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AlittleshyandsadofeyeButverywisewashe 1.
EDENAHBEZ,NatureBoy.
1VersitrattidallacanzonediNatKingColeNatureBoy(E.Ahbez).
poltroncina di fintapelle, il mento piegatosulla maglietta verde amanichecorte.Ilrisvoltodei jeans sulle scarpe daginnastica. In una manostringeva un trenino dilegnocheglipendevatrale gambe come unrosario.
Dall’altra parte dellastanzaladonnastesasulletto poteva avere trenta
come quarant’anni. Ilbraccio coperto dimacchie rosse e crostescureeraattaccatoaunaflebo vuota. Il virusl’aveva ridotta a unoscheletro ansimante,ricoperto di pelle secca epustolosa, ma non erariuscito a strapparletutta la bellezza, che siscorgeva nella forma
degli zigomi e nel nasoall’insú.
Il bambino sollevò ilcapo e la guardò, siaggrappò al bracciolo,scesedallapoltronaeconil trenino in mano siavvicinòalletto.
Lei non se ne accorse.Gli occhi, sprofondatidentro due pozze scure,fissavanoilsoffitto.
Il piccolo prese a
giocare con un bottonedella federa sporca. Icapelli biondi glicoprivano la fronte esotto il sole che filtravadalle tende bianchesembravanofilidinylon.
Improvvisamente ladonna si sollevò suigomitiearcuòlaschienacome se le stesserostrappando l’anima dalcorpo,strinselelenzuola
nei pugni e ricaddesquassata dalla tosse.Provava a ingoiare ariastirando braccia egambe. Poi il viso sirilassò, spalancò lelabbra e morí a occhiaperti.
Il bambino le presedelicatamente la mano ecominciò a tirarlel’indice. Con un filo divoce sussurrò: –
Mamma? Mamma? – Lepoggiò il trenino sultorace e lo fece scivolaresui dossi del lenzuolo.Toccò il cerottoincrostato di sangue chenascondeva l’ago dellaflebo. Infine uscí dallastanza.
Il corridoio era pocoilluminato. Da qualcheparte arrivava il bip bip
di una apparecchiaturamedica.
Il bambino passòaccantoalcadaverediunuomo grasso riverso aipiedi di una barella. Lafronte contro ilpavimento, una gambapiegata in una posizioneinnaturale. Tra i lembiazzurri del camicespuntava la schienalivida.
Continuò ad avanzaretraballando,comesenonriuscisse a domare legambette. Su un’altrabarella, accanto a unmanifesto cheraccomandava laprevenzione del cancroalla mammella e a unaveduta di Liegi con lacattedrale di San Paolo,era adagiato il cadaverediunadonnaanziana.
Ilpiccolosfilòsottounneon giallo checrepitava. Un ragazzoconunacamiciadanottee le ciabatte di spugnaera morto sulla porta diuna lunga camerata, unbraccio in avanti, le ditacontratte come se nonvolesse farsi risucchiaredaungorgo.
In fondo al corridoiol’oscurità combatteva
contro i bagliori del soleche attraversavano leporte all’ingressodell’ospedale.
Il bambino si fermò.Alla sua sinistra c’eranolescale,gliascensorielareception. Dietro ilbancone di acciaios’intravedevano glischermi dei computerrovesciati sulle scrivanie
e una vetrata ridotta amigliaiadicubetti.
Lasciò cadere iltrenino e corse versol’uscita.Strinsegliocchi,allungò le braccia espinse le grandi portescomparendonellaluce.
Fuori, oltre lascalinata, oltre le striscedi plastica bianche erosse, si stagliavano lesagome nere delle
macchine della polizia,delle ambulanze, deicamiondeipompieri.
Qualcuno gridò. – Unbambino. C’è unbambino...
Il piccolo si coprí lafacciaconlemani.
Una figura goffa glicorseincontroeoscuròilsole.
Il bambino ebbeappena il tempo di
vedere che l’uomo erainsaccato dentro unaspessa tuta di plasticagialla.
Poi fu afferrato eportatovia.
dello zaino che lerimbalzavasullaschiena.Ogni tanto girava latesta.
I cani erano ancora lí.Uno dietro l’altro in filaindiana. Sei, sette. Unpaio piú malconci sierano persi per strada,ma quello grosso,davanti,siavvicinava.
Dueoreprimaliavevascorti in fondo a un
campo bruciato appariree sparire tra le roccescureeitronchianneritidegli ulivi, ma non ciavevadatopeso.
Le era già capitato diessereseguitadabranchidi cani selvatici, tivenivano dietro per unpo’, poi si stancavano eseneandavanoperifattiloro.
Ma quando non li
aveva visti piú avevatirato un sospiro. Si erafermata a bere l’acquache le restava e avevaripresoacamminare.
Marciando le piacevacontare. Contava quantipassicivolevanoperfareun chilometro, contavale macchine blu e quellerosse, contava icavalcavia.
Poi i cani erano
riapparsi.Erano creature
disperate, alla deriva inun mare di cenere. Neaveva incontrati tanti,con i buchi nel pelo, igrappolidizecchecheglipendevano dalleorecchie, le costole difuori.Sisbranavanoperiresti di un coniglio. Gliincendi dell’estateavevano bruciato la
pianura e c’era rimastopoco o niente damangiare.
Superò una fila diautomobili con i vetrisfondati.Erbacceegranocrescevano intorno allecarcasse coperte da unostratodicenere.
Lo scirocco avevaspinto le fiamme fino almare e aveva lasciatodietro di sé un deserto.
La striscia di asfaltodell’A29, che univaPalermo a Mazara delVallo, tagliava in dueunadistesamortadacuisi sollevavano glispunzoni anneriti dellepalme e qualchepennacchio di fumo. Asinistra, oltre i resti diCastellammaredelGolfo,uno spicchio di maregrigiosiimpastavaconil
cielo.Adestraunafiladicolline basse e scuregalleggiavano sullapianura come isolelontane.
La carreggiata eraostruita da un camionrovesciato. Il rimorchioaveva disintegrato lospartitraffico elavandini,bidè,gabinettie schegge di ceramicabianca erano sparsi per
decine di metri. Laragazzina ci passò inmezzo.
La caviglia destra lefaceva male. Ad Alcamoaveva aperto a pedate laportadiunalimentari.
E pensare che fino aicanieraandatotuttoperilversogiusto.
Era partita che era
ancora buio. Ogni voltaera costretta adallontanarsi di piú percercare da mangiare.Prima era facile, bastavaandare a Castellammaree trovavi quello chevolevi, ma gli incendiavevano complicatotutto. Aveva marciatoper tre ore sotto il soleche montava in un cieloslavato e senza nuvole.
L’estate era finita da unpezzo, ma il caldo nonmollava. Il vento, dopoaver attizzato il fuoco,era sparito come sequella parte di creatonongliinteressassepiú.
Inunvivaio,accantoaun cratere lasciato dauna pompa di benzinaesplosa, aveva trovatouno scatolone pieno di
cibo sotto dei teloniimpolverati.
Nello zaino aveva seibarattoli di fagioli Cirio,quattro di pelatiGraziella,unabottigliadiAmaro Lucano, ungrosso tubetto di lattecondensato Nestlé, unpacco di fette biscottaterotte ma ancora buonedascioglierenell’acquaeunaconfezionedamezzo
chilo di pancettasottovuoto. Non avevaresistito, la pancetta sel’era mangiata subito, insilenzio, accovacciatasopraisacchiditerriccioimpilati sul pavimentocoperto di escrementi ditopo. Era dura comecuoio e cosí salata che leavevaarsolabocca.
Il cane neroguadagnavaterreno.
Annaaccelerò,ilcuorechepompavaaritmoconi passi. Non avrebberetto tanto. Dovevafermarsi e affrontarli. Sealmeno avesse avuto uncoltello. Ne portavasempre uno con sé, maquella mattina lo avevadimenticato. Era uscita
con lo zaino vuoto, unabottigliad’acqua.
Il sole era a quattrodita dall’orizzonte. Unapalla arancioneinvischiata in una bavaviola. Questione di pocoelapianuraselosarebbeinghiottito. Dall’altraparte la luna era sottilecomeun’unghia.
Sigirò.Il cane era ancora lí.
Glialtri,unodopol’altro,avevano mollato, lui no.Nell’ultimo chilometrononsieraavvicinato,malei correva, luitrotterellava.
Forse stavaaspettando il buio perattaccare, però lesembrava improbabile, icani non ragionano. E inognicasoleinonavrebberetto fino al buio. La
caviglia le pulsava e ildolore le aveva induritoilpolpaccio.
Superò un cartelloverde. Cinque chilometria Castellammare. Percorrere dritta seguiva lastriscia tratteggiata inmezzoallastrada.Senonfosse stata assordata dalproprio respiro e daipiedi che battevanosull’asfalto avrebbe
sentito il silenzio. Nonc’era un filo di vento, néuccelli, né grilli, nécicale.
Quando passavaaccanto a un’automobilela stanchezza lesussurrava di entrarci,ma il cervello lesuggeriva di non farlo.Poteva provare alanciargli le fettebiscottate, oppure
scavalcare la rete direcinzione, solo cheaveva le maglie strette enonavevavistobuchidacuipassare.
Sullo spartitraffico glioleandri sopravvissuti alfuoco erano carichi difiori rosa e i ramiricadevano pesanti. Ilprofumo dolciastro simischiava a quello dibruciato.
Labarrieraeraalta.Ma tu sei il canguro, si
disse.A scuola la Pini,
l’insegnante diginnastica, la chiamavailcanguroperchésaltavapiú dei maschi. Ad Annanon piaceva quelsoprannome, i cangurihanno le orecchie asventola. Avrebbepreferito il leopardo, che
sa saltare ed è molto piúbello.
Si sfilò lo zaino e lolanciò oltre le piante.Prese la rincorsa, poggiòun piede sul cordolo dicemento,passòtrairamie si ritrovò nell’altracorsia.
Raccolse lo zaino eansimando contò fino adieci.Sollevòunpugnoesorrise. Aveva un bel
sorriso pieno di dentibianchi che raramentemostrava.
Si incamminòzoppicando. Adesso nonlerestavachesuperarelareteederasalva.
Dall’altra parte unascarpata finiva su unastradina che correvaparallela all’autostrada.Nonerailpuntomiglioreper scavalcare con la
cavigliaridottacosí.Posòlozainoesivoltò.
Vide il cane sbucaredagli oleandri egaloppareversodilei.
Non era nero, mabianco, il mantello eraricoperto di cenere eaveva un orecchiomozzo. Era il cane piúgrande che avesse vistoinvitasua.
E se non ti muovi ti
mangia.Si aggrappò con le
mani alle maglie dellarecinzione ma le bracciaerano paralizzate dallapaura. Si girò e scivolò aterra.
L’animale falcò gliultimi metri diautostrada e con unbalzo superò il guardraile il canale di scolo. Lasagoma scura offuscò la
luce del crepuscoloarrivandole addosso coni suoi quaranta chili difetorerognoso.
Anna sollevò ungomitoeloaffondòtralecostole del cane, che sisgonfiò e le stramazzòaccanto.Sitiròsu.
La bestia era stesasull’erba. Uno stuporequasi umano gli
attraversava le pupillenerecomecarbone.
Laragazzinaafferròlozaino da terra e urlandolo colpí. Una, due, trevolte. Prima in testa, poisul collo, e di nuovo intesta. Quello guaivasbalordito, tentando dirialzarsi. Anna ruotò suse stessa come unlanciatore del peso cheprende lo slancio,
compiendo un cerchioperfetto,malacinghiasistrappò e persel’equilibrio. Puntò lagamba, la cavigliadolorante non lasostenne.Cadde.
I due, uno accantoall’altro, si fissarono, poiil cane, ringhiando, sicontrasse e le si avventòcontro a faucispalancate.
Anna sollevò il piedesano e gli affondò iltallone nello sternospedendolo di schienacontroilguardrail.
L’animale atterrò suun fianco. Ansimava, lalunga lingua che gli siarricciava sotto il naso egliocchiridottiafessurebuie.
Mentreilcanetentavadi rialzarsi Anna cercò
qualcosa con cui finirlo.Una pietra, un bastone,ma non c’era nulla, soloimmondizia bruciata,buste di plastica, lattineaccartocciate.
–Checosavuoidame?Lasciami in pace! – gliurlò. – Che ti ho fatto dimale?
Labestialafissavacon
gli occhi carichi d’odio,sollevandolelabbraneree mostrando le zannegiallastre e le bolle dibava tra i molari. Unringhio basso eminaccioso gli vibravanelpetto.
La ragazzina siallontanò sbandando adestra e a sinistra,inciampando nei laccidellescarpe.Glioleandri,
ilcieloscuro,loscheletroannerito di un casolaresenza tetto sfocavano eriapparivano a ognipasso. Si fermò e guardòindietro.
Ilcanelaseguiva.Anna zoppicò fino a
una station-wagon blucon il musoaccartocciato. Laportiera davanti eraspalancata e mancava il
vetro al lunottoposteriore. Con le ultimeforze ci si infilò dentro etirò la porta, ma erabloccata. Provò conentrambe le mani. Losportello cigolò suicardini arrugginiti erimbalzò contro laserratura ossidata. Ciriprovò, niente. Alla finela chiuse annodandointorno alla maniglia la
cintura di sicurezza.Poggiò la testa contro ilvolante e rimase a occhichiusi a gonfiarsi esgonfiarsi dell’ariasatura di escrementi diuccello. I vetri coperti dicenere e polvererendevano l’abitacoloscuro.
Sul sedile delpasseggero le facevacompagniaunoscheletro
ricoperto di guanobianco. I restiincartapecoriti delpiumino Moncler sierano fusi con latappezzeria dellapoltrona, e dagli squarcinel tessuto spuntavanopiume e costole gialle. Ilcranio penzolava sulpetto tenuto dai tendinirinsecchiti. Ai piediportava degli stivali
scamosciati con i tacchialti.
Annapassòsuldivanoposteriore,loscavalcò,siallungò nel bagagliaio esi avvicinò al lunottosfondato. Non aveva ilcoraggio di affacciarsi,ma il cane sembravascomparso.
Si accoccolò accanto adue trolley svuotati.Incrociò le braccia sul
petto infilando le manisotto le ascelle sudate.Aveva consumatol’adrenalina e faticava ateneregliocchiaperti.Lesarebbero bastati cinqueminuti di sonno. Afferròle valigie e cercò diincastrarle nel riquadronella finestra. Una eratroppo piccola, l’altrariuscí a farcela starespingendoconipiedi.
Sicarezzòlelabbra.Losguardo le finí su unapagina di quadernosporca. Sopra c’erascritto in stampatello:AIUTOPERL’AMOREDIDIO!
Doveva essere stataquelladavanti.
Diceva che sichiamava GiovannaImprota, che stavamorendoecheavevaduebambini a Palermo,
Ettore e Francesca,all’ultimopianodiviaReFederico 36. Avevanosolo quattro e cinqueanniesarebberomortidifame se qualcuno nonandava a salvarli. Nelcassetto del comòdell’ingresso c’eranocinquecentoeuro.
Anna gettò via ilfoglio, poggiò la nuca
contro il finestrino echiusegliocchi.
Si risvegliò di colpoimmersa nell’oscurità enel silenzio. Ci misequalche secondo aricordarsidov’era.Perunattimolebalenòl’ideadiuscire a fare pipí, ma ciripensò. Non c’era la
luna. Sarebbe stata ciecaeindifesa.
Aveva una regola.Trovare sempre unrifugio prima che il solecalasse. Un paio di volteera stata sorpresa dalbuio, e si era dovutanascondere nella primacasachecapitava.
Meglio farla nelbagagliaioespostarsisulsedile posteriore. Si
sbottonò i pantaloncini.Mentre li abbassava unrumore improvviso,come un ramo che sispezza, le strozzò ilrespiro. Un rumore dicanicheannusano.
Si tappò la bocca ecadde con il sedere nudosullamoquette,cercandodi non respirare, di nontremare,dinonmuoverenemmenolalingua.
Le unghie dei canigrattavano contro lalamiera facendosussultarelamacchina.
La vescica si rilassò eun calore bagnato lescivolò tra le cosce. Lamoquette sotto lechiappesiinzuppòecifuun attimo di puropiacere in cui schiuse lelabbra.
Cominciò a pregare.
Una disperata richiestadi aiuto che non sirivolgevaanessuno.
I cani si azzuffavanotra loro. Si aggiravanointorno all’automobile.Le unghie ticchettavanosull’asfalto.
Immaginò che fosseromigliaia. La macchinaera circondata da untappeto di cani chearrivava fino al mare e
alle montagne eavvolgeva di pelo ilpianeta.
Si premette le manisulleorecchie.
Pensaaigelati.Dolci e freddi come
palline di grandine, ditutti i gusti. Poteviscegliere quello che tipiaceva di piú da dentrole vaschette colorate e telomettevanosuuncono
di biscotto. Si ricordò diuna volta che era alchiosco dellostabilimentoLe sirene. Siera appiccicata al vetrodel frigorifero: «Lovoglio di cioccolato elimone».
La mamma avevafatto una facciadisgustata. «Cheschifo…»
«Perché?»
«Sono gusti che nonvannod’accordo».
«Posso averli lostesso?»
«Peròpoilomangi».E cosí, con il suo cono
in mano, era andata inspiaggia e si era sedutasul bagnasciuga. Igabbiani camminavanouno dietro l’altro conquegli stecchetti che
avevano al posto dellezampe.
Prima dell’incendio idolci si trovavanoancora. I Mars, lebarrette di cereali, iBounty e i cioccolatini.Eranorinsecchiti,copertidimuffaosmozzicatidaitopi, ma a volte, se erifortunato, ne trovaviancora di buoni. Maicome i gelati, però. Le
cosefreddeeranoandateviaconiGrandi.
Si tolse le mani dalleorecchie.
Icaninonc’eranopiú.
Era quel momentodell’alba in cui la notte eil giorno hanno lo stessopeso e le cose sembranopiú grandi di quello chesono. Una striscia
lattiginosa segnava ilfondo della pianura e ilvento frusciava tra lemacchie di granorisparmiatedalfuoco.
Anna uscí dallamacchinaesisgranchílaschiena. La caviglia eraindolenzita ma, dopo ilriposo, le faceva menomale.
L’autostrada sisrotolavacomeunfilodi
liquirizia. Intornoall’automobile l’asfaltoera coperto di improntedi zampe. A unacinquantina di metri,sopra la strisciatratteggiata, c’eraqualcosa.
Sulle prime le sembròil suo zaino, poi uncopertone, poi unmucchio di stracci. Poigli stracci si sollevarono
trasformandosi in uncane.
ILCANECONTRENOMI
Ilcaneeranatoinunosfasciacarrozze allaperiferia di Trapani,sotto la carcassa di unaAlfa Romeo. La madre,un pastore maremmanochiamato Lisa, lo aveva
allattato per un paio dimesi insieme ai cinquefratelli. Nella dura lottaper i capezzoli, il piúgracile non ce l’avevafatta. Gli altri, appenasvezzati, erano stati dativiaperpochispicciesololui, il piú vorace esveglio, aveva avuto ilprivilegiodirestare.
Daniele Oddo, ilpadronedellosfascio,era
unuomoattentoaisoldi.E siccome il 13 ottobreera il compleanno di suamoglieebbeunapensata,perché non regalarle ilcuccioletto con un belfioccorossoalcollo?
La signora Rosita, chesi aspettava la nuovaasciugabiancheriaAriston, non fuentusiasta di quelbatuffolo di pelo bianco.
Era un demonioscatenato che cagava episciava sui tappeti erosicchiava i piedi dellacredenzadelsalotto.
La donna, senzasforzarsi troppo, glitrovòunnome:Salame.
Ma in casa c’era chi siseccò ancora di piú dellanuova presenza.Colonnello, un vecchiobassotto a pelo ruvido,
scorbutico e mordace,che aveva come habitatnaturale il letto, sulquale saliva grazie a unascalettafattaappostaperlui, e una borsa diVuitton da cui ringhiavaa qualsiasi organismodotatodiquattrozampe.
Tra le sue dotiColonnello nonpossedeva lamisericordia. Azzannava
il cucciolo appena sispostava dall’angolo incuiloavevasegregato.
La signora Rositadecise di chiudereSalame sul terrazzinodella cucina. Ma quelloera cocciuto, piangeva egrattava la porta e ivicini cominciarono alamentarsi. Il suoprecario destino di caned’appartamento cambiò
il giorno in cui riuscí aintrufolarsi dentro e,inseguito dalla padrona,scivolò sul parquetcerato e s’attorcigliò nelfilo di una lampada cheesplose sopra lacollezione di panda diceramica allineata sulmobilebar.
Salamesenetornòperdirettissima allosfasciacarrozze, e ancora
con i denti da latte e lavoglia di giocare gli fumessa una catena alcollo. Lisa, la madre,dall’altra parte dellospiazzo,oltreduemuridicarcasse,abbaiavaaognimacchina che entravadalcancello.
La dieta del cucciolopassò da scatolette dibocconcini di cervo allacucina cinese. Involtini
primavera, pollo albambú e maiale inagrodolce, i resti delChina Garden, un fetidoristorantelídifronte.
AllosfasciocilavoravaChristian, il figlio delsignor Oddo. Forselavorare non è la parolagiusta, bivaccava difronte al computerguardando video pornodentro un container
trasformato in ufficio.Eraunragazzettosmilzoe nervoso, con la testapiena di capelli e unmento appuntito cheenfatizzava con unabarbetta caprina. Avevaanche un secondolavoro, spacciava pillolesvaporate davanti ailicei. Il suo sogno peròera diventare un rapper.Amava come si
vestivano, comegesticolavano, le donnecheavevanoe i lorocaniassassini. Ma non erafacile rappare con la rmoscia.
OsservandoSalamedadietrogliocchialidasolegrandi come schermitelevisivi intuí che quelcane,checrescevavelocee robusto, nascondevadellepotenzialità.
Una sera, chiuso inmacchina davanti a uncentro commerciale,confidò a Samuel, il suomigliore amico, cheavrebbe reso Salame«una maledettamacchinadimorte».
–Certoconquelnome,Salame… – Samuel, chestudiava da stilista, nonlotrovavaadattoperunamacchinadimorte.
–Ecomelochiamo?– Che ne so… Bob, –
azzardòl’amico.– Bob? Che razza di
nomeè?MeglioManson.–ComeMarilyn?– Ma che minchia?
Charles Manson! Il piúgrande assassino di tuttiitempi.
Christian sperava cheun extracomunitario oqualchezingaroentrasse
di notte nello sfascio perrubare e si trovasse difronteManson.
– Te lo immagini ilnegro che cerca discappare scavalcando lareteconlebudellacheglicolano fuori e Mansonche intanto gli azzannale chiappe? –sghignazzava dandograndipaccheaSamuel.
Per rendere il
maremmano piú infameChristian si studiò suinternet i siti di cani dacombattimento. Siprocurò un taser, uno diquegli aggeggi che tisparano addosso unascarica elettrica ad altatensione e ti lascianotramortito, e conquell’affare e un bastonericoperto digommapiuma cominciò
il training pertrasformarlo in unamacchina di morte. Noncontento, in inverno, glibuttava addossosecchiatediacquagelidaper renderlo piúresistente agli agentiatmosferici.
Dopo nemmeno unanno, Manson era cosíaggressivo che pernutrirloeranocostrettia
gettargli la roba dalontano e a riempirgli laciotola dell’acqua con loschizzo della pompa. Unottimo lavoro, visto chela notte non potevinemmeno liberarloperché rischiavi diperderciunamano.
Come per migliaia dialtri cani il destino diMansonsembravaquello
di passare la vita allacatena.
Ilviruscambiòtutto.L’epidemiasiportòvia
inpochimesilafamigliaOddo e il cane rimasesolo e legato. Resistettebevendo l’acqua piovanache si raccoglieva tra lelamiere delle automobilieleccandodaterrairestisecchi del cibo. Ognitanto qualcuno passava
sullastrada,manessunosi fermava a sfamarlo elui ululava disperato,sollevandoilmusoversoil cielo. La madre perqualchetemporisposeaisuoirichiami,poisizittí,e anche Manson,stremato dal digiuno,perselavoce.Nellenaricigli arrivava il lezzo deicadaveri delle fossecomunidiTrapani.
A un certo puntol’istinto gli suggerí che isuoi padroni non gliavrebbero portato piúnulla e che lí ci sarebbemorto.
Lacatenacheavevaalcollo, lunga una decinadi metri, finiva con unpaletto puntato nelterreno. Cominciò atirare, facendo forza conle zampe posteriori e
puntellandosi con quelledavanti.Ilcollare,adessoche era smagrito, gliandava largo, e alla fineriuscíasfilarselo.
Era mal ridotto,coperto di piaghe, lepulci lo avevanodissanguato e faticava acamminare. Passòaccanto ai resti dellamadre, le diede unabreveannusatae incerto
sulle zampe uscí dalcancelloprincipale.
Non conosceva nientedel mondo e non sichiese perché alcuniuomini erano diventaticibo e altri, piú piccoli,erano ancora vivi, maquando lo incrociavanosimettevanoacorrere.
Impiegò poco atornare in forma. Sinutriva di immondizia,
entrava nelle casespazzando tutto quelloche trovava e spessoriuscivaacacciareicorviche banchettavano suicadaveri. Vagando per lestrade incrociò unbranco di randagi e ci siuní.
Quandosiavventòperprimo sulla carcassa diuna pecora gli altri gliringhiarono mostrando
lezanne.Scoprísullasuapelle che nel grupporegnava una gerarchia eche lui doveva starelontanodallefemmineincalore e aspettare il suoturnopermangiare.
Un giorno, in uncampo abbandonatodietro un magazzino dipneumatici, gli sbucòdavantiunalepre.
La lepre è un animale
difficile da prendere, èveloce e compie scartiimprovvisi chedestabilizzanol’inseguitore. Ha solo unlimite,sistancapresto.IlcorpodiManson, invece,eraunamassadimuscoliresistenti. Dopo unacorsa estenuante riuscíadafferrarla,lastrattonòrompendole la colonna
vertebrale e cominciò adivorarla.
Un braccodinoccolato, un gregarioappena piú importantedi lui, con le orecchiependule e un grantartufoinfondoalmuso,gli si parò davanti.Mansonsispostò,lacodabassa, ma nel momentoin cui l’altro iniziò amangiare gli saltò
addosso e con un morsogli strappò un orecchio.Il poveretto, sorpreso eterrorizzato, si giròzampillando sangue eaffondò i denti nelmantello spesso delmaremmano. Mansonfece un balzo indietro euno in avanti, gli siavventò alla gola e gliportòviainuncolposolola giugulare, la trachea e
l’esofago, lasciandolo adibattersiinunapozzadisangue.
I combattimenti tra icanietrailupinonsonoquasi mai letali, servonoadefinirelagerarchiadelbranco, a distinguere igregari dai capi, peròManson era un lottatoreche non rispettava leregole e non si fermavafino a quando
l’avversario non giacevasenza vita. ChristianOddo ci aveva vistogiusto.Quell’animaleeraunamacchinadimorteetutte le sofferenze e letorture che aveva subitolo avevano resoinsensibile alle ferite eimplacabileconivinti.
Il sangue lo eccitava,gli dava energia, gliportava il rispetto dei
gregari e il favore dellecagne in calore. Quelmondo gli piaceva, nonc’erano catene, nonc’erano uomini crudeli ebastava usare le zanneper farsi rispettare. Inpoche settimane, senzanemmeno doversibattereconilcapo,chesibuttò a terraspalancando le zampe,diventò il cane alfa,
quello che mangiava perprimo e ingravidava lefemmine.
Treannidopo,quandol’esplosione di undeposito di metanosorprese il brancomentre accerchiava uncavallo nel parcheggiodelcentrocommercialeIGirasoli, non avevaancora perso il suogrado.Cosacifacesseun
cavallo in quelparcheggio era unmistero che noninteressava a nessuno.L’animale, magro epiagato, era incastratocon uno zoccolo in uncarrello della spesa e sene stava immobile, inuna nuvola di mosche,accanto alle casseautomatiche. Il testonebruno gli ciondolava tra
le zampe. Si trovava inquella condizione diplacida rassegnazioneche prende a volte glierbivori quandoavvertonochelamortelihaabbrancatienonrestaloro che aspettare. I canigli si stringevanointorno senza fretta,quasi svogliati, con laconsapevolezza che
prima o poi avrebberoavutocarnefresca.
Manson,perrimarcareil suo status, fu il primoadavvicinarsialronzino,che sentendo le zanneaffondare in un garrettoscalciò appena. Ma ilfronte dell’incendio,alimentato dal vento,avvolse la scena in unacoltre di fumo acre earroventato. Accerchiati
dallefiamme,spaventatidalle esplosioni dellepompe di benzina, i canisi rifugiarono dentro unmagazzino d’elettronica.Rimasero lí per giorni,mezzo asfissiati, sottouna volta di fuoco, equando tutto fuconsumato e uscironofuori il mondo era unadistesa di cenere senzaciboeacqua.
Anna si tirò indietro icapelli.
Il maremmanostrisciò in avanti e sifermò, l’orecchio ritto egliocchifissisullapreda.
Laragazzinaguardòlarete di recinzione.Troppo alta. Non volevatornare in macchina, cel’avrebbefattamorire, làdentro.
Spalancò le braccia: –
Vieniqui!Cheaspetti?La bestia sembrava
indecisa.– Dài, forza! – Prese a
saltare. – Facciamolafinita.
Il cane si acquattòsull’asfalto. Un corvopassò in altogracchiando.
–Allora?Haipaura?L’animalescattò.La ragazzina partí di
corsa verso la macchinae ci arrivò contro cosíveloce che sbatté l’ancasu una fiancata.Cacciando un lamentos’infilònellaportieraeselachiusedietro.
L’automobile, con untonfo,vacillò.
Anna afferrò lacintura di sicurezza, lagirò nella maniglia e lalegò alle razze del
volante. Attraverso ilvetro opaco vedeva lasagoma scuradell’animale sbatterecontroilfinestrino.
Si buttò dietro e sirannicchiò nelbagagliaio, ma il cane learrivò addosso insiemeal trolley incastrato nellunotto. Lo respinsefacendosi scudo con lavaligiaenelpanicocercò
qualcosa con cuidifendersi. Sotto il sedilec’era un ombrello. Loimpugnòcontutteeduele mani, reggendolodavanti a sé come unapicca.
Annunciato da unringhio il cane balzònell’abitacolo.
Anna gli affondò ilpuntale nel collo e un
fiotto di sangue leimbrattòlafaccia.
Labestiaguaí,manonarretrò.Siallungòoltreilsedile strusciando lagroppa lurida contro iltettodellamacchina.
– Io sono piú forte dite!–Laragazzinalocolpísul costato aprendogliunaboccarossa.Cercòditirare fuori l’ombrello,
mailmanicolerimaseinmano.
Il mostro, con l’astapiantata fra le costole, lesiavventòcontro.Identisichiuseroconunostocapochi centimetri dalnaso di Anna, che fuinvestita da un fiatocaldo e marcio.Riparandosi con i gomitilo ricacciò indietro earretrò sul sedile
anteriore finendo tra leossadelladonna.
Ilcanenonsimosse.Ilpelo imbrattato disangueecenere,laboccagrondante bavarossastra,laguardònegliocchi,piegòilcollocomesevolessecapirlameglio,ondeggiòappenaecrollò.
Anna canticchiava
una canzone che si erainventata: – E arrivaNello con le scarpe dicorallo e i baffi colorcammello.
Nello era un amico disuo papà, guidava unfurgone bianco e ognitanto arrivava daPalermo portando i libriche servivano allamamma. Anna l’avevavistopochevolte,eppure
lo ricordava bene, erasimpatico. Pensavaspessoaisuoibaffoni.
Il sole si era sollevatotra nuvole bianche chestriavano il cielo. Nonfaceva caldo ed erapiacevole sentire i raggisulla pelle infreddolitadallanotte.
La ragazzina siaggiustò lo zaino sullaspalla. I cani ci si erano
accaniti ma non eranoriuscitiadaprirlo.Anchela bottiglia di amaro sierasalvata.
Prima di ripartireaveva dato un’ultimaocchiata al mostro.Tenendosi a distanza,aveva sbirciatoattraverso la portieraspalancata. Un pezzo dimantello sporco sisollevava e si abbassava
con un ansimo sfiatato.Si era chiesta se dovevafinirlo, ma non si fidavaad avvicinarsi. Megliolasciarlo a morire percontosuo.
Percorse una stradache correva accanto allaA29 per poi curvareverso il mare, passandoattraverso una zonacommerciale. Deldiscountincuiuntempo
facevano la spesa eranorimasti solo i pilastri e itralicci di ferro del tetto.La Casa del mobile, doveavevanocompratoarateil divano e il letto acastello, era statadivorata dalle fiamme.La cenere formava unostrato compatto sullascalinata di pietrabianca. I bei vasi con leteste dei mori non
c’eranopiú.Rimanevanogli scheletri dei canapè ediunpianoforte.
Anna attraversò ilparcheggio di unconcessionario Ford conle file ordinate diautomobili bruciate etagliòattraversoicampi.Delle vigne restavanosolo i sostegni dei filariaccanto a mozziconi diulivi e a muretti di
pietra. Una mietitrebbia,accanto al rudere di unacascina, somigliava a uninsetto con la boccapienadidenti.Unaratroinfilava il muso aguzzonella terra come unformichiere. Ogni tantotra le zolle nerespuntavano i getti deifichi e sui tronchiabbrustoliti degli alberigemmechiare.
L’edificio basso emoderno della scuolaelementare De Robertogalleggiava su un marenero tra vampate dicalore che piegavanol’orizzonte. Il campo dibasket alle spalle dellacostruzione era invasodall’erba. Il fuoco avevasciolto i tabelloni deicanestri. Attraverso lefinestre senza vetri si
scorgevano i banchi, lesedie,illinoleumcopertodi terra. Sul muro dellasua classe, la III C, eraancora appeso il disegnodi una giraffa e di unleone che aveva fattoDaniela Sperno. Lacattedra era sullapedana, accanto allalavagna. Tempo prima,dentro il cassetto, avevatrovato il registro e lo
specchietto con cui lamaestra Rigoni sicontrollava i peli sulmento e il rossetto. Disolito Anna entrava e sisedeva al suo banco perun po’, ma questa voltatiròdritto.
In lontananzaapparvero i resti delvillaggio residenziale
Torre Normanna. Duestradelunghecomepisted’atterraggio e cinte davillette formavano unacroceinmezzoallapianaalle spalle diCastellammare.
C’era pure un circolosportivo con due campidatenniselapiscina,unristorante e un piccolosupermercato. Gran
parte dei suoi compagnidiscuolaavevavissutolí.
Ora,dopoisaccheggiegliincendi,dellegraziosecasette in stilemediterraneorimanevano i pilastri dicemento, cumuli ditegole, calcinacci ecancelli arrugginiti.Quelle risparmiate dalfuoco avevano le portedivelte, i vetri in
frantumi e i muri pienidi scritte. I cubetti dicristallo esplosi daifinestrini delle autocoprivano le strade.L’asfalto della piazzettadei Venti si era sciolto eaddensato formandogobbe e bolle, ma lealtalene, lo scivolo e lagrande insegna conun’aragosta viola del
ristorante Il gusto diAfroditeeranointatti.
La ragazzinaattraversò il villaggio apasso veloce. Quel postonon le piaceva. Lamamma diceva che cistavano gli stronziarricchiti cheinquinavanolaterraconle loro fogne abusive.Aveva pure scritto a ungiornale per denunciarli.
Adesso gli stronziarricchiti non c’eranopiú,mailorofantasmilaspiavano dalle finestresussurrando: – Guarda!Guarda! È la figlia diquella che ci chiamavastronziarricchiti.
Superate le case preseunastradinacheseguivail letto di un torrentesecco, snodandosi aipiedi di colline tonde e
brulle trafitte comepuntaspilli dai tutoridelle vigne. Ai marginidella carreggiata lecanne crescevanocompatte, con ipennacchi chesvettavano nel cieloazzurro.
Dopo un centinaio dimetri la ragazzinas’immerse nell’ombrafresca di un bosco di
querce. Secondo Annaquel bosco era magico,l’incendio non erariuscito a bruciarlo, eraarrivato al limitare, loavevaassaggiatoeavevalasciato perdere. Tra itronchi fitti il solechiazzava di macchiedorateilmantod’ederaele rose canine cheavviluppavano unarecinzione fatiscente.
Dietro un cancello ilsentiero affogava tracespugli di bosso chenessuno aveva piúpotato.
Su un pilastro dicemento si riconoscevaappena una scritta:«Poderedelgelso».
Zanchetta e FrancoSalemi.
I due si eranoconosciuti nell’estate del2005.Luiavevaventunoanni e lavorava comeautistaperlaEliteCar,laditta di taxi privati delpadre. Lei ne avevaventitre e studiavaLettere classicheall’Università diPalermo.
Si notarono sultraghetto per le Eolie edurante la traversata sicercaronoconlosguardonella folla di turistiaccalcata sul ponte.Sbarcarono a Lipari.Ognuno con la suacomitiva.
Il giorno dopo siritrovarono alla spiaggiadiPapisca.
Gli amici di Maria
Grazia si facevano lecanne, leggevano libri ediscutevanodipolitica.
Quelli di Franco, tuttimaschi, giocavano apallone, si sfidavano aracchettoni sulbagnasciuga emostravano i muscoligonfiati in palestradurantel’inverno.
L’approccio di Francofu piuttosto goffo.
Fingeva di sbagliare,lanciando la pallinasempre piú vicino aquella bella ragazza cheprendevailsolenuda.
Maria Grazia alla fineglidisse:–Epiantalaconquesta pallina. Vuoiconoscermi? Vieni qui epresentati.
Lui la invitò amangiare una pizza. Lei,ubriaca, lo spinse nel
bagno della pizzeria efecerol’amore.
– Lo so, siamo moltodiversi. Ma è nelladiversità che ci sicompleta, – confessòMaria Grazia a un’amica,stupitachelepiacesseuntasciodelgenere.
Tornati a Palermocontinuarono afrequentarsi e l’anno
successivo la ragazzarimaseincinta.
Franco viveva ancoraconisuoigenitori.MariaGrazia divideva unacamera in unappartamento distudenti e la seralavoravainunavineriaapiazzaSant’Oliva.
La famiglia Zanchettaera di Bassano delGrappa, il padre dirigeva
una piccola azienda diapparecchiature Hi-Fi ela madre insegnava inuna scuola elementare.Lafigliaamavailcaldo,ilmare, la Sicilia e ilcarattere dei suoiabitanti. Finito il liceoaveva deciso ditrasferirsi sull’isolacontro il volere deigenitori.
Maria Grazia non
prese in considerazionel’aborto. Spiegò a Francoche era libero discegliere, potevariconoscere il bambinooppure lei sarebbediventata una ragazzamadre, e andava bene lostesso.
Franco le chiese lamano perché cosí fa unuomoresponsabile.
Sei mesi dopo nel
comune diCastellammare, il paeseoriginario della famigliaSalemi, si celebrò ilmatrimonio.PerisignoriZanchetta la loro figliameritava di meglio diquel tassista terrone, enon si presentarono allacerimonia.
Non ci fu viaggio dinozze. La coppia sitrasferí nel centro di
Palermo, in unappartamento al terzopiano di un vecchiopalazzo vicino al teatroPoliteama.
IlsignorSalemiscoprídi avere problemicardiaci e si ritiròlasciando l’interagestionedellaEliteCaralfiglio.
Duemesidopo,dentrouna piscina gonfiabile
riempita di acquatiepida, venne alla luceAnna, una bambinascuracomeilpapàeconitrattidellamadre.
– Ho messo al mondoAnna accogliendo ildolore. Perché le donnesono capaci di partorirenella serenità della lorocasa –. Questo dicevaMaria Grazia a chi le
chiedeva di quella sceltabizzarra.
La famiglia Saleminonsopportavalanuora.La chiamavano «lapazza». Una chepartorisce come lescimmie, che fuma ladroga, come la devichiamare?
Nei due annisuccessivi Maria Grazia,oltre a occuparsi della
bambina, si laureò edebbe una supplenza diitaliano e latino al liceo.Franco, intanto, avevaingrandito la Elite Carcomprando altremacchine e assumendonuoviautisti.
La coppia si vedeva dirado. Lui tornava a casala sera distrutto con ipacchetti dellarosticceria e crollava sul
letto. Lei di giornoinsegnava e di sera, nelsuo studio pieno di libri,cullava la bambina eleggeva trattati dipsicologia, ecologia edemancipazionefemminile. Cominciò ascrivere delle favole chesperavadipubblicare.
A volte litigavano, main generale entrambirispettavanogliinteressi
dell’altro pur noncapendoli.
E a poco a poco lestesse differenze che liavevanospintiacercarsisi trasformarono in unacrepa che ogni giorno lidivideva un po’ di piú.Senza dirselo, lasciaronoche questa si allargasse,certichenessunodeiduesarebbe stato capace dichiuderla.
Quando la vecchianonnadiFrancomoríglilasciò in eredità uncasolare nella campagnadi Castellammare. Luivoleva venderlo, maMaria Grazia era stancadi vivere in città, nellosmogenelrumore.Annasarebbe cresciuta megliocircondata dalla natura.Franco,però,nonpoteva
trasferirsi, il suo lavoroeraaPalermo.
– Che problema c’è?Verrai i week-end e io tipromettocheimpareròacucinare meglio di tuamadre,–glidisselei.
