenuto la necessità di un “elitismo democratico” che prendesse su di sé la responsabilità di portare a «compimento compiti civici indifferibili» come la lotta contro il regime e l’educazione delle masse popolari.

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Ultima tappa di questa storia dell’Italia che ha perso è quella in cui il conflitto tra le idee viene meno e il ruolo delle élite è de-finitivamente annullato. È quella che conosciamo meglio perché è quella più vicina a noi, l’epoca della neotv e del suo dominio “sottoculturale” (azzeccato aggettivo di un altro libro di Pana-rari) che sostituisce il ruolo pedagogico che un tempo era in mano alle minoranze illuminate.

È in pieno trentennio berlusconiano che la coppia essenzia-le della democrazia liberale composta da élite e cittadini perde consistenza a favore del binomio populista leader e popolo. La via maestra per salvare la malandata democrazia italiana non sarà il «postmoderno populismo digitale» à la Beppe Grillo che vorrebbe abolire la distinzione tra rappresentati e rappresentati per un’indefinita democrazia elettronica.

Così, concludono Panarari e Motta, l’unico antidoto efficace al dominio dei pochi, rischio sempre prossimo per le democra-zie, è «il coinvolgimento degli individui nella vita pubblica e il recupero di élite testimoniali, oneste e competenti, portatrici di un progetto di pedagogia civile».

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Gilberto CorbelliniCapitalizzare il merito

Il Sole 24 ore, 29 luglio 2012

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Nel saggio sulle minoranze Panarari e Motta spiegano perchè oggi l'Italia ha più che mai bisogno di cultura scientifica, indivi-dualismo e di un'élite colta che sia al passo dei tempi.

Se si fosse d'accordo che per uscire dal declino economico, so-ciale, culturale, insomma civile, che sta colpendo l'Italia occorre valorizzare le competenze e il merito (da cui viene l'improprio concetto di meritocrazia), allora il libro di Massimiliano Pana-rari e Franco Motta (Elogio delle minoranze. Le occasioni man-cate dell'Italia, Marsilio, Venezia, pagg. 220) dovrebbe essere salutato come un importante contributo nell'auspicata direzio-ne. E' un po' povero sul piano teorico: data la tesi difesa degli autori, sarebbe stato utile fare il punto sulla discussione socio-logica-politologica in merito alla natura e al ruolo delle élite nei sistemi politico-governativi. Ma illustra bene, attraverso sei casi puntuali, cosa è mancato all'Italia per entrare a tutti gli effetti nella modernità. Modernità che, prevedendo una manutenzione costante delle migliori regole di convivenza civile, come Stato di diritto e libertà economica, anche oggi ripaga. Nei paesi an-glosassoni e nordeuropei la crisi finanziaria sta facendo meno danni: niente ansia sociale da spread.

La reazione a questo libro non può, quindi, che esser duplice. Si può rifiutare il valore euristico dei casi che essi discutono, e in generale difendere le posizioni, sempre meno plausibili, che le democrazie più sane ed efficienti sarebbero quelle che assecon-dano gli impulsi conservatori delle maggioranze. Oppure dire: bravi, bel lavoro storico! E ora che sappiamo quali occasioni ab-biamo mancato, proviamo anche a cercare opportunità nuove.

Il libro smaschererà intanto l'ipocrisia di un apparente accor-

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do su come valorizzare merito e le competenze. Perchè a paro-le tutti sono per il merito, ma quando si propone di valutarlo usando criteri oggettivi la musica cambia. Del resto, l'oggettività che in termini di aspirazione di ricerca e metodi per accertarla è un tratto peculiare e forse il più importante della modernità, alla quasi totalità degli intellettuali "colti" italiani fa palesemen-te schifo. Fatto che spiega, per esempio, come mai una parte del mondo accademico si sia schierata, prima di tutto ideologica-mente, contro l'Anvur.

Ora, di spendere proprio adesso tutti questi soldi per l'Anvur, che poi rimane sempre a rischio di esser spazzata via dal primo governo populista in arrivo, si sarebbe potuto evitare se un'etica della responsabilità individuale avesse fatto parte dell'alimenta-zione educativa degli italiani, a livello familiare e scolastico, nei secoli passati. Perché, costitutivo dell'etica dell'organizzazione della ricerca e della formazione, sarebbe in tal caso l'uso di pro-cedure trasparenti di valutazione nell'arruolamento dei docenti e nel finanziamento della ricerca. Per capire come mai questa etica è mancata e perché i valori della razionalità coltivati dalle filosofie illuministe sono stati annientati dagli anticorpi regres-sivi presenti in Italia, ci aiutano Panarari e Motta.