Chiesero un mutuoallabancaerestauraronoil casolare con vetritermici, un nuovoimpianto diriscaldamento e un bel
tetto nuovo. MariaGraziaseminòungrandeorto biologico, perchésuafiglia,diceva,dovevamangiare verdure senzaschifezze chimiche.Cominciò a insegnare inun liceo diCastellammare.
Dopounannodispolatra città e campagnaFranco perse la testa perla proprietaria della
tabaccheria di fronte algarage della Elite Car.Una sera, trovandocoraggio nel vino,confessò tutto allamoglie.
Maria Grazia loabbracciò forte. – Sonofelice per te.L’importante è che turimangaunbuonpadreevengaatrovaretuafiglia
tutti i week-end, comehaisemprefatto.
Da quel momento irapporti tra i duefiorirono come lezucchinenell’orto.Leiglifece leggere Donne checorrono coi lupi e lui laportò a vedere le FrecceTricoloriaMarsala.
In seguito a un unico,alticcio, slancio dipassione Maria Grazia
rimase incinta di nuovo.Nacque un bambino. Lochiamarono Astor, inonore del grandemusicista di tangoargentino. Francocontinuò a fare avanti eindietro da Palermo e astareconlatabaccaia.
Chissà, forse con iltempo sarebbero tornatiinsieme. Ma dal Belgioarrivò il virus e questa
famiglia, insieme amilioni di altre, fuspazzatavia.
Quando Franco eMaria Grazia morironolasciaronoAnna,dinoveanni,eAstordiquattro.
Il tetto del casale eracopertodafoglieseccheerami. Il portico,sostenuto da pilastri
bianchi, nascondeva laporta d’ingresso. Alpiano di sopra duefinestre con le persianestintedavanoognunasuun terrazzino. Al centrodella facciata, in unanicchia dipinta a calce,c’era una statuetta dellaMadonna avvolta da uncespuglio di capperi.L’intonaco rosa si erascrostatoequelpocoche
restava della grondaiaera scolato sui muririgandoli di verde. Lavite vergine, in soliquattroanni,sierapresaun lato della casa e ilgrande gelso con iltronco nodoso avevaallungatolefrondesoprail tetto come se volesseproteggerlo.
Anna aprí il cancello,se lo chiuse alle spalle e
attraversò il vialetto cheterminavainunospiazzodi terra. A sinistra l’ortoeraridottoauncampodiortiche. Dall’altra parteunalungapancadilegnospuntava tra le erbaccedavanti alla carcassa diuna Mercedes nera e auna fila di bariliarrugginiti in cui Annaraccoglieva l’acquapiovana. Vicino
all’automobile eraaccovacciato unbambino nudo e sporco.Con un rastrellopicchiavailterrenoduro.In testa aveva un cascoda ciclista da cuisbucavano ciocche dicapellineri.
Appenavideilfratellola ragazzina sentíscomparire il peso che le
opprimeva il petto. –Astor!
Il bambino si voltò,sorrise mostrando unafiladidentidisordinatieripreseascavare.
Anna gli si sedetteaccanto,sfinita.
Lui le fissò leginocchiagrattugiateelegambegraffiate.
– È stato un mostro difumo?
–Sí.–Ecom’era?–Cattivo.–Lohaibattuto?–Sí.Astor spalancò le
braccia.–Eragrande?– Quanto una
montagna.Ilbambinoleindicòla
buca. – È una trappola.Per acchiappare ironcerontieitopi.
–Bella.Haifame?Ilfratellinosisgranchí
la schiena. Era magro,conlegambelungheelostomaco gonfio. Icapezzoli sul toracepiatto parevanolenticchie e il visoappuntito era abitato daenormiocchiazzurrichesi posavano sul mondoveloci come api sulnettare.–Nontanto–.Si
preseinmanoilpiselloese lo tirò come fosse unelastico.
Lasorellaglidiedeunaspinta.–Lasmetti?
–Cosa?–Losai.Astor aveva
un’ossessione per il suopisello. Una volta se loera ricoperto di nastroadesivo ed era stato untormentotoglierlo.
Annasisfilòlozaino.–Com’èchenonhaifame?
– Hai trovato dellecosebuone?
Anna fece segno di sí,gli mise una mano sullespalle es’incamminarono versocasa.
Il bel salotto con lavolta a botte, arredato
con mobili rustici etappetipersianidaMariaGrazia Zanchetta, erasepolto sottol’immondizia.Lefinestreerano tappate con deicartonienellapenombrasi scorgevano montagnedi bottiglie, barattoli,libri, giocattoli,stampanti, giornali,biciclette, cellulari,buste,vestiti,radio,pezzi
di legno, peluche ematerassi.
In cucina la lucefiltrava dalle finestredipingendo strisceluminose su nugoli dimosche chebanchettavanotrairestidiscatoletteditonnoedicarne. Sulle mattonelleunte del pavimentocorrevano scarafaggi eformiche. Il tavolo di
marmo era coperto dadecine di bottiglied’acqua, Coca-Cola eFanta.
Anna bevve a lungo. –Stavomorendo.
Astor infilò il musonello zaino. – Batterie nehai?
–No.Le batterie erano
preziose e difficili datrovare, oramai erano
quasi tutte scariche. Laragazzina ne aveva unascorta segreta per latorciaeseAstorciavessemesso le mani sopral’avrebbe consumata persentirelamusica.
Anna tirò fuori unbarattolo di fagioli. –Vuoi?
Ilbambinofecenoconildito.
La ragazzina sollevò
un sopraccigliosospettosa. – Che ti seimangiato?
– Niente. Mi viene datremare.
Gli poggiò una manosulla fronte. – Seibollente –. Non potevaessere la Rossa, eraancora troppo piccolo,ma lei si preoccupò lostesso.–Mettitiqualcosaaddosso.
–Nonmiva.– Vestiti –. Tirò fuori
dallo zaino un grossotubetto bianco. – Sennònienteregalo.
–Cos’è?–Vai.Ilbambinocominciòa
saltare cercando diprendereiltubetto.
– Vai! – Anna uscí dicasa, si sedette sulla
panca e con un coltelloapríifagioli.
Due minuti dopoAstor si presentò con unpiumino lercio che gliarrivavaalleginocchia.–Ilregalo?
Lei glielo diede. –Secondometipiace.
Il bambino lo osservòcurioso, svitò il tappo ecominciòaciucciarlo.
Anna glielo strappò di
manoelospinseinterra.– Cosa ti ho detto millevolte?–Ilbambinoprovòa rialzarsi, ma la sorellagli mise un piede sullosterno bloccandolo. –Chetihodetto?
– Che devo leggere eannusare prima dificcarmilecoseinbocca.
–Eallora?Astor le prese il piede
cercando di liberarsi. –
Tu hai detto che mipiace.Quindièbuono.
– Non importa. Devisempre leggere –. Gliridiedeiltubetto.–Forza.
Il bambino sbuffò,stropicciandosi unocchio. – Ne… Nes...Nest... – S’interruppe eindicòunalettera.–Cos’èquesto?
–Èl’accento.–Eacheserve?
–Aniente.– Nestle. Lat… latte…
co… con… den…condensato.
Astor tornò asucchiare in silenzio,tenendosiconunamanol’orecchio.
Anna trascorse ilpomeriggio asonnecchiaresullapanca
nell’aia. Le botte cheaveva preso nelloscontro con il canecominciavano a farsisentire. Sull’anca cheaveva sbattuto contro lamacchina si era formatoun livido e le nocchedellemanieranogonfie.
Astor era vicino a lei,sotto una coperta. Glitoccòlafronte,scottava.
Laragazzinarientròin
casa, prese la torcia, salíle scale e percorse ilcorridoio fino a unaporta chiusa. Si sfilò lescarpe, accese lalampadaetiròfuoridallatasca dei pantalonciniunachiave,chegirònellaserratura.
Il fascio di luceilluminò un tappeto ascacchi colorati e unascrivania impolverata
con un portatile alcentro. I muri eranotappezzati di disegniinfantili. Case, animali,fiori, montagne, fiumi eunenormesolerosso.Laluce si posò su uncomodinodilegnoscuro,su una pila di libri, sullaradiosveglia, sull’abat-jour e da lí su un lettomatrimoniale con latestiera di ottone. Sulla
sopraccopertarossaebluc’eraunoscheletroconlebraccia incrociate. Tutteleduecentoseiossacheloformavano, dalle falangideipiedialcranio,eranodecorate da sottilissimidisegni geometricieseguiti con unpennarello nero. Sullafronte e sugli zigomierano disposti anelli eorecchini, e sulle orbite
deinididipasseroconleuova coperte dimacchioline. Le vertebredel collo e le costoleerano avvolte da fili diperleecatenined’oro,dacollane di ametista epietre colorate. Accantoai piedi, acciambellato,c’era lo scheletro di ungatto.
Anna si sedette allascrivania, poggiò la
torciasulpianoeapríunquaderno consunto.Sulla copertina dura emarrone c’era scritto: LECOSEIMPORTANTI.
Lesse tra le labbra lascrittura tonda e precisache riempiva la primapagina.
Figli miei adorati, viamo tanto. Tra poco lavostra mamma non cisarà piú e ve la dovrete
cavare da soli. Siete bravie intelligenti e sonosicurachecelafarete.
Vi lascio in questoquaderno delleindicazioni che viaiuteranno ad affrontarela vita e a evitare ipericoli. Tenetelo concura e ogni volta che viverràundubbioapriteloeleggete. Anna, tu deviinsegnarealeggereanchead Astor, cosí potràconsultarlo da solo.Alcuni dei consigli
scoprirete che nonsaranno utili nel mondoin cui vivrete. Le regolecambieranno e io possosolo immaginarle. Saretevoi a correggerle e aimparare dagli errori.L’importanteècheusiatesemprelatesta.
La mamma se ne staandando per colpa di unvirus che si è diffuso intuttoilmondo.
Questesonolecosecheso sul virus e ve leracconto cosí, senza
bugie. Perché non lemeritate.
ILVIRUS
1) Il virus ce l’hannotutti. Maschi e femmine.Piccoli e grandi. Neibambini c’è, ma dorme enonfaniente.
2)Ilvirussirisveglieràsolo quando diventeretegrandi. Anna tudiventeraigrandequandoavrai del sangue scuro
che ti esce dalla topina.Astor tu diventeraigrandequandodalpiselloduro ti uscirà lo sperma,unliquidobianco.
3) Il virus nonpermettediaverefigli.
4) Dopo un po’ che sidiventa grandicomincianoadapparirelemacchie rosse sulla pelle.Avoltevengonosubito,avolte ci mettono di piú.Quandoilviruscrescenelcorpo arriva la tosse, sifatica a respirare, fanno
male tutti i muscoli e siformanodellecrostenellenarici e sulle mani. Poi simuore.
5) Questo punto èmolto importante evoglio che non ve lodimentichiate mai. Daqualche parte nel mondoci sono dei grandi chesono sopravvissuti estanno preparando unamedicina che salveràtutti i bambini.Arriverannoprestodavoie vi cureranno. Dovete
esserne sicuri, dovetecrederci.
La mamma vi vorràsempre bene anche senonèlíconvoi.Ovunquesia,vivorràbene.Ecosíilvostro papà. Anche voidue dovete volervi bene,aiutarvi e non lasciarvimai.Sietefratelli.
Questa parte laconosceva a memoria,malarileggevasempre.
Apríun’altrapaginaalcentrodelquaderno.
LAFEBBRE
La temperatura delcorpo umano ènormalmente36,5.Seèdipiúhailafebbre.Sehaida37 a 38 non è grave. Dipiú bisogna prendere lemedicine.Permisurarelafebbre usate iltermometro. C’è untermometro nel secondo
cassettodellacucina.Èdivetro,quindistateattentia non farlo cadere che sirompe. (Ce n’è pure unodiplastica,mahalapilaenon so per quantofunzionerà). Bisognametterlosottoilbraccioeaspettare cinque minuti.Se non avete l’orologiocontate fino acinquecento piano pianoe guardate dove si fermala striscia d’argento. Se èpiú di 38 bisognaprendere le medicine che
si chiamano antibiotici.Bisogna prenderle peralmeno una settimanaduevoltealgiorno.Cenesono tanti di antibiotici.Augmentin, Mondex,Aziclav, Cefepim. Li homessi insieme alle altremedicine nel mobileverde. Quando finisconobisogna andare a cercarlinelle farmacie o nellecase. Se non trovatequesti qui, guardate nelfoglietto dentro lascatola, c’è scritto il
principio attivo: se è unaparolachefiniscein«ina»va bene. Amoxicillina,cefazolina, cose cosí. Ebisognaberetanto.
Anna si sistemò icapelli dietro le orecchieechiuseilquaderno.
Iltermometrodivetrosi era rotto. Quello diplastica non funzionavapiú. Gli antibiotici che
mamma aveva lasciatonell’armadio se li eranomangiati i topi. Lafarmacia Minerva aCastellammare erabruciatainsiemealrestodelpaese.
Del termometropoteva fare a meno.Astorerabollente,avevasicuro piú di trentotto,maeratardiperandareacercare le medicine,
doveva aspettare finoall’indomani.
Rimise a posto ilquaderno, uscí dallastanza e chiuse a chiavelaporta.
Fuoriilsoleerasparitodietroilboscoel’ariaeraferma.
– Dài, Astor, andiamosu.
Il bambino la seguí acapo chino, gli occhisocchiusi, le bracciapenzoloni.
Lalorostanzaalpianodi sopra era poco piúordinata del resto dellacasa.Nonc’eranorestidicibo, solo mucchi divestiti, giocattoli ebottiglieditutteleformee grandezze. Una coppiadi cassettoni era coperta
dallacascatadicerafusadicentinaiadicandele.Ilmuro, dietro, era nero difuliggine.
Annacopríilfratelloegli diede da bere, ma luivomitòtutto.
Tornò giú. Nel mobileverde, come ricordava,non era rimasto nulla senon cacche di topo.S’immaginò file ditopoliniconlafebbreche
rosicchiavano lepasticche e stavanomeglio.
In salotto trovò unascatola di Crescina.Finiva in «ina», ma nonera sicura che fosseroantibiotici. Il fogliettodiceva che era unintegratore alimentareadatto a uomini e donnedi ogni età e che eraconsigliato per la caduta
deicapelli.Asuofratelloi capelli non cadevano,però male non gliavrebbe fatto. Trovòanche delle supposte diDafalgan. Buone per lafebbreeilmaltesta.
Fece ingoiare ad Astorla Crescina e tirò fuoriuna supposta. – Questavanelculo.
Lui la guardò pococonvinto. – Mi sono
messo un pennarello nelculo,enonmièpiaciuto.Possomangiarla?
Anna sollevò le spalle.–Saràuguale.
Il bambino masticò lasupposta con unasmorfia, poi si girò nellecoperte,rabbrividendo.
La sorella accese unacandela, si sdraiòaccanto al fratellofissando il soffitto e lo
abbracciò, cercando discaldarlo. – Vuoi unastoria?
–Sí…–Quale?–Unabella.Anna ripensò al libro
di fiabe che le avevaregalato la mamma. Lasua preferita raccontavadel povero Cola Pesce. –Questa è una storia diquando c’era il re e non
esistevailFuoriec’eranoancoraiGrandi.AllorainSicilia viveva un ragazzoche si chiamava ColaPesce e sapeva andaresotto al mare come unpesce.
Astor le strinse lamano. – Ma il mare èfattotuttod’acqua?
–Sí,salata,nonsipuòbere. Cola Pesce eratalmente bravo che
riusciva a scendere finoinfondo,dov’èscurochenon si vede niente. E lísotto prendeva i tesoridelle navi affondate e liriportava a galla. Eradiventato cosí famosocheilredecisedifarglilaprova.
–Perché?– Perché i re decidono
tuttoloro.Insomma,ilregettòinacquaunacoppa
d’oro e Cola Pesce glielariportòsubito.Ilreallorafeceandarelasuanavealargo,sitolse lacoronaela gettò in mare.Vediamoseciriescipurequi, gli disse. Cola Pescesi buttò e rimase sottotantissimo. Mentreoramai sulla nave sibrindava…
– Che vuol direbrindare? – mugugnò
Astor con il pollice inbocca.
– Che fai sbattere lebottiglie. Mentre sullanave si brindava ilragazzo tornò con lacorona.Ilreperònoneraancora contento. Si sfilòl’anello prezioso cheteneva al dito e lo gettòinunpuntocosíaltochealle ancore finiva lacorda prima di toccare il
fondo. Te la senti,Nicola?,glidomandòilrecon un sorrisetto. CertoMaestà, disse Cola Pesce.Prese aria e si immerse.Tutti sulla navefissavano il mare bluscuro.Nonsapevanochela loro nave galleggiavacome un tappo disugherosuunafossacosíprofonda, ma cosíprofondachesegettiuna
pietra tocca il giornodopo.Inquelbuioeternovivevano creature chenessun essere umanoaveva mai visto eimmaginato. Lunghiserpenti trasparenti,sogliole luminose larghecome campi di zucche,polipi cosí grandi checon le braccia possonopure stritolare una casa.Rimangonoduegiorniad
aspettarlo. Poi il re, conuno sbadiglio, ordina aisuoi marinai: Torniamoa palazzo. È morto. Inquel momento uscí dalmare Cola Pesce. Eratutto pallido. In manostringeva l’anello del re.Maestà, le devo dire unacosa importante. Sonoscesoinfondoinfondoeho visto che la Sicilia èpoggiata su tre colonne.
Una però è tutta rotta etra un po’ crollerà… –Anna osservò il fratello,checonilrespiropesantecontinuavaaciucciarsiildito. – La Siciliasprofonderà in mare. Ilrecipensòunpo’.Allorasai cosa ti ordino, miocaro Cola Pesce? Vaisubito giú e reggi lanostra isola. Il ragazzoguardò il sole, il cielo, le
coste della terra che nonavrebbemaipiúrivistoedisse:Sí,miore.Preseunrespiro cosí grande cherisucchiòl’aria,lenuvolee le alghe secche dellaspiaggia e s’immerse. Daquel giorno non è piúrisalito. Ecco. La storia èfinita.
Astor dormiva con ilcapopiegatosulcollo.
Anna pensò a quel
poverettochesenestavatutto solo in fondo almare a reggere l’isola.S’immaginò di scendereda lui come unpalombaro e diraccontarglicheilsuoreeramorto,epuretuttalacorte, e che la Sicilia erasolodeibambini.
Mangiò dei fagioli eprese la bottiglia diamarocheavevatrovato
nelvivaio.L’avvicinòallafiammella della candela.Sull’etichetta c’era unacontadinaarrabbiatacheteneva una mano sulfianco e con l’altrareggevauncestopienodierbe.
Tale e quale allamaestraRigoni.
Ancheleisimettevainquel modo quando inclassec’eracasino.
Lo assaggiò. Era cosídolce che le fecearricciare le dita deipiedi.
Certe cose dei Grandinon le capiva. Perché lochiamavano amaro, seeradolce?
Continuòaberefinchésentí le palpebre farsipesanti. Fuori dallafinestra milioni di stellesporcavano il cielo come
schizzi di vernice biancae le cicale cantavano.Conl’arrivodelfreddosene sarebbero andate.Nonleavevamaiviste,lecicale, ma per fare tuttoquel rumore dovevanoesserebellegrosse.
Si svegliò abbracciataal fratello. Eranotalmente sudati che
avevano bagnato ilmaterasso. Accese latorcia e l’avvicinò adAstor. Aveva la facciaaffondata nel cuscino edigrignavaidenti.
Prese la bottigliadell’acqua da terra ebevve fino a riempirsi lostomaco. Fuori adessoera tutto immobile, soloil richiamo di un uccellonotturno e il respiro
pesante di Astorrompevanoilsilenzio.
Si alzò e si sedette sulterrazzino, godendosi ilfresco. Oltre le sbarrearrugginite, oltre lesagomeneredeglialberi,si allargava l’immensitàbruciata e muta dellapianura.
L’uccello lanciava isuoi piiii piiii dal ficodietro la casetta degli
attrezzi. Era semprestato un alberello, manegliultimidueannieracresciuto e i rami ormaiarrivavanoaterra.
Si ricordò che lamamma una volta ciaveva legato le cordedell’altalena, ma papà leaveva detto che il fico èun albero traditore e sispezzafacile.
Però, ripensandoci,
non era proprio sicura.Forse la storia del ficotraditore l’aveva letta suqualche libro o l’avevasognata. Spesso i ricordisi impastavano con lecosescritteeconisogni,e anche quelli di cui eracerta, con il tempo, sistingevano comeacquerelliinunbicchiered’acqua.
Ripensò a Palermo. Al
loroappartamentodacuisi vedeva un ufficiopieno di gente davantiagli schermi. Ricordavacose insignificanti. Lascacchiera bianca e neradelle mattonelle delsalotto. Il tavolo dellacucinaconilbucodovesiinfilava una mazza cheserviva a tirare la pasta.Lo stendino dei pannicon gli angoli
arrugginiti. Però nonricordava piú le facce dinonno Vito e di nonnaMena. In verità tutte lefacce dei Grandi stavanosvanendo, soffocate daigiorni.Ivecchiavevanoicapelli bianchi, alcuniuomini si facevanocrescere la barba, ledonne si coloravano icapelli,sidisegnavanolapelle e si mettevano i
profumi. La sera sisedevano ai bar ebevevano il vino neibicchieri. C’erano unsacco di camerieri. Neiristoranti di Palermo tiportavano la parmigianadi melanzane e glispaghetti.
La mamma alla fineodiava Palermo, perché ipalermitani nonvolevano restare in
quarantena. Annaricordava che quando laRossa non era ancoraarrivataaCastellammareaveva smesso dimandarla a scuola. Sierano barricati in casaconscortedicibostipateincucinaeinsalotto.
Una sera era arrivatopapà sulla Mercedes. Lamacchina avevasbandato per il vialetto
ed era finita contro lepancheeilclacsonavevainiziato a suonare. Papàera uscito piú morto chevivo, non sembravanemmeno lui. Aveva ilvoltosucchiatodalvirus,gli occhi gonfi ed eracoperto di macchie. Siera trascinato fino allaporta,malamammanonlo aveva fatto entrare.
«Vai via! Sei infetto!» gliurlava.
Luibussavacontuttiedue i pugni. «Vogliovedere i bambini. Unattimo. Fammeli vedereunattimosolo».
«Vattene. Ci vuoiammazzare?»
«Maria Grazia, apri, tiprego…»
«Perl’amorediDio,vaivia. Se vuoi un po’ di
bene ai tuoi figli,vattene». La mamma siera accasciata in terra,piangendo. Lui erarisalitobarcollandosullaMercedes ed era rimastolí, latestabuttatacontroil finestrino, la boccaspalancata.
Anna, arrampicatasullo schienale deldivano,loguardavadallafinestra. La mamma
aveva chiuso le tende,l’avevapresainbraccioel’aveva messa nel suoletto insieme ad Astor.Lei si aspettava che ledicesse qualcosa, inveceerano rimasti tutti e treinsilenzio.
Il giorno dopo papàera morto. Mammatelefonò e vennero aprenderselo.
Avrebbe potuto
salutarlo, stargli vicino,ma sua madre nonsapeva ancora che ibambini non siammalavano.
Poco dopo era toccatoalei.
Di quel periodo lerestavano immaginiconfuse. La mamma chescriveva tutto il giornocon il gomito sul tavolo,mezza nuda. La mamma
cheriempivailquadernodelle Cose Importanti. Icapelli lunghi e biondiche le colavano giú amazzi, sporchi, e lenascondevano la faccia.Le caviglie sottili. Ipolpacci lunghi. Le ditadeipiedipremutecontroil pavimento. La curvaincavatadellapanciaches’intravedeva nelletrasparenze della
vestaglia slacciata. Lemacchie rosse sul collo esulle gambe. Le crostesullemaniesullelabbra.La mamma che nonsmettevaditossire.
Era passato tantotempo, eppure quandoAnna ci pensava lanostalgia era cosí forteche le sembrava disprofondareinunbucoe
di non riuscire piú auscirne.
Il giorno liberò nelcielo azzurro unamandria di nuvolettebianche.
Astor era meno caldo,ma non stava ancorabene. Gli occhi grandi espaesati gli occupavanotutto il volto, come a un
pulcino. Appena Annaprovava a farlo berecacciavafuoribilegialla.
La fissava stremato,tastandosi lo stomaco. –Mifamalequi.
– Senti, io vado acercare le medicine.Primavado,primatorno.
–Vengoconte.– Lo sai che non puoi.
Vuoi che i mostri difumotiprendano?
Il bambino scosse latesta. – Allora non vaineanchetu.
–Tiportounregalo.–Nonlovoglio.Annascosselatesta.–
Nonèpossibile.Astor si girò
imbronciato dall’altraparte.
– Che ne dici se primafacciamoilNatale?
Il bambino si girò di
scatto,tuttoeccitato.–IlNatale? Ti va?Veramente?
–Certo.–Eilregalocel’hai?–Certo.–Alloraminascondo?–Nasconditi.Astor si mise sotto la
coperta. Anna aprí lastanzadellamammaedaun cassetto dellascrivania tirò fuori il
lettore cd. Poi s’infilò uncappellodaBabboNatalee dei moon boot rossi. Amalincuore, prese ilpeluchediunporcospinochenascondevasopraunmobile, fuori dallaportata di Astor. Glieloaveva regalato nonnaMena per la sua festa.Astor lo desiderava dasempre ma lei si erasempre rifiutata di
darglielo. Lo incartò inunfogliodigiornale.
– Vieni? Io sonopronto,–urlòAstor.
Anna spinse play eunacanzonepartíatuttovolume.
Per festeggiare ilNatale usava The Ghettocantata da GeorgeBenson. Non sapevaperché.Forseperilritmotrascinante,forseperché
aveva trovato il cdaccanto a un albero diNataleinunautogrill.
Subito cominciò aballare. Un ballo checonsisteva nel muovereil culo a destra e asinistra, le mani suifianchi, la testa avanti eindietro come unpiccione che becca ilmangime. Suo fratelloera una collinetta
fremente sotto lacoperta. Gli passòaccanto cantando, saltòin piedi su una sedia econtò puntando l’indice.– Uno… Due… E tre. VaiGhetto!Toccaate.
La coperta volò via eAstor prese ad agitarsi.Usava molto i polsi eogni tanto si dava dellemanate in testa. Il suo
ballo di Natalefunzionavacosí.
Anna era sollevata. Seballava, non stava tantomale.Forseeratuttaunascena per tenerla a casa.Peròvomitava.
– Il regalo! Dammi ilregalo.
Anna cacciò fuori ilcartoccio e lo porse alfratello.–BuonNatale.
Astor strappò il
pacchetto e guardò ilpupazzo. – È mio?Veramente?
–Sí,ètuo.I due fratelli ripresero
a ballare mentre GeorgeBensondicevachequellolíerailghetto.
Anna mise nello zainouna bottiglia d’acqua,una scatola di piselli, un
coltello da cucina, dellepile elettriche ancorabuone e un doppio cd diMassimoRanieri.
Pronta.SalutòAstor,chesiera
rimessoalettoconilsuonuovopeluche,epartí.
si era spinta oltre lafattoria dei Mannino. Lescorte della mammasembravano infinite, madopo un anno nonrestava che qualchescatola di mais, che adAstorfacevamale.
La fattoria era aimargini del bosco. Unacostruzione lunga ebassa, con il tetto ditegole rosse. Proprio di
fronte c’erano le stalleconirecintidimetallo.Aunlatoilfienileconballedifieno.
IconiugiManninoselieraportativialaRossaeifigli, troppo piccoli persopravvivere da soli,erano spirati nel loroletto a castello. Eranocontadini, genteprevidente, e la grandedispensadietrolacucina
era piena di barattoli dimelanzane e carciofinisott’olio, di conserve,marmellate e bottiglie divino, di cosci diprosciutto. Anna ciandava a fare provviste,ma un giorno la trovòripulita. Era passatoqualcuno e si era presoquello che aveva potuto.Il resto era sparso interra.
Fu costretta adampliare il raggio dellesue esplorazioni. Nelprimo gruppo di casetteche trovò, tra cadaveri,mosche e topi, razziò ipensili delle cucine.All’inizioattraversavagliappartamenti con lemani sulla faccia,cantando e spiando icorpi attraverso le dita,ma le bastò poco per
abituarsietrattarlicomepresenze fisse e curiose.Erano tutti diversi,ognuno con unaposizione eun’espressione propria,poi, a seconda del gradodi umidità,dell’esposizioneallaluce,della ventilazione, degliinsetti e degli altrianimali necrofagi sitrasformavano in filetti
di baccalà o in poltiglierivoltanti.
Per impedire ad Astordi seguirla o di farsimale, prima di uscire lochiudeva con i suoipeluche e unabottiglietta d’acqua nelripostiglio sotto le scale.All’inizio il bambinopiangeva e si disperava,battendo i pugni controlaporta,madopounpo’,
essendosveglio,capíchequella prigionia aveva isuoi lati positivi. Ognivoltalasorellariaprivalaportaconciboeregali.
Astor raccontava chequando stava lí, al buio,dal pavimentospuntavano glianimaletti che vivevanosottoterra. – Sono comele lucertole, ma hanno i
capelli biondi e parlanoconme.
Anna era soddisfattadella sua trovata. Eralibera di muoversi e suofratello non vedeva ladistruzione, i cadaveri,non sentiva quell’odoredolciastro da cui non tiliberavi nemmenoaspirandoilprofumo.
Con il passare deltempo, però, Astor
ricominciò a fare icapricci. Prima voleva laluce, e Anna non potevacerto accendergli unacandela nellosgabuzzino.Poicominciòa sostenere che lelucertole capellone nonlo volevano piú e glidicevanolecosebrutte.
Infine arrivò il tempodelle domande. Cosa c’èdopo il bosco? Perché
non posso venire con tenelFuori?Cheanimalicivivono?
Anna, per convincereil fratello a lasciarsirinchiudere,ogniseragliraccontava le storie delFuori. Lui le ascoltava insilenzio fino a quando ilsuo respiro si facevaregolare e il pollice glicadevadibocca.
Il Fuori, oltre il bosco
magico, era una tavolamorta. Nessuno erascampato alla furia deldio Danone (Anna loaveva chiamato cosí inonore dei budini alcioccolato che ricordavacon nostalgia): uomini,bestie,bambini.Lorodueavevano la fortuna divivere in quel bosco cosínascosto e fitto che ladivinità non riusciva a
vederci dentro. Lí sierano rifugiati i pochianimali sopravvissuti.Oltre gli alberi c’eranosolo buche e ruderiabitati dai fantasmi. Infondo ai fossispuntavano il cibo e laroba. A voltegermogliavanoscatoleditonno,avoltebarrettedicereali, a volte giocattolie vestiti. In quel mondo
si aggiravano i mostri difumo servitori del dioDanone. Giganti fatti digas nero che uccidevanochiunque li incrociasse.Certesere,neiraccontidiAnna,imostridifumositrasformavano inanimali preistorici,ugualiaquellisulGrandelibro dei dinosauri.Attendevano solo cheAstor facesse un passo
oltre il podere permangiarselovivo.
– E non possoscappare? Io sono moltoveloce.
Anna era categorica. –Impossibile. E poi anchesenoncisonoimostridifumol’ariaèvelenosaetiucciderebbe. Superi larete e dopo pochi metrimuori.
Astor si mordeva le
labbrapococonvinto.–Eperchétuno?
–Perchéquandotueritroppo piccolo mammamihadatounamedicinaspeciale e i mostri nonpossono farmi nulla –.Maaltrevoltediceva:–Iosono magica. Sono natacosí. Quando morirò lamagia passerà a te epotrai uscire e andare a
prenderti da mangiaredasolo.
– Non vedo l’ora chemuori. Voglio vedere imostridifumo.
Annadovettespiegareal fratello cos’era lamorte. Erano circondatida cadaveri, eppure nonsapeva come fare. Cosícatturavatopielucertolee glieli ammazzavadavanti.
–Vedi,adessoèmorto.È rimasto solo il corpo,dentrononc’èpiúlavita.Puoifarequellochevuoi,ma non si muoverà piú.Se n’è andato. Se ti douna martellata in testasuccedeancheate,tenevai dritto all’altromondo.
–Dov’èl’altromondo?Anna si spazientiva. –
Non lo so. Dopo il bosco.
Ma è sempre buio efreddoancheselaterraèinfuocata e ti bruciano ipiedi. E sei solo. Non c’ènessuno.
– Nemmeno lamamma?
–No.Astor però non
mollava. – E quanto cirimaninell’altromondo?
–Persempre.Queste lunghe e
tortuose discussioniontologiche lasfiancavano. A volteAstor si lasciavaconvincere, altre, comese intuisse che la sorellanon gli stavaraccontando la verità,cercava lecontraddizioni. – E gliuccelli che passano inalto, in cielo, comefanno? Io li vedo. Perché
loro non muoiono? Micahanno avuto lamedicina.
Anna improvvisava. –Sopra l’aria velenosa gliuccellicipossonovolare,ma non possonofermarsi.
–Ancheiocelafaccio.Nonmifermomai.Saltodaunalberoall’altro.
–No,muori.–Possoprovare?
–No.Ad Anna venne
un’idea. Tra il bosco e icampi, a un centinaio dimetri dai confini delPodere del gelso, c’eranole stalle dei Mannino. Levacche erano morte disete e le carcasse eranopiene di vermi,avvicinandosi l’odore diputrefazione toglieva ilfiato.
Anna accompagnò ilfratello alla recinzione. –Ascoltami bene. Vistochecitienitanto,tiportofuori. Però ricorda, iosono magica e non losentol’odoredellamorte.Quindidevistareattentotu. Appena ti arriva unpuzzo schifoso, davomitare, vuol dire chestai per morire. Corriindietro velocissimo,
nontifermare,superalareteeseisalvo.
Ilbambinononerapiútanto convinto. –Preferiscodino.
Annasorrisedentrodisé e lo afferrò per unpolso. – Adesso ci vai,cosí la pianti con tuttequestedomande.
Astor si mise apiangere, puntò i piedi esi attaccò a un ramo.
Anna dovettetrascinarlo.
–Forza!– No, ti prego… Non
voglio andare nella terrachebrucia.
Lo sollevò di peso e logettò oltre la recinzione,poi scavalcò anche lei elo spinse, tenendolo peril collo, tra i tronchicoperti di edera e ipungitopo.Astor,congli
occhi gonfi di lacrime, sitappava la bocca. Maanche cosí l’odore dicarognaglipenetrònellenarici. La guardòdisperato, facendolesegnochesentiva.
–Vai!Corriacasa!Il bambino con un
saltodagattorientrònelpodere.
Da quel giorno non fupiú necessario chiudere
Astornellosgabuzzino.
L’aria era fresca emetteva voglia dicamminare.
Anna si lasciò il boscoalle spalle, costeggiòTorre Normanna eimboccòlaprovinciale.
Deicorvisenestavanoappollaiati sui fili dellacorrente e le
gracchiavano controcome beghine vestite alutto.
Aumentò il passo.Mancava ancora tanto alminimarket dei gemelliMichelini.
Paolo e MarioMichelini erano gemelliomozigoti. Di un annopiú grandi di Anna,
erano in quarta quandoleistavainterza.Grandi,grossi e identici. Stessiocchietti inespressivi,stessi capelli colorcarota. Macchiati dilentiggini come seappena nati li avesserolasciati accanto a unapentola di ragú bollente.A scuola erano somari enon facevano mai icompiti, ma con la loro
stazza impaurivanotutti, anche le maestre.Se c’era un pallone ingiro, lo prendevano, e selo rivolevi indietrodovevipagare.
La madre li vestivauguali: tuta blu,maglietta rossa e scarpeda ginnastica. Il padreavevaunDesparaBusetoPalizzolo.
Prima del virus Anna
li incontrava sulloscuolabus,maquellinonse la filavano, sisedevano in fondo egiocavano con ilNintendo in silenzio,tanto per capirsi glibastavaniente.Perloroilmondo si guardava conquattro occhi, si toccavacon venti dita, sipercorreva con quattro
piedi e si pisciava conduepiselli.
Dopo l’epidemia adAnna era capitato dipassare davanti alDespar. La serranda eraalzata e i distributori digommeeliquirizieeranoaccanto alla porta vicinoa una fila ordinata dicarrelli.Intornoeratuttosporcizia e distruzione,malíeraperfetto.Edopo
unacertaoralaserrandaera abbassata, propriocome se non ci fossestata la Rossa. L’unicacosa che mancava era laluceall’insegna.
Anna si era chiesta seilpadredeigemellifossetornato dall’aldilà. Ognivolta aveva una vogliaterribile di entrare escoprire la verità, maaveva paura. Ci ronzava
intorno, fissandol’ingresso con l’adesivodel cane dietro la croceche diceva: «Noirestiamofuori».
Un giorno, dopo averfatto avanti e indietro,aveva spinto la porta avetri. Una campanellaaveva tintinnato. Dentroera uguale a quando ciandavaafarlaspesaconla madre rientrando
dalla spiaggia. Il cibosugliscaffali, ipanettoniin offerta speciale, lavetrina con le radio e irasoi per i soci. Solo ilbanco del formaggio edegli affettati era vuoto,e mancavano le cassetteconlaverdura.
Anna avevaattraversatoinsilenzioilnegozio come in unsogno. Se avesse
allungato la mano, ibarattoli, le scatole dicereali e le bottiglie diaceto balsamicosarebbero di sicurospariti.
–Chedesideri?I due gemelli erano in
piedi, uno accantoall’altro,conlelorotuteele scarpe bianche. Unoimbracciavaunfuciledacaccia.
–Vuoiuncarrello?Anna aveva fatto
segnodino.– Abbiamo tutto,
anche le uova di Pasquacon la sorpresa e laNutella,–avevaspiegatoquelloconilfucile.
La Nutella erararissimadatrovare.Erastata una delle primecose a sparire dopol’epidemia.
Anna si era guardataintorno. – Pure i FerreroRocher?
–Certo.– E come vi pago?
Volete i soldi? – Masapeva che di soldi erapieno il mondo e anessunointeressavano.
– Noi scambiamo. Haiqualcosadascambiare?
Aveva cercato nelletasche dei pantaloni. –
Houncoltellinosvizzero.I due orsacchiotti
avevano scosso la testainsieme.–Ci interessanole batterie, ma devonoessere cariche, lecontrolliamo. E ciinteressanolemedicineeicddiMassimoRanieri.
Anna aveva sollevatoun sopracciglio. – Chi èMassimoRanieri?
– È un cantante
famoso.Piacevaanostropadre, – aveva rispostoquello con il fucile. – Perlui possiamo darti anchetre barattoli di Nutellagrande o sei Tobleronepiccoli. Ogni cosa chevedi qui dentro puòessere scambiata. È unminimarket.
Anna non aveva maisentito pronunciare
tante parole di fila aigemelli.
Nei mesi successiviovunque andassecercava i cd di MassimoRanieri. Era pieno diVasco Rossi e di LucioBattisti, ma nienteRanieri. Poi, un giorno,in un autogrill, avevatrovato tra custodie ditelefonini, deodoranti elibri fradici, un album
triplo che si chiamavaNapolielemiecanzoni.
Con quello si sarebbefattadaregliantibiotici.
Aveva preso la stradasbagliata. Ce n’era unapiú breve per andare daigemellieppure,comeseisuoi piedi avesserodeciso per conto loro, si
era ritrovatasull’autostrada.
La macchina condentroilcaneeralí.
Anna fissava laportiera spalancatamordendosi l’unghia delpollice. Voleva rivederloprima che i corvilasciasserosololeossa.
Tirò fuori dallo zainoil coltello, si avvicinòall’automobile e spiò
all’interno. Scorse unpezzo di pelliccia sporca.Cacciò uno strillo, manon successe nulla. Sisporse di piú. Attraversolo spazio tra le poltroneanteriorivideilcane.Eranella stessa posizione incui lo aveva lasciato.Sotto il collo il sangue siera seccato e il divanoposteriore ne era zuppo.Grossi mosconi
metallizzati ci siposavano sopra. Dallabocca aperta la linguapendevasopralegengivescure coperte di bava.L’unico occhio visibile,grandecomeunbiscottoenerocomepetrolio,eraspalancato e fissava ilvuoto. Respirava cosípiano che non si sentivaquasi. La coda eraabbandonata tra le
zampe di dietro, scossedaunleggerotremore.
Anna lo toccò su unfianco con la punta delcoltello.L’animalenonsimosse, ma spostò lapupilla inquadrandolaperunattimo.
La sua anima oramaistava stretta dentro quelmantello sporco.Succedeva a tutti quelli
che morivano, bestie ouomini,nonimportava.
Negli ultimi quattroanni Anna aveva vistotanti ragazzini riempirsidi macchie e andarsene.Buttati in un sottoscalabuio, dentro unamacchina come quelcane,sottounalberooinun letto. Combattevano,ma a un certo puntotutti, nessuno escluso,
capivano che era finita,come se la morte stessaglielo avesse sussurratoin un orecchio. Alcunitiravano avanti ancoraper un po’ con questaconsapevolezza, altri loscoprivano solo unistanteprimadispirare.
La mano di Anna,quasi di propriainiziativa, si allungò e
carezzò la fronte delcane.
La bestia rimaseimmobile e indifferente,ma a un tratto la coda sialzò e ricadde in quelloche poteva sembrare unfiaccoscodinzolio.
Annascosselatesta.–Allora, brutto bastardo,nonseimorto?
Tra l’immondizia cheriempiva il canale di
scolo accanto alguardrail trovò unpallone di plasticasgonfio. Lo tagliò in duee con una metà tornò inmacchina. Prese labottiglia dallo zaino e nevuotò metà nella ciotolaimprovvisata. L’avvicinòalla bocca del cane chesulleprimenonladegnòdiattenzione,poisollevòappena il muso e, quasi
di malavoglia, immerselalinguanell’acqua.
La ragazzina gliavvicinò la scodella. –Bevi!Forza,bevi.
L’animale diedeancora qualche leccata esiributtògiú.
Anna prese unbarattolo di piselli, loaprí e glielo versòaccantoallabocca.
Ilsuol’avevafatto.
Anche BusetoPalizzolo, un paesino dicase moderneammucchiate sotto unacollina, aveva fatto iconti con il fuoco. Gliincendi, però, avevanosolo accarezzato ilDespar dei Michelini,annerendo i muri dellapalazzina e fondendo leserrandediplasticaverdideipianisuperiori.
Anna bussò sullasaracinesca. – Aprite, hoda fare uno scambio –.Aspettò un po’. – C’èqualcuno? Mi sentite?Sono Anna Salemi, dellaIIIC.Hounoscambiodafare. Aprite –.Spazientita, girò intornoallacostruzione.
Laportadiserviziosulretro era sbarrata eattraverso le finestrelle
protette dalle grate nonsi vedeva nulla. Tornòdavanti, provò asollevarelaserranda,maera chiusa. Le mollò uncalcio. Aveva cercatoquello stupido cd permesi e aveva fatto tuttaquella strada per niente.E adesso dove li trovavagliantibiotici?
– Vabbe’, io me nevado.Avevolamusicadi
Massimo Ranieri. Èmoltobellaesecondomenoncel’avete–.Avvicinòl’orecchio allasaracinesca.
Qualcuno si muovevaall’interno.
– Lo so che sietedentro.
– Vai via. Qui non siscambia piú niente, –rispose una voceassonnata.
– Neppure MassimoRanieri?
Laserrandasiarrotolòcon un rumore diferraglia. Dalle tenebredel negozio emerse lasagoma di uno dei duegemelli.Avevainmanoilfucile.
AnnanoncapísefosseMariooPaolomalebastòuno sguardo peraccorgersi che aveva la
Rossa. Le labbra eranocoperte di crosticine etagli vivi, le narici eranogonfieeirritate,gliocchicerchiati. Una macchiarossastra gli copriva ilcollo. Poteva vivereancora qualchesettimana, se eraresistente un paio dimesi.
Prese il cd dallo zaino.–Allora,lovuoi?
Il gemello strizzò gliocchi. – Fammi vedere –.LoosservòeloridiedeadAnna. – Ce l’abbiamo. Epoi Massimo Ranieri miha rotto. PreferiscoDomenicoModugno.
Anna allungò il colloper sbirciare all’interno.–Seisolo?
Il ciccione cominciò atossire e scatarrò a terraunapoltigliagiallognola.
– Mio fratello è morto –.Sollevò lo sguardo econtò tra le labbra. – Dacinquegiorni.
Anna attese solo unpaio di secondi. – Senti,hobisognodimedicine.
– Ti ho detto che nonscambiamo piú niente –.Il gemello si girò eciabattando rientrò nelminimarket. Lei lo seguíall’interno.
Gli occhi ci misero unpo’ ad abituarsiall’oscurità. Era tutto aterra,barattolidimieleedi confettura di arance,croccantini per cani,scatolediragú,tubettidipasta d’alici. Una lattad’olio si era rovesciata ecocci di bottiglia eranoimmersi in unapozzangheradivino.
Lesistringevailcuore
avederetuttoquelbendidiobuttatocosí.Ilgiornoprima era stata quasisbranata per quattroscatole di fagioli. – Macheèsuccesso?
–Nonhopiútenutoinordine.
– Allora me le dàiqueste medicine? Èimportante, sono permio fratello. Se vuoi hoanchedellepilecariche.
Il gemello andò dietroil bancone, poggiò ilfucile contro il muro, siaccasciò con le gambestese e le bracciapenzoloni su unasediolina di vimini ericominciò a tossire. LaRossa non era ancorariuscita a smagrirlo. Daipantaloni della tutaspuntavano duecotechini con la pelle
bianchicciamacchiatadilentiggini e i peli biondi.La testa sferica siincassava direttamentenelle spalle ad arco,senza l’intervallo delcollo.
– Non me ne faccionulladelletuepile.Nehoquante mi pare –. Ilgemello aprí un cassettopieno di pacchetti disigarette.–Nevuoiuna?
–Grazie.–Chetipopreferisci?–Qualsiasi.Leteseunpacchettodi
Marlboro insiemeall’accendino. – Quantiannihatuofratello?
Anna si accese lasigaretta. – Sette, forseotto.
– Non può essere laRossa,allora.
– Si sarà mangiato
robaguasta.Halafebbree vomita, mi servonodegliantibiotici.
Il ciccione simassaggiò il collo. – Lovuoivedere?
Anna intuí cheparlava del fratello. – Vabene. Ma tu chi sei deidue?
– Mario. Mio fratelloeraPaolo–.Lefecestradanel retro del negozio, in
un deposito pieno discatoledicartoneecassedoveeraparcheggiatounfurgone bianco con lascritta «Despar». – L’homessoqua.
Paolo era steso in ungrossofrigoriferoaperto,di quelli dove una voltasi tenevano le pizzecongelate e le buste digamberetti. Intornoavevacumulidibarattoli
ditonnosott’oliodituttele marche. Cominciava agonfiarsi e gli occhierano spariti, risucchiatiinduebudiniviolacei.Lemanisembravanoguantipieni d’aria. Puzzavaparecchio.
Anna prese un tiro disigaretta. – Scommettocheglipiacevailtonno.
–Tuquantiannihai?–ledomandòMario.
–Hopersoilconto.Lui fece un sorriso
mettendo in mostra identini piccoli e gialli. –Mi ricordo di te a scuola–. La esaminò. – Hai lemacchie?
Anna fece no con ilcapo.
– Ma secondo te,perché mio fratello èmortoprima?Nonriescoa capirlo, siamo gemelli.
Siamo nati insieme,dovevamo morireinsieme.
– La Rossa arriva aognuno in manieradiversa. Ti può purevenire a quattordicianni.
Lui annuí, strizzandola bocca. – Tu come mivedi?
Anna spense lasigaretta sotto la suola e
glisiavvicinò.Gliscrutòcon attenzione il collo,gli fece sollevare lamaglietta per vedere lealtre macchie sullaschiena e gli controllò lemani. – Non saprei… Unpaiodimesi.
– Pure io penso cosí –.Sistropicciòunocchio.–Malosaichedicono?Cheun Grande èsopravvissuto.
Quante volte avevasentito queste storie?Tutti quelli cheincontravaraccontavanoche da qualche partec’erano dei Grandisopravvissuti. Balle. Ilvirus aveva sterminatotuttiecontinuavaserenoa uccidere quelli checrescevano. Cosí era. Ealla storia del vaccino,dopo tutti quegli anni,
Anna non credeva piú.Però non disse nulla.Sperava ancora dirimediarelemedicine.
– Lo so che non cicredi. Io pure non cicredevo, all’inizio. Ma èvero–.Mariosimiseunamanosulcuore.
– Come fai a essernesicuro?
– Quello che me l’hadetto doveva avere
almeno sedici anni.Aveva la barba enemmeno una macchia.Ha detto che unafemmina grande loaveva salvato. Non unaGrande normale, piúgrande. La chiamano laPicciridduna. È alta tremetri e la Rossa l’hapresa, ma le è passata –.Lo sguardo di Mario, chefinoaquelmomentoera
stato vivace come quellodi una mucca al pascolo,si destò. – Ho dovutodargli cinque bottiglie divino per farmi dire dovesta.
– E dov’è che sta? –domandòAnna.
– In un posto sullemontagne. L’Hotel delleTerme, ha detto. Tu loconosci?
Anna ci pensò un
attimo. – Certo, non èlontano.
–Ciseiandata?– Non proprio lí, ma
molto vicino. Comunquebasta guardare unacartina.
– Questa Picciriddunatiguarisce.
Annasilasciòsfuggireun sorriso scettico. – Ecomefa?
– La devi baciare, in
bocca, ha la salivamagica.
Laragazzinascoppiòaridere. – La devi baciareconlalingua,quindi?
–Sí.–Eseleinonvuole?Se
nonlepiaci?– Vuole, vuole. Basta
che le porti dei regali –.Ricominciò a tossire eper poco non si strozzò.Poi riprese con un filo di
voce. – Soprattutto letavolettedicioccolata.
– La cioccolata non èpiúbuona.Ètuttabiancaesenzasapore.
Mario fece un sorrisoda droghiere che mostrala sua mortadella. – Noiabbiamo un segreto perconservarla. La teniamoal fresco, giú in cantina.Chiusa dentro deicontenitori di plastica.
Con cinque tavolette tifaibaciare,econsei…
Anna lo interruppe. –Vuoichetiaccompagno?
–Dove?– Dalla Picciridduna.
Ticiportoio.Il gemello rimase un
istante in silenzio,grattandosi con l’unghialecrosticinesullelabbra.Indicò la porta delmagazzino.–Andiamodi
là –. Tornarono innegozio. – Come faccioconPaolo?
–Èmorto.Lolasciqui.Mario afferrò una
barretta di cereali, lascartòe,senzaoffrire, indue morsi se la fecefuori. – Sai, io non misono mai mosso senzamio fratello. A noipiaceva stare in negozio.Fare gli scambi con i
clienti, accumulare pile,medicine… Da dopo gliincendi non viene piúnessuno. Solo le bandeche cercano di assaltareilnegozio.
– Non ci mettiamotanto.
–Quanto?–Unpaiodigiorni.– Non lo so… Potrei
darti la cioccolata perfartibaciarepuretu.
Anna sorrise. – Sí, manon basta. Se vuoi che tiaccompagnimidevidarele medicine per miofratello.
Lui aprí tre cassetti. –Prendiquellechevuoi.
Trovò subito duescatole di antibiotici e selimisenellozaino.–Emidevidaretuttoilcibocheriusciamo a portare, lo
scelgo io, però. E puredellepilecariche.
–Ok.– Facciamo cosí,
passiamo da casa mia,diamo le medicine a miofratello e domanimattinapartiamo.
Mario eraringalluzzito. – Va bene,sonostancodistaresolo.Come si chiama tuofratello?
–Astor.– Che nome strano –.
Marioallungòlamanonaverso Anna. – Affarefatto.
Il piano di Anna erasemplice. A TorreNormanna sarebbescappata con la roba eaddio Mario ePicciridduna.
I due avanzavanolungo una strada dicampagna che tagliavaun sobborgo di quattrocase,unachiesettaeunarotatoriaconunasteleaicadutidellaPrimaguerramondiale. Il fuoco avevaconsumato i giardinettidellaProLocoeitronchidegli eucaliptisembravano matite nerepiantate nella terra. Del
chiosco del giornalaiorimaneva solo lastruttura di ferro. Uncamion dei pompieri erafinitoconilmusodentroilnegoziodelbarbiere.
Annastringevainunamanounasaccapienadibarattoli. Michelini, conin testa un cappellinorossoconlavisierasucuiera scritto «Nutella» e ilfucile a tracolla,
spingeva una carriolacolma di scatole. Untelone fermato con unelastico nascondeva ilcarico.
Erano sudati etrovavano pace dallacalurasoloquandoilsolescompariva dietro lenuvole.
Anna non avevacapito se Mario fossesimpatico o no. Appena
uscito dal negozio si eraammutolito e dopo unpaio di chilometri avevacominciato a rallentare.Poteva essere la Rossa,ma aveva il sospetto chefosse un tipo pigro. Diquel passo sarebberoarrivati a casa con ilbuio. – Vuoi fare ilcambio?Spingoio?
Michelinifecesegnodino.
–Maècaricoilfucile?–Hoquattrocartucce.Era difficile trovarne,
le avevano sparate tuttenei primi mesidell’epidemia, durante isaccheggi e leinsurrezioni.
Si infilarono in unastradinacintadamurettiasecco.
Il gemello si fermò ariprendere fiato. – Mi fa
strano stare senza Paolo–.GuardòAnna.–Tisonogiàvenutiipeli?
–Sí.–Faivedere.Anna si slacciò i
pantaloncini e se liabbassò fino alleginocchia.
Michelini, senzamollare la carriola, sipiegò a guardare lastrisciolinadipelineri.
–Eletette?Anna si tirò su la
maglietta. Sul torace sisollevavano duecollinettesormontatedaiconirosadeicapezzoli.
Ripresero acamminareallontanandosidalpaese.Anna scalpitava, ma eracostretta a seguire ilpassodiquellentone.Per
distrarsi gli propose ungioco.
Il gemello grondavasudore.–Chegioco?
–Pensaaunanimale.–Vabene.Iltricheco.– Non me lo devi dire,
lodevisolopensare,iotifaccio le domande fino aquando non lo scopro.Chiaro?
–Chiaro.– Allora vola,
camminaonuota?Michelini fece un
sorriso furbo. – Vola,camminaenuota.
–Cherazzadianimaleè?
–Lapapera.– Non me lo devi dire
subito.– Tu hai chiesto che
animaleera.–Stavopensando.Dài,
unaltro.
– D’accordo. Ilconiglio.
– Vabbe’, megliocamminare.
Superarono uncartello su cui c’era lapubblicità diun’automobile con unuomo in giacca ecravatta che diceva:«Scegli oggi il tuofuturo».
In un campo di ulivibruciati avanzavanonove figure sottili comespettri. In testa c’eranodue piú grandi, unmaschio grosso e unafemmina scheletricadipintidibianco.Glialtriavevano l’età di Astor,erano nudi e dipinti diblu, e i capelli gliricadevanosullespalleinmatasse aggrovigliate.
Alcuni impugnavano deibastoni.
Anna e Michelini liosservavano da dietrouna staccionata. Ilgemello si grattò ilmento.–Chefacciamo?
– Parla piano, – glisussurrò Anna. – Se ciscoprono ci freganotutto.
Poco lontano,sull’altro lato della
strada, si affacciava unapalazzina con un garageinterrato su cui svettaval’insegna «AutofficinaPieri».
Anna afferrò i manicidella carriola e cominciòad avanzare ingobbita,riparandosi dietro losteccato. – Stai basso eseguimi senza farerumore–.Ma,dopopochi
metri, alle sue spallerimbombòunosparo.
Michelinieraalcentrodella strada. Dalla cannadel fucile usciva unanuvoletta di fumobianco.
La ragazzina spalancòlabocca.–Chehaifatto?
– Cosí ci lasceranno inpace.
– Idiota –. Annariprese a spingere, ma la
carriola sbandava adestra e a sinistra. Lamollò e corse verso lapalazzina senza piúvoltarsiindietro.Sceselarampa di cemento e sitrovò di fronte treserrande abbassate.Quella di sinistra erasollevata di una ventinadi centimetri. Foglie eterra trascinate dallepiogge si erano
ammucchiate sopra ilcanaletto di scolo.Scavando come un canela ragazzina aprí unvarco, si sfilò lo zaino e,trattenendoilrespiroperfarsi piú sottile, cistrisciò sotto. Le gambepassavano, ilbustopure,la testa no. Premette laguancia sul pavimento esi ritrovò dall’altra partecon il viso graffiato su
entrambi i lati. Allungòun braccio e recuperò lozaino.
L’officinaeraimmersanel buio. Cercò diabbassare la saracinesca,ma non si muoveva.Mani avanti, avanzòverso il fondo dellostanzone. Sbatté con unginocchio controun’automobileeconunostinco contro degli
scaffali pieni di cosemetalliche, che sirovesciarono a terra inun frastuono. Deglutí ildoloreeconleditaseguígliscaffali,toccòilmuroruvido,trovòunaportael’aprí. Oltre, se possibile,era ancora piú nero. Siavventurò a quattrozampe finché con unamano tastò lo spigolo diungradino.
Fuori esplosero deglispari.
Si sedetteabbracciandosi leginocchia e pregò chenonl’avesserovista.
Il primo sparo avevafatto voltare ilgruppetto.
Un ciccione erapiantato al centro della
strada con un fucile inmano e una figuracorreva tutta piegataverso una palazzina,spingendounacarriola.
La ragazzina piúgrande aveva soffiato inun fischietto indicandoliai bambini blu. Quelliavevano raccolto dellepietreeurlandoavevanocaricato.
Michelini,
imbracciando il fucilecome una lupara, avevasparato contro ilmucchio i tre colpi chegli restavano. Conl’ultimo ne avevaabbattuto uno, che eracrollatoinunanuvoladicenere. – Sí –. Avevagettato il fucile e si eramesso a galoppare versola palazzina, ma lamalattiaetuttiichiliche
si portava appresso glitoglievanoilfiato.Sigiròper controllaredov’erano i suoiinseguitori e un sasso locolpí in testa. Cacciò unurlo e mentre portavauna mano alla tempiainciampò. Fece tre passiscomposti roteando lebraccia per riprendersil’equilibrio, ma come unbulldozer travolse lo
steccato ai margini dellastrada e finí a bracciaspalancate in un campo.Non provò nemmeno arialzarsi. Strinse l’erbanei pugni, spinse lafaccia nella terra tiepidaepensòasuofratello.
Le urla dei bambinirimbombavano nelgarage.
Anna fece l’ultimarampa incespicando efiní contro una portachiusa.L’apríesiritrovònell’androne dellapalazzina. La luceattraversava i vetrismerigliati dell’ingresso.Aunlatolecassettedellaposta coperte di polvere,accanto un foglioingiallito con la datadella riunione
condominiale e un altroche vietava di lasciareincustoditi biciclette epasseggini.
Provò ad aprire ilportoncino, ma erabloccato. Non sapendochealtrofaresilanciòsuper le scale. Al primopiano gli appartamentierano chiusi. Stessa cosaal secondo. Anche
all’ultimo era tuttosbarrato.
Eranonell’androne.Spalancò la finestra
del pianerottolo. Sottoc’era la discesa dicemento dell’officina,unacinquantinadimetripiú in là il corpo diMichelini. A sinistra, aunmetrodalei,sporgevaunterrazzino.
Eranoperlescale.
Montò con entrambi ipiedi sul davanzale, sidiede un’occhiata allespalle, ondeggiò sullegambeespiccòunbalzo.Volò braccia in avanti efiní di sterno contro laringhiera, ma riuscí adafferrarsi alle sbarre.Mise un piede sul bordodelbalconeeloscavalcò.
Si avviò zoppicante,ingoiando aria, per il
balconechefacevaunaLintorno all’edificio.Dietro l’angolo c’erano icondizionatori,lacaldaiae una porta finestrasocchiusa. Ci si infilò,chiuse la maniglia e sisedette a terra,ansimando e fissandouna lavapiatti e unapattumieracromata.
Erano sulpianerottolo.
Picchiavano contro laporta.
Annasitiròsu,rovistònei cassetti della cucinafinoaquandotrovòtraleposate un lungo coltelloseghettato. Stringendoloinmanosinascoseinunangolo,pronta.–Veniteeio vi ammazzo. Viammazzoatutti.
Invece li sentíridiscendere le scale e
dopo un po’ tornò ilsilenzio.
Si accucciò contro ilfrigoriferosenzamollareil coltello mentrel’adrenalina si esaurivanellevene.Dovevaesseresicura che se ne fosseroandati. Riaprí la portafinestra e si trascinò suigomiti fino allaringhiera.
Camminavano sulla
strada ombreggiata, infila indiana verso iltramonto. La ragazzinadipinta di bianco, con ilcappello di Michelini intesta, spingeva lacarriola.
Rientrò in casa e silasciò andare a terradistrutta, abbracciataallozaino.
Decise di passare lanottelí.
Controllò che la portad’ingresso si aprissedall’interno.
L’appartamento era inbuone condizioni. Aparte formiche escarafaggi, non eraentrato nessuno. Lepiaceva, era ordinato.Nello studio, pieno dilibri, un diploma
incorniciato certificavache Gabriele Mezzopanesi era laureato inMedicina generale aMessina.
Il dottore era insalotto, davanti altelevisore, sopra unagrossa poltrona divelluto beige con loschienale piegato inavanti. Il sedere eraancorasulcuscino,mail
busto era riverso su untavolino basso, la fronteincollata al cristallo. Siera conservato bene. Lapelle ancora attaccata alcraniosembravacartonebagnatoeseccatoalsole.I capelli gialli e secchicome stoppa formavanouna corona intorno alcranio squamoso. Lestanghette dorate degliocchialipoggiavanosulle
orecchie accartocciate.Indossava una vestagliaarighetarlata,ilpigiamae un paio di pantofole difeltro. Un bastone dapasseggio era accanto albracciolo, da cui partivaun filo elettrico chefiniva in un comandogrigioconibottonirossi,stretto nella manorattrappita del cadavere.Sultavolino,accantoalla
testa, c’erano un foglioplastificato, con deinumeri e dei nomi, e untelefono con i tastigrandi.
Entrò in bagno. Unvortice di pipistrelli furisucchiato dallafinestrella, lasciando ilpavimentodimattonelleverdi cosparso diescrementi simili achicchidirisonero.
Nello sgabuzzino dellescopetrovòunalampadaa gas da campeggio.Prima di accenderlacontrollò che letapparelle fossero tutteabbassate. Nei pensilidella cucina restavanobustine di tè e pacchi dipasta pieni di farfalline.Nel frigo, accanto a unapoltiglia nera che eracolata da un ripiano
all’altro, c’era unbarattolo con dentro delsugo.
«Goveđi Gulaš»,diceva l’etichetta. Loaprí. Una muffa verde enera formava uno stratoalto un dito, la tolse eavvicinò il vasetto alnaso. Non era certa chequella roba fosse ancoracommestibile, ma lamangiò lo stesso. La
carne era insapore, peròleplacòunpo’lafame.
Su uno scaffale,accantoadeibarattolidicaffè,trovòunabottigliadi grappa Nonino. Se laportò nella stanza daletto, poggiò la lampadasul comodino, si tolse lescarpe e si stese con unpaio di cuscini dietro laschiena. Prese duesorsate di grappa che le
scesero calde e secchenellagola.
Carezzò le lenzuolaben tirate sul materasso.«Comeunpascià».
Quando il sabato serapapà veniva da Palermoa trovarli portavasempre la cassata, lecrocchette di patate e learancine dallapasticceria Mastrangelo.La chiamavano la cena
selvaggia e andavamangiataconlemanidalvassoio di carta, sedutiintorno al tavolinobasso. Dopo suo padre lametteva a letto e lerimboccavalelenzuola.
«Strette strette, tirapiúforte!»
«Macosísoffochi».«Dipiú,dipiú.Nonmi
devomuovere».Papà infilava le mani
sottoilmaterasso.«Cosí?– Le dava un bacio. –Adesso sí che stai comeun pascià. Dormi, miraccomando». Espegneva la lucelasciando la portasocchiusa.
La fiamma dellalampadabruciavaconunsibilo e la luce biancabagnava una corniced’argento poggiata sul
comodino. La prese e laosservò.
Nella foto il dottorMezzopane era vestitoeleganteconlacravattaapallini e stringeva lamanodiunasignoraconuncappellodipaglia.
La rimise a posto ecominciò a roteare su sestessa a occhi chiusi,sbattendo contro lepareti e strusciando i
piedisullamoquettefinoafarlibruciare.
Apríl’armadioamuro.Su un’anta c’era unospecchio.
L’alcol le avevaincollato un sorrisoscemo sulle labbra. Sisfilò la maglietta e frugòtra i vestiti appesi. Moltierano da donna. Dellasignoraconilcappellodipaglia,probabilmente.Li
tirò fuori e li buttò suuna sedia. Non lepiacevano, erano davecchia. Però ce n’erauno viola, piú corto, chelasciava la schienascoperta, solo che lecalava come un sacco.Provò una magliettarossa elasticizzata e unagonna azzurrina che learrivava alle caviglie. Suuno scaffale basso erano
disposte in ordine dellescarpe. Ne infilò un paiodi raso nero con i tacchialti e i brillantini sullapunta.Siguardòfacendouna piroetta. Con quellaluce fievole si vedevaappena, ma si trovònientemale.
Perfettaperunafesta.Si lasciò svenire sul
letto. Un ricordo lescoppiò nella mente
come una bolla disapone.
«Anna, ma quanto seivanitosa?»
Erapiccola, inpiedidifronte allo specchio conle braccia rigide e legambe larghe. Indossavaun vestito a fiorellinirosa che le avevaregalato la nonna. Ilcerchietto di velluto leteneva ordinati i capelli
corti.Mammaerasedutasullettoaccantoaipannistiratiescuotevalatestadivertita.
Riuscíasentirel’odoredelferrodastiroroventepoggiato sull’asse equello dolciastro dellospray. Si alzò e con lalampada in una manobarcollò, a occhisocchiusi, fino allostudio. Tra i libri sulla
scrivaniac’eraungrossovolume verde, ilvocabolario della linguaitaliana. Era cosí ubriacachefaticavaadecifrareleparolescrittepiccole.
Ci mise un’eternità,ma alla fine trovò quelloche cercava. Piú cheleggerlo, lo biascicò adalta voce: «Vanitoso.Pieno di vanità, dettosoprattutto di persona
che, ritenendo dipossedere doti fisiche eintellettuali, le ostentaper ricevere dagli altrilodieammirazione».
– È vero, sonovanitosa.
Tornò in camera, sispogliò e si infilò tra lelenzuola. Girò la rotelladella lampada, che siaffievolí e con unosbuffosispense.
Clang.Clang.Clang.Cos’era? Un cancello?
Una persiana mossa dalvento?
Il cuore di Annabatteva a tempo con unrumore cosí assordanteche tremavano pure illettoeilpavimento.
Clang.Clang.Clang.I colpi erano ritmici e
meccanici.I bambini blu. Cercano
dientrare.Si tirò su, scese dal
letto e avanzò verso laporta della stanza, chevibrava tra gli stipiti.Dopo un attimo diesitazione afferrò lamaniglia e aprí unospiraglio.
Un chiarore bluastrotingevailmurodifrontee il pavimento. Adesso ilfrastuono era cosí forte
che non riuscivanemmenoapensare.
Aveva le gambeirrigidite dalla paura.Avvicinandosi alsoggiorno fu accecata dasciabolate di luce chetagliavano il soffitto escintillavanosulcristallodiunavetrinettapienadicoppe e medaglie, suiquadri alle pareti e sullacassa dorata del
barometro. Sotto ilclangore si distinguevaunavoce.
Si appoggiò al muro,non riusciva aproseguire. Le pareva diessere ricoperta diformiche.
La voce era nellatelevisione.
«Qualcuno ride.Qualcun altro piange.Molti sono stesi a terra.
Molti tentano di saliresulla nave scalando lefiancate», diceva unuomo.
Anna era al centrodella stanza. Le luci dellampadariosfarfallavano insieme alparalume della lampadaa stelo e gli zero rossi diun orologio pulsavanocome occhi di unpredatore in agguato
nelle tenebre. Sulloschermo scorreva unascena in bianco e nero.Migliaia di uominiammassati sul molo diun porto. Dietro silevavano colonne difumocheavvolgevanolegrueicontainer.
Clang.Clang.Clang.Di fronte al televisore
la poltrona si apriva e sichiudeva ruggendo e
vibrandocomelefaucidiun mostro meccanico. Ilcadavere rinsecchito deldottor Mezzopane eraspinto avanti e indietrosul tavolino, la testapiegata da una partescivolava sul cristallo,trascinandosi lamandibola e fissandoAnna con occhisporgentiebianchicomeuovasode.
Leicominciòaurlareecontinuò a farlo mentrespalancava gli occhi,risucchiando con unrantolo l’aria calda estantiadellacasa.
Il sole filtravaattraverso le serrandepicchiettando di puntiniluminosi i muri, lamoquette e il letto. Ipassericinguettavano.
Si accorse di essere
tutta sudata. Lesembrava che l’avesserotirata fuori da sotto unmucchio di sabbia caldae umida. Piano pianoricominciòaespandereiltorace e a respirare piúliberamente.
Le era già capitato disognare che l’elettricitàtornasse all’improvviso,era un incuboterrorizzante, anche piú
di quelli in cui i Grandiritornavano permangiarsela.
Si alzò dal letto. Nellabocca aveva il saporepastoso della grappa.Dentro lo sgabuzzino,dietro la lavatrice, trovòduetanichettediplasticapiene d’acqua insaporecomelapioggia.Sirinfilòisuoipantaloncinieunamaglietta bianca con su
scritto «Paris, je t’aime»,preselozainoeuscí.
Il cadavere diMichelini era pocolontanodallastrada,conla testa tonda affondatanelle ortiche e le manipiantate nella terra. Lamaglietta arrotolata finoalle spalle mostrava laschiena pallida coperta
di macchie. Gli avevanoportatovialescarpe.
Piú in là, in mezzo alcampo, spuntava tra lestoppieilcorpicinodiunbambinoblu.
Sidomandòsetornareal minimarket a farescorta. No, dovevaportare le medicine adAstor, ci sarebbe andataconcalmaun’altravolta.
S’incamminò verso
casa.Tirava un venticello
autunnale, presto iltemposarebbecambiato.Era contenta. Aveva gliantibiotici. E con tutto ilcibo dei Michelini eranoa posto per almeno unanno. Appena fosseroricominciate le pioggeavrebbero avuto anchel’acqua.
Adesso non aveva piú
dopoNataleederamortaai primi di giugno,continuando a ripeterealla figlia che dovevainsegnare al fratello aleggere.
Nelle ultimesettimane di vita,stremata dalla febbre edalla disidratazione, eracaduta in un torpore dacui riemergevadelirando. Non voleva
perdere l’ultimaseggiovia, in marec’erano troppe meduse ei fiori che le crescevanosul letto pungevano. Maqualche volta,specialmente la mattina,le tornavano sprazzi dilucidità,alloracercavalamano della figlia efarfugliava sempre lestesse cose, chenemmeno il virus
riusciva a cancellarledallamente.
Anna doveva fare labrava, doveva occuparsidi Astor, dovevainsegnargli a leggere enon doveva perdere ilquaderno delle CoseImportanti.
–Prometti!–ansimavainunbagnodisudore.
La bambina le sedevaaccanto. – Te lo
prometto,mamma.Maria Grazia scuoteva
la testa schiudendo gliocchi iniettatidisangue.–Ancora!
– Te lo prometto,mamma.
–Piúforte!– Te lo prometto,
mamma!–Giuralo!–Telogiuro!Ma la donna non era
soddisfatta. – Tu non lofarai…Tu…
Anna l’abbracciavasentendounodoreasprodi sudore e malattia chenonc’entravanienteconquello buono, di sapone,che sua madre avevasempre avuto. – Lo farò,mamma.Telogiuro.
Nell’ultima settimanaperse coscienza del tutto
e la figlia capí chemancavapoco.
Un pomeriggio,mentre i fratelligiocavano nella stanza,Maria Grazia spalancò labocca, sgranò gli occhi esi stirò tutta come se leavessero posato addossouna montagna. Lasmorfia che ledeformava il visol’abbandonò e
riapparvero i suoilineamenti.
Anna la scosse, lestrinse la mano e leavvicinò l’orecchio allenarici. Nemmeno unrespiro. Prese dal tavoloil quaderno delle CoseImportanti e lo sfogliòcon delicatezza. Erapienodicapitoli:l’acqua,le batterie, l’igieneintima, il fuoco, le
amicizie. Sull’ultimapaginac’erascritto:
COSEDAFAREQUANDOMAMMAMUORE
Quando muoio saròtroppopesanteperessereportata fuori casa. Anna,apri le finestre, prendituttoquellochetiserveechiudi a chiave la porta.Devi aspettare centogiorni. Sul foglio accantoa questo ho disegnato
cento stanghette. Ognimattina cancellane unacon una crocetta. Soloquando saranno finitepuoi aprire di nuovo laporta. Prima non deviaprirla. Per nessunaragione. Se in casa c’ètroppa puzza, prendi tuofratello e andate a starenella casetta degliattrezzi. Torna in casasolo per prendere quelloche ti serve. Quandosaranno passati i centogiornirientrerainellamia
stanza.Nonguardarmilafaccia. Legami con unacorda e trascinami fuori.Vedrai,saràfacile,perchépeserò poco. Portami nelbosco, piú lontano chepuoi, in un posto che tipiace e ricoprimi dipietre.Puliscibenelamiastanza con la varechina.Butta il materasso. Poipotretetornareincasa.
Anna spalancò le
finestre, prese ilquaderno, i giocattoli, lefiabe di Oscar Wilde ecome le era statocomandato chiuse achiavelaporta.
Nei giorni successivilei e Astor passarono lagran parte del tempoall’aperto. Il fratello laimpegnava tanto, maappena si addormentavalei correva al piano di
sopra,davantiallaporta,e spiava dal buco dellaserratura. Riusciva avedere solo il muro difronte.
Esesierasbagliata?Sela mamma non eramorta?
Le sembrava disentirla che imploravacon un filo di voce: –Annina, Annina… Stomale… Apri la porta. Ho
sete. Ti prego… – Alloratirava fuori la chiave, sela rigirava tra le mani,poggiavalafrontecontrolo stipite. – Mamma! Stoqui. Se sei viva, urla.Sonoquidietro.Ioentro.Non ti preoccupare, nonmi fai schifo. Entro unsecondo, guardo e se seimorta chiudo subito. Teloprometto.
Tempo dopo, mentre
leieAstoreranonell’aia,tre corvi atterrarono sulterrazzino della cameradella madre. Appollaiatiuno accanto all’altrogracchiavano comebecchinisoddisfatti.
Annaraccolsedaterraun sasso e glielo lanciòcontro. – Andate via,schifosi–.Itreuccellacci,con un balzo, entraronoincasaimpettiti.
La bambina corse su,prese la chiave espalancò la porta. Unazaffata dolciastra larespinse e lei si tappò laboccaconlamano,maillezzo le era entrato ingola. I tre corvizompettavano sopra ilcadaverestrappandoconil becco lembi di pelledalle gambe. Li scacciò,ma gli uccelli se la
preserocomodaprimadivolare via un po’risentiti.
Non poté fare a menodiguardarla.
Eramorta,nonc’eranodubbi. La pelle eradiventata gialla come ilsapone che si usa perlavare i panni, ma lí,dove il corpo toccava ilmaterasso, era rossoscuro. I tratti del viso
erano scomparsi sottounamascheragommosa,con una ciambella giallaal posto della bocca e ilnaso affondato tra lepalpebre. Il collo,increspatodaveneverdi,avevainglobatoilmento.
Annauscídallastanzae tra i singhiozzi giuròche mai e poi maiavrebbe riaperto quella
porta prima che fosseropassatiicentogiorni.
Come era scritto sulquaderno, l’aria diventòirrespirabile. Annatraslocò con il fratellinonel capanno degliattrezzi. Andava in casa,coprendosi il volto conun panno, solo perrifornirsidicibo.
Le giornatescorrevano lente in
un’estate che non finivamai e il tetto di lamieradel capanno s’infuocava.I due cominciarono adormiresottoilporticoosulsedileposterioredellaMercedes. Ogni mattinaAnnaaprivailquaderno,facevalasuacroceedavaun’occhiata veloce allafinestra della camera. Ilvento gonfiava le tendebianchecomevele.
Sapeva che lí dentroc’era solo un cadavere,eppure sognava divedere la madre usciresul terrazzino,stiracchiarsi eappoggiarsi con i gomitialla ringhiera. –Buongiorno bambini,sietegiàsvegli?
–Sí,mamma.–Chefate?–Giochiamo.
A volte, per settimaneintere,riuscivaasegnarele croci sul quaderno, aprepararedamangiare,ascavare le buche dovesotterrare la cacca, aguardare le stelleattraverso il lunottodella Mercedes senzapensare troppo a lei. Poilecapitavaunacosabellae le usciva fuori un: –Mamma, guarda… – E
una lama incandescentele affondava dritta nelcuore.
La notte delnovantanovesimogiorno decise di passarlainmacchina.
Durante il giorno unabrezza autunnale avevaagitato le cime deglialberi. I fratelli si eranoavvolti in una coperta.Anna attendeva solo il
momento in cui avrebbeapertoquellaporta,tuttosarebbe andato megliodopo che la mammafossestataseppellita.
Il sonno arrivòimprovvisoelabambinacrollò stravolta dallatensione accanto alfratellino, ma a un certopunto aprí gli occhi. Ilvento aveva smesso disoffiare e la luna era un
cerchioperfettonelcielonero. Nessun alone lasporcava. Dal bosco nonarrivavano neanche irichiami deibarbagianni. Di colpo lesembrò di avvertirequalcosa, un rumorelieve, un fremito gelido,o forse un sospiro. Sidrizzò sul sedile eaffondò le dita nellagommapiuma della
poltrona. Attraverso ilfinestrino le parve divedere un’ombrascendere le scale delportico e passarleaccanto leggera comeuna piuma. L’ombraproseguí sul vialetto e sidissolse tra gli alberi,comeseilboscolastesseaspettando.
La mattina Annasegnò l’ultima croce sul
quaderno e disse adAstor: – Adesso tu staiquibuonoenonrompi–.Entrò in casa, prese lalunga corda che avevapreparato apposta e salíle scale. L’odore dicarogna era sfumato,oppure faceva ormaiparte della casa e nondava piú fastidio. Unpasso dopo l’altropercorse il corridoio
buio. Prese un respiro eaprílaporta.
Il pavimento eracoperto di foglie, ma ilresto non era cambiato.C’era ancora la scrivaniacon il computer, lalibreria piena di libri, ilmanifesto dellaballerina, i comodiniaffollati di medicine e laradiosveglia.Sullettoerasteso un cadavere
rinsecchito. Il gonfioreera scomparso e la pellesi era ritirata sulle ossacoprendosi di muffenerastre. La testa si erarimpicciolita eappuntita.
Anna non provavapauraenemmenoschifo.Quellacosalínonerasuamadre. Di fronte a queiresti la bambina intuíche la vita è un insieme
di attese. A volte cosíbrevichenemmenotenerendi conto, a volte cosílunghe da sembrareinfinite, ma con o senzapazienza hanno tutteunafine.
Lamammaalterminedella malattia era mortae il suo cadavere dopocentogiornieraleggeroepoteva essere sepolto. EAstor, che ora faceva i
capricci e la facevadiventare pazza,crescendo avrebbesmesso. Bastavaaspettare.
Legò la corda intornoalla caviglia della madree diede uno strattone. Ilcadavere, incollato allelenzuola, oppose un po’di resistenza, poi caddesul pavimento. Lotrascinò senza piú
voltarsiperilcorridoioegiú per le scale e da líattraverso il salotto. Lacarcassa sbatteva adestra e a sinistra, eall’ultimo s’incastrònello stipitedell’ingresso, come senon volesseabbandonare la casa, macon un altro strattone siritrovò a rimbalzare inmezzo al piazzale. La
bambina la tiròattraverso la polvere e lefoglie del bosco. Dietro iresti ricoperti di rovidella porcilaia sisollevavalacupolaverdedi un fico. Sotto la voltac’era un piccolo mondotranquillo. Lí la mammasarebbe stata felice,d’estate c’era l’ombra ed’inverno si vedeva ilcielo. Aveva già
preparato le pietre.Dispose il cadavereaccantoaltronco.Aterraifrutticadutiformavanouno strato marrone sucui banchettavano levespeeleformiche.
Anna prese un sasso eglielo poggiò sul petto.Poi si fermò. Anche sel’avesse coperta di sassigliinsettiselasarebberospolpata in pochi giorni,
e dopo qualchesettimana sarebberorimastesololeossa.
E se avesse permessoalle formiche dioccuparsidellamamma?Leossasipossonotenerein casa, non hannonessun odore. Mammasarebbe potuta tornarein camera sua, stendersisulsuolettoaccantoallesue cose e ai suoi figli.
L’avrebbe ricompostausando le figuredell’enciclopedia.
Prese dagli scatolonidella dispensa dellamarmellata e la spalmòsulla carcassa dicendo: –Ecco qui, formichine.Cosí vi piacerà molto dipiú. Venite… Venitesubito… È buonissima.Pulite tutto… Pulitetuttoperbene…
Un mese dopo gliinsetti avevano fatto illoro mestiere. Le ossaavevano ancora deiresidui di carneessiccata, ma Anna nonsi scoraggiò, se le portòin camera e lí, a gambeincrociate,leripulíconlapunta di un cacciavite.Quando finí le vennel’ideadidisegnarcisopracon un pennarello nero
righe, cerchi e altreminuscole figuregeometriche. Poi ledispose sul letto ericostruíloscheletro.
Astor avrebbe fattoaltrettanto con leiquando fosse venuto ilsuomomento.
Anna era caduta inuna sonnolenza senza
pensieri. Le sembrava dicamminare su unastrada che scorreva insenso contrario. Primal’inseguimento, poil’incubo e per finire lamancanza di sonnol’avevano spenta eadesso, come una bestiada soma, si godeva l’ariafresca,ilsilenzioeiraggitiepidi del sole chepulsava nel cielo nitido.
Perciò ci mise un po’troppo ad accorgersi delcampanello, e soloquando sentí alle spalleuna voce che urlava: –Spostati! Spostati!Attenta! – si destòdall’incantamento. Sigiròevideunabiciclettachelevenivacontro.
Saltò su un murettoun attimo prima che unragazzino con un
cappello da cowboy lainvestisse con unamountainbikearancione.