I primi due capitoli esaminano due passaggi che hanno ab-bastanza definitivamente segnato in negativo - sempre rispetto alla diffusione dei valori che nel mondo civile sono apprezzati sotto l'etichetta di liberal-democratici - l'evoluzione della cultu-ra politica italiana. Si tratta del fallimento, intorno a metà Cin-quecento, dei tentativi di riformare in senso meno gerarchico e politicamente strumentale anche la religione cattolica, sotto la spinta dei movimenti protestanti; e dal soffocamento politi-

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co-religioso, un secolo dopo, del neonato pensiero scientifico sperimentale, che vedeva la luce grazie al genio italiano di Ga-lileo Galilei e decine di altri filosofi naturalisti. I casi racconta-ti successivamente sono certamente indicativi, ma il grosso dei danni era già stato fatto. Si tratta del cosiddetto "triennio giaco-bino" degli ultimissimi anni del Settecento, del movimento igie-nista che negli ultimi decenni dell'Ottocento cercò di risanare oltre che le condizioni di vita anche il modo di pensare politi-co-istituzionale; di quel social-riformismo all'alba del Novecen-to che guardava, come gli igienisti, agli impulsi innovativi, per la politica, del positivismo scientifico; e, infine, si discutono le figure di quei rari, autentici liberali italiani che nel secondo do-poguerra hanno giocato spesso solo il ruolo dei garanti "morali" per qualche estemporaneo tentativo di far cose serie.

La ricerca storica può dire quel che è accaduto. Ma non con-tiene un solo insegnamento utile per decidere qui e ora. Se non si inseriscono fatti, sempre ricostruiti, all'interno di un qua-dro interpretativo plausibile. Dal libro di Motta e Panarari si comprende che all'Italia è mancata una cultura dell'empirismo, dell'individualismo e dell'onestà. Mentre hanno prevalso fami-lismo, spontaneismo e ipocrisia. Ora, anche dal diluvio di firme raccolte dal 'Manifesto per la cultura' promosso da questo gior-nale, sembrerebbe necessario un cambiamento che consenta di recuperare rapidamente le condizioni per funzionare come un Paese moderno. A partire dal rinnovamento della classe politi-ca, perché sappia valorizzare il ruolo dell'élite innovative.

Ma esistono idee su come si creano in tempi brevi le élite di cui si sentirebbe bisogno? Forse sì. Un numero crescente di studi empirici, basati su serie decennali di test intellettivi e valutazioni

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scolastiche in decine di Paesi, dimostra come i livelli di benes-sere economico, di efficienza istituzionale e persino la qualità della classe politica dipendono dall'eccellenza cognitiva di una frazione di circa il 5% di una nazione. "Smart Fraction Theory" è stata chiamata, ma anche "capitalismo cognitivo", l'idea che col-tivando l'eccellenza scientifico-culturale a un certo punto ci si trova in un Paese dove ci sono senso civico, più efficienza dello Stato e più libertà economica. Qualcuno sostiene che vale anche il concetto che se il livello cognitivo della frazione meno istruita è molto basso, una società rimane allo stadio del mercantilismo, non è democratica e i cittadini sono più a rischio di malattie in-fettive, violenze e criminalità. Che far quindi? Intanto investire in un istruzione e cultura, con particolare attenzione per quella scientifica e tecnica, e poi fare in modo che il 3% del Pil sia speso in ricerca e innovazione.

La teoria del capitalismo cognitivo si sposa con le prove con-vergenti di un ruolo cruciale della scienza, insieme al mercato capitalista e al diritto positivo, nella costruzione della moder-nità. Cioè nel creare un sistema politico-sociale-economico che è stato in grado di produrre rispetto a qualunque altro sistema, più ricchezza, più eguaglianza, più libertà, più salute, più cultu-ra, meno violenza e più felicità. Scusino i metafisici e relativisti se per loro, che per migliaia di anni non avevano ottenuto gran-chè, è ancora poco.

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Corrado OconeIl fascino indiscreto delle élite "virtuose"

La Lettura - Corriere della Sera, 22 luglio 2012

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Suggestioni ambigue: dietro a "Elogio delle minoranze" si na-sconde una mentalità pedagogica estranea al vero spirito liberale.