Il ciclista le passòaccanto, stringendo leleve dei freni chestridevano, ma labiciclettanonrallentava,allorabuttòipiediaterrae per poco non sischiantò contro un palodella luce. Mollò la bici
sulla strada. – Questifreni non vanno proprio–.Scosselatestaesigiròindietro.–Seisorda?
Annanonrispose.Il ragazzino le si
avvicinò. – Per poco nontiprendevo.
Doveva avere piú omeno l’età di Anna, maera piú alto di lei di unadecina di centimetri econ quel buffo cappello
sembrava un fungo. Eramagro e slanciato, con ilviso abbronzato e dueocchi vispi colornocciola.
Che stavasuccedendo? Durantel’ultimo anno la pianurasi era svuotata, invecenegli ultimi due giorniavevaincontratoprimaibambini blu e adessoquestoqui.
Anna scese giú dalmuretto e riprese acamminare.
Il ciclista la inseguí. –Aspettaunmomento.
Anna continuava amarciare sentendo losguardo del ragazzinoaddosso. Si giròsbuffando:–Chevuoi?
–Guardachenondeviaverepauradime.
Anna vide emergere i
lineamenti da adulto dalvisoinfantileepensòchesarebbepotutodiventareunbell’uomo,dagrande.
– Io non ho paura, hofretta,–loliquidò.
Ilragazzinolasuperòele si piazzò davanti. –Guarda che se staiandando alla festa èinutile,sonopalle.
Annasipoggiòlemanisuifianchi.–Chefesta?
– Al Grand Hotel delleTerme. Ci vanno da tuttala Sicilia. Bruciano laPicciridduna.
–Perché?– Si mangiano le
ceneri. Dicono che tipassalaRossa.
Anna sorrise, secondoMichelini bisognavabaciarlainbocca.
– Io ci sono stato e laPicciridduna non l’ho
mai vista, – continuò ilragazzino. Si tolse ilcappello con un gestocavalleresco e sipresentò. – Mi chiamoPietro Serra. Tu come tichiami?
–Anna.Marpione.Si ritrovò sulla lingua
quella strana parola chediceva ogni tanto lamamma quando andava
all’edicolae ilpadronelaguardava come se fosseun cioccolatino dascartare.
Per toglierselo daipiedi era meglio tagliareattraverso i campi. –Vabbe’,iovado–.Riuscíafare pochi metri e allesue spalle il campanelloricominciò a suonare e ifreniastridere.
Ilragazzinolesifermò
accanto. – Anna, perfavore, mi dài un po’d’acqua?
Dalla borsa legata sulportapacchi della bicispuntava il collo di unabottiglia.–Equella?
– Quella… –improvvisò Pietro, – nonèbuonacomelatua.
Annascoppiòaridere.–Echenesai?
– Lo so –. Il ragazzino
allungò il braccio versolo zaino. – Dài, solo unsorso…
La ragazzina fece unpasso di lato. – No! Hodettodino!
– Se mi dài un po’d’acquatiportoio.
Quel ragazzino tropposicuro di sé lainnervosiva. Aveva unmododiguardarlachelafaceva sentire scomoda.
– Non si può andare inbiciclettaindue.
–Chitelohadetto?Tisiediqui,sullacanna.
Anna si trattenne unistante prima dirispondergli: – Non mipiacciono le biciclette. Epoi non ci voglio andareconte.
– Lo vedi che haipaura?
Anna strinse i pugni
irritata. – Non ho paura,èche…
– … È che hai fretta, –conclusePietro.
I due si guardaronosenza trovare altro daaggiungere.
La ragazzina ruppe ilsilenzio.–Alloraciao.
–Ciao,Anna.
Anna, con il cappello
da cowboy in testa,urlava tenendosi strettaal manubrio della bici. Ilvento le scivolava sullafaccia e gli occhi lelacrimavano comequando da bambinamettevalatestafuoridalfinestrino dellaMercedes.
Pietropedalavaatuttabirra.–Allora?Èbello?
Filavano, stretti uno
all’altra, su una stradinache tagliava i campicome un righello. Ai latisfrecciavano i pali dellaluceeifichid’India.
– Sí, – disse Anna,anche se la canna lesegava le chiappe ed eraterrorizzata di cadere.Ogni volta che le bracciadi Pietro la sfioravanotrasaliva e le veniva da
scostarsi, ma non lofaceva.
Pietro affrontò unacurva senza rallentare,Annacacciòunostrilloechiuse gli occhi. Quandoli riaprí era salva. – Lecurve falle piano. Suldritto vai piú veloce,però.
–Piúdicosí?–ansimòilragazzinoconlafronte
lucida di sudore. – Dovetidevoportare?
– A Torre Normanna.Saidov’è?
– Sí, ma posso andareun po’ piú piano? Stomorendo.Menomalechenon ti piaceva andare inbici.
– Mi piace l’aria infaccia.
– Sei mai stata su unamoto? Lí sí che senti
l’aria.Seaprilaboccatisigonfianoleguance.
– Sono andata sullaVespa con Salvo, ilragazzo che ci portava laspesa.
–MiopadreavevaunaLaverda Jota –. Pietroguardò lontano e scossela testa. – Arancionecome questa bici. Primao poi riuscirò a trovarne
una che funziona. E laguiderò.
– Come no… – Annascoppiò a ridere con lasuarisataprofonda.
Lui però era convinto.–Davvero.
Fecero il resto dellastrada in silenzio. Lerovine di TorreNormannas’ingrandivano a ognipedalata. Sfilarono
accanto a rottami diautomobili finite fuoristrada, a cassonettidell’immondizia fusi, airesti di un bar conl’insegna che diceva«Arancine calde daasporto».
Anna aveval’impressione che lui lastringesseunpo’troppo,ma in fondo non ledispiaceva. Alla fine
rimasefermaconilpettodel ragazzino che lestrusciavasullaschiena.
Pietro si arrestòaccanto al cartello delvillaggio.–Quivabene?
– Sí –. Anna saltò giúdalla bici e si massaggiòilsederedolorante.Preselo zaino legato sulportapacchi e gli ridiedeil cappello. – Grazie.Allora…Ciao.
Pietrosorriseesollevòunamano.–Ciao.
Si dissero altre ventivolte ciao, ma dopo unadecina di passi lui lachiamò:–Anna.
Vuoleunbacio.Sigirò.–Dimmi.Pietro aveva tirato
fuori dalla giacca lapagina di una rivistapiegata in quattro, tutta
lisa e spiegazzata. – Lehaimaivistequeste?
Al centro del foglio,cerchiata con unpennarellorosso,c’eralafoto sbiadita di un paiodiscarpedaginnasticadipelle scamosciata giallacon tre strisce nere:«Adidas Hamburg, euro95». Accanto c’eranodelle foto piú piccole.L’articolo s’intitolava: Il
granderitornodelvintagesportivo.
La ragazzina alzò gliocchi. – Quelle con ilcerchio?
– Sí. Le hai mai viste?Pensacibene.
– Non credo –. Siosservò le sue, tuttesporche.
–Seipropriosicura?Annanoncapivadove
volesse andare a parare.
Doveva essere unappassionato di scarpe.Strano, indossava degliscarponcini logori esformati. – Ma tipiaccionotanto?
Pietroesitòunistante,come se non si fidasse,poi disse: – Sí. Le stocercando da un sacco ditempo.
Anna lo fissòperplessa,poigliaugurò:
–Buonafortuna,allora.Pietro diede un calcio
a un sasso. – Senti… MatuhaigiàlaRossa?
–No.Ciao–.Esiavviò.Pietro la osservò
allontanarsi. – Ionemmeno,–urlò.
– Solo pazzi incontroio –. Anna parlava tra sépercorrendo veloce il
sentiero che portavaverso casa. – Uno chepassa il tempo a cercareun paio di scarpe… Purebrutte.
Ripensò alla festa.Chissà se esistevadavvero la Picciridduna.C’erano mille leggendeassurde su come guariredalla Rossa. In moltierano sicuri che qualcheGrande fosse
sopravvissutoall’epidemia, che oltre ilmare, in Calabria, ce nefossero ancora. Sinascondevano in rifugisotterranei e bastavatrovarliperesserecurati.Altri erano convinti chedoveviandaresott’acquacon una gallina erimanercifinoachenonmoriva:guariviperchéletrasferivi il virus. E c’era
chi credeva chebisognasse mischiare ilcibo con la sabbia, osalire su una montagnavicino Catania da cuinascevano le nuvole.Insomma,senedicevanotante. Anna sapeva soloche aveva visto migliaiadi Grandi ridotti amucchi d’ossa e nonaveva mai incontratonessuno che avesse
superato i quattordicianni.
Andò dritta in cucina,prese un barattolo dipelati dal tavolo, lo aprícon il coltello, con duedita tirò fuori unpomodoro gocciolante ese lo cacciò in boccaurlando: – Astor, sonotornata.Comestai?
Mangiò dei vecchibiscotti che sapevano dimuffa, poi versò i restioleosidiunascatolettaditonno nel barattolo dipelati e bevve il sugocominciando a sudare.Fuori la giornata erafresca, ma all’interno ivecchi muri di pietratrattenevano il calore.Vuotò una mezzabottiglia d’acqua. – Ho
trovato gli antibiotici! –Preseunaltropomodorodalbarattoloeattraversòilsalotto.
Una sedia bianca eraaccanto alle scale, conuna gamba spezzata. –No! Hai rotto la sediadella mamma –. Salí alpiano di sopra con ilmuso rosso di salsa,percorseilcorridoiobuioed entrò nella stanza. –
Oh! Hai capito che sonotornata?
Era tutto in terra. E illibro delle favole era inuna pozza d’acqua. Loraccolse scuotendo latesta e lo posò sulcomodino.
Ogni volta che lolasciava solo, Astorcombinavauncasino.Maquesta volta avevaesagerato, le avrebbe
prese. Sembrava lofacesse apposta perpunirla.
Si affacciò dalterrazzino.Lochiamòunpaiodivolte,poirientrò.Se era uscito significavachestavameglio.
Aveva ancora fame.Forse poteva mangiarsiun barattolo di piselli. Siavviò giú ripensando alragazzino in bicicletta.
Chissà dov’era andato?Magari si era fermato aTorreNormanna.
Un raggio di soles’insinuava tra i cartoniappiccicatiaunafinestrae dipingeva una striscialuminosa sui gradini, suuna palla di coperte e suun cappellino rosso. Loraccolse. Sulla visierac’erascritto«Nutella».Se
lo girò tra le mani e loportòalnaso.
Rivide il cadavere diMichelini buttato sulbordo della strada. Lemani che stringevano leerbacce, le gambedivaricate,lanuca…
Le ritornò davantil’immaginedeibluchesiallontanavano sullastradaelaragazzinaalta
con in testa il cappellinorosso.
Il cuore le si scrollòsotto lo sterno e tuttointorno il mondo siconcentrò e precipitò inuna pozza di terrore.Riprese a scendere,sentendo il sangue cheronzava nei timpani. Lesembrava di non avermai affrontato una scalain vita sua. Poggiava un
piede dopo l’altro sugliscalini che fluttuavanoin un’oscuritàpalpitante.
Uscí sul portico. Conuna mano coprí il discodelsolechesiallargavaesi restringeva al centrodel cielo torbido. – Ast…Ast... Astor –. Provava achiamareilfratello,maipolmoni le si eranosvuotati. Il sapore acido
delpomodoroletornòinbocca. Trattennel’impulso di vomitare etrovò un po’ di fiato. –Astor...Astor…Astor…
Non era nellaMercedes e nemmenodietroibidoni.
Sarànelbosco.Un falco marrone era
fermo a mezz’aria epuntava qualcosanascostotraglialberi.
Si immerse tra lepiante incespicando supietre e rami secchi. Icespugli di pungitopo legraffiavano le gambe,maseneaccorseappena.
Nel verde emerse unamacchia viola. Siavvicinò.Eraunpezzodistoffa, lo strappò viadallespine.
Il vestito dellamamma.Quellobello.
Che ci faceva lí? Annasapeva che Astor avevauna chiave nascosta eche quando lei non c’eraentrava nella stanza. Maperché lo aveva buttatoinmezzoairovi?
Barcollò e dovetteappoggiarsi a un tronco.Inspirò, strizzando lepalpebre,echiamòAstorpiúforte,sgolandosi,ma
le rispondevano solo gliuccellisuglialberi.
Arrivò fino al confinedellaproprietà,passandoaccanto a una grandequercia su cui il fratelloamava arrampicarsi.Cominciò a seguire larete, ma il suo sguardononriuscivaaposarsisunulla. Continuava avedereibambinibluche
correvano come canirabbiosi.
Arrivò alla vecchiaporcilaia stritolata dairovi. Non era nemmenolí.Eneanchesottoilfico.
Fissò la discaricadietro la casa, dove avolte suo fratello sidivertivaagrufolare.
Cadde sulle ginocchia,ansimando. – Calma…Staicalma…
Quell’idiota potevaessere ovunque,addormentato inqualche tana di animale,arrampicatoincimaaunalbero,sultettodicasa.
Forse è riuscito ascappare.
No, non sarebbe maiuscitodaiconfini.
Sisedettesuuntroncostrusciandosi le manisulla faccia, la mente
aggrovigliata in pensieripaurosi. Dalle ascelle lecolavasudorebollente.
Il bosco, il suo boscomagico, la circondavasenzadarlerisposte.
–Dovesei?Vieniqui,–mugugnò,ericominciòacorrere strillando: –Astor!Astor!Dovesei?Tiammazzo, quando titrovo! – Si diresse versocasa. Anche lei poteva
avere un cappello cosí,proprio come quello.Neglianniavevaportatoacasaditutto,forsepureun cappellino dellaNutella e se l’erascordato.
Chescema,sierafattaprendere dal panico. Suofratello stava dormendoda qualche parte. Nonaveva controllato né lacasetta degli attrezzi né
camera della mamma,eracorsafuoricomeunapazza senza guardarebene.
Attraversò la siepe dibosso e spuntò sulvialetto d’ingresso delpodere. Passò accanto aqualcosa di bianco etondo che emergeva trale erbacce. Si fermò,tornò indietro, lo prese
in mano e per poco noncaddeaterra.
Tra le dita stringeva ilcraniodisuamadre.
Svuotata di ognipensiero, deambulòcomeunsaccodicarneeossa fino a casa. I suoiocchi registrarono che ipiatti, invece che staresulla credenza, erano sulpavimento. Lamacchinetta a pedali di
Astor era ribaltata dauna parte, il mandolinosfondato.Poggiòilcraniosuunoscatoloneesalílescale.
La porta della cameradella mamma erasocchiusa e la serraturadi metallo sporgeva trascheggedilegnoaguzze.
Anna riemerse dal
sudario di dolore che leincollava braccia egambe fluttuando tralembidivegliaesonno.Ilsole del mattino lescaldava la fronte e leferiva gli occhi. Avevaunaguanciaimmersanelvomitoseccoeaccantoalnaso una bottiglia vuotadigin.Muovevalalinguagonfia che le entrava amalapena in bocca
mentre un punteruolo letrafiggeva le tempie daparte a parte. NonricordavacomeerafinitasulsedileposterioredellaMercedes.
Delle ore trascorse daquando aveva visto laporta della camera dellamamma sfondata lerestavano traccesbiadite, frammenti egrumi di dolore. Tutto
era avvolto da un alonesfocato in cuiesplodevano flash cheilluminavano due Anne,una che si dibattevadisperata e un’altra chel’osservava in silenzio. Ilfilochetenevainsiemeleimmagini quella notte siera spezzato e perline dimemoria galleggiavanosperdute in un mare dipetrolioneroecolloso.
La camera dellamamma profanata. Leossa sparse ovunque. Igioielli rubati. I cassettispalancati. La libreriarovesciata. La giraffa dipeluche di Astor: leavevastrappatolatestaamorsi, sentiva ancora inbocca il sapore sinteticodell’imbottitura. Avevatirato un pugno allospecchio del bagno,
ferendosi le nocche, e siera avvolta sanguinantenelle tende. Le labbraspalancaterisucchiavano la stoffasottile. La bottiglia digin. Il pianto senza piúlacrime e i singhiozziruvidi come cartavetrata. L’odore terrosodel muschio. Foglie chefremevano al ritmo del
suo respiro. Il vestitovioladellamamma.
Il resto era sofferenzache la colmava etraboccava come acquadaunvasopieno.
Siattaccòallapoltronae rimase con la testacontro il finestrino afissarsilamanoferita.
Aveva la sensazioneche quella notte unapresenza viva, nascosta
nel buio, l’avesseosservatanelbosco.
Ilcanedell’autostrada.Doveva esserselo
sognato, eppure ilricordo era piú vivo ditutti gli altri. Il cane eraaccanto a lei. Sedutocomposto con la grossacoda che spazzolava ilterreno. Le parlava. –Anna, la conosci lafilastrocca? Bimbi e
bimbe fate festa e venitealla finestra: è crepatol’uomo nero, è sepolto alcimitero! La paura èormai finita, si cominciaun’altra vita. Bimbi ebimbe, tutti giú, l’uomonero non c’è piú! – Laguardavanegliocchiconle sue pupille scure. – Tispengolaluce?
Adesso c’era suo papàche le tirava le lenzuola.
trovato loro, avrebbetrovato anche suofratello. L’idea che fossemorto non la sfiorònemmeno.
Lasciò il Podere delgelso il 30 ottobre 2020pernonfarcipiúritorno.Nello zaino aveva unatorcia elettrica, unaccendino, il quadernodelle Cose Importantiavvolto in una felpa
verde, un coltello dacucinae ilfemoredestrodisuamadre.
Gli alberi vibravanodel cinguettio deipasseri, tra i cespuglifrusciavano le volpi, lecornacchie gridavanosgraziate.Fuoridalboscositrovòsottountappetodi nuvole dense ebluastre che premevacome un mare in
tempesta al rovescio.Sbuffi di aria calda chearrivavano dalla costa laspingevano in avantiscompigliandoleicapelli.In fondo alla pianura untemporale si addensavasopra le montagne in unfulgore di luce sabbiosa.Un tuono potente comeunacannonatadiedeillae la pioggia si rovesciòrabbiosa sui campi
assetati, chel’assorbirono in silenzioesalando un fiato umidoditerrabruciata.
Ancora prima diarrivare a TorreNormanna Anna siritrovòzuppa,ipiedichele sguazzavano negliscarponcini, i capelliincollati alla fronte, lastriscia di stoffa che le
pendeva intorno allamanoferita.
Da mesi aspettava lapioggia e quella arrivavaadesso, cattiva esbagliata, a peggioraretutto. Però forse avrebbefermato i blu. Potevanoessersi riparati a TorreNormanna.
Ilvillaggioeraavvoltoin una nube d’acqua che
traboccava dallegrondaie intasateinondando le strade. Lapiazzetta dei Venti erascomparsa sotto un lagoche ribolliva sferzato daltemporale.
L’acquazzone presefiato prima di scatenarelagrandine.
Annasirifugiòsottoilportico del Gusto diAfrodite. Il tetto di
ondulato della verandavibrava sotto raffiche dipalline ghiacciate grossecome ciliegie. Tirò fuoridallo zaino il quaderno.Lafelpaloavevasalvato,solo gli angoli dellacopertina si eranobagnati.
Laportadelristoranteera stata sfondata.Dentro il locale, nellagrande sala circolare, i
tavoli e le sedie eranoaccatastati in un angolocome se ce li avessespinti una ruspa. Suimuri resisteva unalavagnasucuierascrittoa mano: «Specialità delgiorno, trancio di tonnoallamessinese,18euro».Una lampada d’ottoneera appesa al soffittotutta storta come se
l’avessero presa abastonate.
Anna si diresse versola cucina in un fuggifuggiditopi.Sulleparetierano rimaste pochemattonelle,lealtreeranosparse sul pavimento inmucchi di cocci bianchi.Il grosso frigorifero erarovesciato, con le antespalancate.
Anna si inginocchiò,
aprí un cassetto e cisistemò il femore e ilquaderno. Chiuse losportelloetornòfuori.
Lagrandineerafinita,sostituita da unapioggerellasottile.
Stava perdendotempo. Lí non c’eranessuno. Forse si eranodiretti all’autostrada.Forse a Castellammare.
Mollò un calcio a unasediadiplasticabianca.
Calma.Afferrò le cinghie
dello zaino e siincamminòversol’uscitadel villaggio. Dopo pochipassisifermò.
Una biciclettaarancione era poggiatacontro il cancello di unavilletta.
L’uscio era sbarratodall’interno. Poco adestra, però, una portafinestra era spalancatasulsoggiorno.Anchequiera tutto distrutto.Mobili sfondati, scrittesui muri, ceneri di unfalò dove avevanobruciatodellesedie.
Salí le scale coperte dicalcinacci. Entrò nellaprima stanza. Sopra un
armadio a specchio unacoppia di civette sgranòquattro biglie dorate evolò via. Su unmaterassomatrimoniale,avvolto in una trapuntasporca, dormiva Pietro.Dal rotolo di straccispuntavano ciocche dicapelli arruffati, unospicchio di fronte e unsopracciglio.
Anna gli diede una
spinta sul sedere con lapianta del piede. –Svegliati!
Il ragazzino spalancòla bocca e cacciò unrantolo strozzato. Provòa tirarsi su, ma,intrappolato nellacoperta come in unacamicia di forza, scivolòdal materasso. – Cosa?Cosa? Chi è? – Afferrò ilcoltello che stava
accanto alla sua borsa elo puntò control’aggressore.
– Hai visto deibambiniblu?
Pietro strizzò gli occhie riconobbe Anna. – Tuseipazza–.Lasciòcadereil coltello e si portò unamanoalpetto.–Perpoconon sono morto dispavento.
– Hai visto dei
bambiniblu?Pietro si trascinò fino
al muro e ci si poggiò dischiena, stropicciandosiun occhio. – I bambiniblu…
Anna dovette ingoiareun groppo per riuscire amormorare: – Hannopresomiofratello.
Pietro fissò laragazzinacheglistavadi
fronte, zuppa egocciolante.–Quando?
–Ierimattina,credo–.Siaffacciòallafinestra.–Non dovrebbero esserelontani. Li haiincontrati?
– No. Ma li conosco, –rispose lui con unosbadiglio.
Nel viso di Annaaffiorò una speranza. –Chisono?
– Vivono all’hotel. Ipiú grandi li prendononelle campagne e lifannoschiavi.
–Perché?Pietro si sgranchí la
schiena. Indossava unpaio di mutandesbrindellate a righinegialle e verdi e unacanottieratroppostretta.– Per preparare la festa
del Fuoco. Ne hannotantilassú.
Annachiusegliocchieli riaprí. Le sembrò cheintorno la stanza sisbriciolasse e siricomponesse veloce: ilmaterasso, il mobile, ilragazzino in mutande. Ilpetto le si gonfiò erespirò di nuovo. Astoreravivo.Deglutí.–Comesivaall’hotel?
–Unattimo–.Pietrosimassaggiò una guancia.– Io la mattina facciofaticaaragionare.
Anna attese tresecondi. – Come si vaall’hotel?
Pietropiegòlatesta.Sistrinselabasedelnaso.–Passisottol’autostradaeallarotondaproseguiperle montagne. A un certopunto trovi un grande
cartello con scritto«Grand Hotel TermeElise». Continua dritta eci arrivi. Guarda che c’èdacamminare.
Anna fece un passo econ uno scatto loabbracciò.
Pietro rimase rigido e,impacciato, raccolse unbarattolo di marmellatada terra, ci immersel’indice e se lo mise in
bocca. – Stai attenta,però.Quellononèunbelposto.
Anna sollevò le spalle.– Devo riprendermi miofratello.
Pietro diede unasorsata da unabottiglietta d’acquamezzavuota.–Perché?
– Che razza didomanda.Èmiofratello.
Fuori continuava a
piovere, ma la coltre dinuvole si era squarciatasu una macchia di cieloazzurro.
Mentre scendeva lescale Pietro la chiamò. –Aspetta,mettitiquesto.Èasciutto –. Le lanciò ungolf.
Lei lo afferrò al volo edisse:–Grazie.
Perunpo’Annasigiròa guardare indietro,sperando di vedereapparire il ragazzino inbicicletta. Le sarebbepiaciuto avere accantoqualcuno con cuidividere l’ansia chesentiva crescere a ognipasso.
La pioggia avevaripulito le montagnedallafoschiacheleaveva
avvolte durante l’estate.Adesso erano piú vicine.Tutto era nitido, lemacchie verdi deglialberi, i morsi delle cavee i canaloni di pietrabiancachelespaccavanocomepomodorimaturi.
Da qualche parte,lassú,c’eraAstor.
Anna marciava a
ritmoregolare,lebracciache si alternavano allegambe. I pensieri sisfilacciavano lenti dauna matassaaggrovigliata perdendosiper strada. Non siaggrappavapiúaeserciziinutili come sommare inumeridelletarghedellemacchine o indovinare ipassi che ci vogliono daquialà.
Il sottopassaggiodell’autostrada eraallagato. Lo attraversòinzuppandosi le scarpe,arrivò alla rotonda eprese la strada cheportavaallemontagne.
Nella zona gli incendierano statiparticolarmenteviolenti,alimentati da una seriedi stabilimentiindustriali e di depositi
di carburante. Tuttoquello che non era dipietra o di metallo eraridotto in cenere. Lecarcassedelleautomobilisembravano scarafaggiabbrustoliti eoccupavano unparcheggio su cui siaffacciava un edificiobasso. Sul tetto erarimasto lo scheletro diunagrandescritta.
– Pi… zza… rium, –decifrò la ragazzina. –Pizzarium.
Stava svenendo dallafame e sul tallonesinistro le si era formataunavescica.
Oltre una lungacancellata si vedevano iresti di una fabbrica. Deicapannoni restava pocoo niente, ma gli enormiserbatoi bianchi si erano
salvati. Tutto intorno siincrociava una rete dicondotte arrugginite ecopertedimuschio.Dallegiunture dei tubi colavaacquacheavevaallagatolo spiazzo asfaltato,trasformandolo in unacquitrino in cuigalleggiavano grossipezzidipolistirolo.
Trovò un buco tra lesbarre e avanzò
facendosi largo in unintricodipiantepalustri.Libellule rosse e zanzaredalle gambe lunghe lesciamavano intornomentre le rane lesaltavanotraipiedi.
Si allungò sul cofanodi una 500, si tolse lozainoelescarpe.
Leditadeipiedieranogommose e bianchecome se le avesse
immerse nellavarechina. Con l’unghiadel pollice si bucò lavescica, poi si tolse labenda dalla mano. Iltaglio tra le nocche eraprofondo, ma nonsanguinava piú. Simassaggiò i polpacci e siallungò sul parabrezzasottoilsoletiepido.
Le rane, una dopol’altra, ripresero a
gracidare.Che posto
meraviglioso dovevaessere stato il Pizzarium.Entravi con i soldi euscivi con un pezzo dipizzacalda,avvoltanellacarta bianca, lamozzarella fusa checolava da sotto, il rossodei pomodori che tibruciava il palato. E senon ti piaceva la
margherita poteviprenderla con funghi,patate,zucchineealici.
Persa nel mondo dellapizza ci mise un po’ adaccorgersi che le rane sierano ammutolite.Spalancò gli occhi e sitrovò davanti, a pochimetri, il canedell’autostrada.
Se ne stava fermo, lezampenell’acqua,ilcollo
stirato. Dove Anna loaveva ferito il peloformava delle palle dicroste nere da cuitrasudava un liquidodensoerossastro,ilrestodelmantelloerabiancoegonfio. Se possibile,sembrava ancora piúgrosso.
Laragazzinatrattenneilrespiro,ilmaremmanoansimava con la lingua
arricciatadavantialnasonero.
Anna appoggiò unamanosullozaino.Dentroc’era il coltello. Nonriusciva a staccare losguardo da quegli occhineri come lapilli che laipnotizzavano.
Come faceva a esserelí,difrontealei,vivo?
L’animalepiegòilcapoe diede due lappate
d’acqua continuando aguardarla.
Anna inspiròaspettando non sapevanemmeno lei cosa, forsesolo che sparisse, poi sialzòinpiedisulcofanoe,pugno in aria, gliringhiò: – Che vuoi?Lasciami in pace! Non tièbastatoquellochetihofatto?
Quello si adagiò nel
fango, ci si rigiròinarcando la schiena eallungando una zampacome per salutarla, poisollevò una cosciamostrando la panciarosata e macchiata dineroecacciòunversodipiacere.
Annaerasconcertata.Quel demonio l’aveva
intrappolata in unamacchinaeperpoconon
se l’era mangiata viva, eora somigliava aicagnetti che le signoreportavanoalguinzaglioecheappenalicarezzavisitrasformavano in unostrofinaccio.
Saltò giú dallamacchina. – Vattene!Sciò!
Ilcaneschizzòinpiedie, coda fra le zampe,sparínellecanne.
Come aveva fatto atrovarla?Eperchéinvecedi aggredirla erascappatovia?
A questo pensavaAnna mentre arrancavasulla salita che sisnodava tra lembi diterrabruciati.Ognitantosigirava,sicurachefossedietro di lei, ma nonc’era.
Con la fatica un’altra
preoccupazione leoccupò i pensieri. Nonaveva ancora incontratoil cartello dell’hotel,magari aveva sbagliatostrada. Lo zaino pesavacome fosse pieno dipietre. – Altri mille passie se non lo trovo tornoindietro,–sidisse.
Fatteunpaiodicurve,sul ciglio della strada,quasi lo avesse invocato,
le si parò davanti ungrande tabellone. Dietrola fuliggine sidistingueva: «GrandHotel Terme Elise.Exclusive Relais & GolfClub».
Strinse il pugno. –Allora è vero! BravoPietro!
Lo zaino era di nuovoleggeroeilpassoveloce.
Proseguendo, la
carreggiata si restrinse.Intorno non aveva piúcase e le macchie nerelasciavano spazio alverde.Glieucaliptieranoricoperti di foglie, glioleandri si allargavanocarichi di fiori e i fichid’India formavanobarriere di spine. Unamucca le passò davantiplacida, senza degnarladi uno sguardo. Il vento
non portava piú l’odoredi bruciato, ma quellobuonodell’erba.
Su un poggio i filaridelle vigne erano carichid’uva appassita su cui siposavano le api. Corse amangiarla, era cosízuccherosa che levennero i brividi sullaschiena. Ne mise duegrappoli nello zaino eripartí.
Si sentiva meglio, perla prima volta quelgiorno riuscí a nonpensare al fratello.Godeva della natura, delsole che tingevad’argento le chiome deipiniagitatedallabrezza.
Alla fine della salita lesi spalancò davanti unaltipiano di collinecoperte di grano giallo ecespugli di ginestre su
cui un gigante avevaappuntato, comegirandole, decine di paleeoliche.
Le era già capitato diosservarle dalla pianura,piccole piccole,impossibili daraggiungere. Nonimmaginava che fosserocosíimponenti.
Da là sopra, forse,potevavederel’hotel.
La prima nonsembravatantodistante,doveva solo attraversareun campo che digradavain una valletta stretta erisaliva su un crinale.Rimase sul ciglio dellastrada, indecisa, poiinfilò i pollici sotto lecinghie dello zaino e siavviò.
Dopo pochi passi eraimmersa fino al petto
nelle spighe, che legraffiavano le braccia ele gambe. I grilli leschizzavano intorno. Unfagiano si sollevò daltappetodoratolanciandole sue grida sgraziate ericaddepiúinlà.Cimisepiú di quanto avesseimmaginato,maallafinearrivò su un basamentosquadrato che, come
un’isola di cemento,emergevadalgiallo.
Da sotto, la torre eracosíaltachenonriuscivaa vederne la cima. Unapasserella di alluminioconduceva a unaporticina che qualcunoaveva divelto dai cardinie pendeva tutta storta.Dall’interno usciva unodorepocoinvitante.
Anna tirò fuori la
torcia e illuminò unascala a chiocciola strettastretta, che si avvitavacome un cavatappiall’interno dellastruttura. Sopra il primogradino le formiche sistavanospolpandoirestidiunavolpe.
Scavalcò la carogna esiavventuròper lescale.Andò su speditailluminando gli scalini
che si succedevano alti esenza sosta in unaspirale afosa. Dopo unpo’ era tutta sudata ecominciò a mancarle ilfiato. Si sedette e poggiòla testa contro la parete.Il metallo, scaldato dalsole,eratiepido.
In vita sua non eramai stata cosí stanca,cosí incerta epreoccupata. Tutta l’uva
che si era mangiata lefermentava nellostomaco.
Spense la torcia e ilbuio l’avvolse,rassicurandola.
Da tempo avevaimparato a non avernepiúpaura.
Laregolaerasemplice.Due film a settimana: il
sabato lo decideva lei, ladomenica la mamma,per il resto il televisoreeracopertodaunapezzacolorata, quasi sivergognassero di averloin casa. Ma quando dalBelgio il virus si spostòcome una nuvolaradioattiva in Olanda, inFrancia e nel resto delmondo rimase sempreaccesosulnotiziario.
Dopo che la mammaera morta Anna citrascorrevadavantituttoil giorno. Sul quadernodelle Cose Importantinon si parlava della tv elabambinal’avevaintesocome un permesso. Soloche i canali, uno dopol’altro, erano spariti,lasciando al loro postodegli schermi blu.ResistevaRaiUno,sucui
passavano solo dellescritte. Dicevano che eraproibito uscire di casa,che vigeva la leggemarziale e che in caso digrave emergenzabisognava chiamare ilnumero verde dellaprotezione civile. Non lerestavachevedereaciclocontinuo i dvd chetenevanonellalibreria.
Quando la centrale
idroelettrica diGuadalami, l’ultimaancora in funzionenell’isola, si fermòlasciando per sempresenza energia il PoderedelgelsoetuttalaSiciliadel nord, Anna era stesasul divano e guardavaUfficiale e gentiluomo,l’unico film bello dellacollezione di sua madre.
Astorledormivaaccantocomeunbambolotto.
Era il momento che lepiaceva di piú, quando ilsoldato con il cappello el’uniforme candidaandava nella fabbrica ariprendersi la fidanzatatra gli applausi delleoperaie. La televisione sieraspentaeinumeribludel lettore eranoscomparsi. Anna era
rimasta a fissare loschermo nero senzaimpensierirsi troppo.Nelle ultime settimanesuccedeva spesso che cifosserodelleinterruzionidicorrente.
Quella volta nontornò. Il tempo dellaluce, come lo avrebbechiamato in seguito,terminò in quel precisomomento, mentre
Richard Gere portava inbraccioDebraWinger.
Ilgiornofiní,ilsolesene andò e l’abat-jour aforma di fiore accanto aldivanononsiilluminòdiquel giallo tantorassicurante. Il succo difrutta dentro il frigodivennecaldo.Anna,conAstor appeso addosso,accese la torcia e cercònel quaderno delle Cose
Importanti la soluzioneal problema. Sulquadernoc’erascritto:
ELETTRICITÀ
L’elettricità prestofinirà e non ci sarà piúluce, piú televisione, piúil computer, piú lamusica, piú il telefono,piú il frigorifero. Ma nondovete avere paura. Viabituerete presto. Gliuomini sono vissuti per
tanto tempo senzal’elettricità. Gli bastavaaccendere un fuoco.Vivrete durante il giornoe dormirete appena fabuio, proprio come glianimalidelbosco.All’albasaluterete il sole insiemeagli uccelli. Sarà bello.Quando non avrete nullada fare leggerete i libri. Ela musica la faretecantando. La nottechiudetevi in casa e nonuscite mai, per nessunaragione. Usate le candele.
Le pile solo in casod’emergenza. Ma se ciriuscite provate a stare albuio.
Tuttoqua.Senza elettricità il
tempo si allungò. Le oresi impigliavano unanell’altra in giorni che sitrascinavano con unalentezza esasperante.Tutti i rumori erano
spariti. Il tocco precisodelle campane dellachiesa del paese. Glisquilli del cellulare. Ilrombo degli aerei. Glisbuffi del camion dellaspazzatura. Il silenzio,quando Astor dormiva,era cosí opprimente chequasilaintontiva.
Anna imparò adascoltare il vento chefaceva fremere le
finestre e frusciare lefoglie, i borbottii del suostomaco, le voci degliuccelli. In quella quieteappiccicosa anche i tarlichescavavanonelletravidel soffitto le tenevanocompagnia.
Annaerasemprestatauna bambinachiacchierona. Adesso labocca le si riempiva diparole di cui non sapeva
che farsene. Mentreapriva gli scatoloni condentro le lattine dilenticchie parlava dasola. – Ecco qui. Tuttopronto.Unbelpranzetto.
Anche i capricci diAstor che prima laesasperavano adesso lafacevano sentire menosola.
E imparò a conoscereilbuio.
Era cresciuta sapendoche le luci di casa lotenevano fuori dallefinestre finché lamamma spegneva, siandava a dormire e luipoteva allungare le sueditaneresuognicosa.
Aqueitempiilbuiolotrovava in cucina se lanotte scendeva dinascosto a prendere ibiscotti,mal’orologiodel
forno con i numeri rossie la spia verde dellacaffettieraledicevanodistare tranquilla. Losquarciavano i fari dellamacchinaquandolaserauscivano a mangiare lapizza, e lo ammazzaviperunattimoconilflashdel telefonino. Lo sifaceva per portare latorta con le candeline,però era divertente. Era
rinchiuso nel capannodegli attrezzi, e lí sí chefaceva paura. In quelletenebre, che puzzavanodibenzinaedivernice,ildecespugliatore, ilvecchio aspirapolvere,una sedia sfondata,l’appendiabitidiventavano mostripronti a sbranarti. Solo itopi in quel nero sisentivanopiúspavaldi.
Ma adesso il buio lasoffocava, le premevaaddosso, e in combuttacon il silenzio latramortiva. Ottuso ecompatto, penetrava inogni angolo, in ogniinterstizio, in bocca, neibuchi del naso, nei poridellapelle.Avoltecalavacosívelocechenonavevineanche il tempo diorganizzarti, altre
arrivava piano, simischiava con la luce,insanguinava il sole e locondannava ascomparire in fondo allapianura. Le candele nonservivano a niente. Lapalla crepitante chespandevanononbastavaavincerelatenebraanzi,rendeva tutto piúsinistroeminaccioso.
Anna con il tempo
imparò a non avernepaura, ci si immergevacerta che ne sarebberiemersa. Se ne stavasotto una coperta strettaa suo fratello. Quando lescappavalapipílafacevain una bacinella accantoalmaterasso,eauncertopunto il sonno se laprendeva e la restituivaalgiorno.
Nuvole o pioggia,
freddo o caldo, il buio,prima o poi, perdeva lasua quotidiana battagliaconlaluce.
Come se le avesserogettato addosso unasecchiata d’acqua, Annariemerse dal sonnospalancando le braccia,sbatté con un gomitocontrolapareteeschizzò
in piedi. La torcia lescivolò dalle ginocchia.La bloccò con la suoladella scarpa e l’accesedisegnando ovaliluminosi sulla superficiedelcilindro.
Quanto avevadormito?
Si accarezzò la manoferita aspettando che ilcuore si placasse. Decisedifarealtricentoscalini.
Se non fosse arrivata incima, avrebberinunciato.
A quarantasei la luceinquadrò una porticinaspalancata e unminuscolo stanzinopieno di pulsanti.Qualcuno doveva avercipassato la notte, sulpavimento erano sparsebottiglie di vino vuote euna coperta. A un lato
una scaletta verticaleconduceva a una botolachiusa da una specie divolante metallico. Eraduro, ma forzando contutteeduelemaniriuscíasbloccarlo.Spinsesulosportello aiutandosi conlatesta.
Fu accecata dal sole,aspettò che le pupille siadattassero e a quattrozampeuscífuori.Ilvento
soffiavascompigliandolei capelli, le fischiavanelle orecchie e leentrava in bocca.Emozionata e impauritasiaggrappòalcorrimanoche circondava il tettodellaturbinaeguardò.
Oltre le colline i resticarbonizzati dei paesiformavano incrostazionisulla pianura che sistendeva come una
tavola nera fino allacosta. L’autostrada latagliava come un segnodi matita grigia. Il maresembrava un foglio dicarta stagnola su cuierano posate un’isolascura e tonda come unbacioPeruginaeunapiúlontana e piccola. Infondo le parve discorgere una strisciolinapiú opaca, magari solo
un effetto ottico oun’illusione.
Ilcontinente.ForseoltreloStrettoil
mondoeratornatocomeprima,iGrandifacevanofigli e andavano inmacchina,inegozieranoaperti e non si moriva aquattordicianni.ForselaSicilia era statadimenticata insieme atutti i suoi orfani. Di
tante leggende e ipotesiassurde che avevaascoltato, questa lesembrava l’unicaplausibile, l’unica a cuifosse possibile credere,l’unica per cui valesse lapena muoversi e andareavedere.
Sollevò il mento,chiuse gli occhiprovando a deglutire lascheggia che le straziava
la gola. Il vento leportava via le lacrime.Strinse il corrimano esussurrò: – Giuro che seriescoariprendereAstorattraverso il mare escopro se i Grandi sonoancoravivi–.Ecolpíconla fronte la lastra diacciaiosucuierastesa.
Si girò a guardareverso l’interno dell’isola.Le colline evaporavano
una nell’altra, passandodal blu all’azzurroall’indaco. Una stradaseguiva le pieghe delterreno fino araggiungere, accanto auna gru gialla, unagrande costruzioneisolata.
L’hotel.
Corsegiúdallaturbina
nel buio, urlando etirandomanatecontrolepareti. Quando arrivò infondo le girava la testa.Attraversò il campo digrano con il cielo chedondolava e tornòsull’asfalto. Tirò fuori lafelpaeripreselamarcia.