Che la storia sia lotta fra élite, ce lo ha insegnato la grande sociologia di Pareto e Mosca. E abbiamo appreso da Gobetti che una società liberale è quella in cui c'è "circolazione delle élite", cioè competizione e ricambio al vertice del potere. Sono teorie tuttora valide, anche perchè avalutative. Affermare, invece, come fanno Massimiliano Panarari e Franco Motta, nell'introduzione al loro libro "Elogio delle minoranze. Le occasione mancate dell'I-talia" (Marsilio, pg. 211), che ci sono "élite positive portatrici di visione di progresso ed élite regressive, garanti di equilibri di potere di lunga durata", aggiungendo poi che in Italia hanno si-stematicamente vinto le seconde e sono state sconfitte le prime, è passare dall'analisi sociologica a quella politica e partigiana.

In effetti il volume è un esempio quasi idealtipico di quella che Croce chiamava "storia prammatica", cioè volta a servire un fine politico. Nella fattispecie, quello di una certa sinistra indi-gnata e 'radical-chic', che riduce ai suoi fini di parte la complessa dinamica storica. Il modo di ragionare dei due autori si fonda su alcuni luoghi comuni. Innanzitutto la retorica del "Paese nor-male" che l'Italia non sarebbe mai stata perché le élite che han-no sequestrato il potere sono corrotte, familistiche, incapaci di vedere oltre l'orizzonte del loro interesse privato. Al contrario, "normale" il nostro Paese sarebbe stato se la minoranza virtuosa avesse prevalso (tipico esempio di "storia con i se"). Il che finisce per creare una sorta di paragone ellittico fra una democrazia ideale che si ha in testa e il processo storico reale. Un antisto-ricismo che non fa onore alle nostre tradizioni. Quale poi sia il modello di "normalità" auspicato, è l'idea della nostra mancata

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modernizzazione ad indicarlo. Ma come conciliare questa as-serita carenza di modernità con il fatto che siamo diventati co-munque una potenza industriale?

Ecco che interviene il concetto di"modernizzazione senza sviluppo": da noi non sarebbe mai esistita una borghesia capace di educare e, come dicono i due autori, di "mutare le strutture mentali" del popolo. Emerge qui un pedagogismo che è il con-trario dello spirito liberale. Il quale, come ci hanno insegnato i maestri, non si fonda su esempi sedicenti virtuosi, ma sulla capacità che ognuno deve avere di provare, sbagliare, riprovare, per conto suo, andando comunque avanti da solo sulla strada della formazione della propria personalità.

A ben vedere, in Italia è lo spazio per fare questo che sembra oggi mancare. Ma se così è, il problema è essenzialmente poli-tico, non morale: la nostra è una società in preda al corporati-vismo, ingessata da una scarsa mobilità sociale. Detto altrimen-ti, il pluralismo italiano è collusivo e non competitivo. Ma per aprire spazi di libertà, una storiografia a tesi non serve affatto.

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Marcello VenezianiLe "minoranze virtuose"? Una leggenda da salotto

Il Giornale, 23 luglio 2012

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Panarari e Motta elogiano le élite (azioniste e liberalsocialiste) che avrebbero potuto rendere migliore l'Italia. Ma spesso gli "illu-minati" al potere falliscono.

Ah, se avessero vinto le minoranze, avremmo avuto un'Ita-lia migliore. C'è sempre un'Italia giusta, illuminata e minore da rimpiangere, sconfitta dall'Italia popolare, oscurantista e grez-za. È questo il racconto dominante nella cultura del nostro Pae-se. I migliori persero, non furono capiti, furono sopraffatti dalle plebi e dai loro tribuni populisti. Il riferimento si snoda lungo i secoli e riguarda gli eretici, le sette, i giacobini, gli utopisti, gli azionisti e i liberalsocialisti, gli anticlericali e i radical. Un pamphlet di Massimiliano Panarari e Franco Motta, Elogio delle minoranze (Marsilio, pagg. 220), dà voce a quest'antica lagnan-za e riunisce le sparse membra delle minoranze virtuose in un solo percorso di elogio e rimpianto. Il sottotitolo eloquente è Le occasioni mancate dell'Italia.

In realtà conosciamo gli abusi di chi comanda, ma non sap-piamo l'uso del potere che avrebbero fatto le minoranze sconfit-te. A giudicare dagli esempi che abbiamo e dai pochi scampoli di storia, anche brevi, di quelle minoranze in azione o al coman-do, non c'è da stare così ammirati da loro e così tristi per la loro sconfitta. Sappiamo come si sono comportate le sette fanatiche che andarono al potere, sappiamo di quali intolleranze, violenze e cacce alle streghe si resero responsabili i riformatori religio-si, protestanti e calvinisti, saliti al potere. Spesso diventarono atroci repressori, non ebbero nulla da invidiare ai loro nemici istituzionali del passato e ai loro stessi persecutori. Sappiamo di minoranze rivoluzionarie andate al potere nel nome della liber-tà e del popolo sovrano che poi tiranneggiarono il medesimo

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e calpestarono la libertà più dei monarchi regnanti. Sappiamo cosa combinarono i giacobini in Francia e altrove, anche in Ita-lia. Si pensi alla rivoluzione partenopea e alla «repubblica gia-cubbina» del 1799: oppositori sterminati, città che non erigeva-no l'albero della libertà messe a ferro e fuoco, trucidate decine di migliaia di persone, bambini inclusi, molto più dei loro nemici borbonici o delle malfamate bande sanfediste del cardinale Ruf-fo. Sappiamo poi come la pensavano radical e azionisti in Italia che volevano giustizia, libertà e socialismo liberale ma poi giu-stificavano dittature, non vedevano stragi e atrocità staliniane e sognavano per l'Italia una dittatura «illuminata» e giustizialista proprio mentre avversavano dittature reazionarie presenti, pas-sate e possibili. Insomma spesso dobbiamo solo ringraziare che non siano andati al potere loro, gli intransigenti delle élite per-denti. Il fanatismo della purezza - la sindrome di Saint Just o de-gli Incorruttibili - a volte è molto più feroce e meno duttile delle tirannidi nel nome della maggioranza o del vasto consenso.

Ma il nostro, dicono gli autori, «è un elogio delle minoranze virtuose»: e chi lo stabilisce quali sono le minoranze virtuose? Come si distinguono le aristocrazie dalle oligarchie? Quali sono i criteri per selezionarle: magari gli stessi che adoperava Gram-sci quando stabiliva sulla base della sua ideologia quali sono le violenze e le dittature reazionarie, da condannare e combattere, e quali sono invece le violenze e le dittature progressive, da elo-giare e instaurare? Nell'autocertificazione di ciò che è virtuoso c'è il germe dell'intolleranza. In fondo si arriva alla democrazia per sfinimento, perché non si trova un criterio migliore e meno cruento del voto di maggioranza per legittimare al governo una minoranza anziché un'altra (perché di questo poi si tratta, di minoranze che governano nel nome dei pochi e minoranze che

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governano nel nome dei molti). Ci sono minoranze che devono la loro fortuna postuma e la loro aureola di rimpianto al fatto che non andarono al potere, non si sporcarono con la realtà e non provarono su strada i loro programmi velleitari che avreb-bero deluso, oscillando tra la costrizione violenta per realizzare i loro ircocervi e il tradimento o la deviazione dal percorso ori-ginario.

Ma a proposito della cernita fatta dai due autori delle mino-ranze virtuose che ci siamo perduti, perché non c'è traccia delle élite conservatrici che non andarono al potere o furono inascol-tate, delle aristocrazie tradizionali poste fuori gioco dai cinici parvenu del potere senza scrupoli e senza principi; perché non c'è traccia delle minoranze politicamente scorrette e delle cul-ture non conformiste che pure attraversarono la storia civile e culturale, prima che politica, del nostro paese? Perché non c'è posto per le minoranze fiorite sulla rive droite, sull'altro versan-te? Perché il pregiudizio ideologico precede il riconoscimento delle virtù. C'è un filtro ossequioso all'ideologia dominante del nostro tempo che stabilisce a priori le minoranze da elogiare e quelle inaccettabili da scartare.

Diciamo che, in prevalenza, le minoranze sono migliori sul piano personale, morale e intellettuale, ma sono solitamente peggiori sul piano politico, sociale e pratico. Ma in linea genera-le non ha fondamento la legge del «pochi ma buoni». I pochi son pochi e basta, riproducono in scala ridotta le stesse mescolanze dei grandi gruppi. Diceva André Malraux: anche nelle mino-ranze intelligenti ci sono maggioranze di imbecilli. Se è impen-sabile che le élite siano maggioranza, non è vero l'inverso, che tutte le minoranze siano élite e comunque migliori per statuto e

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definizione delle maggioranze.