Dopo una brevediscesa la stradaproseguiva in piano
stirandosi come unafettuccia.
Il paesaggio cambiòall’improvviso, quasi adipingerlofossestatounaltro pittore, e il giallodel grano s’impastò conil grigio dei sassi. Lacarreggiata era copertada uno strato di sabbiasottile. Intornocrescevanosolocespugli,agavi e qualche chiazza
spelacchiata di erbasecca. Asini scheletricibrucavano su un crinalescosceso,eincielo,fermicomeaquiloni,ifalchiadalispiegatepuntavanoleloro prede. Nella lucemorente del giorno lecollinepietroseparevanogusci di tartarughemorte.
Colta da unpresentimento, Anna si
girò.Il cane era lí. La
seguiva tenendosi adistanza.
Andarono avanti cosíper un po’, poi laragazzina, esasperata,prese un sasso e glielotirò.–Vaivia!
Il maremmano loschivòconunozompettoaggraziato e la fissò,
sembravaaverequalcosadiimportantedadirle.
Lei gli corse contro,pestando i piedi esollevando le braccia. –Lasciamiinpace!
Il cane girò su sestesso e scappò senzafretta, come se glipesasse il culo, sparendotraicespugli.
Laragazzinaripreselamarcia, ma un attimo
dopose loritrovòdietro.– Senti, se vuoi, seguimipure. Non ho niente dadarti,però–.Eacceleròilpassosenzapiúvoltarsi.
In un piazzalepolveroso galleggiavanella luce incerta delcrepuscolo la carcassa diuna corriera blu. Nonaveva piú i vetri ed era
ricoperta di scritte egraffiti. Dentro i sedilierano sventrati e ilpavimento era nascostoda uno strato dispazzatura.
Annasalísultettoesisedette a gambeincrociatesullalamiera.
Il cane la osservò perun po’ piegando la testa,esparísottoilpullman.
L’uva nello zaino era
schiacciata, ma Anna lamangiò lo stesso,fissando il cielo chestingeva le bavearancioni del tramontoin un grigio perlaceo, epiú su scuriva fino atrasformarsi in unanottestellata.
Appena fu buio ilventosiquietò.
La fame non le erapassataelàsisentivaun
po’esposta.Miselozainosotto la testa, si girò suunfiancoeinfilòlemanitralecosce.
Cercò di immaginareche cosa avrebbe fattoarrivataall’albergo.
Smettila.Cominciòadondolarsi
e piano piano le paurefurono sopraffatte dallastanchezza.
Il sole si sollevò tradue speroni di roccia einsinuò i raggi tra lealture spelacchiate e imiseri boschetti di pini,sommergendodiluceunversantedellavalle.
Anna trascinava ipiedi al centro dellastradafaticandoateneregli occhi aperti. Il sonnosul tetto della corrieraera stato poco, freddo e
agitato da incubi. Ilmaremmano era sempredietro di lei, a testabassa.
All’improvviso preseadabbaiare.
Laragazzinasigirò.Una nuvola di polvere
si alzava in fondo allastrada e si muovevaversodilei.
Un’automobile.I latrati del cane
rimbalzavano contro lerocce moltiplicandosi inun frastuono che non lefacevasentireniente.
–Zitto!Zitto!Staizitto!–gliurlò.
L’animale, con i peliirti sulla groppa, siammutolí, le diedeun’occhiata di traverso escattò con la coda drittaversoilpolverone.
Adesso al centro della
nube dorata siintravedeva qualcosa dipiú denso, una massascura, come un pianetaavvoltodalpulviscolo.
Annauscídallastradae si nascose tra le agaviche crescevano esaustetralepietre.
Avvicinandosi, lamassa scura si allungòtrasformandosi in duesagome sottili e distinte
che avanzavanoparallele.
Cavalli.Il terreno prese a
vibrare. Attraverso lavegetazione Anna videsfilare otto zoccolifiacchi che sbattevanosull’asfalto e quattroruote che sostenevanoun rimorchio con lesponde di legno tinte digiallo, su cui era dipinta
la scritta «La granita diAssuntina». Un maschioe due femmine eranoseduti a cassetta. Ilragazzino, piccolo esecco, reggeva dellecorde che usava comeredini. Alle sue spalle ilpianale era coperto dauna montagna di ossagiallastre.Ilcanecorrevaal lato del carroabbaiando. Dopo
essersela presa con leruote passò ai cavalliche, costretti dal giogo,nitrivano e scalciavano.Lui,pernulla intimidito,si lanciava tra le lorozampe come se volessefarli a pezzi, cancellarlidalla terra. Quelliprovavano a galoppare,ma il trabiccolosbandava a destra e asinistra, ondeggiando e
lasciandosi dietro unasciadiossa.
Il cocchiere, inmutande e camicia,urlava cercando ditrattenere i ronzini.Esasperato, mollò leredini, afferrò unbastone che avevaaccantoaipiediecomeilcavaliere di un torneomedievale si allungò inavanti, tutto teso,
mentre le ragazzine loreggevano per lacamicia. Riuscí a dareunalegnatasullaschienadel cane, ma questo,invece di placarsi, siattizzò ancora di piú eschiumando bava silanciò sulle chiappe diunodeicavalli.Uncalciosul costato lo sollevò inaria come se fosse dipagliaelospedícontroil
carro. Un istante doposcomparvesottoleruote.
I tre ragazziniesultarono.
Non sanno con chihanno a che fare, si disseAnna rientrando sullastrada.
Il maremmanoapparve dietro alrimorchio, si scrollò lapolvere di dosso e silanciò di nuovo verso i
suoi nemici, schivandofemori e tibie chevolavano un po’dappertutto. Azzannò ilquarto posteriore delsauro di destra, ches’impennò e si rovesciòcon un nitrito affogatosulla schiena dell’altro. Idue franarono a terra inun groviglio di zampe,code e corde. Il carro sisollevò in equilibrio su
dueruoteeripiombògiú,ribaltandosi in unfragore di legno e ferro.Ossa e ragazzinivolarono in aria come seli avesse gettati via ungigante capriccioso. Lebestie, libere dal giogo,scomparvero al galoppotra le colline, inseguitedalcane.
Il carro era capovoltoal centro della strada. Itre ragazzini stesi nellapolvere non simuovevano.
Anna aveva le manineicapelli.
Quelcaneèpazzo.La stessa rabbia che
l’aveva spinto ainseguirlasull’autostrada lo avevalanciato contro i cavalli.
Lo vide tornare indietrotrotterellando, con unsorrisocheandavadaunorecchio all’altro. Le sisedette di fronte,spazzando la strada conlacoda.
Lei fece finta di nonconoscerlo e si avvicinòal cocchiere allungatocon la faccia control’asfalto. Addosso glirimanevano brandelli di
camicia e aveva persouna scarpa. Si erascorticato gomiti eginocchiaesilamentava.
Anna gli si accucciòaccanto, ma il ragazzinol’allontanòmostrandoleidenti neri. – Lasciamistare!
Ricordava un ratto, diquelli grossi che stavanoa Castellammare. Lafaccia era composta da
unaserieditriangoli.Glizigomi, le orecchie asventola e il mentoappuntito.Portavatuttiisegni della Rossa: lecrosticine sulle labbra esulle narici, le macchiepaonazzesottoleascelle,ilividisullebraccia.
Leipresedallozainolabottiglia e gliela porse. –Sono solo sbucciature.
Tieni, mettici un po’d’acqua.
Ma quello la colpí conunmanrovescio.
Anna si carezzò laguancia senza dire unaparola, strinse i pugni esiallontanò.
Ilragazzinoafferròunfemore da terra. –Fermati!–Larincorseelesbarrò la strada con ilpetto. – Dove credi di
andare? Guarda che haicombinato! – sbraitòindicando il carro conl’osso.Avevagliocchiettineri e lucidi e unastalattitedimocciogiallogli dondolava da unanarice.
Anna lo spinseindietro. – Io? Io chec’entro?
Il ratto tossí, scatarròun grumo giallo e le si
avvicinò. Aveva l’alitoche puzzava di carnemarcia. – Il tuo cane hadistrutto il carro. Perpoco quel bastardo nonci ha ammazzato a tutti–. Infuriato, tentò dicolpirlaconilfemore.
Anna gli si gettò alcollo, stringendolo forte.– Adesso hai rotto. Posaquell’osso!Posalosubito.
Il ragazzino, tignoso,
boccheggiava esputacchiava, ma non lomollava.
– Ti spezzo il collo, –urlò lei, e gli piantò unpestone sull’alluce.Quello cacciò uno strilloe prese a saltellare su unpiede.
–Iononc’entronientecon quel cane, – disseAnna.
Intanto le due
femmine si eranorialzate e la fissavano.Una era secca e alta,l’altra bassa etracagnotta. La seccaindossava un vestitolungo a fiorellini, senzamaniche, da cuispuntavano deglistecchetti che finivanoin mani troppo grandi.La tracagnotta aveva legambecorteetorniteche
sorreggevanoilsederonestrizzato in unaminigonna viola. Unamaglietta a righe verdi ebluleinsaccavatrerotolidi ciccia e un paio ditettone. Insiemesembravanoduepupazzideicartonianimati.
– Che avete daguardare voi due? –chieseAnna.
Non le risposero, ma
bisbigliaronotraloro.Il ratto indicò il cane
che, steso nella polvere,sigodevailsole.–Senonètuo,ammazzalo.
– A quello lí? – Annascoppiò a ridere. –Ammazzalo tu, io ci hoprovato e non ci sonoriuscita. Mi ha quasisbranato, giúall’autostrada. E se nonmicredi,chisenefrega.
Il maremmano feceuno sbadiglio rumoroso,curvòlaschienaestiròlezampe.
– Scommetto che èstata lei a dirgli diattaccare i cavalli –. Laseccagnona si rivolse alragazzino. – Anche miopadre aveva un cane, sichiamava Annibale. Eodiavalepecore.
Lagrassonasollevògli
occhi al cielo. –Fiammetta,tiprego,nonricominciare con lastoriadiAnnibale.
– Il lavoro di giornibuttato –. Il ratto eraaffranto.–Eadessocomesi fa? Come glielodiciamo all’Orso cheabbiamo perso le ossa epureicavalli?
– Quello si arrabbiatantissimo. Ha un
carattere… – aggiunseFiammetta.
– Scordiamoci lecollane –. La chiattascosse la testa. – Siamofregati –. E abbracciòl’amica.
Laseccascoppiòinunpianto che assomigliavaa un belato. – Avevadetto che ci faceva stareconlui…
Il ratto sollevò le
spalle. – A me la dà lostesso la collana… A voidue no. A voi non visopportanessuno.
Fiammetta noncapiva.–Perché?
La grassona scosse latesta. – Lo sai perché?Perché lui già ce l’ha lacollana. E non ce l’hadetto.
–Èvero,Katio?– Sí. È vero –. Il
ragazzino fece unsorrisetto infido. – Mel’hadataAngelica.
– Maledetto –. Lachiatta lo caricò a testabassa, lo afferrò per icapelli e cominciò atirarlo.
–Lasciami,bastarda,–urlava Katioprendendolaacalcineglistinchi, ma la ciccionanoncedeva.
–Fiammetta,aiutami.– Eccomi, Chiara –. La
secca fece tre passi con isuoi trampoli e come unpipistrello si attaccòanche lei ai capelli diKatio.Itrecominciaronouno strano girotondourlandoespingendosi.
Anna era a boccaaperta.
Una voce alle lorospalleinterruppelalotta.
– Scusate… – In mezzoalla strada, un ragazzinocon un’enorme anguriapoggiata tra scapole ecollo li chiamava. –Un’informazione…
Indossava un lungocappotto beige che sitrascinava dietro comeun mantello. Sotto eranudo e ai piedi aveva unpaio di scarpe di cuoiolavorato, con i lacci, che
un tempo dovevanoessere state eleganti. – Èquesta la strada perl’hotel? – Il craniosembrava essere finitosotto una pressa che gliaveva mischiato iconnotati. Gli occhi nonerano allineati, uno erapiú basso, semichiuso,nascosto dallo zigomo, esopra la fronte alta ebitorzoluta crescevano
ciuffi di peli biondastriche parevano appiccicaticonlacolla.
I tre avevano smessodi lottare e loosservavano increduli.L’anguria doveva pesareminimo venti chili.Chiara fu la prima ariprendersi: – Che ci faiconquello?
Iltiposipresequalchesecondo, come se
cercasse la rispostamigliore, poi posò ilfrutto a terra. – È undonoperlaPicciridduna.Dicono che se porti deiregali speciali ti cura –.Tirò fuori dalla tasca delcappotto uno straccio ecominciò a lucidare labuccia striata. – Mimancapoco.
– E la faccia? –domandòFiammetta.
–Quellarimanecosí–.Sollevò le spalle. –Quando ero appena natomio padre mi ha chiusolatestainuncassetto.
Katio si avvicinò alragazzino. – E ilcocomero? Dove l’haitrovato?
– Non è un cocomero,è un mellone d’acqua.Nonneesistonoaltricosígrandi e dolci in tutto il
mondo–.Sibattéilpettotutto fiero. – L’ho fattocrescereio.Glihodatoilconcime.
Fiammetta allungò ilcollo da avvoltoio,esaminandolo. – Proprioenorme…
–Anchevoiciandate?Possiamo fare la stradainsieme.
Il ratto sfiorò il fruttocon la punta delle dita,
come se volesseaccertarsi che non era diplastica. – Perché non celofaiassaggiare?
– Non posso, è per laPicciridduna.
– Dài, solo unpezzettino.
– No! – Il ragazzinoabbracciò il propriotesoro. – Devo portarloall’hotel.
Katio gli diede una
pacca sulle spalle troppoforte per essereamichevole. – E tu credichebastiunmellonepersalvarsi? Sei pazzo –.Improvvisamentedivenneserio.–Masemelofaimangiareciparloioconl’Orso…
Ad Anna sembrava divedere i pensieri chescorrevano nella testadel disgraziato col
cappotto. Dritti, unodietro l’altro, come ivagoni di un treno lentoe rumoroso. Alcuniavevano il puntointerrogativo,altrisoloilpunto. E non sapevatrattenerli. Infattidomandò: – E chi èl’Orso?
Katio schiuse unsorrisosuidentiguasti.–Allora non sai proprio
niente? Rosario Barletta,detto l’Orso, è il capoall’hotel.Èunamicomio,è lui che organizza lafesta e che comanda ibambini blu. Se ci dài ilmellone ci parlo io, cosípotrai mangiare lacenere e salvarti –. Sibaciò gli indici. –Promesso.
Il ragazzino siaccovacciò sopra il
mellonecomesedovessecovarlo.
– Allora non lo vuoidividere con noi? – feceKatio.
Il poveretto guardòAnna e Fiammetta,implorandoaiutocongliocchi.
– Pensa se è marcio –.Ilrattoinsisteva.–Pensase Rosario lo apre escopre che è marcio.
Quello ti butta giú daltettodell’hotel.
Il ragazzino aveva lavoce rotta. – Non èmarcio… – Poi, con unasmorfia di dolore,capitolò. – Va bene,prenditelo.
Katio sollevò unpugno come se avessefattogoal.
Anna parlò senzaaccorgersene. – Lascialo.
Vuole portare il suomellone? Faglieloportare.
Il ratto le lanciòun’occhiata perfida, poisi rivolse tutto gentile alragazzino. – Scusami, haragione lei –. Indicò lastrada. – Vai pure –. Edesplodendo un grido digioia piantò il tallonenell’anguria, che si aprírovesciando la polpa
rossa e i semi nerisull’asfalto.
Il poveretto cacciò unsingulto strozzato e sistesesuirestisuccosidelsuo unico bene. AncheChiara e Fiammetta ci sigettarono sopra, comedue indemoniate,raccattandone pezzi ecacciandoseliinbocca.
– Figlio di puttana –.Anna si avventò su
Katio, che le osservavasoddisfatto ingozzarsi, egli mollò un ceffone suunorecchio.
Il ragazzino vibrò e isuoi occhi schizzaronofuori dalle orbite comequelli di una raganella.Spalancò le labbra in unurlo muto, si sfregò ilpadiglione e crollò sulleginocchiapiangendo.
Le sue amiche, troppo
prese ad abbuffarsi, nonlo degnarono di unosguardo. Anna puntò ilculo di Chiara e con lasuola della scarpa laspinse in avanti. Lacicciona si grattugiò ilgrugno sull’asfalto. Lasecca, con la facciaimbrattata di succorosso, schizzò indietrocomeuntrampoliereesiallontanòsgambettando.
–Dài,andiamo.Lasciaperdere–.Annaafferròilmeschino per un polso.Quello però non simuoveva. Singhiozzavadondolando il craniodeforme.–Faicomevuoi–.Sigiròversoilcanecheera steso nella polvere.Provò a fischiare, ma leuscí fuori unapernacchiasfiatata.
Ilmaremmanosollevò
chilometrididistanza,siallungava sull’orizzontecome una nave dacrociera arenata su unacollina. Colonne di fumosisollevavanodaltetto.
Anna passò sotto unarco di pietre nere chesormontava la strada.Femori slavati dallapioggia, appesi a deglispaghi, tintinnavanocomecampanecinesi.Su
un pilastro eranoincastonate delle grandilettere dorate: «HO MEELI». Le altre eranocadute. Ai lati dellastradina qualcuno avevapiantato degli ulivisecolari,oramezzimorti.Mulinelli di polveredanzavano tra le roccescure e i fichi d’India. Ilvento portava odore dizolfoeplasticabruciata.
Si sedette, nellatrachea contratta l’ariaentrava appena. L’ansiaera montata piano. Ognimetro che l’avevaavvicinata all’hotel erastato piú faticoso eadesso che lo avevadavantinonerasicuradifarcela.
Eselohannoucciso?A un centinaio di
metridaleideiragazzini
si muovevano tra gliarbusti. Sembravanoraccogliere qualcosa daterra.
Lasciò la stradapassandotramassiscuriche come sentinellecircondavano l’albergo,sinascosetraduerocceepoggiò il mento sulleginocchia. Aveva lafronte bollente ed erascossa dai brividi.
Rimase a fissare ladistesadesolatachenellaluce del tramonto sitingevadirosso.
Forsepotevaaspettareilgiornodopo.
Sua madre si fecelargo tra i cespugli.Portava i jeans a vitabassa con la cinta nera, isandali di cuoio e lamaglietta bianca dicotone spesso. La vide
sedersi di fronte a leiincrociando le gambe. Ilfiltrinodellasigarettatralelabbra,lacartinaconiltabaccotraledita.
Chehai?Holafebbre.Lamadrepreseilfiltro
elosistemòinfondoallacartina. La punta dellalinguascivolòsullacolla.Unrapidomovimentodi
pollici e indici creò lasigaretta.L’accese.
E tuo fratello? Lo lascilí?
No, ci vado domani.Adessodormounpo’.
La carta sfrigolòavvolgendo il viso diMaria Grazia nel fumo.Tra le ciocche biondeemerserogliocchilucidi,cerchiati, quelli degliultimigiorni.
Lo sapevo che nonpotevofidarmi…
Eccola di nuovo nellasua stanza, stesa tra lelenzuola stropicciate inunapozzadisudore.
Sei fatta della stessapastamosciadituopadre.
Anna strinse i pugni esiasciugòconilpolsogliocchi velati dallelacrime.
Tra i rovi apparve il
cane. La osservava congliocchimalinconicielalinguafuoridallabocca.
Annaallungòlamano.–Seitornato.
Il maremmano fecedue passi, piegò il collo,le annusò i polpastrelliconilnasoscrepolatoelediedeunpaiodileccatinegentili.
–Ioetesiamoamici,–glidisselei,ingoiandoun
grovigliodispine.Il cane si abbandonò
accantoallasuapadrona,allungò il testone tra lezampeesiaddormentò.
Anna restò immobile,con il pelo sporco epuzzolente che lestrisciava sulla coscia.Poi,timorosa,cominciòacarezzarlo. Al contattocon le dita i muscolidell’animale vibravano.
Una zampa posterioreebbe uno spasmo dipiacere.
–Cometichiami?Quello inarcò la
schienaestiròlabocca.– Sei proprio un
coccolone –. Sorrise. –Ecco come ti chiamerò,Coccolone.
Fu cosí che, dopoSalameeManson,ilcane
prese il nome diCoccolone.
Anna accese la torcia,il fascio di luce si riempídi nugoli di moscerini.Gli occhi del canebrillavano di un bluelettrico.
–Staiquabuono–.Glicarezzòlafronte.–Tornopresto –. L’animale la
guardò attento e non simosse.
L’hotel era avvolto danuvole di fumo che sitingevano dei bagliorirossastri di fuochi. Unfrastuono ritmico dipercussioni metallicherimbombava lontano.Anna sfilò accanto a ungruppetto che andavanella sua stessadirezione, figure scure
che ridevano echiacchieravanofraloro.Alle orecchie learrivarono folate diparole incomprensibili,rantoliecolpiditosse.
A mano a mano cheprocedeva gliassembramentiaumentavano. Moltiriposavano seduti suimuretti o coricati per
terra in bivacchiimprovvisati.
Sgusciò veloce nellafolla fino a quando ilflusso si trasformò inunacodadisordinatacheavanzava a ondate. Ilampi dei falò lontanitingevanovolticopertidimacchie e bocche senzadenti. Era unaprocessione di storpi,gobbi, piagati. Quasi
tutti avevano borse,buste piene di roba otrascinavano trolleygonfi.
Due se ne stavano indisparteafumare.
– Io ho tre scatole dicarne. Tu che haiportato?–dicevauno.
– Questo… – risposeuna voce femminile. Lafiammella di unaccendino tremolò
nell’oscurità e si riflessesulvetrodiunabottigliaconl’etichettarossa.
–Cos’è?–Vino.– Non basta, mica ti
fannoentrare.–Eperché?L’altro scoppiò a
ridere. – Perché questamelabevoio.
I due cominciarono alitigare senza troppa
convinzione,daamici.Per entrare bisogna
darequalcosa.Cheavevanellozaino?
Una bottiglia vuota. Unaccendino. Un coltello.L’unicacosadivaloreerala torcia, ma non volevadarla via. Era un’ottimalampada, potente, e nonsieramairotta.Anchelepileeranoancorabuone.
Nella fila che
proseguiva sotto i muridell’hotel scoppiavanolitichefinivanoinurlaespintoni.
Era la prima voltadopo l’epidemia cheAnna si trovavacircondatadatantiesseriumani,econtuttaquellagente che le premevaaddosso, la toccava e laspingeva le mancava ilrespiro. Aveva voglia di
scappare, ma strinse identi e si obbligò arimanereincoda.
Mezz’ora dopo arrivòdavantiaicancelli.
Suunaschieradibarilisi scioglievano centinaiadicandeleetreragazzinidietro le sbarrecontrollavano chientrava. A tutti e trependevano sul petto
delle collane fatte difalangiumane.
– Che hai da offrirealla Picciridduna? – lechiese uno smilzo cheaveva i capelli impastaticondellapoltigliaverde.
Anna gli passò latorcia.
Il ragazzino controllòche funzionasse e laconsegnòaquellocheglistavavicino.–Vabene…
Il secondo, unpiccoletto biondino, labuttò dentro unoscatolone insieme allealtreofferte,leosservòilseno e la fece passarementre il resto della filasi accalcava contro lesbarre.
Attraversò unpassaggiocoperto,buioeventoso, che portava aigiardini. I muri erano
imbrattati di disegni escritte. Ai lati delpavimento di pietraerano ammassati cocci,plastica, scatolette elattineammaccate.
Sbucò su unbasamento che siaffacciava sopra unanfiteatro. I gradoni dicemento grezzodigradavano fino a unavasca piena di
spazzatura e acquapiovana alle cui spalle,dietro sei colonnecorinzie, si vedevanoancoralerecinzionidiuncantiere. Da cinque piredi pneumaticiguizzavano fiamme altecheavvolgevanoilteatroin un fumo acre e nero.Tutto era distrutto,cadente. Una serie dicanali infestati di
erbacce, da cuispuntavano comeserpenti arancioni icorrugati dei cavielettrici, percorreval’emiciclo e scendevaversolapiscina.
La gente si accalcavaovunque.Quelliassiepatisulle scalinatesembravano dormire,molti si muovevanolungolerampe.Sopraun
terrapieno una banda distraccioni picchiava sudei barili un ritmo lentoemonotono.
In alto incombeval’albergo, sormontato alcentro da una cupola divetro. Un’ala era unoscheletro di pilastri dicemento, mentrenell’altra i lavori eranoandati piú avanti e
c’erano addirittura gliinfissieletapparelle.
Anna si avventuròincerta per le scale manonriuscivaaprocedere.Si fermò su un gradonericoperto di barattolivuoti di tonno, fagioli ececi.Neraccolseunpaio,trovò un angolino liberoe con due dita raschiò ifondi. Con la fame cheaveva anche i ceci, che
non aveva maisopportato, lesembravanogustosi.
Non distante, su unospalto,unaragazzinaconun cappuccio nero e lacollana di ossa stringevatra le mani un cestopieno di bottiglie diplastica. Tutti siaccapigliavano peraverne una. E chiriusciva a prenderla
doveva difenderla daglialtri.
Dopo poco chi avevabevuto cominciava aondeggiare, con la testasul petto e le bracciaciondoloni, cullato dalsuono dei tamburi. Uno,avanzando a occhichiusi,nonsiaccorsecheil gradone era finito,rimase per un istantecon una gamba tesa nel
vuotoecaddedisottotrascoppidirisate.
Anna si guardòintorno.
La tensione che sipercepiva fuori daicancelli pareva svanita.Tra le folate di fumoapparivano figurescomposte che siagitavano come a unafestaoaunconcerto,ma
non c’era nessunodell’etàdiAstor.
Accanto a lei scorseuna schiena femminile,le scapole che siallargavano come ali dipollo e le gambesmagrite.
–Scusa–.Letoccòunaspalla. – Lo sai dovetengonoibambini?
Nonebberisposta.Tirò la ragazzina per
un braccio e quella lericadde addosso. Avevaleguanceincavate,comese un parassita l’avesserisucchiata dall’interno,gliocchivitreie laboccacontratta in un urlomuto.
Un colpo di ventospazzò l’anfiteatro. Sottola luce baluginante deifuochisicontorcevaunadistesadicorpi.
Anna si sollevò discatto, si sfregò lebraccia cercando discacciar via, come fosseunosciamedimosche,lamorte che le si eraappiccicata alla pelle einciampò nella cavigliadi un ragazzino. Unodore acido di urina leriempí le narici. Ilpoveretto tremavascosso dai brividi. La
faccia, il collo e il pettoeranoricopertidipiaghe,lebracciarigideeipugnistretti come se stessecombattendo.
Èunasalad’attesa.Lechiamavanocosí.Si
dicevacheaPalermounafosse allo stadio eun’altraaMondello.Cisitrascinavano i finiti, imezzi morti, per crepareinsieme.
–Io…Iononcel’holaRossa,–balbettò.Feceunpaiodipassiefuavvoltadaunanuvoladigascheleriempíipolmoni.
Risalí lescaledicorsa,tossendo. Sotto loscheletro di un alberellodacuipendevanostraccie buste vide unaimpastatrice per ilcemento. Ci si nascosedietro e si rannicchiò su
unfianco,latestacontrolozaino.
Se non guardava, senon ascoltava, quel buioera lo stesso del Poderedelgelso.
In pochi secondi lepalpebre si feceropesanti e crollòaddormentata.
Ilgiornol’accecò.
Anna si coprí il voltocon le mani e sbirciò traleditailcielolattiginoso.Il sole, appena sopral’orizzonte, somigliava auna macchia di sugo suunatovagliabianca.
Alla luce l’anfiteatroapparivapiúpiccolo.Daicumuli di cenere i restidegli pneumaticiesalavano fili neri edritti. Il terrapieno dei
tamburi era deserto.Sugli spalti rimanevanopochimalati.
Si tirò sui gomiti,sbadigliando.
Di fronte a lei unafigura in controluce sicompose in un voltofamiliare. – Tu che ci faiqui?
Pietro era a gambeincrociate.–Sonovenutoa cercarti, – rispose.
Raccolse da terra unabottiglia che sul fondoaveva ancora due dita diliquidoneroeselaportòal naso. – Hai bevutoquestaroba?
Anna si sgranchí laschiena.–No,cos’è?
– La distribuiscono lasera. Dentro c’è di tutto,alcol, pillole, sonniferi…Lachiamano«leLacrimedella Picciridduna». Io
una volta me ne sonofatta fuori mezzabottiglia e dopo hosfondato di testa unavetrata. Guarda –. Lemostrò una cicatricescura e carnosa dietrol’orecchio sinistro. –Neanche me loricordavo. Me lo hannoraccontato.
La ragazzina siaggiustò la maglia. – Ma
nonc’eranodeimorti?– Li portano via
appenaspuntalaluceelitrascinanoinunafossa.
Anna lo osservò.Sembrava stanco, con ilviso stropicciato e icapelli arruffati, ma gliocchi liquidi e grandierano belli. – Tu nondovevi andare a cercarelescarpe?
Lui prese una
scatolettaditonnovuotae se la girò tra le mani. –Senza di me non lotroveraimaituofratello.
Anna si passò le ditatra i capelli e piegò latestadilato.
Èvenutoperme.Pietropulíconl’indice
irimasuglidipesceeselimiseinbocca.–Ègiúallacava. Ma se ti beccanofinisci nella cisterna.
Solo i guardiani, quellicon la collana, possonoandarci, però io conoscounastrada.Ticiporto,sevuoi.
Anna rimase unattimozitta.–Com’èchesaitantecose,tu?
Luilediedelespalle.–Ce l’avevo anch’io lacollana. Poi ho avuto unproblemaedèmegliochenonmivedonotroppoin
giro –. Lanciò lascatoletta verso lapiscina, sbagliandoclamorosamentelamira.Colpí in testa unragazzino steso un paiodigradonipiúinbasso.
Quello si tirò su e loindicò. – Ma cheminchia…–Ecominciòatossire.
Pietro sollevò unamano.–Scusami.
Anna applaudí. – Emeno male che nonvolevi farti notare –. Siallacciò una scarpa. –Andiamo.
I due aggirarono lavasca passando tragruppi di ragazzini chedormivano ammassaticomecricetinellapaglia.
Alcuni si erano avvoltidentrotelidicellophane.
Risalironounascaladicemento e raggiunserouno spiazzo dove uncapannello di guardianiscaldava sul fuoco unalatta argentata.Fissavano il cibo insilenzio, sbadigliando,come se dovesserocuocerlocongliocchi.
– Non li guardare, – le
sussurròPietro.–Daquain poi devi avere lacollanapermuoverti.
Attraversarono unamacchia di ginestre equando ne uscironodavanti a loro si aprí lapianura soffocata sottouna nebbia lattescente,dacuisbucavanolecimesbiadite delle colline.Proseguirono su unastradina che dopo un
centinaio di metri erainterrotta da unabarriera di tavoleinchiodate. Lí vicinodoveva esserci unalatrina, perchéarrivavano zaffate diurinaediescrementi.
Scivolarono sedere aterra per un costonecoperto di piante dallefoglie larghe e dai fruttispinosi e si ritrovarono
su un pendio coperto digrano. Pietro si apriva lastradatralespigheconlemani e ogni tanto sivoltavaacontrollarecheAnnaloseguisse.
Si acquattarono dietrodei cassoni pieni dicalcinacci ai margini diun piazzale sterrato sucui, accanto a dellebaracche prefabbricate,
erano abbandonati uncamioneunaruspa.
–Líc’èlastradachevaallacava.
Anna si sporse aguardare.
– Dobbiamo correreveloci,sennòdall’albergoci vedono, – continuòPietro. – E se ci portanoda Angelica io sonofregato.
–ChièAngelica?
Pietro si morse unlabbro.–Quidecidetuttolei,insiemeall’Orso.
Anna si ricordòdell’Orso, ne avevaparlato Katio, quello delcarro.–Edovesta?
– A quest’ora sarà adormire.
La ragazzina piegò latestaeloguardòdasottoinsu.
Pietro dondolò un po’
il bacino. – Si erainnamorata di me, nonmi lasciava in pace. Mivoleva.
Anna scoppiò in unarisatafragorosa.
Lui le tappò la boccacon una mano e urlòsottovoce: – Zitta! Cisentono…
Anna si asciugò lelacrimeconunpolso.
Com’è che la mamma
chiamava papà quandosivantavacheeracapacedi tuffarsi di testa dalloscoglio del prete? – Seitale e quale a mio padre,unminchionaccio.
– È vero, te lo giuro –.Pietrosibaciògliindici.–Per questo me ne sonofuggito. Quella è pazza.Dicevacheseandavoconlei mi faceva vedere laPicciridduna, ma era
tutta una scusa. E perfavore, possiamoparlarne dopo? – Cercòuntonoadulto.–Adessoascoltami: al mio viacorriamo senza fermarcifino alla ruspa e cinascondiamo.
–Ecom’è?Bella?– No. È troppo secca,
tipostrega.– Perché? A te come ti
piacciono? Tutte… –
Annadisegnòdellecurvenell’aria.
Pietro giunse le mani.–Tiprego…
La ragazzina tentò difarsi seria, ma gli occhicontinuavano a ridere. –Quindi se ci beccano titoccaAngelica?
–Noncibeccano.–Eperché?Pietro la guardò dritta
negli occhi. – Io e te
siamoinvisibili.– Lo vedi che sei un
minchionaccio.
Forse non eranoinvisibili, ma nessuno livide quandoattraversarono ilpiazzaledicorsa.
Anna inchiodòaccanto a un cingolodello scavatore. Un
secondo dopo le scivolòaccanto Pietro, che lefece segno di aspettare.Avevailfiatone.–Hannochiusolastrada.
La sterrata che conuna serie di tornantiscomparivanellavallettasottostante era sbarratada una rete metallica.Dove i contrafforti lapuntellavano era ancorain buono stato, il resto
era scomparso sotto lefrane.
– Dobbiamo passareper il bosco, – disse ilragazzino.
Anna ebbe un dubbio.E se la stava prendendoin giro? Come faceva afidarsi di unminchionaccio, uno cheraccontavacheunacertaAngelica lo voleva e
giravaincercadiunpaiodiscarpe?
Maquestoho.
Gli alberi siaggrappavano unoall’altro come se fosseroterrorizzatidiprecipitarea valle. L’edera strizzavale querce, ricadeva ingrappolietrasformavailterreno, cosparso di
buche e rocce, in unintrico verde e insidioso.Il sole si era alzato e conlui nugoli di moscerinichemordevanocaviglieebraccia.
Anna seguiva Pietrogiú per il costone,preoccupata. – Sei sicurochediquaègiusto?
–No,–confessòPietro.–Sehaisbagliatocela
dobbiamorifareinsali…
– Non riuscí a finire lafraseperchéinciampòsuuna radice e si ritrovò ascivolare di schiena.Provò ad afferrarsiall’edera, ma se la portòvia. Di culo, strillando,affrontò una gobba chela sbalzò in aria. Rami efoglie le frustarono ilvoltoelebraccia.
Ilboscolasputòfuori.Con una serie di
capriole atterrò su unghiaione ripido. Cercò difrenare l’abbrivo conmani e piedi, mascendeva sempre piúveloce, sollevando ondedi sassolini, finché tuttoil pendio si trasformò inuna frana. Unamacchiolina verde, cheall’inizio sembrava solouncespuglio,cominciòaingrandirsi senza che lei
potesse rallentare.S’impigliò, come unpesce in una rete, tra irami di un fico selvaticoaggrappato sul ciglio diunburronechescendevadrittofinoallabasedellacava. Il cuore non si eraaccorto di essere salvo ele pompava sangue nelletempie. Piegò le ditaimbiancate e si passò la
lingua contro i dentiimpastatidipolvere.
Pocodopo,annunciatoda un urlo, le arrivòaccanto Pietro,spruzzandoladisabbia.
I due, stesi sotto lavolta di foglie, siguardarono stupiti diessereancoravivi.Eranotutti bianchi.Scoppiaronoaridere.
Anna tirò su col naso.
– Ti posso chiedere unacosa? Non ti offendereperò… – Si schiarí lavoce. – Perché sei fissatoconquellescarpe?
Pietro si strofinò lepalpebre, prese unrespirone e si lasciòandare indietro con lanuca sul braccio. – Èinutilecheteloracconto,tantononmicredi.
–Provaci.
Lui tossí. – Avevoquesto amico, PierpaoloSaverioni.Erapiúgrandedi me di due anni. Gli èarrivata la Rossa, forte.Era tutto coperto dimacchie, respiravaappena e non si alzavapiú dal letto. Glimancava poco. Unamattina mi dà unapaginadigiornale,quellache ti ho fatto vedere, e
midicechequellescarpesono magiche, chepotevano salvarlo e michiede di andare acercarle. Era sicuro. Chegli rispondevo? Era unmio amico, mi avevatenuto in casa sua e miaveva dato da mangiare.Sono andato al centrocommerciale e le hotrovate. Le AdidasHamburg. Ce n’erano
decine di scatole –.Scacciò una mosca chegli ronzava intorno. –Pensavo fosse unastronzata e ne ho presoun paio solo, un 42. Luise l’è messe, anzi glieleho messe io, perché noncelafaceva,emenesonoandato a letto –. Rimasequalche secondo muto. –Il giorno dopo erascomparso. Sul letto
aveva lasciato la paginadellescarpe.L’hocercatoovunque.Eraimpossibileche se ne fosse andatocon i suoi piedi, eraridotto una larva, non simuoveva piú. Ho pureguardatochenonsifossebuttatodallafinestra.
La ragazzina si grattòunaguancia.–Edov’era?
– Dall’altra parte.Nell’universoincuitutto
è come prima, dove nonc’èmaistatalaRossaelecose vanno avanti nelmodogiusto.Iononlosoperché quelle scarpefunzionano cosí, maPierpaolo mi ha spiegatoche indossandole prendiunastrada,unaviachetiporta in questo altromondo –. Sollevò lespalle. – Sono corso alcentro commerciale e
noncen’eranopiú.Tuttescomparse –. Si giròversoAnna.
Lei lo fissò. – E se letrovienonfunzionano?
Pietro abbassò gliocchi.–Tunoncredichec’èunmodopersalvarsi?Siamopropriodestinatiamorirecosí?
Lo sguardo di Annafinísuunragnomarroneche fremeva al centro
della tela scossa dalvento. – Io non credo aniente. Io devo trovaremio fratello, hopromesso a mia madreche non l’avreiabbandonato.
–Edopo?Checambia?Traunpo’tumuorieluirestasolo.
– Ma prima lo portonelcontinente.
Ilragazzinosisfregòla
punta del naso. – InCalabria?
– Magari lí dei Grandisisonosalvatiehannoilvaccino.
–Lovedicheanchetucrediinqualcosa.
Annachiusegliocchi.Le dita di Pietro
cercarono le sue. Leiglielestrinse.
Rimaserofermi,manonella mano, rigidi comedue salami, e cisarebbero restati chissàquanto se non ci fossestato quello stranotintinnio.
Anna drizzò la testa. –Losenti?
Pietro sembrava nonvolersimuovere.–Cosa?
– Questo rumore. Losenti? – La ragazzina si
fece largo tra i rami eaprí uno squarcio nellacortina di foglie. Nelcielo azzurrogalleggiavano nuvolettebianche e dense. Sotto,appeso con un cavod’acciaio a una gru,dondolava un fantocciocon le sembianze di unoscheletro umano. Annanonerabravaacalcolarele grandezze, ma quel
coso era piú alto delpalazzo della banca inpiazzaMatteotti.
Era costruito con assidi legno unite daarticolazioni di corde. Lacassatoracicasomigliavaallo scafo di una barca eilbacinoavevailbucoalcentro. Tranne mezzagamba sinistra e ilbracciodestro,ancoradafinire, era interamente
rivestito di ossa. Dagliomeri pendevano omeri,femori dai femori,clavicole dalle clavicole.Ma la cosa piústupefacente era ilcranio, composto dateschi disposti in spirali.La spina dorsale era unmosaico di vertebre. Leossa, libere di muoversi,sbattevano tra loromossedalvento.
Pietro si affacciò avedere. – Alla fine lohannofatto.
Anna era ammirata. –Èbellissimo.
– Serve per la festadellaPicciridduna.
In basso, intorno allagru,c’eranotantimucchid’ossa. Piú lontano,accanto a un lungocapannone di lamiera,un’autocisterna,
montagne di pneumaticiecatastedilegno.
Anna e Pietroseguirono a quattrozampe il ciglio sabbiosodel precipizio e sceseronellacava.Lamarionettali guardava con le sueorbite nere fatte conruoteditrattore.
Il vento correva tra i
cumuli di sabbia,sbuffava sul piazzalesollevando mulinelli dipolvere e facendosbattere la porta delcapannone.L’autocisterna era inbuone condizioni e sivedevano ancora leimpronte deglipneumatici che avevalasciatodietrodisé.
I mucchi di ossa piú
piccoli erano divisi aseconda del tipo. Tibie,costole, radii e cosí via.Quelli piú grandi eranoancoramisti.
Anna poggiò le manisui fianchi, sconsolata. –Qui non c’è nessuno,torniamosu.
Pietro si lasciò cadereaterra.–Eppure…
Anna lo zittí. – Cos’èquello? – In fondo alla
valle un polverone sistemperava nel cieloterso.