Detto questo, nessuno vuol negare un principio di realtà pri-ma che di valore. Il mondo è mosso da minoranze attive e co-stituenti, come ci insegnarono Polibio e Machiavelli, Pareto e Mosca, Michels e Sorel. E come ci insegna la storia stessa. Dio sa quanto bisogno ci sia oggi di minoranze intraprendenti e fondatrici in un'epoca di disinganno, disorientamento e delu-sione come la nostra. Ma poi sorge anche un dubbio: e se le vere aristocrazie preferissero confondersi nella folla, se si riuscisse a coltivare di più il distacco e la solitudine immersi nelle masse e nelle piazze piuttosto che nelle élite e nelle loro stanze, siano essi salotti o catacombe? A volte, le eccellenze oscillano tra solitudi-ne e popolo, senza iscriversi o frequentare minoranze.

Comunque, esser pochi e perdenti non è sinonimo di migliori e virtuosi. La verità, come la qualità, non è garantita né dal nu-mero né dall'esiguità.

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Repliche degli autori

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Franco Motta Replica ai censori

@ Marsilio blog, 24 luglio 2012

La stampa che un tempo si sarebbe definita ‘moderata’ ha li-quidato senza appello l’«Elogio delle minoranze» da poco usci-to per Marsilio. Leonardo Rossi sul «Secolo d’Italia», Corra-do Ocone sulla «Lettura» del «Corriere della sera» e Marcello Veneziani sul «Giornale» hanno tirato fuori dalla naftalina il vecchio abito della sinistra radical-chic (lo stesso che indossava Sartre, presumo, decisamente un po’ démodé) e lo hanno cucito addosso al sottoscritto e al coautore, l’amico Massimiliano Pa-narari. Gramsciani di ritorno, agit-prop neoleninisti, teologi di una storia a tesi a uso di una sinistra laica in cerca di idee: que-sto, nella sostanza, il menù che ci è stato sfornato.

Ringrazio sinceramente i censori dell’attenzione che ci è stata riservata, visto che il dibattito delle idee è sempre e comunque segno di discreta salute. Tuttavia mi sembra il caso di puntua-lizzare. In nessuna delle recensioni si prende in considerazione l’oggetto del libro: la proposta di una lettura storica della man-cata modernizzazione dell’Italia che parte dalla mancata rifor-ma religiosa del Cinquecento e arriva al liberalismo progressista di Giustizia e libertà. Uomini, gruppi, lotte politiche e sociali che si sono combattute nel corso di quattrocento anni di storia italiana e che nel corso delle pagine descriviamo e analizziamo

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in dettaglio scompaiono come ombre al crepuscolo nelle recen-sioni citate. Chi le leggesse non capirebbe davvero di cosa parla il nostro volume. Di oltre duecento pagine sono prese in consi-derazione soltanto le prime quindici, quelle dell’introduzione, in cui tracciamo la proposta teorica che fa da sfondo alle storie raccontate successivamente. Troppo faticose, forse, per essere prese in considerazione; i tempi giornalistici sono quello che sono e, insomma, non si pretenderà mica che per giudicare un volume tocchi anche leggerlo.

Ci si accusa di non avere scritto da storici, ma da ideologi. Lo fa Rossi, accusandoci di venerare «il mito della nazione antro-pologicamente portata a essere schiava di demiurghi» (quando scriviamo esplicitamente di essere contrari a qualsiasi pretesa lettura antropologica di una minorità italiana) e di sostenere, somma eresia, che «esiste un elitarismo reazionario che impedi-sce il progresso collettivo a vantaggio di una minima parte della società». Forse andrebbe spiegato al nostro recensore il perché, dall’altra parte dell’Atlantico, quest’anno stesso il più interes-sante movimento di contestazione del capitalismo finanziario americano abbia scelto di proclamarsi «the 99%»; o forse gli an-drebbe ricordato che Mrs. Thatcher e Mr. Reagan non sono stati un’invenzione dei sindacati ma due personaggi in carne e ossa che hanno cambiato – in negativo, secondo noi – il corso della storia del tardo Novecento.

Marcello Veneziani, dal canto suo, certo con maggiore raf-finatezza ci rimprovera di non avere preso in considerazione le élite di destra che hanno contribuito alla crescita dell’Occidente. Mi auguro che voglia proseguire il discorso perché, purtroppo, di queste élite conservatrici di sviluppo – inevitabile l’ossimoro

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– non ne cita nemmeno una: e non saprei nemmeno io, malgra-do gli sforzi, offrirgli qualche spunto (spero che i soliti Evola e Pound siano lasciati ai camerati di Forza Nuova perché, since-ramente, non ne possiamo più). Egli pure ci accusa di forzare la storia. Per dimostrarlo ricorre alle pie leggende dell’epoca della Restaurazione, ricordando pretese decine di migliaia di morti fatti dai giacobini italiani nel 1796-99: un evento mai registrato dalla storiografia, purtroppo, e che immaginiamo possa essergli stato rivelato con il terzo segreto della Madonna di Fatima. Ma, si sa, a noi atei tali rivelazioni non sono date.