L’autistadell’autocisterna dovevaesserestatouncredente.Il cruscotto eratappezzato di santini dipadre Pio e di papaWojtyła. Su tuttosvettava una targa
dorata con impresso instampatello: LA MISURADELL’AMORE È AMARE SENZAMISURA.
Pietro e Anna,accucciati sulla poltronadel guidatore, spiavanoattraversoilfinestrinolanuvola di polvere che,ingrandendosi, siscompose in tre carrettitiratidacoppiedicavallisimiliaquelloguidatoda
Katio. Ma questi, inveceche ossa, trasportavanobambini. La carovana sifermò sotto lamarionetta e tuttisaltaronogiúurlando.
Anna si ricordò diquando il pulmino giallodella scuola la lasciavadavanti ai cancelli delleelementari e insieme aunmucchiodicompagniscalmanati correva nel
cortile. La differenza erachequestiquieranonudiemagricomelucertole.
Gli occhi dellaragazzina rimbalzavanodaunoall’altrocercandoAstor, ma da lí eranotutti uguali. Si eraimmaginata che litenessero legati come glischiavi dell’Egitto,invece erano liberi eparevano pure contenti.
Sei piú grandi liinseguivano comemaestre, faticando atenerli in riga. Neacchiappavano uno e unaltro sfuggiva. Alla fineriuscirono a condurliaccanto a una fila dibarili.
Pietro si diede unpugno sulla fronte eindicò una ragazzinaalta, mezza nuda e
dipinta di bianco. –Quella è Angelica –.Accanto a lei un tipogrosso, con le spallecadenti e i fianchisformati,prendevadaunbidone manciate dipolvere blu e le gettavaaddosso ai bambini, chescomparivano in unanube color cobalto. – Equelloèl’Orso,Rosario.
Anna gli strinse un
polso. – Io quei due li hogià visti, sono quelli chehanno ammazzatoMichelini.
Appenal’operazioneditrucco fu conclusa unaragazzina sciancataportò una scatola dicartoneedistribuíatuttibottigliettediCoca-Cola.
Dopo la merendaAngelica soffiò in unfischietto e i blu si
divisero in gruppi. C’erachiprendevadelletibieese le infilava dentro unasacca appesa al fianco echi lavorava sui mucchi.Le operazioniavvenivano in modorapido, segno che noneralaprimavolta.Quellicon le sacche siattaccarono a ganci chependevano dalla gru efuronoissatisuabraccia
da altri che reggevano lecorde. Come scimmie, siarrampicavano sulloscheletro e dondolandosi lanciavano da unaparteall’altra,fissandoleossaadeichiodiconilfildi ferro. I grandi, dasotto, li dirigevanourlando.
Anna si appiccicò alfinestrino.–Eccolo.Èlui.
–Quale?
– Quello là –. Puntò ilditoversounbambinoinpiedi su una catasta diossa.–Vadoaprenderlo.
– Aspetta… Aspetta…– Pietro fece perfermarla, ma lei si buttògiú dal camion ecominciòacorrere.
Il bambino le dava lespalle. Tra le mani
teneva un bacino comefosseunvolante.Annasigettò tra ulne e vertebreche le franarono sotto ipiedi,allungòunbraccioe riuscí ad afferrarlo peruna caviglia. Il piccolo,cacciando uno strillo, lerovinòaddosso.
Laragazzinasirialzòevide sotto la pittura blugli occhi azzurri di suamamma, il naso di suo
papà, i denti storti diAstor. Aveva lesopracciglia rasate. Glisorrise.–Astor.
Lui la fissò perso,come se non lariconoscesse, poi deglutíun groppo e balbettò: –Anna… Anna… – Escoppiò in un piantodirotto.
Annagliteselamano.–Andiamo.
L’altro scuoteva latesta con il voltodeformato daisinghiozzi.
–Astor,andiamo.Ilfratellosipulíconil
braccio il moccio che glicolava sulle labbra, manonsimosse.
– Andiamo, – ripetéancoraAnna.
Mailbambinofecetrepassi indietro, come un
gambero, affondando dischiena tra le ossa. – No.Nonvoglio…
Provò a sorridergli. –Dài,su.
Si era immaginata ditutto durante il viaggio,tranne che suo fratellonon volesse venire conlei. Presa in contropiederiusciva solo astiracchiare le labbra. –
Torniamo dalle lucertolecapellone.
Astor abbassò gliocchi.–Tuseicattiva.Mihaidettocheeranomortitutti. Non ci sono imostri, non esiste ilFuori –. Ricominciò apiangere.
Annasentícrescereunronzio nelle orecchie. Lacava,leossa,ilburattinoroteavano intorno a lei
come una giostrasbilenca. Un nodo lechiudeva la trachea.Soffocando, disse: – L’hofattoperte,pernonfartivedere le cose brutte.Andiamo, ti prego,andiamo.
Il bambino, con iltruccobluimpastatoallelacrime e al moccio,ingoiò aria e sospirò: –
Nonvoglio.Quicisonoibambini,comeme.
Con uno scatto Annagli saltò addosso. –Adesso basta! – Loafferrò per un braccio. –Sono tua sorella, capito?Decido io –. E lo trascinònella polvere. –Ubbidisci,cazzo!
Il vento le portò unfischioacuto.Conlacoda
dell’occhio vide i blu chelegaloppavanocontro.
Astorsiliberòconunostrattone e a quattrozamperisalísulmucchiod’ossa.
I blu la tiravano per icapelli e la maglietta, lesi attaccavano allegambe. Anna finí a terramenando pugni e calci,
ma appena uno sistaccava un altro siaggrappava. Con unosforzo impossibile riuscíamettersi inginocchioead alzarsi. Aveva ungrappolo di bambiniappesi addosso. Fece unpaio di passi cercando discrollarseli, ma quellinon mollavano e con ungemito ricadde nella
polvere come un Cristoansante.
La immobilizzarono aterra, tenendola per ipolsielecaviglie,mentreil sole, allo zenit,l’accecava.
Unasagomasmilza,incontroluce, le chiese conuna vocina afona: – Chevuoi da Mandolino?Lascialoinpace.
– Mandolino? Di che
cazzo parli? – Annastrizzò gli occhi edistinse l’ombra diAngelica. Era tuttadipinta di bianco e cosíscheletricachesembravauscita da una bara. Unacollanadiossacheavevacome medaglione uncranio di uccello lependeva sui seni piccoli.Indossava un gilè violaaperto e un paio di
pantaloni mimeticisdrucitilericadevanosuipiedinudi.Degliocchialidasoledimetallodoratole poggiavano sul nasoaquilino, attraversato dauna striscia nera cheproseguiva sugli zigomialti. I capelli divisi intortiglioni le cadevanostopposi sulle spalle. Siavvicinò ad Astor che,accucciato sopra le ossa,
fissava l’orizzonte con ilpollice in bocca. Loaccarezzò in testa, comesi farebbe con un cane. –Parlodilui.
Anna cercò disollevarsi, ma fu subitobloccata da tantemanine:–NonsichiamaMandolino. Si chiamaAstor.Èmiofratello.
–Quantiannihai?Anna si girò e vide
l’Orso. La testa cubicapoggiava su un collocorto.Lafacciadipintadibianco era piatta come ilpalmo di una mano esulla fronte trasparivauna costellazione diponfi. Una barbettasporca di polvere blu siuniva attraverso deibasettoni selvaggi alcasco di capelli ricci.Addosso aveva una
maglietta sbrindellatacon su scritto «Vado almassimo, vado inMessico». Un paio dibermuda a scacchi verdie neri, retti con unospago, gli calavano finoai polpacci, grossi comepagnotte.
Anna gli sputò suipiedi.
Angelicalesiaccucciòaccanto con una
sigaretta appesa allelabbra e la osservò. Feceun tiro, le sbuffò unanuvola di fumo in facciae le infilò una mano neipantaloncini.
Laragazzinacacciòunurlo cercando didivincolarsi dalla presadei blu. – Lasciami stare,stronza.
L’altra le afferrò i pelidelpubeetirò.Traledita
le rimase una ciocca cheosservòconattenzione.–Tredici, forsequattordici.
Anna ringhiò: – Voi vicoprite di bianco pernasconderelaRossa.
Si beccò un ceffone.Strizzò la bocca es’impedídipiangere.
– Lasciatela, – ordinòRosario, ma i bambininon si mossero, lo
guardavano senzacapire. – Ho detto dilasciarla –. Con unapedatanespinseviaunoe a quel punto tuttimollaronolapresa.
L’Orso si grattò labarbetta.–Dicicheètuofratello?
Anna si mise in piedi.–Sí.
– Qui non conta se seifratello, cugino o amico
–. Indicò i bambini conun gesto del braccio. –Loro appartengono allaPicciridduna. PureMandolino.
Anna inspirò con ilnaso. – Non chiamarloMandolino. Si chiamaAstor.
– Tu! Come ti chiami?– domandò l’Orso adAstor.
Lui borbottò qualcosa
diincomprensibile.Il ragazzino si toccò
l’orecchio. – Non hosentito.Cometichiami?
Astor guardò lasorella, esitò e rispose: –Mandolino.
Negli ultimi quattroanni di vita Anna avevasoffertoesuperatodoloriimmensi, folgoranti
come l’esplosione di undepositodimetanoechelestagnavanoancoranelcuore. Dopo la morte deisuoi genitori eraprecipitata in unasolitudine cosísconfinata e ottusa dalasciarla idiota per mesi,ma nemmeno una volta,nemmeno per unsecondo l’idea di farlafinita l’aveva sfiorata,
perché avvertiva che lavita è piú forte di tutto.Lavitanonciappartiene,ci attraversa. La sua vitaera la medesima chespingeunoscarafaggioazoppicare su due zampequando è statocalpestato, la stessa chefa fuggire una serpesotto i colpi della zappatirandosi dietro lebudella. Anna, nella sua
inconsapevolezza,intuiva che tutti gliesseri di questo pianeta,dalle lumache allerondini, uominicompresi,devonovivere.Questo è il nostrocompito, questo è statoscritto nella nostracarne. Bisogna andareavanti, senza guardarsiindietro,perchél’energiache ci pervade non
possiamo controllarla, eanche disperati,menomati, ciechicontinuiamoanutrirci,adormire, a nuotarecontrastando il gorgoche ci tira giú. Eppure, línella cava, questacertezza vacillò. Quel«Mandolino»pronunciatoavocebassale spalancò nuovi e piúlimpidi orizzonti di
dolore. Ebbe lasensazionecheilcuorelesi seccasse nel pettocome un fiore in unafornace, mentre ilsanguecheleriempivalevene si riduceva inpolvere.
L’Orso sorrisesoddisfatto. Angelica,tutta storta, ghignò. I
bambini, come scimmieammaestrate,cominciarono a ridereimitandoiloropadroni.
Annapiegòilcapoeseneandò.
ASTORCONTROIMOSTRIDIFUMO
TregiorniprimaAstorera ancora il re del
Podere del gelso. Un recon qualche linea difebbreeleaftesulpalato,ma abbastanza in formaper giocare. Durante lanotte la temperatura gliera calata e alle primeluci dell’alba si erarisvegliatoinunapalladilenzuolasudate.
Dalla finestra spiravaun venticello fresco cheera piacevole sentire sul
colloelespalledopoaversoffertotantocaldo.
Si stropicciò gli occhi,cacciò uno sbadiglio eciondolò fino alterrazzino. Il sole era nelbosco,chetiraval’ultimaboccata di aria frescaprima di immergersinella calura, e sopra lecime degli alberi il cieloera chiaro, quasi bianco,ma salendo si scuriva,
trattenendo rimasuglidellanotte.
Durante l’estate caldae infinita Astor avevascopertochequelloerailsuomomentopreferitoegli piaceva goderselo insanta pace. Era anche ilmomento preferito dagliuccelli, che facevano legare di canto. Cipartecipavanoipasseri,ipicchi, i pettirossi, gli
storni e le cornacchiestonate. Quelli cheavevano fatto notte, ibarbagianni e i gufi,preferivanosonnecchiare nei loronidi o come Peppe 1 ePeppe 2, una coppia dicivette, tra le travi dellasoffitta.
Astor si attaccò a unasbarra della ringhiera efece pipí: con il getto
centròunalattad’oliotraleerbacce.
La mamma avevascritto nel quaderno chei bisogni andavano fattinel bosco, lontano dacasa, e se cacavi primadovevi scavare un bucocon la pala e doporicoprirlo. Però suasorellanonc’eraealcunecose, come appuntopisciaredalterrazzino,se
le poteva permettere,bastava non dirlo. Lacaccano,nonl’avevamaifatta da lí. Uno perché ilculo non passava tra lesbarre, due perché glifacevaunpo’schifo.
Scese di sotto e trovòsu uno scatolone il ciboche gli aveva lasciatoAnna. Divorò unbarattolo di lenticchiefinendole con un rutto
soddisfatto. Raccolse daterra un cellulare e se loportò all’orecchio. –Anna! Anna! Dove sei?Quandotorni?
–Ammazzounmostroe torno, – si rispose conuna vocina nasale chedoveva assomigliare aquelladisuasorella.–Hotrovato del cioccolato, lovuoi?
– Certo. Pure le
patatine –. Poi telefonòallelucertolecapellone.–Ciao! Sono sveglio! Civediamo nel bosco. Traun po’ arrivo –. Buttò ilcellulareetornòsu.
Entròinbagno,salísuunosgabelloesiosservòallospecchio.
Ogni volta scoprivaqualcosa di interessantenelle narici in cuiinfilava il manico dello
spazzolino,nelrosadellegengive che diventavabianco se lo premevi,nelle orecchie che se lepiegavi tornavano aposto con uno schiocco.Sibattevalapanciacomefosse un tamburo, siprendeva in mano ilpisello e si abbassava lapelle della punta. Neusciva fuori, a secondadella luce, la testa
umidiccia di un girinorosa,diunserpenteciecool’uovodiunpassero.
Quel giorno la suaattenzione si concentròsulle sopracciglia. A chediavolo servivano?Perché aveva quei dueboschetti uguali che ildeserto della fronteseparava dalla grandeforestadeicapelli?
Aprí il mobiletto di
formicabianca,presetraibarattoliunrasoioBicese le rasò. – Ecco, cosí èmeglio–.Adessoalpostodelle sopracciglia avevadue macchie piú chiareche lo facevanosomigliare a unalucertola.
In una scatoletta diaspirine teneva unachiave segreta. Suasorellanonlosapeva,ma
neavevatrovataunacheapriva la serratura dellacamera di mamma. Lagirò nella toppa espalancò la porta. C’erabuio. Scostò una tenda euna striscia di luce sidipinsesulmuro.
Ilsegretopernonfarsiscoprire era rimetteretutto nello stesso postostando attento a nontogliere la polvere. Lo
scheletro di mammaperò non lo aveva maitoccato. Tutti i gioielliche lo decoravano liaveva disposti Anna, luiaveva dato solo deiconsigli.
Tirò fuori dallalibreriaIlgrandelibrodeidinosauri. Si sedette interra, sotto la luce, ecominciò a sfogliarlo. Loconosceva a memoria,
maognivoltanotavadeiparticolari nuovi: unartiglio strano, una codaspinosa, il colore di unapiuma.
Sua sorella gliraccontava di vedernetanti di quei dinosauridurante i suoi viaggi nelFuori.Imostridifumotiavvelenavano con lapuzza, ma questi quipotevano mangiarti
tuttointero.Ancheluinescorgeva qualcunoquandosiappollaiavasuun albero ai margini delbosco.Ilsuopreferitoeral’eterodontosauro, unpiccoletto poco piúgrandediungatto,tuttoviola,conilmusoabeccoe una bella codaappuntita. Dal disegnononsembravacattivo.
Con l’indice seguí le
righe scritte e,sforzandosi, lesseadaltavoce: –L’eterodontosauro avevatre tipi di denti. Quellianteriori, piccoli,servivano a strappare lefoglie, quelli posteriori,piú piatti, servivano permasticare. E i maschiavevano due dentilunghi ai lati dellamascella –. Su un angolo
della pagina, in unquadratino giallo c’erauna domanda: – E tuquanti tipi diversi didentihai?
Si toccò i denti ebiascicò: – Io ho quellinormali e quelli che mifannomale.
Lo sguardo gli caddesull’armadio. L’anta erasocchiusa. Dentro eranoappesi i vestiti della
mamma. Uno piú lungodeglialtrieradellostessovioladell’eterodontosauro. Siavvicinò e si grattò ilcollo. Se sua sorellaavesse scoperto che eraentrato nella stanza eaveva toccato i vestiti sisarebbepresounsaccodibotte. Doveva staremoltoattento.
Salí sopra una sedia e
aspiròl’odorechevenivadall’interno del mobile.Somigliavaaquellodellecaramelle verdi chequando le mastichi tipizzica il naso. Eral’odoredellamamma.
Si allungò e tolse ilvestito dalla gruccia.Saltò giú e lo confrontòconildisegno.Uguale.
Loindossòesiguardòallo specchio. Perfetto, il
fondo formava la coda elo scollo a V gli arrivavafino all’ombelico. Sulripiano bassodell’armadio eranodisposte in ordine lescarpe.
Ne tirò fuori un paiorosse, alte, con ilcinturino. Se le mise aipiedi, eranoscomodissime, ma conquel tacco lungo e
appuntito potevaammazzareiserpenti.
Ci fece un giretto abracciaspalancate,comese fosse in equilibrio suuna trave. Poi si tirò ilvestito sulla testacoprendosi il viso. –Arrr… Arrr… – grugníimitando uneterodontosauro. –Adessoviprendotutti…
Cosí, mezzo cieco,
ciabattando sui tacchi aspillo, chiuse la porta,rimiselachiaveapostoescese le scale. Attraversòil salotto inciampando euscí sulla veranda.Muoveva le dita comeartigli affilati. – Eccomi.Stateatte…
Cos’era?Attraverso il tessuto
elastico che gli velava lavista gli sembrò di
scorgere qualcosa, unasagoma nera che simuovevalontano.
– Anna! Sei tornata…Lorimettosubitoaposto–. Si scoprí la faccia. –Nonl’horovinato…
Al centro del vialettooppresso dai cespugli dibossoc’eranodellefigureumane.
Astor chiuse gli occhi,li riaprí, la mascella gli
cadde e i muscoli dellafaccia si contrassero inunasmorfiaditerrore.
Due ragazzini piúgrandi dipinti di bianco,di cui uno spingeva unacarriola, e dei bambinitutti blu avanzavanoversodilui.
La paura gli addensòla carne. I centomilamiliardi di cellule che locomponevano si
strinsero una all’altracome una nidiata dipulcini. Lo stomaco sistrizzò, i polmoni siaccartocciarono comesacchetti del pane strettiin un pugno, il cuorepersequalchebattitoelavescicasirilassò.
Astor abbassò il capo.Un getto caldo gli colavalungo le gambe. Aveva
bagnato il vestito dellamamma.
Lefigureadessoeranopiúvicine.
Decise di chiudere gliocchiecontarefinoasei.Era bravo a contare finoasei.
Uno, due, tre, quattro,cinqueesei.
Liriaprí.Erano ancora piú
vicini. I piú piccoli non
erano proprio blu,sembravano coperti dicolore ed emettevanostranisuoni.
Fantasmi.Dei fantasmi che per
qualche ragione a luiignota erano riusciti aentrare nel boscomagico. Anna gli avevaraccontato che eranoinoffensivi, fatti di aria,di niente. Pulviscolo di
vite passate. Cos’altropotevano essere? Nelmondo c’erano solo lui,sua sorella e gli animalidel bosco. Quindi perforza erano fantasmi.Decise di ignorarli etornarseneincasa,masiaccorse di essereparalizzato.Nonriuscivaa muovere nulla, solo acontrarre il buco delculo. Un fremito gli
percorse il cuoiocapelluto. I capelli drittivibravano comeantenne.
Iduefantasmigrandi,un maschio e unafemmina,loindicavano.
Mihannovisto.Le gambe non ressero
e Astor cadde in avanti,rigido come unmanichino, lasciandodietro di sé le scarpe
rosse e sbattendo lafronte sul cemento.Rimase cosí, sul bordodelle scale, braccia inavanti, come un fedeleprostrato di fronte allesuedivinità.
Piedi sporchi, unghienere, scarpe rotte,caviglie graffiate glisfilarono accanto,scavalcandolo tra risa,spintoniestrilli.Unpaio,
nella foga di entrare incasa,glipassaronosopracome fosse uno zerbino.Nessunolodegnòdiunosguardo,diunaparola.
E se il fantasma fossiio?
Fu un’illuminazioneche si spense subito,soffocata dal rombo delsangueneitimpani.Nonsi mosse nemmenoquando sentí le voci
rimbombarenelsalottoecapí che i fantasmiparlavanocomelui.
– Guarda quanta roba,–dicevauno.
–Vadosu,–dicevaunaltro.
Il segreto era lasciarlifare, non disturbarli,starsene lí buono. Cosícome erano apparsi,sarebberospariti.Mapiúsi ripeteva che non
doveva muoversi, piúdesiderava vederli. Nellasua anima paura ecuriositàlottavano,eallafinelapauracapitolò.
Astorsimiseinpiediecon passi goffi, il bordodel vestito stretto nellemani come unadamigelladell’Ottocento,si avvicinò all’uscio. Latesta gli dondolava adestra e a sinistra,
sembrava un pupazzocon la molla al posto delcollo.
I piccoletti, quelli blu,gli piacevano molto, gliricordavano i topiquando, di notte, fannocome gli pare. Silanciavano le cose, siarrampicavano sullelibrerie, saltavano suimucchi di immondizia.Unosierainfilatodentro
la sua macchina a pedalie un altro lo spingevacontro il muro. Unoraccattava le cose e lemetteva dentro unabusta gialla che tenevasottobraccio.
Astor osservavaincantato il saccheggioquasinonfossecasasua.Le pupille gli siriempivano di bocche,nasi, occhi, mani, di
curiose espressionifacciali, di piselli, dichiappe colorate, dimovimenti e versi chenon capiva. Appoggiatoallostipitedellaporta,sitoccava distrattamentel’uccello e assisteva insilenzio al piústraordinario spettacolodellasuavita.
A un certo punto unodi quei furetti blu,
uscendoconilsuogrossocanedipeluche,glidiedeuna spinta facendolocadere a terra. E lui lírimase,sorridendo.
Quello grosso tuttodipinto di bianco, conuna collana di ossa sulpetto, era seduto su unasediaetenevatralemaniil mandolino di Anna. –Questaècasatua?
Era parecchio brutto.
Aveva le gambe grossecome tronchi, la panciagonfia, tantissimi capelliepuredeipelilunghicheglicrescevanosulmento.
– Capisci quello che tidico?
Astor lo fissava insilenzio.
Il fantasma urlò versole scale. – Ne abbiamotrovato un altro che nonsaparlare.
Da sopra gli rispose lafantasma. – Vieni avederechehannofatto.Èbellissimo.
Doveva essere entratanella stanza dellamamma. Certo che erabello, c’era lo scheletrodecorato.
Unacrepasottilecomeun capello si insinuò tralesuecertezze,siallungòseguendo un complicato
ma corretto percorsomentale e in un attimotutto venne giú. Astorcapí che non eranofantasmi. Erano viviquanto lui, sua sorella eglianimalidelbosco.
Non erano trasparenticome gli spettri,puzzavano, tenevano lecose in mano, bevevano,parlavano,spaccavanolasua macchinina. Questa
intuizioneloresefeliceeunasensazionenuovagliscaldò il cuore.Esistevano altri esseriumani vivi. Scampati aimostri di fumo, aidinosauri,aigasmortali.Gli dispiaceva solo chenon ci fosse Anna perpoterglielimostrare.
Deglutíesibilòunas:–Sss…–Preseunrespiroe
finí la frase: – Sssietevivi?
Il ragazzino grossoscoppiò in una risatacavernosa. – Ancora perun po’. Non tanto –. Sirivolse a quella sopra: –Angelica, mi sonosbagliato, sa parlare –.Poi gli fece segno diavvicinarsi.–Vieniqua.
E Astor, come sequell’ordineglieloavesse
impartitoundio,ubbidí.Il ragazzino grosso gli
sorrise e si batté sullecosce.–Qui.
Astor sgranò gli occhiscuri mentreun’espressione timorosaglideformavailvolto.
–Nonaverepaura–.Ildioallungòlamano.
Il bambino la osservò,era tozza, larga, e leunghie erano spesse e
gialle. Con il dito mediola toccò, esitante, comese potesse rimanerefulminato.
– Visto? Sono di carneeossa.
Astor guardò lamaglietta con la scritta:«Vado al massimo, vadoinMessico».
–Messico…–balbettò.Il tipo scosse la testa
incredulo. – Nooo… Sai
pure leggere? Bravo! –Afferrò Astor per ifianchi e se lo issò ingrembo.
Il bambino stavasvenendo. La testa glipesava come se fosse dipiombo, ma i pensieri,all’interno, erano leggericome gas e simischiavano unonell’altro. Si guardòintorno. I blu stavano
litigando per unasciarpa. Studiò quelloche lo teneva sulleginocchia, i peli sulmento e la pasta biancacheglicoprivaleguance.– Siete buoni? – glidomandò.
Lui lo strinse fortecomesestessevalutandoquanto pesava. – Chi tihainsegnatoaleggere?
–Anna.
– Brava Anna. È laprima volta che trovouno piccolo che saleggere. Io mi chiamoRosario. Tu come tichiami?
–Astor.–Cheminchiadinome
–. Gli mostrò ilmandolino.–Suoni?
Il bambino lo prese epizzicò l’unica cordasopravvissuta.
Rosario disse: – Saicomesichiama?
–Chitarra.– No, non è una
chitarra,èunmandolino–.Losquadròpiegandolatesta. – Ecco… Tichiamerò Mandolino, mipiace di piú –. Lo mise aterra e urlò con voce datenore. – Angelica,dobbiamoandare,ètardi–. Si infilò una mano in
tasca e ne tirò fuori unMars, lo scartò e loaddentò, guardandosiintornocomesecercassequalcosadaprendere.
Angelica scese giúdalle scale coperta digioiellicomelaMadonnadi Trapani. In manoaveva il cranio di MariaGraziaZanchetta.
Etuttiquanti,grandiepiccoli, uscirono di casa
carichidiroba.Astor, come un
anatroccolo, si ritrovò aseguirli. Non si chiedevanulla, camminava inmezzo agli altri, a piedinudi, trascinandosidietro il vestito. Si erascordato tutto: Anna, lacasa,chiera.
I blu corsero avanti,ma lui restò accanto aRosario, che spingeva la
carriola piena di cibofumandosiunasigaretta.Angelica si fermò,esaminò il cranio e conun’alzata di spalle logettòtraleerbacce.
Astor corse araccoglierlo e glieloriportò.–Èmiamamma.
–Buttalo.Ibluavevanosuperato
il cancello. Angelicalasciò passare Rosario e
guardò Astor che, fermoin mezzo al viale, con ilteschio tra le mani,somigliava a ungiocatore di basketprontoperuntirolibero.
–Muoviti,–gliordinò.Astor rimase
imbambolatoafissarla.Oltre quel limite c’era
il Fuori, lui non potevasuperarlo,sarebbemortosoffocato.
– Muoviti, – ripeté laragazzina.
Lui fece segno di noconlatesta.
Angelica si rivolse aRosario. – Non vuolevenire.
Quello si fermò,poggiò la carriola e dopoun ultimo tiro gettò lasigaretta. – Mandolino?Allora? Che fai, nonvieni?
Astornonsimosse.La ragazzina tornò
indietro sollevando gliocchi al cielo e lo afferròperunpolso.
Il bambino fece duepassi poi piantò i piedi aterra con un lamento diprotesta.
Angelica gli diede unostrattone. Il teschiorotolò nell’erba. – Idiota.Vieni! – gli ringhiò,
mostrandogli i dentidivisi e appuntiti chesporgevano dallegengive scure. Lo preseper il collo, ma Astor leaffondò gli incisivi nelbraccio.
La ragazzina urlò econl’altramanoglidiedeun manrovesciofacendolo volare a terra.– Adesso ti faccio vedereio…
Astornoncapiva.Nonpoteva superare ilcancello. Volevano chemorisse? Sentí il piantoraggrumarsi in gola.Sollevò le mani perdifendersi e Angelica glitiròuncalcionelculo.
Il bambino tentò dialzarsi, incespicò, fecequalche metro a quattrozampe, poi si rimise su.Mulinando gambe e
braccia scavalcò uncespuglio di rose canineecominciòascappare.
Ilboscoloaccolse.Dietro sentiva fischi,
urla,lavocediRosario.–Prendetelo!Prendetelo!
Astor filava tra icespugli di pungitopoche gli afferravano ilvestito, infilava i piedinell’intrico di ramicaduti, saltava sui sassi
coperti di muschio,affondavaconipiedinelfango.
Non potevanoprenderlo. Era nel suoregno, lí era nato, queiquattro ettari di terra liaveva esploraticentimetro percentimetro, trovandobuche,tane,alberisucuiarrampicarsi. Quellipotevano pure essere
creature speciali, manessuno di loroconosceva il boscomegliodilui.Sesolononavesse avuto quelmaledetto vestito ches’impigliavaovunque.Selo strappò di dossosgusciandonefuoricomeunserpentedallapellee,nudo,ripreseagalopparepiúvelocelídoveerapiúfitto.
Il sole penetrava lavolta verde macchiandoil sottobosco di pozze diluce dorata, palle dimoscerini ronzavano frai tronchi. Astor ci passòinmezzo,aboccaaperta,ritrovandoselisulpalato.
Sivoltò.Bravo.Lihaifregati,gli
sussurraronolelucertolecapellone da sopra unramo.
Rintronato dal suofiato e dal cuore che glisbatteva sotto lo sternosi sedette su un masso esi tolse una spina daltallone.
Nella sua corsaaffannata si era spintolontano da casa, in unazonapiúaperta,vicinoalFuori. Il fuoco si eramangiato gli alberi piúgiovani, c’erano solo
tronchi abbrustoliti,spunzoni e la retemetallica dellarecinzione, tuttacontorta. Una grandequercia bruna ebitorzoluta avevaresistito alle fiamme e sisporgeva oltre il confinedove il fuoco le avevabruciatoledita.
Quando il turbine dipensieri si calmò Astor
controllòleferite.Striscerosse gli segnavano lecosce, i polpacci, la pelletenera della pancia. Nonfacevano ancora male,ma presto le avrebbesentite.
Era certo di averliseminati, ma sisbagliava.
Si accorse di loroperché il blu spiccava in
quell’impastodimarronieverdi.
Non c’era un bucodovenascondersi.
Sull’albero.Si gettò sul tronco e
con un salto agile siaggrappòalprimoramo,edaquelloaunaltroeaunaltroancora.Sifermòsolo quando pensò diessereimprendibile.
Da terra i blu lo
indicavano.Un paio di loro si
arrampicarono sullaquercia esattamentecomeavevafattolui.
Astor cercò di salirepiú in alto, ma labiforcazione successivaera troppo lontana.Spintodalladisperazionesi incamminò a bracciaspalancate su un ramoche presto diventò
troppo esile persostenerlo. Si accucciòafferrandosi alle frondesecche e digrignando identi.
Sotto erano arrivatiancheAngelicaeRosario.
– Mandolino, che fai?Nonvuoivenireconnoi?– gli disse il ragazzinogrosso. – Ti portiamodallaPicciridduna.
I due inseguitori si
avviarono a quattrozampe, agili comebertucce,versodilui.
Astor indietreggiò,con il legno che glioscillava tra le chiappe,poi, senza valutarel’altezza, il male che sisarebbe fatto e chesarebbe finito proprio inbocca ai suoi nemici, sibuttò. In aria fece unamezza capriola
scomposta e finí difianco su un tappetod’erbaabbastanzasofficeda impedirgli dispaccarsilaschiena.
La testa gli pulsavacome se gli avesseromesso il cuore al postodel cervello, scariche diluci gialle gliimpressionavano lepupille. Il sapore acidodelle lenticchie gli
impastava la lingua.Riuscíamettersiinpiedi.
Il mondo, intorno,ondeggiava. Il sole tra lefoglie ingiallite dellaquercia.Ilbosco.Rosario.Angelica.Ibambiniblu.Icampi bruciati. I restidellosteccato.
EranelFuori.Spalancò la bocca in
un urlo muto, si portò le
mani al collo e crollòsulleginocchia.
L’aria tossica, il gasinvisibile, gli penetravanei pori, nei buchi delleorecchie, del naso e delculo. Non riusciva arespirare. Stavamorendo. Boccheggiavainspirando il veleno. Inlontananza, con passipesanti che scuotevanola terra, avanzavano i
mostri di fumo, grandicome montagne e densicome la paura che losoffocava. Tump. Tump.Tump. Arrivavano.Presto, molto presto,sarebbe morto. Avrebberaggiuntoleformiche, lecavalletteeiramarricheaveva ucciso. Sarebbeandato dalla mamma,ovunquefosse.
Rosarioeradifrontea
lui. Gli parlava, mani suifianchi, scuotendo latesta.Perchérideva?Nonc’eranientedaridere.
Astor era frastornatodal ronzio di un milionedi api, eppure una folatadiparoleloraggiunse.
– Mandolino, staimorendo,percaso?
Lui sgranò gli occhi efecedisíconilcapo.
–Sicuro?
Il bambino sollevò unbraccio verso il sole. –Stannoarrivando…
–Chi?– I mostri… – E si
lasciò andare a terrastirando braccia egambe, digrignando identiedemettendoversigutturali.
– Che sta facendo? –chieseAngelica.
– Non ne ho idea –.
pugni stretti sulla salitache dalla cava portavaall’hotel, inseguita daPietro.
–Dovevai?Fermati.Leiacceleròilpasso.Pietrocercavadistarle
dietro. – Aspetta… – Lestrinse una spalla. –Anna!
La ragazzina si liberòcon uno scossone e siinerpicòsuunafranache
copriva un tornante.Affondòconipiedinellaterra, fece un paio dipassi e si inginocchiòsenzapiúfiato.
–Anna,mifaiparlare?–Chevuoi?Pietro deglutí. – C’era
Angelica… Non potevofarmi vedere. Loprendiamo di notte. Sodovedormono.
Un sorriso acido
increspò le labbra dellaragazzina. – Prendiamo?Chi?
– Tuo fratello.Aspettiamo la notte e loprendiamo. Io e te. Te loprometto.
Anna piegò la testa dilato, come se Pietroparlasse una linguastraniera. – Sei unminchionaccio. Anzi uncagasotto.Edicheparli?
Io e te? Ma tu chi cazzosei? E soprattutto, checazzo vuoi da me? – Iltono della sua vocecresceva di volume e sirompeva. – Ma io ticonosco? Siamo amici?Fratelli? – Gli mollò unospintoneePietrofinígiúdi culo. – Lasciami inpace, che è meglio, iosono piú cattiva diAngelica.Vaiacercarele
scarpe, vai –. A quattrozampe, incespicando,superò la frana e ripreselamarcia.
Pietro non la seguí.Urlò:–Tihoportatoiodatuo fratello. Sei uscita inquella maniera… Hoprovato a fermarti, matu…
Anna si tappò leorecchie.
Quel cagasotto non
l’avevaaiutata.Esec’erauna cosa che odiavaeranoicagasotto.
Superò l’hotel e siavviò su un sentiero chescendeva su un versantedella collina nascostodallanebbia.
Doveva cancellaredallamenteAstor,Pietroe andarsene via.
Immaginò il propriocuore che si copriva difango come un alvearedifesodavespegiganti.
Adesso puoi fare quellochevuoi.Seilibera.
Una ventata le aprí lavisuale. Su un pendiocoperto di spazzaturabruciata, tre grandivasche di cementodigradavano unanell’altra circondate da
palme avvolte nellaplastica blu e da grandisassi ocra. La piú bassa,soffocatadaunacappadivapore,erapienad’acquache puzzava di uovomarcio. Un rivolofumante e giallastrosgorgava da un tubo dicemento e finiva nellapiscina incrostando ibordi di calcare. Testeapparivano e sparivano
tra i vapori come boe inunportonebbioso.
Anna scese dellescalette, passandoaccanto a un gruppo chedormiva intorno alleceneri di un falò.Raccolse una bottigliamezza piena di liquidonero, come quello cheaveva visto distribuirenell’anfiteatro.
Si spogliò nuda,
appallottolò i vestiti e linascosedietrounafiladibarili. Si sedette sulbordo della vasca e conuno slancio di braccia siimmerse. Il calore leoppresse il petto e siirraggiò nei muscoliindolenziti,strappandoleun sospiro di piacere.Sotto, a mezzo metro,sporgeva un sedile. Ci sisedettelasciandolatesta
fuori. Con le gambesospese,lanucacontrolaparete, l’acqua che lesciabordava nelleorecchie, si attaccò allabottiglia. L’intruglio lecolò denso nellostomaco. Era zuccherosoeamaro.
Sentiva il vociarebasso degli altribagnanti, i passeri sugli
alberi, il vento tra lepalme.
Astor era diventatogrande, se n’era andato.Nonlavolevapiú.
Megliocosí.– Come lo chiamano?
Mandolino, – sussurròdivertita.
Il liquido nero facevaeffetto. Galleggiava nonsolo nell’acqua, madentrosestessa.
Alcune teste le siavvicinarono cometrascinate dalla correnteelesistrinserointorno.
Le palpebre lepesavanoeinqueivaporiopalescenti non riuscivaa distinguere i volti.Sembravanofoche.
Un campanello dipericolo le suonò nelcervello torpido, ma lei
non lo ascoltò, stanca ditenerealtalaguardia.
Le strapparono labottigliadimano.Volevaprotestare, ma le parolenonleuscironodibocca.Pensò di spostarsi, maera troppo faticoso.Chiusegliocchi.Storditae distante da tutto,sognava di prendere ipensieri tristi, farne
gomitolielanciarliinuntunnelbuio.
Il sole stampava unalone sulle nuvole dizolfo. Il calore chearrivava dal fondo dellapiscinaportavasualghe,bolle pigre e terra. Lepareva che il bordoopposto si fosseallontanato e che lavasca fosse una grandepentola di brodo
fumante in cui un cuocoaveva messo tutto acuocere.
Mamma a Natalepreparavaitortelliniconillessoelepatate.Eccolache poggia la zuppierasul tavolo del soggiorno.«Questi si mangiano aBassano». E le versa nelpiatto tante ranocchieverdi che nuotano nelbrodochiazzatod’olio.
Dondolava all’internodel proprio corpo, cicadeva dentro,fluttuando lenta comeuna piuma in un pozzodalle pareti di carne, e siritrovava in una grottacalda e accogliente. Seguardavainalto,sopradilei, un buco tondo escuro terminava nellasua bocca. Attraverso le
arcate dei denti vedevascorrerelenuvole.
Quelli intorno lestavano addosso, le sistrusciavano contro,qualcuno le spalmava ilfango sulla faccia e leparlava con una vocedistorta che parevauscire da un tubo.Sentiva dita sul naso,sulle guance, sullelabbra. Scavavano solchi
nella pelle come il cuneodell’aratro nella terrabagnata.
– Voglio bere, –mugugnò sputandol’acqua fetida che leriempiva la boccasocchiusa.
L’intruglio adesso lesembrava salato. Lanebbia cambiava colore,dal grigio al verde e dalverdealrosa.
– Sei bella. Hai giàavuto il sangue? –domandòunavoce.
Nonpotevaparlare.Leparole arrivavano sulpalato senza la forzanecessaria per diventaresuoni. Si accumulavanoin bocca come gioiellid’argento dal saporeaspro. Sentiva sullalingua gli spigoliappuntiti di anelli e
orecchini. Sollevò unamano. Era trasparente.Sotto la pelle scorrevanorivoli dorati tra fasci difienoappenafalciato.
– Sei molto bella, –sussurravalavoce.
Annascoppiòaridere.Mani le scivolavano
sulle gambe e sullostomaco, le strizzavano iseni e i capezzoli. Dita leesploravano la bocca
cercando la lingua, letiravano le labbra, altrele affondavano tra lecosce. Arcuò la schiena,contorcendosi eallungando le braccia siaggrappò al collo di uno,gli affondò il volto fra icapelli fradicigraffiandogli la schiena.Le respiravano nelleorecchie, premevano lelabbracontrolesue.Sela
contendevano. Lespalancarono le gambeafferrandolaperipiediereggendolaperleascelle.Urlò quando le morseroforte un capezzolo, mauna mano le tappò labocca. Con uno scattorabbioso la coscienzariemerse e Annacominciò a scalciare,agitando le braccia, sidivincolò annaspando e
ingoiandolabrodachelescese tiepida e fetenteper la gola. Tossendo siaggrappò alle spondedella vasca e si allungòsulbordo,maunamorsale serrò un polpacciocercando diriprendersela.
Annasteselebracciaepiantò le dita a terra.Affondò il tallone su un
naso e riuscí a liberarsitraleprotesteditutti.
Ansimando,scossadaibrividi, si sollevò inpiedi, mani sullostomaco, continuando atossire e a sputare. Lapelle rosa fumava comese fosse bollita. Fecequalchepassoincertonelfreddo, strofinandosi iltorace, battendo i denti.Si diresse verso i barili
dove aveva nascosto ivestiti ma non c’eranopiú.
Si poggiò contro unmurettoeaboccaapertaliberò un fiotto caldo eacido che le annaffiò ipiedi. Si sentí subitomeglio, la testa peròcontinuava a girarle enon riusciva a smettereditremare.Corseintornoalla piscina, sgusciando
traicorpi.Trovòungolfrosso sbrindellato che learrivava alle ginocchia.Si arrotolò le maniche.Infilòunpaiodiscarpeesi diresse barcollandoversolescale.