Corrado Ocone sferra contro di noi l’arma finale: non rispet-tiamo il metodo storico, facciamo una storia a tesi che è null’al-tro che mera retorica, facciamo la «storia prammatica», come dice il suo autore di riferimento, Benedetto Croce (alla faccia dell’aggiornamento storiografico), ossia la storia al servizio dell’ideologia. Della lunga bibliografia in calce al volume nem-meno una parola; la immaginiamo troppo lunga e impegnativa per chi si muove nei rigidi termini dell’elzeviro. Della nostra interpretazione della lotta religiosa del Cinquecento italiano, delle vicende del metodo sperimentale in Italia, del positivismo, del cooperativismo, manco un accenno. Mere invenzioni reto-riche? Utilizzo strumentale di dati, documenti, testimonianze? Selezione partigiana e mistificatrice di temi? Non è dato sapere. Basandosi unicamente sulla sua recensione, il lettore potrebbe credere che l’«Elogio delle minoranze» parli di cricket, cucina fusion, cool jazz o quant’altro ancora. Senza contare che Oco-ne conclude sostenendo che è la primazia delle corporazioni il vero ostacolo allo sviluppo storico del nostro paese: esattamente quanto scriviamo noi, prendendoci pure l’incomodo di spiegare il perché e il percome e di collocarli in un contesto storico di

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lungo periodo. Peccato, ma è una lezione: la prossima volta, an-ziché documentarci a fondo e riportare dati e fatti, citiamo una frase di Croce e siamo a posto. È il giornalismo, bellezza.

Finalmente, e con serenità, abbiamo scoperto un’altra carat-teristica intellettuale della destra, liberal-crociana o post-berlu-sconiana che sia: la storia non dev’essere altro che cronaca, che racconta di fatti – magari senza verifica delle fonti – privo di profondità critica. L’interpretazione è di per sé retorica, peggio, ideologia. Assai meglio Rodolfo il Glabro di Fernand Braudel: almeno è più divertente leggere dei miracoli dell’anno Mille che non cercare di capire perché il ritorno della signoria feudale nel Seicento e le campagne di predicazione dei cappuccini andasse-ro di pari passi. Ah, la noia…

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Massimiliano Panarari

Il fascino discreto delle élite

@ Europa, 25 luglio 2012

Si è soliti pensare che l’estate sia la più crudele delle stagioni per le discussioni culturali («no, il dibattito no…», come dice-va qualcuno). E, invece (e per fortuna, vien da aggiungere), c’è spazio per la provocazione intellettuale e la battaglia delle idee, come sta mostrando la serie di osservazioni critiche suscitate dal pamphlet Elogio delle minoranze. Le occasioni mancate dell’Italia (scritto con Franco Motta ed edito da Marsilio – e recensito su queste pagine da Alessandro Lanni). Vorrei quindi rispondere ad alcune di queste critiche, quelle di Corrado Oco-ne sulla Lettura del Corriere della Sera del 22 luglio e quelle di Marcello Veneziani su il Giornale del 23 luglio – posizioni di orientamento differente, l’una intrisa di “liberalismo crociano” e individualista e l’altra di destra tradizional-comunitarista (il suo articolo di ieri sul quotidiano di Sallusti si intitolava «La specie umana usa i gay per estinguersi?») – e provare a stimolare ulteriormente una discussione (sì, il dibattito sì…) su due temi a mio avviso significativi non soltanto per la storiografia, ma anche per la cultura politica odierna.

Ovvero, la questione delle minoranze e delle élite (che non necessariamente coincidono, ma risultano tra i motori della sto-ria), nella convinzione che anche a sinistra si debba dismettere

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(o, quanto meno, significativamente mitigare) una certa diffi-denza nei loro confronti e il “richiamo della foresta” dell’una-nimismo. Rilevanza, sia chiaro, che non si traduce in nessunis-sima esaltazione di una malintesa “vocazione minoritaria” o di qualsivoglia riflesso identitario e purista del genere “pochi ma buoni”, che lascio volentieri a certi radicalismi compiaciuti (i quali non aiutano affatto a fare politica, come ben si sa).