La collina si inclinavadaunaparteeleicercavadi raddrizzarlabuttandosi dall’altra.Ovunque c’erano figurenere. I muri dell’albergo
si flettevano e levenivano incontro comecavalloni di cemento.Terrorizzata, sollevò lebraccia per difendersi eindietreggiò, finendocontro qualcuno che laspinseviadicendole:–LeanatrediPasqua.
Piegata su se stessa,come se l’avesseropugnalatanellostomaco,
si avviò verso unabaracca.
La porta erasprangata. Girò intornoal prefabbricatomollando pugni sullepareti di lamiera. Con lafrontecontrolagrondaiascoppiò a piangere,esausta, lasciandosiscivolareaterra.
La costruzionepoggiava su dei blocchi
di cemento. Ci si infilòsotto. Lí nessunol’avrebbetrovata.
Gli effettidell’intruglioevaporavano dal suocorpo in lente esalazioniverdi.
La festa del Fuoco sicelebrò il 2 novembre2020,ilgiornodeimorti.
Che cadesse in quelladata fu sicuramente uncaso.
InSiciliasiraccontavachenellanottetral’1eil2 i defunti tornasserodall’aldilà a trovare iparenti e portassero aibambini regali e dolci. Ipiccoli si svegliavano e,aiutati dai genitori,trovavanocrozzi’imottu,pupatelli croccanti e
ripieni di mandorletostate, cioccolatini ealtre delizie nascoste tralecoperte,negliarmadiesottoicuscinideidivani.
Forse alcuni degliorfani del Grand HotelTerme Elise ricordavanoancora la caccia aidolcetti, ma lacognizionedeltempoeraandata persa.Celebrazioni, onomastici
e compleanni nonsignificavanopiúniente.Ora era la Rossa chescandiva il tempo conmacchie, noduli epustole. Se qualcunoaveva al polso unorologio era per vanità.Nel mercato del barattoun orologio valevaquanto un cellulare, uncomputer o un Boeing
747. Meno di unoSmarties.
Quandoilsoleapparvenell’incavo tra duecolline di fronte all’hotelerano le sette e dieci delmattino, ma pochiriuscirono a godersi lospettacolo.
Molti avevano smessodi soffrire durante la
notte. In tantidormivano sfattidall’alcol, dalle medicinee dalle Lacrime dellaPicciridduna. Altri, aglisgoccioli, fissavano ilvuoto con le pupilleghiacciate e le labbracontratte, come misticiin preda alle visioni, o sidibattevano squassatidallatosse,bruciatidallafebbre, soffocati dal
catarro. Altri ancora siaggiravano avvolti nellecoperte, ingobbiti e conle gambe sottili damarabú, alla ricerca diavanzi, di qualcosa damangiare.
Il puntino solare sisciolse come burro inuna padella nera, siallargò in una cupolaarancione, lasciò lecolline tingendo il cielo
di schiume violacee espinse i suoi raggi finoall’albergo. Alle otto edieci si insinuò sotto labaracca.
Anna, sospesa travegliaesonno,loavvertísul collo e attraverso lepalpebre chiuse. Unamorsaleserravalatesta,lo stomaco le doleva, mal’effetto della droga erasvanito. Strinse le dita e
si passò la lingua suidenti. Non ricordavacome era finita lí enemmeno quello che erasuccesso nella piscina,però sentiva ancoraaddosso le mani rapacidei ragazzini. Fu scossada un brivido diimbarazzo.Aprígliocchie mise a fuoco, a pochicentimetri dal naso, leassi del pavimento della
baracca coperte diragnatele.
Doveva andare via daquelposto.
Sgusciò da sotto ilprefabbricato e strizzògli occhi abbagliata dalsole. La folla eraaumentata e non c’erapiú uno spazio libero.Tutti erano accampatiattornoafuochispentiesi riparavano dal freddo
con teli di plastica,coperte e cartoni. Lastradina che portavaall’uscitaerapercorsadaun flusso ches’intrecciava nei duesensi.
Annasidiresseversoicancelli passando sopral’anfiteatro. Il solescintillava sui cocci dibottiglia, sulle lattine esulle stagnole colorate
delle merendine. Glispalti erano una distesadimalatidacuisilevavaun coro di rantoli, colpidi tosse e lamenti. Iguardiani trascinavanovia quelli che nonavevano superato lanottata e liammucchiavano sotto lecolonne. Una ragazzinadai lunghi capelli rossi
cantava accanto a uncorposenzavita.
Si avviò nel passaggiocoperto che portava aicancelli, macontrocorrente eradifficile avanzare. Siritrovò schiacciatacontro il muro. Nessunocontrollava piú gliingressi.
Si domandò dovestesseandando.
Il Podere del gelso erastato profanato e andarein Calabria senza Astornon aveva senso. Nienteaveva senso senza Astor.Lei era cresciuta intornoa suo fratello come unalbero cresce intorno alfilospinato,sieranofusiinsieme e ora erano unacosasola.
Fissòivoltiscavati,gliocchispentideiragazzini
che spingevano perentrare.
Era una di loro, unadei tanti confusa inquella folla di disperati,una sardina in un bancodi sardine che la Rossaavrebbe divorato, comeun tonno affamato,senza stare troppo ascegliere.
Lasciò che la calca latrascinasse di nuovo
indietro.
Tra due scavatoriarrugginiti, deiragazzini,tuttimaschi,sierano ricavati un angoloriparato e alimentavanoun fuoco con pezzi dicartone e legno. Sipassavano scatolette econfezionidibiscotti.
Anna li osservava da
qualche metro conl’acquolina in bocca, sifececoraggio,siavvicinòe chiese: – Mi datequalcosa?
Quellisiguardarono.Anna giunse le mani
in una preghierasilenziosa.
Chissà, forseriuscirono a vederne labellezzanascostasottoleciocche di capelli lerci e
losporcochelecoprivailvolto, o semplicementeprovaronopena,fattostache le fecero segno disedersielepassaronounvasetto.
Anna tirò fuori uncetriolo sott’acetomoscio e viscido che lesembrò delizioso. Lo finíinunattimoeconleditacercò nel fondo delvasettoirimasugli.
Vedendola cosíaffamata,untiporapato,dai tratti femminili,rovistò dentro unborsonechetenevatralegambe e le allungò unbarattolo.
Anna,senzanemmenoleggere cosa fosse, svitòil coperchio e si mise lapoltiglia in bocca. Erainsapore. Senza chiederepermesso prese da terra
una bottiglia di Sprite eci si attaccò. Osservò iragazzini. Indossavanotutti una canottierarossa e stretta, con ilnumero sulla schiena, etra le loro cose c’era unpallonearancione.
Scoprí che erano isopravvissuti di unasquadradiminibasketdiAgrigento. Dopol’epidemia si erano
riunitinellaloropalestrae lí avevano vissutoinsieme negli ultimiquattro anni,organizzando gruppettidi raccoglitori. I piúgrandi oramai eranomorti. Per arrivare finoall’hotel ci avevanomesso tanto e gli eracapitato di tutto. Eranostati attaccati dai cani,poi da un gruppo di
ragazzini che di notte liaveva derubati epicchiati senza ragione.Il loro playmaker erastato accoltellato e l’aladestraerastatamorsadauna vipera mentreattraversavano uncampo.
– Ma tu sai quando c’èla festa? – le chiese unbiondino scostandosi la
frangetta davanti agliocchi.
– Non so niente –.Anna aveva adocchiatoun barattolo di pestovicino alla brace.Adorava quella salsaverde.
– Dicono che laPicciridduna siaaltissima. Piú di duemetri –. Intervenne unaltrolungoesottilecome
un insetto stecco, chedovevaessereilcapitanodellasquadra.
Quello rapato non erad’accordo. – No, diconoche è bella. La tengonochiusa nella stanza 237dell’albergo.
Ognuno aveva la suateoria.
Anna prese un’altrasorsata di Sprite. – Lo
sapete perché non lafannovedere?
Glialtrilafissaronoinsilenzio.
– Perché non esistenessuna Picciridduna. Èunabugia.IGrandisonotuttimorti.
Quellosottileprotestò.– Ma questa è speciale. Èriuscita a resistere. È…Comesidice?
– Immune, – concluse
un altro con un cappellodi lana calato sullafronte. – Nel suo sangueha la sostanza chedistruggeilvirus.
Anna fece un ghignocattivo e ribadí: – IGrandi sono tutti morti,non ve lo ricordate? –Puntò l’indice versol’albergo. – ’Sto casinoserve solo a quelli con lecollane per farsi dare le
cose quando entri.Scommetto che non cisarà nessuna festa, viprendonoingiro.
I ragazzini si zittironopuntando gli occhi sullefiamme.
Unocheerarimastoindisparteeavevalelabbrapiene di pustole e crosteparlò con una vocinafiacca. – Ti sbagli tu.Esiste.Esisteeccome–.E
tossí come se dovessesputarefuoriipolmoni.–La bruceranno,mangeremolacenereelaRossacipasserà.
– Se volete crederlo,fate pure –. Prese ilvasetto di pesto, ci infilòl’indice dentro e se loleccò.
L’atmosfera eracambiata. Ora la
fissavano con occhimenoamichevoli.
Annasipassòlalinguasulle labbra. – Lomangiavo sempre con lapasta.
Quello malato sospiròcon un filo di voce. – Tuperché sei qui? – Primadel morbo doveva esserestato grasso, adessoavevalapelleappesaallo
scheletro come unvestitoaunagruccia.
– Ero venuta a cercareuno... Ma non c’era. Trapocomenevado.
– Vattene subito, – ledisse il capitano. – Noisiamo sicuri che cisalveremo perché siamoi piú forti… – Guardò glialtri e portò la manoall’orecchio. – Chi siamonoi?
–IlSanGiuseppeClub!– urlarono tutti insiemesollevandolebraccia.
Annasialzòecercòunmuretto libero dovesedersi.
Aqualchemetrodaleiun gruppetto diragazzini razzolava nellaspazzatura litigandosiunacoperta.
Passò il resto dellagiornata cercando cibo esonnecchiando. Avevatentatodientraredentrol’albergo, ma non avevala collana e l’avevanocacciatavia.
Girava voce che lafesta del Fuoco sarebbestata quella notte.Qualcuno aveva vistogruppi di guardiecostruire barricate giú
alla cava e si raccontavaaddiritturadiuncamionchesimuoveva.
Perfino Anna si stavaconvincendo chequalcosa sarebbesuccesso. Erano tanti el’attesa era cresciutatroppo, si rischiava unarivolta.
Vagava tra la follasenza meta. Accendini,candele, torce elettriche
brillavano nel nero dellanotte e lenzuoli sigonfiavano come veleluminose sui corpi stesi.I falò sprizzavanoscintille e divoravanoruote, legna, plastica etutto quello che eracombustibile. Lepercussioni battevanounritmoveloceesempreuguale. Un paio di voltele capitò di incrociare
Pietro. Le ronzavaattorno senza il coraggiodiavvicinarsi.
Lastanchezzaleavevarallentato i pensieri, chescorrevano lenti e pocoimportanti.
Qualcunoletoccòunaspalla.–Scusa…
Si girò e si trovò difronte una specie discimmione. Aveva unatesta ovale che pareva
modellatanelpongo,conil naso rincagnato e dueocchietti neri. Le spallegli scendevano scoscesecomefaldediuntetto.Siera dipinto la faccia dirosso e di bianco e labocca di verde come perandare a una partitadell’Italia.Eranudo,sesiescludeva un paio dimutandoni tenuti da unelastico nero con su
scritto«Sexyboy»cheglifasciavanolechiappe.Laindicò.–Ilgolfèmio.Melohaipresoallapiscina.
Anna si strinse tra lemani il maglionesbrindellato. – Parli diquesto?
– Sí. Potrestiridarmelo? – Avevaproblemiconlereconlep.
Laragazzinasollevòle
spalle.– Era di mio nonno
Paolo, – spiegòMutandone. Le fiammedei falò brillavano su unsorriso troppo candido eperfetto che si muovevaper conto suo rispettoallelabbra.
Una vocina assennataimplorò Anna di tacere,maleilaignorò.–Purela
dentiera era di nonnoPaolo?
L’altro cambiò tono ecominciòasputacchiare.–Ridammelo.Sennò…
– Sennò cosa? – Annasi accorse che il torporeche si era portataappresso tutto il giornoera scomparso.L’adrenalina l’infiammòesisentíviva,litigiosa.–Vabene.Eccolo–.Conun
urlo gli si scaraventòaddossocentrandoloconla testa nel pancionegonfio. Fu come colpirelo sportello di unfrigorifero. Ci rimbalzòcontroesiritrovòaterrafra un capannello dispettatorichepuntavanole torce pregustando lospettacolo.
Mutandone, mani suifianchi, la guardava
indeciso. – Che volevifare?
Anna si rialzò, scrollòlatestaecaricòdinuovo,maunamanolargacomeuna pala per la pizzal’aspettavaperstamparleunceffone.
Roteò su un piedecome una ballerinasgraziata e caddepicchiando con laclavicola contro lo
spigolo del muretto chedelimitava la stradina.Una fitta le attraversò laspalla.
Quelli intorno sisgolavano incitandoMutandone, chespalancò le braccia estrinse i pugni. – Me loridaiono?
Anna osservò il cielo.Le stelle erano forellinitremolantidacuifiltrava
la luce di un immensosolenascostosottolateladella notte. Sui dentisentiva il saporemetallicodelsangue.
Questo ti ammazza.Dagli il golf e finiscila, leconsigliò la vocinaassennata.
Ma il pubblico laspingeva a combattere enon poteva deluderlo.Quello era solo uno
scimmione, parentedell’altro che gli avevaportatoviailfratello.
Sputò uno schizzo disangue. – Ho capito chisei.TuseiilPicciriddune.
Mutandone non sidivertí e con due morsele strinse il braccio e ilpolpaccio e la sollevò inariacomeunbambolottodi pezza. Anna chiuse ledita e con un pugno
precisolocolpísulnasoaciabatta. Gli occhi delbestioneesplosero,sputòla dentiera e si portò lemani al volto,lasciandolacadere.
Il pubblico, traditore,cominciòafareiltifoperlei. Due spettatori sicontendevano la protesicome fosse una pallinafinita tra gli spalti delRoland-Garros.
Anna si rialzò, feceduesaltellieglimollòuncalcio cercando dicentrargli i coglioni. Lopresenell’internocoscia.
Quello si piegò su sestesso, frignando. Annatirò su le bracciaaizzando il pubblico edimenticando l’unicavera regola che contaquando fai a botte: non
perdere mai di vista iltuoavversario.
Mutandone le si gettòaddosso a braccia larghee la colpí su un fianco,facendola finire dischiena tra calcinacci espazzatura. La botta lestrappò l’aria daipolmoni. L’orco scavalcòil muretto e le calò unpugnogigantescosuunaspalla.
La schiena di Anna siinarcò, la sua testa sisollevò. Cacciò un urlosfiatato e ricadde giúassordata dai proprirantoli. Facce, braccia,fiamme si diluivano e siaddensavano in sprazzidilucegiallastra.Vedevail suo avversario,imponente come unamontagna,chestringevatra le mani un bastone e
lafollacheondeggiavaalrallentatorecomepallinetraleondedelmare.
Fra tutte le mortipossibiliquellaeralapiústupida: ammazzata daunocherivolevailgolfdinonnoPaolo.
Anna si coprí la testaconlebracciaestrizzòlepalpebre.
Un’esplosione fecevibrarelacollina.
Riaprígliocchi.Sulla volta stellata del
cielo un’ortensiavermiglia proiettò delleparabole gialle che sispensero oltre i muridell’albergo. Fu seguitada una sfera verde chesprizzò aculei bianchi eda scoppi menoluminosi, ma piú sonori,che rimbalzarono nellavallata.
Mutandone, gliocchietti che brillavanodi luci colorate, lasciòcadere il bastone e simiseadapplaudireconlemani tozze. Tuttiguardavano in alto espalancavano la boccameravigliati.
Qualcuno urlò: – LafestadelFuocoèiniziata.
Come un organismopluricellulare, la massache bivaccava intornoall’hotel allungò le suepropaggini umane suicostoni della collina,intasòsentieriestradine,superò le distese dispazzatura, attraversò iboschetti, scalò i cumulidi calcinacci e si diresseurlandoversolacava.
Laretechesbarravala
strada era stata rimossa.Un fiume di ragazzini siriversò sulla sterrataguidato dai fuochiappiccati in fondo allavalle. Alcuni, nel buio,precipitavanosulleroccee scivolavano neighiaioni, altri furonoschiacciati.
Dall’anfiteatroconvergevano verso ilpiazzale anche gruppi di
febbricitanti, sciancati epustolosi. C’era chi sitrascinava reggendosisulle stampelle, chi sisosteneva a uncompagno e chi siarrendeva e si lasciavatravolgeredallacorrente.
Anna, mezzaacciaccata, si ritrovò acombattere controcentinaia di braccia, dispalle, di volti
terrorizzati, di corpiammassati uno control’altro. Un’onda lapressavaelaspingevainavanti.
Si voltò e vide uncammello. Il testoneondeggiava snodato adestra e a sinistra. Sullagroppa, avvinghiati, treragazzini con dellefiaccole in mano.Lanciando bramiti
disperati l’animalefalciava chiunqueintralciasse la sua corsa.La lingua gli pendevadalla bocca come unaenorme lumaca livida.Anna scartò di lato e sigettò a terra lasciandochelasuperasse.Quandosi rialzò e riprese acorrere vide il culospelacchiato delquadrupede oramai
lontano, immerso traduealidifolla.Unpaiodidisperati si eranoattaccati alla coda e sifacevano trascinarecercando di rimanere inpiedi.
Anna arrivò in fondoalla strada e si trovò difronteunadistesaoscuradi teste che fluttuava
coprendo il piazzale,spingendosi fin sullecollinette di sabbia e suighiaioni. La valletta eradivisa in due da unalunga striscia dispazzatura che bruciavasollevando lingue difuoco. Da una parte eracompresso il pubblico,dall’altra, velata da unsipario di fumo denso,c’erano la gru con lo
scheletro, i mucchi diossa e l’autocisterna sucui si era nascosta conPietro il giorno prima.Provò a fendere la calcama, fatti pochi metri,rinunciò. Il profilo delcapannone emergevanellaressacomeun’isoladi lamiera. Nei bagliorirossastri figure piccolecome formiche siarrampicavano sui
tralicci che sostenevanolastruttura.
Bordeggiò la folla e sifece largo tra quelli chetentavano la scalata. Suipilonisieraformataunacolonna umana e alcuni,non trovando doveafferrarsi, ricadevano suchistavasotto.
Anna si aggrappò alletraversine arrugginite, aspalle,abraccia,poggiòi
piedisopratesteearrivòsul tetto di ondulato.Sotto il peso di centinaiadi ragazzini la lamiera sifletteva. Riuscí a trovareuno spazietto propriosullafaldaesisedette.
La barriera di fuocodivorava crepitandopneumatici e plastica,offuscando le stelle e laluna. Ora regnava unostrano silenzio,
interrottosolodalrombodi un motore a scoppioche sferragliava daqualchepartenelbuio.
– Adesso che succede?–lechieseunaragazzinache le stava accanto.Aveva un bracciofasciato con delle bendesporche e una mano contredita.
– Non lo so, – risposeAnna.
Passò un po’ di tempoe la folla tornò arumoreggiare.
All’improvvisosisentíuna musica forte e lavoce di una donnaamplificata e distortacantò. «Se vuoi andare ticapisco… Sí… Ancora…Di pigliarmi ancora…Sensualesulmiocuore…Perché ti amoancora…» 2
Silevòunboato.Sul tetto qualcuno
gridò che era laPicciriddunaacantare.
Uno dopo l’altro siaccesero tre fari elettricie trasformarono il fumoin una cappa iridescenteche si rifletteva sumigliaiadivoltiattoniti.
Il pubblico prese ununico sospiro e rispose
con un «ohhh»meravigliato.
– Che c’è lí? – Laragazzina con tre ditaindicò qualcosa sopra lacortina di fuoco. –Guarda.
Una sagoma scura,immensa, si condensavanellanebbia.Unrefolodivento soffiò nella valle eapparve il grandescheletrochegalleggiava
in aria appeso per latesta.
Si muoveva lento edinoccolato. Sollevavaun braccio e abbassaval’altro, piegava unagambaestendeval’altra,pareva un astronautanello spazio. Squadre dipiccolidiavoliblu,appesia funi fissate ai polsi, aigomiti, alle ginocchia ealle caviglie della
marionetta, venivanotrascinati in aria etornavano giúbilanciando il peso degliarti.
Il gigante sembravasulpuntodiscavalcarelacortina di fuoco. Sotto iriflettori le ossa con cuiera decorato fremevanocomeunapelliccia.
La massa eccitata sispintonava,
schiacciandosi contro lefiamme, ma il calore larespingevaindietro.
Poi fu un uomo acantare: «L’ascolterannogliamericanicheproprioierisonoandativiaeconle loro camicie a fioricolorano le nostre vie e inostri giorni diprimavera… E dei tuoiocchicosíbelli…» 3
Di fronte a quello
spettacolo di musica elucielettrichetuttiquellisul tetto si alzarono inpiedi e si abbracciaronocongliocchilucidi.
Solo i Grandi possonofare una cosa del genere,pensò Anna, mentre lavicina le stringeva lamanoripetendo:–Nonèvero…Nonèvero.
Un proiettore siabbassòescivolòsoprale
migliaia di testedipingendole di luce efacendole saltareeccitate. Il fascio sispostò abbagliandoquelliaccampatisultettoche cominciarono abattere i pieditrasformando ilcapannone in untamburo.
All’interno dellacostruzioneunmotoresi
acceseepartíunasirena.Anna, accecata, si
aggrappò alla falda. Inbasso centinaia diragazzini picchiavano ipugnicontrolepareti.
Il motore salí di giri ele porte si spalancarono,spingendoli indietro. Ilmuso verde di uncamionfececapolino.
Anna lo videincunearsi nella folla
come una naverompighiaccio,puntando verso loscheletro. La massa siaprivaperfarlopassareesubito si richiudeva. Illungo pianale di caricoaveva le spondeabbassate. Sopra, decinedi bambini bluimpugnavano bastoni efiaccole come fossero suuncarrodicarnevale.
Al centro, nei viluppidi fumo nero, su unapedana, tra Rosario eAngelica che incitavanola folla, era incatenatouno strano essere alto erinsecchito. Aveva lapellecosíbiancachenondoveva mai essere statoal sole. Le bracciaricadevano lunghe edritte.Unafiladicunettepuntuteglipercorrevano
laschiena.Ilcraniocalvoe allungato era troppogrande per le orecchiepiccole e carnose. Unabarba stenta, venata dastriature grigie, gliscendeva come unbavaglio e si posava suun seno femminile checascava floscio sullecostolescavate.
– La Picciridduna! –urlarono quelli sul tetto,
e si sporsero in avantipervederlameglio.
Cinque, sei, spinti daquelli dietro,precipitarono sulla folla,cheliinghiottí.
Anna faticava amantenere l’equilibrioma non riusciva asmettere di guardare lostranoessere.
Aveva la fronte bassa,tonda e senza
sopracciglia. Un sorrisoebetegliabitavalaboccasdentatadacuiunrivodibava colava sulla barbabrizzolata. Gli occhiettiscuri come onice eranoimpauriti. Scuoteva iltestone come se volessescacciare uno sciame divespe.
In quello sguardoAnnariconobbel’idiozia.
Le tornò in mente
Ignazio, il figlio delladonna che veniva unavolta a settimana alpodere a fare le pulizie.Alpoveretto,quandoeranato, era mancata l’aria,ed era rimasto scemo. Sirotolava a terrasbavando, con il capocontrattosuunaspalla,emangiava tutto quelloche trovava, caccacompresa.
Anna si chiese perchéla Rossa avesserisparmiato laPicciridduna. Forseperchéeramezzouomoemezza donna. Di sicurononeraunveroGrande.
Non salverà nessuno.Nemmenosestessa.
Un sorriso amaro siformò sulle labbra dellaragazzina mentre tutti,impazziti, si lanciavano
sul carro cercando ditoccare l’essere deforme,ma i blu li respingevanoabastonate.
Suo fratello era infondo al camion, e comegli altri combattevacontro orde di mani chetentavanoditirarlogiú.
Anna lo chiamò contutto il fiato che avevama la sua voce si perse
tra le urla, la sirena e ilcrepitiodelfuoco.
Guardò in basso. Perun secondo fu tentata disaltare, poi si diresse aquattro zampe verso iltralicciodacuierasalita.Al centro il tetto si erasfondato e un intrico dicorpi si agitavaall’internodellarimessa.
Lottò con gli altri perscendere afferrandosi a
capelli e magliette. Ametànoncelafecepiúesi lasciò cadere tra lafolla, che l’accolse.Insieme ad altrecentinaia di ragazzini silanciòdietroilcamion.
Fu sospinta primaavanti poi indietro dacorrenti umane che siscontravanourlando.
Lontano, il camionstrombazzava
dirigendosi verso loscheletro, mentregrappoli di ragazziniisterici si aggrappavanoallespondeeallacabina.Entrònelfuococontuttoilsuoseguito.
Quello che successedopo Anna non lo vide,era troppo distante, macon una vampata lamarionetta prese fuoco,arse in pochi secondi
fino alla testatrasformandosi in unatorcia che mise a giornola cava. Un braccioinfuocato si staccò dalbustoeunrogosiallargòavvolgendol’autocisterna.
Il piazzale era unformicaio impazzito,tutti scappavano in ognidirezione, e Anna,immobile, fissava
l’inferno in cui si eradirettosuofratello.
Ilmondoesplose.L’autocisterna,conun
boato, divenne una pallarossa. Si sollevò nellanotte e si gonfiò,schizzando meteore chelasciavano dietro scieluminose e finivanofischiando tra la folla esulle colline di sabbia, eincendiavano i pini sui
costoni. L’onda d’urto,come uno schiaffoarroventato, respinseindietroAnnaelebruciòlafaccia,ilcollo,leciglia,le entrò in bocca fino infondoaipolmoni.
La sfera implosesprigionando una cappanera e spessa che calòsulla valletta. Nellanebbia perlaceaemergevano vortici di
fuoco e figure nereapparivano e sparivanorisucchiatedaifumi.
Anna si rialzò ecominciò ad avanzare.Strizzava le palpebrecercando di ripulire gliocchi dalle lacrime.Tossiva,intossicatadalleesalazioni acri dellabenzina.Unabambinalevenne addosso a testabassaesiritrovòinterra.
Si rimise in piedi eriprese a camminareverso l’incendio. Suofratello era lí. Il calore lescottava le gambe e sichiese se le stesseroavvampandoicapelli.
Qualcuno, da dietro,l’afferròperunaspalla.–Anna.
Leiscosseilcapoenonsigirò.
–Anna.
Questavoltalepreseilpolso.
Pietro, nero difuliggine, la magliettastrappata, stringeva inbraccio un bambino chepoggiava la testa sullasuaspalla.
La ragazzina siavvicinò portandosi lemanialviso.
Il bambino sollevòappenailcapo,laguardò
e allungò un braccio. –Anna.
2VersitrattidallacanzonediMinaAncoraancoraancora(C.Malgioglio/G.Felisatti).
3Versitrattidallacanzonedi Amedeo Minghi 1950 (G.Chiocchio/A.Minghi).
diventava fredda ebagnata. Anna erasdraiata su un telo dispugna, il sole tiepido lescaldava la fronte e lemembra. La risaccatrascinavapigralaghiaiae i gabbiani strillavano alargo.
Si sentiva languida esvogliata.
Girò la testa, schiusegliocchieleapparverola
coda e le chiappe ossutedi Coccolone, coricatoaccantoalei.Icuscinettineri e squamosi sotto ledita gli fremevano comese stesse correndo insogno. Sul bagnasciugaAstorsgambettavanudo,saltando e calciando leonde. Le braccia glispuntavano comestecchetti da duebraccioli verdi. Con la
punta dei piedidisegnava strisce sullasabbia che le ondecancellavano.
–Chefai?–gliurlò.Il bambino la osservò
un attimo, afferrò unlungo bastone nodoso ecorsedaleispruzzandoladisabbia.
– Piano… – si lamentòAnna, pulendosi lafaccia.
– Guarda che bello! –Astor agitò il bastone inaria.
–Unbastone.– Non è un bastone –.
Indicò una fessura piúscura nel legnosbiancato. – È unserpente. La vedi latesta?Hapurelabocca.
–Haifame?–Unpo’.–Andiamo?
– Avevi detto chefacevamoilbagno.
– Quando? Io non meloricordo.
– Ieri –. Il fratello leafferròl’indiceecercòditirarlasu.
– Sicuro? – Anna simise a sedere e sisgranchí la schiena. Infondo al mare si eranosollevate delle nuvolecome getti di vapore
bianco. Alla fine dellabaia, lí dove Cefalúinfilava il suo vecchionasodipietranell’acqua,uno stormo di gabbianisi accaniva su un bancodipesci.
–Dài…–piagnucolòilbambino.
–Vabene.Astoresibífelicelasua
collezione di denti stortie si gettò nella sabbia
impanandosi come unpolpettone. Schizzò inpiedi, balzellò daCoccolone e lo prese perla coda. – Facciamo ilbagno!
Anna sbuffò. –Lascialostare.
Ma il bambino non lomollava, grugnivacercandoditrascinarlo.
Quel cane era unsanto. Lo avevano
ritrovato fuoridall’albergo e lui e Astoravevano fatto subitoamicizia. Suo fratello glimontavasopra,glitiravale orecchie, gli esploravale fauci come undomatoredileoni.Nonlofaceva dormire. Eppure,quando giocava con lui,il maremmano eradelicatocomesetemessedi spezzarlo. Fingeva di
morderlo, ma nonstringeva. Durante illungo viaggio che liaveva portati fino aCefalú non lo aveva maiperso di vista. Se Astorrallentava, Coccolonecominciava una spolaestenuantetraluielei.
– Perché non vuolefareilbagno?
Anna si strinse nellespalle.–Nonglipiace.
–Perché?– Non lo so. A te
piacciono le peschesciroppate?
Astor fece unasmorfia. – Quelle cosemosce nel liquidotrasparente? No, mifannoschifo.
– E a lui fa schifo ilmare. Quindi non darglifastidio,cheseungiorno
si arrabbia ti morde e fabene.
I due fratelli siavviarono, mano nellamano, verso la battigia.Accanto a delle barcherovesciate c’era unapiccola tavola da surf dipolistirolo macchiata dicatrame. Le mancava lapunta, pareva l’avesseaddentataunpescecane.
Anna si tolse i
pantaloncini di jeans erimase in costume, undue pezzi verde a pallinibianchi con il reggisenoimbottito che la facevasembrare grande. Presedallo zaino unamascheraeunboccaglio,afferròlatavolaedentròinacqua,mentreAstorlasuperava e si gettava dipancia cacciando strillidigioia.
Nonostante fosse uninvernomite,l’acquaeragelata. La ragazzinacamminava contrattacome su un tappeto dicocci. Il fratello,incurante dellatemperatura, provava asommozzare,stringendosilenariciconle dita, ma i braccioli lotenevanoagalla.
Anna spinse il surf
fino a quando l’acquanon le arrivò alle cosce eci si distese sopra. –Motore, accenditi, –ordinò sistemandosi lamaschera.
Astor si aggrappò allapoppa della tavola ecominciò a fare lepernacchie.
– Avanti. Piano.Sempre dritto –. Laragazzina immerse la
testa mordendo ilboccaglio. Sotto di leicomparve una distesa disassolinigrigiestriscedisabbia pettinate dallacorrente. Un paesaggiomuto che aveva poco daoffrire,macheAnnanonsi stancava mai diosservare. Quandorespirava nel tubo, conl’acqua che lesciabordava nelle
orecchie, si sentiva inpace.
– E porca miseria! –urlò nel boccaglioflettendo la schienacome se avesse ricevutouna scudisciata.Attraverso il vetroappannato vide Astorchesbattevaipiedicomeun forsennato. – Piano!Mi bagni tutta. Sei ilmotore,tu?
– Sí, – rispose ilfratello,serio.
Anna scandí bene leparole.–Quindi,motore,ascoltamibene:vaipianoe non schizzare, sennò tisgonfio i braccioli emuoriaffogato.
–Vabene.Riprese l’esplorazione.
Banchetti di cefali siinseguivano, mentre letriglie spazzavano il
fondo con i baffi. Ipensieri, con la testaimmersa, si formavanopigri, si ingrandivano escoppiavano in bolleastratte. Sarebbe statobello perdere le ossa,trasformare la carne ingelatina trasparente efarsi trascinare dallacorrente come unamedusa. Affondare lentafino agli abissi e lí, tra le
creature luminose che liabitano, trovare ColaPesce, il ragazzo chesosteneva la Sicilia sullespalle.
Verso il largo, ilfondale macchiato daicespugli di posidonia sifece piú blu eall’improvviso simaterializzò un grossocubo di cemento copertodi verde e marrone, di
grappoli di cozze eavvolto da tantipesciolini con la testacolorata. Un piccolopianeta che pullulava divita in un deserto disabbia.
–Motore,ferma.Ne aveva visti altri di
quei cosi e non sapevabene a che servivano.Forse a legarci le barche.Proprioaccantonotòdue
sassolini gialli con unastriscianeraalcentro.Liguardò da tutti i lati elentamente riuscí adistinguere una formamimetizzata.Ilcoloreeralo stesso della sabbia,eppure un po’ diverso.Intorno a quei duesassolini, che dovevanoessere degli occhi, c’erauna ghirlanda ditentacolicarnosi.
– Un polipo! C’è unpolipo! – disse tuttaeccitata, e sentí le ditadel fratello che lestringevanounacaviglia.
– No! E com’è? Ègrande? – Astor fremevacome se gli avesse dettochelísottoc’erauncestopieno di salami. Nonavevamaivistounpolpovero, ma ne aveva avutounodipeluche.
– È nascosto nellasabbia –. Gli passò lamaschera. Lui cominciòad annaspare e a bere eAnna temette che sisentissemale.
– Ti prego. Ti prego.Me lo prendi? – Astorsbatté gli occhioniimitando un bambinobuono. Le ricordava sestessa quando davantialla vetrina del negozio
di giocattoli in viaGaribaldi chiedeva allamamma la Barbie cinesecon il panda e il vestitorosso.
– Non ci arrivo. Ètroppoprofondo.
–Matusainuotare.– Nuotare e andare
sott’acqua non sono lastessacosa.Epoicomeloprendo?
– Con le mani. È
buono.Nonmordemica.Una volta suo padre
aveva pescato un polpoallariservadelloZingaro.Era tornato sullaspiaggiatuttoorgogliosocon quell’esserino che sistiravaesiannodavaallepunte dell’arpione e loaveva sbattuto sullerocce come fosse unpanno da lavare. Perammorbidirlo, le aveva
spiegato, ma quando loavevano cotto eradiventato un miserofiorecarnoso.
– Ci voglio giocare, –disseAstor.
– Posso provarci –.Anna scivolò in acqua.Milioni di spilli gelati lepizzicarono la pelle.Guardò giú. Non era piútantosicurachefosseunpolpo e non sapeva
quanti metri ci fosserofinoalfondo.Disicurocivolevano almeno tre,quattro Anna una sopral’altra. E oltre a scenderedovevapurerisalire.
Cominciòainspirareea espirare gonfiando ipolmoni. Per esserecontenta le sarebbebastato arrivare giú eprendere una manciatadi sabbia. Contò fino a
tre, chiuse la bocca e siimmerse. Dopo un paiodi bracciate la pressionele premette la mascheracontro il volto. Poicominciò a sentire unfastidio alle orecchie,provòaignorarlo,madeipunteruoli le bucarono itimpani. Tornò su e siafferrò boccheggianteallatavola.
– Lo hai preso?
Fammelovedere.A volte Anna aveva il
sospetto che suo fratellofosse scemo. – Lo vediper caso? Ho un polipotralemani?
Astor ci pensò su. –Be’, potresti esserteloinfilato nel costume, perfarmiunasorpresa.
– Motore, invece dipensare, accenditi eriportamisullaspiaggia.
–Dài,riprovaci.– Sto morendo di
freddo.Deluso, il bambino si
accese con unapernacchia.
– Anna, senti, maquanti tentacoli ha unpolipo?
–Nonloso.–Dieci?
–Forse.– Perché ne ha dieci e
non nove? E ventose,quanteneha?
–Tante.–Eperchénehatante?–Sonofatticosí.Dopoesserestatoconi
blu Astor era cambiato,lalinguaglisierascioltaenonlasmettevamaidiparlare. L’incontro con ilmondo l’aveva reso
meno introverso e piúpetulante.
– Ma se ti si appiccica,una ventosa ti puòstrapparelapelle?
–Nonloso.Il fratello le corse
accantoel’afferròperunpolso.–Scusa,maipolipihanno il pisello? Eperché non vanno avivere all’aria invece cheinmare?
Anna s’inchiodò. –Allora? Basta! Io non sonientedeipolipi.
Una domandaattraversò gli occhi vispidelbambino.
Annasipoggiòl’indicesulle labbra. – Non michiedere piú niente.Adessononparlipiúfinoa casa. Se hai delledomande te le tieni, ne
scegli quattro e me le faidomani.
Astor la guardòperplesso. – Perchéquattro?
–Shhh...
Edeccolituttietresullungomare di Cefalú. Ilcane davanti, Anna inmezzoeAstordietrocon
centinaia di domande inbocca.
La strada, imarciapiedi,lepanchediferro erano coperti dallasabbia, solo qualchemuretto di cemento e ilampioni corrosi dallaruggine spuntavanofuori. Sul lato dellastrada che dava versol’interno le file diristoranti formavano un
unico agglomerato.Resistevano molteinsegne, Al gabbiano, daNino, Il covo del pirata,ma in quattro anni diabbandono le facciate sieranoslavateegliinfissiscrepolati. A tanti localimancavanolevetrateeilmare aveva spintoall’interno delle saleplastica, legni e sedie asdraio. In uno c’era pure
una barchettarovesciata.
– Domani torniamodalpolipo?
–Zitto.Di fronte ai fratelli si
allungava la baia cheterminava in unporticciolo su cuipremevailpaese.Casedipietra, strette unaall’altra, si affacciavanosul mare in un caos di
archi, finestre ebalconcini. Dietro i tettidicoppiscurisvettavanoi due campanili quadratidel Duomo e le paretiscoscesedellaRocca,unamontagna circolare chesomigliava a unpanettone.
Attraversarono unparcheggio affollato dimacchine sporche disalsedineeguanobianco.
Da lí proseguirono perun vicolo affogato tra ipalazzi da cuisporgevano i balconi, ilampioni,icavielettriciecorde che un temposervivano a stendere ipanni. Le saracineschedei negozi eranoabbassate e gran partedelle persiane sbarrate.C’erano ancora i cartelliche indicavano la
cattedrale, i bar e glialberghi.
I saccheggi, ledevastazioniegliincendiavevano infuriatoovunque in Sicilia, manon a Cefalú. Nelle caseaveva trovato pochischeletri, come se gliabitanti avesseroabbandonato il paeseprima che l’epidemia liuccidesse. Adesso era un
rifugio per topi, anatre ecolonie di gabbiani. Igatti ci aveva pensatoCoccolone a farli sparirequasitutti.
Anna si fermò difronte alla libreria Labussola.Provòasollevarela serranda, ma erachiusa. A un lato, unportoncino verde avevail battente della lunettaspalancato.
Con le mani fece lascaletta e Astor, comeuno scoiattolo, sgusciòdall’altra parte. Pochiistanti dopo la porta sispalancò su un cortileinterno lastricato dipietra. Dai vasi accostatiai muri cresceva unaselvaverde.Inunangoloresisteva il bar Lacometa, con i tavolini diferro accanto a un
piccolo palco di legno.Un manifesto informavache il giovedí avrebbesuonato il MarianoFilippijazztrio.
Anna si diresse versounafinestrella.Preseunasedia e ruppe il vetro.Scavalcò il davanzaleseguita dal fratello eacceselatorcia.
Lalibreriaerapienadiespositoridicartoline,di
piatti dipinti, di vasi aformaditestaedisolidiceramica con la facciasorridente. Sui tavolierano impilatemattonelle colorate escatolepienedisouvenir.Se Cefalú aveva undifetto, era quello diessere un unico, grandecontenitore di stronzateinceramica.
Continuando
l’ispezioneAnnascovòinunangologliscaffalicondei libri. Manuali dicucina siciliana, guideturistiche e unvolumetto con lacopertinaplastificata.
–Eccoqui–.LomostròadAstor.
–Cheè?–Leggi–.Puntòlaluce
sultitolo.Astor si grattò il naso.
– La… pe… sca in ap…ap… nea. La pesca inapnea.
In quei mesi passati aviaggiare non era piúriuscita a fargli fareesercizio. Dovevanoricominciare.
– Che vuol dire? –domandòAstor.–Ècomelapescasciroppata?
– Vuol dire prendere ipesci andando
sott’acqua.Gli occhi di Astor si
risvegliarono. – Pure ipolipi?
–Vediamo.Tornarono nel cortile
e Anna si sedette a untavolino.
Ilfratellolesiavvicinòimpettito. – Cosa vuoiordinare,signora?
Dopo aver ascoltato iracconti sui bar e sui
ristoranti Astor avevadeciso che, se fossediventato grande,avrebbe fatto ilcameriere, perché icamerieri avevano a chefare tutto il giorno concosedamangiare.