E poi il tema del paese normale, e moderno, che – e si tratta di un altro dato inoppugnabile, le cui manifestazioni vediamo nel-la vita di tutti i giorni, tra servizi spesso inefficienti, caos, e pro-blematiche ordinarie che si aggravano – purtroppo non siamo (o quanto meno non abbastanza, e non quanto meriteremmo, al pari di tanti altri nostri concittadini europei), e la cui visione era nettamente e distintamente delineata nei pensieri e nelle prati-che, di alcune minoranze politico-culturali virtuose.

La storia d’Italia, lungo i secoli, ha visto infatti l’affacciarsi sul proscenio pubblico di minoranze virtuose portatrici di straor-dinari progetti di modernizzazione, che hanno tentato di prati-care al meglio l’innovazione e il riformismo (quello autentico), a volte riuscendoci e a volte no, all’interno della difficile nazione (unificata solo a metà dell’Ottocento) del gattopardismo, delle rivoluzioni impossibili e delle scarse riforme (sempre a rischio di svuotamento). Minoranze vivaci, progettuali e attivissime, che, nella storia contemporanea, hanno coinciso con i positivisti igienisti fautori dello sviluppo scientifico (che certamente non rientrano tra le predilezioni del crociano Ocone), con i filoni del socialismo riformista e cooperativo, con la famiglia allargata di uno “speciale liberalismo” (comprendente repubblicanesimo, radicalismo, liberalsocialismo, socialismo liberale, azionismo e

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tante singole personalità del progressismo liberale o del liberali-smo tout court, l’“ircocervo” ricordato su queste stesso colonne, qualche giorno or sono, da Federico Orlando), e poi, nel Nove-cento, con la “tecnocrazia buona” dell’olivettismo e del centrosi-nistra della stagione della programmazione economica.

Tutte, nella loro diversità, sostenitrici di idee ancora feconde, che meritano di venire ricordate e, in un paese dalla memoria corta, di essere riportate alla luce, evitando che finiscano nel dimenticatoio, come in tanti hanno voluto e vogliono, perché espressione della nostra attitudine, come italiani, a rivelarci mo-derni e avanzati quanto gli altri. Non c’è nessuna “lagnanza”, né alcuna propensione all’anti-italianità, perché gli attori delle mi-noranze civili furono tutti (o quasi tutti) profondamente e inti-mamente italiani. E non c’è nessuna retorica dello sconfittismo, bensì il chiaro riconoscimento del fatto che se questi gruppi ri-masero minoritari fu anche per colpa loro (nella constatazione delle dure leggi della storia e della stratificazione di lunga durata dei modelli mentali e culturali – quando non sottoculturali – e, quindi, per converso, dell’importanza che riveste per una élite la capacità di costruire consenso).

Ma, ecco il punto, non sta scritto da nessuna parte – se non in una versione strumentale dell’hegelismo, o, meglio e assai più verosimilmente all’interno di una precisa visione politica – che ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale. E mostrarlo, non significa, come evidente, fare i radical chic o gli indignati a tutti i costi, ma compiere uno sforzo di obietti-vità storicista. In virtù del quale appare lampante come queste minoranze civili ed élite progressive fossero molto più vicine ai modelli dell’Occidente sviluppato della gran parte delle élite

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regressive con cui si trovarono a competere. E, come, a differen-za di quelle, abbiano spesso palesato, oltre a un pensiero critico, un atteggiamento mentale decisamente meno ideologico, e, in prevalenza, assai più nutrito di pragmatismo e antidogmatismo.

Il pensiero critico e la capacità di mettere in discussione l’e-sistente, per migliorare lo stato delle cose e non certo per va-gheggiare improbabili palingenesi (lontanissime dalla sensi-bilità politica delle minoranze modernizzatrici), richiedono tempi lunghi e processi educativi. E, infatti, ad accomunare le minoranze furono una teoria e un’azione di pedagogia civile, che non si capisce perché dovrebbe risultare estranea a un sup-posto “vero” spirito liberale. Ma qui ci risiamo, e pare di veder ricomparire una tentazione monistica – che mal si concilia con un pensiero poco ideologico e molto pluralistico come quello liberale – che vuole distribuire patenti di autenticità, metten-do alla porta ed espellendo (atteggiamento poco tollerante e nient’affatto liberale, giustappunto…) il ricchissimo e variegato liberalismo di sinistra.

Proprio questo lavoro pedagogico, e la conseguente ricerca del rapporto con le masse, rappresentano testimonianza (seppur a volte convincente e altre meno) del carattere virtuoso di queste minoranze, nei termini dell’impegno per mutare e migliorare le condizioni della popolazione. Anzi, del popolo, il “soggetto” che viene invocato a ogni piè sospinto, oggi, per ostacolare le politi-che riformiste, e che viene coltivato e vellicato precisamente me-diante quella demagogia che le minoranze rigettarono e contra-starono. Tra il populismo dilagante, e troppo spesso vittorioso, e le oligarchie – ambedue, non a caso, acerrimi nemici sociologici dei ceti medi – tertium datur: e può trovare ispirazione e una

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galleria di padri nobili proprio nei protagonisti e negli attivisti delle minoranze civili della storia italiana.

E nell’attività di quelle élite riformatrici che si strinsero attor-no al Carlo Azeglio Ciampi del 1992-’93, al Romano Prodi euro-peista degli anni Novanta, e che operano attualmente nel gover-no Monti per la tenuta economica del paese. Poiché l’elogio delle minoranze ha che fare con una prospettiva e una visione lunghe e non minoritarismo spocchioso. E queste sono argomentazioni di puro impianto liberal-progressista, e non certo in stile Oc-cupy Wall Street…

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Archelogia delle mino-ranze - Metadata

Archeologia delle minoranzeMetadata

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Collana: Radical Journalism

001 - Archeologia delle minoranze. Intervista con Franco Motta su "Elogio delle minoranze" (a cura di Obsolete Capitalism)

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Dedicato a Claudio Cuoghi e Saifullah Zaman

Terminato di antologizzare nel mese di settembre 2015

Per conto di Obsolete Capitalism Free Press

Collana di Radical Journalism

Kindly supported by the Gipsy Anti-Academy.

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Franco Motta è ricercatore in Storia moderna presso l'Università di Torino. Tra i suoi interessi di studio, le strategie politiche e cul-

turali della Chiesa cattolica tra XVI e XVIII secolo. Ha curato l'edizione della 'Lettera a Cristina di Lorena di Galileo Galilei' (Marietti 2000) ed è autore di una biografia del cardinale Roberto Bellarmino (Bellarmi-no. Una teologia politica della Controriforma, Morcelliana 2005). Con Massimiliano Panarari ha pubblicato nel 2012, presso le edizioni Mar-silio, il pamphlet storico-politico 'Elogio delle minoranze. Le occasioni mancate dell'Italia'. Ultima pubblicazione nel 2014, tramite le Edizio-ni Il Sole 24 ore: 'Bellarmino. Teologia e potere nella Controriforma'.

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U no dei grandi piccoli libri politici degli anni Dieci del nostro se-colo è stato il testo licenziato nel 2012 da Franco Motta e Massi-

miliano Panarari con il titolo quanto mai felice di Elogio delle Minoran-ze. Con un ferreo ribaltamento della prospettiva, i due autori evidenziano come sia più rilevante politicamente e intellettualmente il ruolo delle minoranze, all'interno della società, nei confronti del ruolo delle maggio-ranze. L'Italia è stata patria, da Machiavelli in poi, del più intransigente realismo politico e, dunque, l'accento è sempre caduto - nelle cosiddette «scienze politiche» - su concetti quali élite, egemonia, governo, potere. Entità con funzioni eminentemente "amministrative" quali lo Stato e la Chiesa hanno sviluppato nei secoli, sulla civiltà italiana, un'auctoritas indissolubilmente cristallizzata e asfissiante.

La presente antologia di testi a cura di Obsolete Capitalism cerca di ricostruire lo scenario culturale, storico e politico nel quale si è sviluppata l'opera dei due autori, aprendo il volume a recensioni, polemiche e repli-che che il libro ha suscitato, approfondendo le tematiche intrinseche del testo Elogio delle minoranze nell'intervista a Franco Motta - docente di Storia moderna a Torino - e autore, con Massimiliano Panarari, dell'opera oggetto d'indagine. Oltre l'orizzonte del «secolo dei totalitarismi» è ini-ziata un'era trans-storica in cui la società occidentale è divenuta essenzial-mente policentrica, non senza conflitti e lacerazioni. Il potere, distribuito in segmenti orizzontali nel corpo sociale, non è più verticale e gerarchiz-zato, come ci ha consegnato la storia della cultura occidentale moderna; potrebbe essere giunto il momento di fondare una Teoria delle minoran-ze che si erga contro le declinazioni coercitive della «gestione planetaria» del potere e costruisca un nuovo spazio politico di libertà ed eguaglianza nella differenza.