Anna era indecisa. –Chehadibuono?
– La carne con ilpomodoro e il latte dimandorla.
– Mi porti il latte dimandorla.
Ilbambinocorseinunangolo e intrugliò condeibicchieriimmaginari.–Eccoqui.
Anna si dissetò con ilniente. – Ahhh.Buonissimo!
Il libro dedicava bentre pagine al polpo, il redegli invertebrati.Scoprirono che aveva
otto tentacoli ed eramolto intelligente, ingrado di risolvere pure iproblemidigeometria.Esoprattutto che era unsolitario: sceglieva unatana e lí restava. Annamostrò le foto al fratelloche scuoteva la testaincredulo. Mai avevavisto un animale cosístrano.
– È addirittura piú
strano delle lucertolecapellone.
–Eccovi!Maquantociavete messo? – Pietroschizzò fuori da unarimessa che dava su unastradina. Era bianco dipolvere come unpanettierechehaappenaimpastato. – Non sapetechehotrovato…
Astor non lo lasciòfinire, parlando troppoveloce e mangiandosi leparole gli raccontòl’avventura che avevanoavutoinmare.Poilotiròper una mano e loobbligò a sedersi su ungradino a guardare lefotodellibro.
Anna si poggiò controun muro incrociando le
braccia.Pietrosollevògliocchielafissò.
Lei abbassò subito latesta, imbarazzata.Aspettò qualchesecondo, ma quando larialzò lui era ancora líchelaguardavaconquelsorrisetto da… Nonsapeva nemmeno lei dacosa.Allorapiegòilcolloe in silenzio scandí: – Seicretino?
Dopo aver recuperatoil quaderno e il femorenel ristorante Il gusto diAfrodite avevano decisodidormireinunavillettadi Torre Normanna.Durantelanotteilventosi era alzato facendosbattere le imposte dellecase e scricchiolare legrondaie. La sagoma diPietro avvolto in unacoperta e il respiro
pesantediCoccolonenonerano bastati arassicurare la ragazzina.Coricata accanto alfratello sopra un divanosfondato, galleggiava suun sonno agitato dasogni e pensieri. Fissavail soffitto buio sentendoilboscoelacasadelgelsochelachiamavano.
Anna,restaconnoi.Tuseilareginadelleossa.
Poi le era sembrato diudire i passi di suamadre al piano di sopra,che battevano regolarisulpavimento.
Te ne stai andando,Anna?
Sí,mamma.Staiattenta.Teloprometto.Quantedellepromesse
che le aveva fatto sulletto di morte aveva
mantenuto? Forsenemmeno una. Peròavevaancorasuofratellocon sé. Era riuscita ariprenderselo. E oradoveva mantenere lasua, di promessa,portarlonelcontinente.
Quando Pietro e Astorsi erano svegliatil’avevano trovata inpiedi che li guardava. –
Dobbiamo fare un patto,–gliavevadetto.
I due, con gli occhigonfi di sonno, avevanosbadigliato.
–Qualepatto?–avevadomandatoAstor.
– Andremo tutti e trenelcontinente.
– E intanto cerchiamole scarpe, – avevaaggiunto Pietro,
stropicciandosi unocchio.
Astorsierainfilatounditonelnaso.–Passiamodacasa?Devoprendereimieipupazzi.
– Ne troveremo dinuovi, – aveva rispostoAnna.
Cosí, una mattinanuvolosa, scortati daCoccolone, partirono
zaino in spalla verso est,seguendol’autostrada.
Marciavano spediti, ese incontravano untunnel loattraversavanomano nella mano,cantando. Spessodeviavano in cerca dinegozi di scarpe e centricommerciali.Scassinarono porte,distrussero vetrine,aprirono centinaia di
scatole, ma non c’eratraccia delle Adidas diPietro.Conigiorni,Annasi convinse che o quellescarpe non esistevano, oin Sicilia non erano maiarrivate. Il ragazzinoperònonsiscoraggiava.
– Non lo capisci? È laprovachesonomagiche.A Palermo le troveremo,vedrai.
Lei si mordeva la
lingua. Voleva arrivarein Calabria il primapossibile e perderetempo in quel modo lafaceva impazzire. Maaveva fatto un patto e loavrebberispettato.
Seguendo l’A29 ilpaesaggiocambiò.
Con una curvaampissima l’autostradasi avvicinò alla costa.Sulla destra, dalla
pianura si sollevò unmuraglione di rocceimponenti su cui siintestardiva unavegetazione stenta. Altramonto i costonis’incendiavano diarancione e le venerocciose si coloravanod’azzurro. La catenaseguiva il litorale che sifrastagliava in piccoli egrandi golfi. Tra
montagne e mare sistendeva una striscia diterra coperta di tetti eterrazze di palazzine chespuntavano dallamacchiacomepezzettidiLego gettati su unamoquette verde. I paesifinivano uno nell’altro esolo dalle indicazionidell’autostrada capivanoche quelli erano
Terrasini, Cinisi, Capaci,Sferracavallo.
I rari viaggiatorisolitari che incrociavanogiravano a largo appenavedevano il molosso cheli scortava. Se inveceincontravano qualchebanda, erano loro atenersi a distanza,tirandosiperlacollottolaCoccolone, chebrontolava. Il cane li
seguiva al passo, ma avolte spariva perripresentarsi solo con ilbuio,elanotterimanevaacciambellato accanto aitre con l’orecchio ritto,pronto ad abbaiare alminimorumore.
Impiegarono duesettimane per arrivare aPalermo.
L’autostrada filavadritta dentro la città
occupata da colonne dicamion, carrarmati ecamionette con i vetrisporchi. Si trovarono difronte a quello chedoveva essere stato unposto di blocco. Cordolidi cemento e barriere difilospinatosbarravanoilpassaggio eproseguivano tra lacampagna e le case.Ovunque cartelli
crivellati di colpiintimavano di fermarsiper i controlli sanitari:«Zona contagiata.Chiunque tenti disuperare le barriererischia da trent’anni allapenacapitale».
Una lunga fila dibaracche che avevanoospitato le unitàsanitarie erano piene dicomputer, tute gialle,
scafandri buttati allarinfusa e ricoperti daescrementiditopi.
Si avviarono nellacittà silente. Nulla erastato risparmiato dallafuria della devastazione.Nessun negozio, nessunpalazzo, nessunappartamento. Tutte leporte forzate. Tutte lecucine svuotate. Tutte leante dei pensili
spalancate. I quadributtati a terra, i vetrisfondati, i piatti ridottiin mille pezzi. Alcuniquartieri sembravanobombardati. Pezzi dimuri resistevano comefaraglioni tra cumuli dimacerie che invadevanole strade e seppellivanole automobili.Incrociarono le carcasse
carbonizzate di dueelicotteriabbattuti.
Arrivativicinoalmaredovettero scalarebarricate di mobili ecassonettidell’immondizia su cuisventolavano brandellisfilacciati di bandierenere. Nessuno sembravaessersisalvato.Esesierasalvato adesso non c’erapiú. Mancavano anche i
canieigatti.Uniciesseriviventi, delle cimiciverdi che formavanopalle frementi dizampetteetifinivanoinfacciaetraicapelli.
Pietro camminavatenendo per mano Astorcheavevapersolaparolae guardava a occhispalancati, pollice tra identi,gliintrichidicorpibruciati. Anna aveva
l’impressionechelacittànonlivolesse.Eraancorapregna del dolore deisuoi abitanti, l’unicodesiderio che le restavaera quello di esseredimenticata. Ma lanatura faticava aseppellirla. L’erbacresceva fiacca tra lecrepe dell’asfalto, laparietaria s’insinuavaincerta tra i mattoni, gli
alberelli erano deboli emiseri come seaffondassero le radici inuna terra zuppa diveleni.Anchel’edera,cheproliferava ovunqueintrecciando pietosi teliverdisuirestidelmondodei Grandi, qui siallungava in stolonistriminziti con le fogliegiallastreeaccartocciate.
Il lungomare era stato
trasformato in unatendopoli che dopoquattro anni formavauno strato compatto diplastica, stoffa e cartoneinerte e duro. Noninteressava nemmenopiú ai gabbiani e ai ratti.Nelle piazze c’eranocataste di corpi e nellefosse comuni giacevanocadaveri ricoperti dicalce. Il porto era stato
consumato da unincendio cosí vorace cheaveva deformato pure ilferro delle cancellate,riducendo le banchine apiazzali anneriti.Rimanevano in piedi legru e le pile di containerarrugginiti. Un paio dinavi giacevano coricatesul fianco comemegatterespiaggiate.
Quando si fermarono
davantiallaBottegadellosport, un enormemagazzino scuro comel’atrio dell’inferno, Annanonriuscíatacere.–Quinon troveremo le tuescarpe.
Pietro rimase unattimo in silenzio, poidisse:–Andiamovia.
Trascorsero la nottenel teatro Politeama. Ilfoyer era pieno di barili,
scatole di medicinali,trespoli con le flebo ebrandine. Sopra lebiglietterie qualcunoaveva disegnato unteschio con gli occhiviola.
Scostarono le tende divelluto spesso e il fasciodella torcia scivolò sullepoltrone rosse, brillòsulle colonne dorate deipalchi, sui lampadari
coperti di polvere e sugliaffreschi di cavallirampanti cheemergevano dalletenebre. Uno stormo dipiccioni prese il volo nelbuioinunfrullaredialieandòasbatterecontrolagrande cupola blu. Gliuccelli precipitavanostecchiti tra le file dellaplatea.
Astor, avvinghiato al
braccio della sorella,chiese: – Che ci facevanoinquestoposto?
Anna non ne eraproprio sicura, marispose: – Ci venivano lepersone eleganti. Anchemammaciveniva,conlagonna bella e le scarpecon i tacchi –. Spostò laluce sul palco, doveerano ancora in piedipezzidiscenografie.–Elí
soprac’eranodeitipicheballavano eraccontavanolestorie.
Dormirono in unpalchetto,affamati.
Anna si svegliò perprima. Pietro e Astorerano allungati sullesedie come giovanivampiri. Gli lasciò unbiglietto dicendo diaspettarlafuori.
Il sole era da qualche
parteoltrelamuragliadipalazzi. Sulla grandepiazza Castelnuovospirali di buste diplastica colorata e cartasi rincorrevano tracamionette e carrarmatischierati intorno almonumento di marmo.Della statua restavanosoloipiedi.
Imboccò una lungastrada dritta
fiancheggiata da chiese,negozi saccheggiati,palazzi ottocenteschidalle cui finestresventolavano stracci ebandierelogore.Infondoil profilo nero di unamontagna si stagliavanelbludelmattino.
Riconobbe i resti dellagelateriaIncanto,dovelaportava il nonno, e delnegozio di scarpe dove
suo padre le avevacomprato un paio distivaletti con il pelo.Imboccò una traversa eavanzando un po’ a casoe un po’ a memoriaritrovò via OttavioD’Aragona.
Il palazzo dove vivevapapà era lí, grigio e rosa,con i terrazzini cheaffacciavano su ungarage sotterraneo e su
un edificio modernoincendiato. Spinse ilgrande portone di legnoscuro ed entrònell’androne. Un alberodi Natale era rovesciatocontro la portadell’ascensore traschegge di vetro rosse.Accese la torcia e siincamminòperlescale.
Al secondo piano laporta a vetri di una
assicurazione eradisintegrata, dentro siscorgevano le scrivanieribaltate e la moquettericopertadifogli,tastiereeschermi.Ildistributoredelle bibite era statopreso a bastonate esvaligiato. Sul muro uncartello con una biondadiceva: «Assicurati unfuturoserenoconnoi».
Anna rimase a fissare
la rampa che portava alterzo piano. La porta dicasa era socchiusa e ilvaso con il cactus eraancora accanto altappetino. Si stropicciòun occhio e affrontò igradini. Come sefluttuasse in un sognoattraversò il lungocorridoio con ilpavimento di graniglia egli stucchi alle pareti. La
luce filtrava dallefinestre delle cameredipingendo strisceluminose sui muri.L’armadio bianco eraapertoetuttelegiaccheavento erano a terra,insieme a scarpe,cappelli e guanti.Riconobbe la giacca neracon la cinta che suopadre indossava quandoguidava la Mercedes del
lavoro. Si fermò sullaporta della sua stanza. Idisegni erano ancoraappesi al muro. Unorappresentava una navesu cui erano in piedi trefigure con i nomi sopra:io, mamma, papà. Nelmarespuntavanoletestedelnonnoedellanonna.Le venne da sorridere.Perché li aveva messi inacqua?Sultavolinorosso
diIkeac’eraancorailsuoastuccioconipennarelli,gli acquerelli e unbicchiere incrostato dicalcare.
Ogni oggetto dellastanza le facevasbocciare un ricordo.Pezzi di memoria sisollevavano dall’obliocomescheggeaffilateesiricomponevano in unprisma di immagini. Era
di nuovo Annina, labambinachevenivalíunpaiodivoltealmese.
Rivedendolaadesso,siaccorse che la camerettanon le era mai mancata.Non l’aveva mai sentitasua. Era piena di cosebelle, ma sembravafossero state messe lísolo per decorazione,come le palmette diplastica nelle vasche
delle tartarughe. E conquei giocattoli e quellebambole non ci avevagiocato abbastanza.Erano le sue cose diPalermo, non potevaportarle aCastellammare. Nonerano frutto di capricci,né premi per essersicomportata bene. Papàaveva semplicementefatto scorta in un centro
commerciale dopo che sieradivisodallamamma.
Si sporse sulla strada.Quel silenzio non c’eramai stato. Primascorreva il traffico tuttoil giorno, e d’estate, conle finestre aperte,quando passava la gentesi sentiva quello chediceva.Andòincucina.Ilfrigo vuoto eraspalancato e nel lavello
erano ammassate dellestoviglie impolverate. Ilcaffèerasparsosulpianoe il muro sopra illavandinoeracopertodamacchie di muffa verde.In un pensile trovò lascatoladicerealiaformadi lettere che mangiavacon il latte. L’aprí e neuscirono fuori dellefarfalline. Ne prese unamanciata e le poggiò sul
tavolo di formica. Lemise in fila e riuscí acomporreATOR,mancavala S. Le ingoiò una dopol’altra, masticandole insilenzio.
In camera di papàdovevano avercibivaccato. Era piena distracci e bottiglie dialcolici vuote. Le tende eil tappeto avevano presofuoco e il muro intorno
alla finestra eraincorniciato di fuliggine.Aprí il cassetto delcomodino accanto alletto. Lo spray nasaledella sinusite. Unorologio. Foto. Annapiccola in macchina conpapà. La mamma cheteneva Astor in braccioappena nato. Mamma epapà con un antico
romano davanti alColosseo.
C’era anche una bustaapertaestropicciata.
Amoremio,come stai? Qui è
bellissimo e fa moltofreddo. Ha nevicato pertre giorni e questamattina la macchina eraunapallabianca,mac’eraun sole meraviglioso.Sono andata a sciare conAdriana che continua a
chiedermi di te. Secondome ha paura di restarezitella. E pensa che pertutti ero io quella dellafamiglia destinata arestare sola. Sciare èsempre bellissimo,soprattutto oggi con laneve fresca, e mi èdispiaciuto che non cifossi anche tu. Lo so chesei siciliano e che tivergogni a mettere lacalzamaglia, ma unavolta, devipromettermelo, verrai e
io ti insegnerò lospazzaneve. Adriana dicecheparloconl’inflessionesicula, e sai una cosa, mifa piacere. Il dialettoveneto non lo sopportopiú. Ti penso e ti vorreinel letto a scaldarmi ipiedifreddi.
In questi giorni misono chiesta spessoperché ti amo e ho capitoche fai uno sforzoterribile per accettarmiper quello che sono. Peradattarti a me. Mi
dispiace che litighiamo.Tu sei una personaspeciale e voglio provarea guardare le cose con ituoi occhi. Me lopermetterai? Nondobbiamo buttarci via. Iopossoimpararearendertifelice. Hai visto che ti hoscritto una lettera concartaepenna?Sonocertache quando la troverainella cassetta ti farà piúpiacerediunae-mail.
La patata stabenissimo. A mia madre
piace un sacco fare lanonna e la riempie dischifezze.Lehodettochese quest’estate non vienea Palermo a conoscertipuò scordarsi dirivederla. Come sonocarina,eh?
Tibacioovunque,MariaGrazia
Prese la lettera e lefoto, le infilò nello zainoeuscí.
La mattina stessa
polipo. Sentiamo che hatrovatoPietro.
Il ragazzino li portòdentro un garage con leparetiintonacateacalce,occupato in buona parteda una Bmw grigiacopertadauntelone.Trabarattoli, scatoloni eattrezzi era parcheggiatauna Vespa sidecarazzurrina con la sellabianca, le frange sulle
manopole e il sedile delcarrozzinodifintapagliaintrecciata.
Pietro ci salí sopra estrinse il manubrio. –Questa si accende, me losento. Ha pure le ruotegonfie.Cientriamotutti.
Anna,chesiaspettavacome minimo unariserva di Nutella, nonriuscí a mascherare ladelusione e cercò di
rimediare con un: –Bellissima.
– Non hai capito? –Pietro le mostrò ilmotore. – Potremmomuoverciveloci.
Leirimaseinsilenzio.Il ragazzino piegò il
capoelafissòtossendo.–Chec’è?
– Niente. Dove ciandiamo?
– Come dove? A
Messina.–Sí.Ma…–Nonstiamo
bene qua? Il resto se lotennepersé.
–Ma,cosa?– Niente –. Si accorse
che le si era indurita lavoce. – E come facciamoconCoccolone?
Pietrosicolpílafrontecon la mano. – Non ciavevo pensato… Lo
mettiamo nel carrozzinoinsiemeadAstor!
– Non ci starà mai –.Anna prese in mano uncacciavite e sbuffò. –Vadoacasa.
– Io resto un altro po’.Devopulirelamoto.
Astor si appese albracciodellasorella.–Hofame.
– Andiamo, – disse lei,euscironodalgarage.
Annaerainferocita.Chestronzo…Nonvolevapiústarea
Cefalú. Se ne volevaandare perché si erastancatodilei.
Astor le correvaaccanto trafelato. – Vaipiano. Perché seiarrabbiata?
–Nonsonoarrabbiata.Muoviti.
Il solo pensiero che
Pietro volesseabbandonarla laterrorizzava. Non potevaimmaginarsidinuovodasola. Che cosa le stavasuccedendo? Non avevamai avuto bisogno dinessuno e adessodipendeva da quelminchionaccio. Il suoumore si accordava conquello del ragazzino. Selui era contento, lei era
contenta, se lui eratroppo silenzioso, lei siincupiva. E bastava chela chiamasse Annina pertrasformarla inun’imbecille. Cometrovava uno specchio cisi piantava davanti, nonlepiacevapiúilsuonasoedetestavailpiccoloneoche aveva sullo zigomo.Per nascondere il caninoscheggiato rideva senza
sollevare le labbra epassava ore a provarsi ivestiti.Eracosísfinitadase stessa che a volte, persfogarsi, si scagliavacontro Pietro e subitodopo se ne pentiva.Oppure provava ascappare, ma un elasticoinvisibile la riportavaindietro.
Un inferno, che nonavrebbe cambiato con
nullaalmondo.Lavitasiera scomposta in minutie ogni minuto vissutoaccanto a Pietro era unregalo. La noia erascomparsa.Quelloscemola faceva ridere, lemostrava il mondo conocchi meno seri epreoccupati dei suoi. Inpiú, doveva ammetterlo,erapropriobello. Inqueimesi il suo naso, i suoi
occhi,lasuabocca,ilsuomento avevano trovatole giuste proporzioni.Oraeranoperfetti.
Ma una cosa, piú ditutto, la mandava aimatti, non aveva ancoracapito se era o no la suafidanzata. Avrebbevoluto spingerlo controun muro e chiedergli:«Ma noi siamofidanzati?»
Solo che temeva larisposta.
Girando per il paese iquattro avevano scovatoun appartamento incima a un vecchiopalazzo che affacciavasul porticciolo. Dellescale poco illuminatefinivanoinunaporticinache si spalancava su un
soggiorno con ilpavimento di cotto. Tredivani bianchiformavano una Uintorno a un tavolino dicristallo e una lungavetrata dava su unterrazzo pieno di piante.Molte si erano seccate,maaltre,comeilimonielecycaseranocresciuteestavano strette nei vasi.Al centro c’era un tavolo
di ferro battuto con ilpiano di maioliche e ailatiunafiladilettiniconle doghe. A sinistra sivedeva il paese nuovoche si stendeva sullabaia. Sotto il palazzo,delimitatadaunmolettodi cemento, una piccolaspiaggia di sabbiacompatta su cui si eranosalvate un paio dibarche. Il mare era cosí
trasparente chesembrava non ci fossenemmeno. Dal salotto,attraverso un arco, sipassava in una cucinacon i mobili laccati dirosso. Nei cassetti eranoordinate le posate e suiripiani i bicchieri e ipiatti. Nell’armadio incorridoio era piegata labiancheria.
Niente però reggeva il
confronto con la cameraconillettoabaldacchinovelato da tende sottilicome garze. Sopra ilpavimento di ceramicalucida era steso untappeto con su ricamatauna tigre che spuntavadall’erba. Lí aveva fattola sua cuccia Coccolone.Quando ti sdraiavi sulmaterasso vedevi ilsoffittoavoltadipintodi
blu con centinaia distelline d’oro. Gli infissiermetici avevanopreservatol’appartamento lindo,senza polvere, insetti emacchie di umidità. Disicuro i proprietari nonci avevano vissutodurante l’epidemia. Lídentro,sesiescludevalaluce, l’acqua e il gas, eratutto perfetto, e Anna
cercava di mantenerlotale. Ma con quei tremaialieraimpossibile.
Quello schifoso diCoccolone non avevaimparatoapisciarefuorie quando gli scappavaalzava una gamba e lafaceva sui divani. Unavolta aveva pure cagatosul tavolino. Astor,invece, adorava farlanella tazza «come i
Grandi»,peccatochenonci fosse acqua nellosciacquone, cosí ilgabinetto era diventatozona proibita. Pietro eraappena meglio, almenola facevanell’appartamento disotto, e si toglieva lescarpeprimadiandareadormire.
Pietrorientròincasaetrovò Anna e Astor suidivani.
–Chefate?–chiese.Il bambino scattò in
piedi.–Tiaspettavamo–.Corsealmobilebaretiròfuori del liquore almirtillo. – Dobbiamobercelo tutto quanto,abbiamovistoilpolipo.
– Giusto! – Pietro nonrifiutava mai una
bevuta. Capitava che siubriacasse cosí forte danonreggersipiúinpiedi,allora Anna gli mettevauna coperta addosso e lolasciava dormire sulsofà.
Cominciarono apassarsi la bottiglia e inmeno di dieci minutierano tutti e tre cotti. Laconversazioneprocedevaa fatica, interrotta dagli
sbadigli mentre il ventopremevacontroivetri.
AnnaosservavaPietroche, sprofondato neicuscini, allungava legambe sul tavolino.Aveva la giacca a vento,la camicia, i pantalonilunghielecalze.
Non si toglieva mai ivestiti e non veniva maialla spiaggia. Avevasempre qualcos’altro da
fare. Anna sospettavache cercasse dinascondere le macchie,ma preferiva nonpensarci. Dall’hotel laquestione virus era stataaccantonata. Entrambi,con un accordo maipronunciato, avevanofinto che non esistesse.Con il passare dei giornilaRossaeradiventataunrumore di fondo, come
quellodelmarechefiltradalle finestre chiuse eche senti solo se ticoncentri.Mabastavaunniente perché il corvoricominciasse a sbatterele ali spegnendo ognifelicità.
Pietro, all’improvviso,scattò in piedi e batté lemani.–Nonsicena?Traun po’ sarà buio –. Diede
uno scrollone ad Astorchesieraappisolato.
Anna, intontita, sistropicciò gli occhi eandò in cucina. Tiròfuorileposateeipiattieli dispose sul tavolo.Prese il candelabro tuttocoperto di cera fusa e lopiazzòalcentro.
Pietro si presentò contre barattoli. – Questaseranientececi.
Annasigiròincredulalescatolettetralemani.–Zuppa di pollo… Dovel’haitrovata?
Il ragazzino alzò unamano, dondolò la testacon sorriso sornione efece comparire ancheunabottigliascuraconiltappo foderato distagnola dorata. –Champagne. Il migliore.Quello che beveva mio
papà quando vinceva legare.
Astor si gettò sullazuppa,mafubloccatodaPietro. – Aspetta. Primadovete rispondere a unadomanda.
Ad Astor cadde lafrontesultavolo.–Maiohofame…
–Chegiornoèoggi?Anna sollevò le spalle.
–Chedomandaè?
–L’8luglio–.PerAstorerasemprel’8luglio.
Il ragazzino scrollò latesta. – Oggi, mentre voive ne stavatespaparanzati al mare, hofattoungiroehotrovatolagioielleriaCammarata.Nella vetrina c’era ungrosso orologio con uncartello. Diceva chequello era il SolarQuantus, l’orologio
solaredegliesploratori. Inumeri si muovevano esegnava pure la data –.Guardò i due fratellicome se volesseipnotizzarli.
– E? – Astor era sullespine.
Pietropresedallatascaun orologio con ilcinturino di gommanera. – Quando sei nata,Anna?
La ragazzina, checominciava a intuire,balbettò.–Il12marzo.
Pietro batté le mani. –Tantiauguri,Anna–.Esimise ad armeggiare conil tappo dellochampagne.
Astorsaltòsullasedia.– È il tuo compleanno. Èil tuo compleanno. È ilcompleanno di miasorella.
Coccolone sentendotutto quel casinocominciò a ululare. Iltappo dello champagnepartí con un botto e unfiotto di schiumainnaffiòiltavolo.
Anna, le mani sullabocca, volevaringraziare, ma ungroppo le chiudeva lagola. Mugugnò qualcosa,
poi piegò il collo ecominciòadeglutire.
Pietro le passò labottiglia. – Bevi. È la tuafesta.
La ragazzina tirò sucon il naso e lo fissò. –Comefaceviasaperlo?
– Me lo hai detto tu. APalermo.
– E te lo ricordiancora?
– Certo. Ma quanti
annicompi?Anna lo guardò
disorientata. – Tredici,credo. O forsequattordici.Nonloso…
– Vabbe’, è lo stesso –.Pietroinfilòunamanointasca. – Quello che contaècheoggièlatuafesta–.Tiròfuoridallatascaunacollanina d’oro con unapiccola stella di maresmaltata di blu. – Buon
compleanno –. Glielamisealcollo.
Annasicoprígliocchi,siritrovòabarcollareperilcorridoioesichiuseinbagno. Appoggiò lafronte contro la porta eliberòilpianto.
Dall’altra parte Pietrola chiamava. – Anna!Anna!Chesuccede?Apri.
– Apri, ti seiarrabbiata? – gli faceva
eco Astor, guardandodalla serratura. – Làdentromuori.C’ètuttalamiacacca.
– Adesso arrivo.Cominciateamangiare,–riuscíabalbettareAnna.
– No, ti aspettiamo, –dissePietro.
– Non tanto, però, –aggiunseAstor.
QuandotornòatavolaAnna si era ricomposta,ma aveva ancora gliocchi gonfi. La stella leciondolavasulpetto.
Mangiòtirandosuconil naso mentre i duemaschisistrafogavanoesi versavano lochampagnefacendogaredirutti.
Pietro sollevò ilbicchiere. – Oggi Anna è
la reginetta e può farequello che le pare. Noiduesiamoisuoischiavi.
– Noi siamo sempre isuoi schiavi, – disseAstor.
– È cosí, non rompere,– lo zittí il ragazzino. –Queste sono le regole dimia zia Celeste per ilgiornodelcompleanno.
–Echedobbiamofare?–chieseilbambino.
Anna non aveva idee.Si guardò intorno e lecadde lo sguardo suCoccolone,cheaccantoaltavolo leccava unbarattolo di ceci. –Giochiamo al gioco deglianimali.
Astor zompettò pertuttoilsalottocomeunascimmia. Pietro mimò
un calabrone cheassomigliavaparecchioaunmotorino.
Quando arrivò il suoturno, Anna si allungòsul pavimento agitandobraccia e gambe e sinascosesottoiltavolino.
Suo fratello noncapiva.–Cheè?
– Un ragno? – buttò líPietro.
Leiscosselatesta.
– Un serpente con lebraccia?–disseAstor.
– Una pecora ubriaca?–provòPietro.
Anna continuava acontorcersi aprendo echiudendolabocca.
Astorscoppiòaridere.– È un rospo che hamangiato una pecoraubriaca?
– No. È un serpentecon le braccia che si è
mangiato un rospo cheha mangiato una pecoraubriaca, – continuòPietro.
Astornonresse,crollòsul divanosganasciandosi dallerisate.
–EchecercadiimitareAnna, – concluse Pietro,accasciandosi accanto alui con le lacrime agliocchi.
Anna,offesa,simiselemani sui fianchi. – È unpolipo.
Astor ridevaindicandola.–Unpolipo.Sí,unpolipoubriaco.
I due si prendevano apacchecomeidioti.
–Emenomalecheerolareginetta,–sbottòlei.
Astorrotolòaterra,glifaceva troppo male lapancia.
Anna li mandò a quelpaese e se ne andò incucina a rimettere inordine,sbattendoipiatti.Li sentiva parlottarenell’altrastanza.
– Ma che si èarrabbiata? – dicevaAstor.
Pietro non riusciva arimanereserio.–Misadisí.
–Perché?
– Le donne sono cosí.Poilepassa.
–Cosícome?–Permalose.– Che vuol dire
permalose?– Che si incazzano
facileseleprendiingiro.Miopadreeraunplayboye diceva che non c’èniente di peggio di unadonnaincazzata.
–Chièunplayboy?
– È un uomo che hatante femmine. E luidiceva che per avernetante bisogna fare deiregali.
– È per quello che haipreso la collana a miasorella?
–Certo.Anna gettò un
barattolo a terra e tornòin salotto furiosa comeuna leonessa. – Ah,
quindi mi hai dato lacollanaperchévuoitantefemmine?
Pietro deglutí senzariuscire a rispondere.Astor, accanto a lui, simordevaunpugno.
Anna indicò ilragazzinoconilmento.–Allora?Parla!
– No. Io no. Mio padreeracosí,iononlevoglio.A me basti tu. E la
collana te l’ho regalataperché è il tuocompleanno.
Lei lo osservòcorrucciata come secercasse di capire sestavadicendolaverità.–Ammettilo che vuoiessereunplayboy.
Pietro si portò unamano al cuore. – No. Telogiuro.
– Neppure io, –
assicuròAstor.Annaindicòlacucina.
–Allora,vistocheiosonola reginetta, schiavi,inginocchiatevi echiedete perdono, poipulitetutto.
Con un soffio lacandela si spense e unbuio denso comeliquirizia allagò la
stanza. Non una stella,unospicchiodiluna,unalucina in lontananza,soloilrumoredelleondeche si frangevano sulmolo.
Anna si sistemò ilcuscino e con il culospinse piú in là Astor,che le dormiva addosso.Pietro era immobile allasua destra, a pancia in
su,esottoillettorussavaCoccolone.
Era stanca, ma nonriusciva adaddormentarsi.Continuavaastringerelastella marina. Si girò suun lato, il materasso dilatticeaccolselasuaancaossuta. Sentiva Pietroprendere aria,trattenerla e buttarlafuori.
– Sei sveglio? – glisussurròinunorecchio.
–Sí.– Non riesci a
dormire?–No.Tu?–No.Anna gli si aggiustò
accanto alla spalla. – Achepensi?
– Ai cani. Che vivonoal massimo quattordicianni –. Rimase qualche
secondo in silenzio. –Comenoi.
Anna spinse un piedecontro un polpaccio diPietro.–Èvero…
– In quattordici annifanno tutto. Nascono,cresconoemuoiono–.Losentí tirare su con ilnaso. – Alla fine nonconta quanto dura lavita, ma come la vivi. Selavivibene,tuttaintera,
una vita corta valequanto una lunga. Noncredi?
La mano di Annascivolòsottolacopertaecercò quella di Pietro. Lastrinse,econilpolliceglicarezzòledita.
Anna schiuse lepalpebre in una pozza diluce. Pietro e Astor
dormivano uno con latesta sotto il cuscino,l’altro avvolto nellecoperte sul bordo delmaterasso.
Si alzò dal letto, sisgranchí le vertebre e sitrascinò in salotto. Preseil libro sulla pesca inapnea e sbadigliandouscísulterrazzo.
Un’altra giornatasenza vento, con il sole
che pulsava in un cieloazzurrosporcatoquaelàda poche macchiebianche. Il mare erapiatto e, se possibile, piútrasparente del giornoprima. Coccolone laraggiunse dondolando ilcapo, la coda che siagitava svogliata, e le sistrusciòcontro.
Anna sfogliò ilmanualetto sdraiata sul
lettino. Un capitolospiegava la tecnica dellacompensazione, cheserve a bilanciare lapressione dell’acquasull’orecchio per nonsentire dolore quando cisi immerge. Il trucco erasemplice: bastavatappareilnasoesoffiareforte.
– Andiamo? – disse alcane, che scodinzolò
felice.Fece la strada per la
spiaggia scortata dalmaremmano, che dietrouna macchina si trovòfaccia a faccia con ungatto nero. Contro ognileggedellafisicailfelinoschizzò sulla facciata diuna casa e si rifugiò suun terrazzino. Il cane,zampe poggiate sulmuro,guaivafrustrato.
Anna percorse illungomarecantandounacanzone che sentiva inmacchina quando lamamma laaccompagnava a scuola:– E vieni a casa mia,quando vuoi, nelle nottipiú che mai, dormi qui,te ne vai, sono semprefatti tuoi. Tanto sai chequassú male che ti vadaavrai tutta me, se ti
andrà, per una notte… 4
–Cominciòasaltare.–Nananaaaaa.
Il cuore era leggero, sisentiva pronta a pescareuna balena. Eraattraversata da unafelicità spumeggiante,tuttoleapparivabello,lebarche sfasciate, i restifatiscenti dei ristoranti,leautocopertedisabbia,le file di gabbiani
immobili sulla riva.Chiuse gli occhi e cercòdi immaginare comedovevaessereCefalúfinoa pochi anni prima. Ituristi che scendevanodai pullman con lemacchine fotografiche, itavoli apparecchiati contovaglie a scacchi, icameriericonlasalviettasul braccio e in mano lebistecche con l’insalata,
le orchestrine chesuonavano sullungomare accanto aineri che stendevano leloro borse suimarciapiedi. I pedalò sulbagnasciuga. I ragazziche giocavano apallavolosullasabbia.
Allargò le bracciacome se volessecontenerla tutta. Adessoè meglio. Cefalú adesso è
mia.Chidiqueituristi,diquei camerieri, di queiragazzi avrebbe potutodire altrettanto? Anchesolo immaginarlo? Sigirò verso il paesevecchio. La terrazza dicasa sua era baciata dalsole e la finestra dellastanza dove dormivanoAstorePietroluccicava.
– Allora, con me lo faiil bagno? – chiese a
Coccolone, ma il caneappena capí si allontanòinfondoallaspiaggiaesisedette composto aosservarla.
Annasisfilòmagliettaepantaloncini,simiselamaschera sulla fronte ein due pezzi si allungòsulla tavola da surf.Cominciòaremareconlebracciadirigendosiversoil cubo di cemento. Ci
mise un po’ a ritrovarlo.Infine le apparve dietrounanubedipesciolini. Ilpolpo non c’era piú, maera arrivata fin lí evolevaprovarelatecnicaspiegata nel libro. Conuna smorfia si gettònell’acqua ghiacciata.Gonfiò i polmoni e siimmerse. Appena sentímalealleorecchiestrinsecon le dita le narici e
soffiò. Le sembrò chel’aria le uscisse dagliocchi, poi una piccolaesplosioneneitimpanilaliberò dal dolore.Continuò a scendere nelblu mentre il freddo lestrappava il calore dalcorpo. Intorno il soleformavafascidilucecheunivano fondale esuperficie. Liberata dallaforza di gravità, volava.
Con movimenti lenti,quasi senzaaccorgersene, arrivò sulfondo. Lí la temperaturaera ancora piú bassa.Guardòinsueprovòunaspecie di vertigine. Lasuperficie del mare erauno specchio argentatoin cui galleggiava latavola da surf. Peccatoche Astor non ci fosse,sarebbe stato fiero di lei.
Per la pressione lamaschera le si eraappiccicata al volto e leorecchie ricominciaronoa farsi sentire. Il fiatostava finendo. Ripeté lacompensazione e veloceafferrò un piccolo sassocoperto di alghe comericordo. Si rannicchiò estava per darsi unaspinta con le gambequando scorse i due
occhigiallidelpolpochela spiavano da sotto unarocciaaccostatacontroilblocco di cemento.Rimase un attimoindecisa e pensò alfratello.Allungòlamanosottolapietra.L’animale,piú veloce di lei, si ritirònella tana. Anna infilònel buco mezzo braccio,sentendo con le dita lacarne viscida e fredda
della piovra, e provò adafferrarla, ma sembravaincollataallaroccia.
Ci hai provato. Tornasu.
Mentre ritraeva ilbraccio, intorno al polsolesiavvolseuntentacoloscuro e spesso come unacima. Mai avrebbeimmaginato che unessere molle, senza ossa,avesse il coraggio di
sfidare un uomo. Il librodicevacheeranoanimaliintelligenti, però eranopur sempre parenti dellecozze e delle lumache. Enon c’era scritto danessuna parte che eranopericolosi. Questipensieri leattraversaronoilcervellocome scintille esboccarono in un urlo.Unturbinedibollicinele
scivolò sul vetro dellamaschera. Era a corto difiato. Nel panico, afferròil tentacolo con la manolibera, provando astaccarlo, ma il polpo neavvolse subito un altro.Sputò quel poco di ariache le restava in ungorgoglio disperato. Lapressione dallo sterno leera salita in gola. Stavasoffocando. Cominciò a
dibattersi, a girare su sestessa e si ritrovò senzamascherainununiversosfocato dove tuttoapparivaescomparivainvampate scarlatte,spirali di bolle e nelrombo delle sue urla. Unfiottod’acqualeentròingolaegiúneibronchi,eilsuo organismo, privatodi ossigeno, cominciò aessere scosso da tremiti.
Peròqualcosadicoriaceole impediva di mollare,l’indomita volontà diesistere s’impossessòdelle sue membra e lefecepuntareipiedisullarocciaelaschienacontroil cubo di cemento. Siritrovò a tirare e aspingere forte come nonaveva mai fatto in vitasua. Una nuvola pigra disabbia si sollevò dal
fondo circondandola eun rumore ovattato sucui stridevanoscricchiolii di pietre leindicò che qualcosa sismuoveva, franava. Ilgrossosassosottocuieranascosto il polpo siribaltò. L’animale siritrovò esposto, e traroccia e braccia scelse lebraccia.
Anna cominciò a
risalire battendo legambe, ancheggiandocome un’anguilla conquell’essere addosso, chesi espandevaavvinghiandosialcolloealle spalle. La superficiesembrava allontanarsiinvecediavvicinarsi.Eradivorata dalla mancanzad’aria. Spinse fino aquando riemerse con unrantolo,ingoiandolavita
che le ossigenava ilsangue. Sputò acqua,tossí. Trattenendo labestia,cheadessovolevafuggire, si guardòintorno.
Ilsurfseloeraportatovia la corrente. Laspiaggia era lontana estringere tra le dita latesta viscida delmollusco le toglieva leforze.
Lascialoandare.Invece si girò sulla
schiena e cominciò anuotare a dorsorespirando con la bocca,sputando, sollevandoschizzi con i piedi,tenendo gli occhi serratieripetendo:–Uno,dueetre.Uno,dueetre.
Si accorse di esserearrivata quando strisciòle scapole contro il
fondo. Boccheggiando ebarcollando come unnaufrago, fece qualchepasso e crollò esausta, dipetto, sulla spiaggia. Labestia,all’aria,provavaaliberarsi con le ultimeenergie, ma lei non lamollava, soffocandolanella sabbia. Rimase conil cuore che le battevacontro il polpo,
gonfiando i polmoni,stupitadiessereviva.
–Sonounagrande,–siripetevabattendoidentiper il freddo. – Sono unapescatrice.
Non vedeva l’ora dicorrereamostrareaqueiduelasuapreda.
Coccolone le siavvicinò con la suaandatura indolente, laosservò e cominciò a
leccarle la faccia con lalingua larga come unasolettadiscarpa.
Quando capí che ilpolpo non si muovevapiúlosollevòperlatestaconduedita.Lamorteloaveva ridotto a una cosamisera, sporca, chesomigliava alla punta diun pennello immerso inun liquido gelatinoso.Prese dallo zaino una
busta di plastica e ce lolasciòcaderedentro.
Avevapersoilpezzodisopra del costume, maperfortunaavevaancorala sua stella che leciondolava sullo sterno.Lo stomaco e il senoerano striati di muco einchiostro. Si sfilò lemutande e fece tre passiverso la riva, poi sifermò. Sull’interno della
coscia destra le colavauna lunga striscia disangue scuro cheproseguiva fino alpolpaccio.
Misonoferita.Sott’acqua, quando
aveva combattuto perliberarsi, doveva essersigraffiata contro le rocce,manonfacevamale.
Forse è il sangue delpolipo.
Alzògliocchi.Suitettidel paese volteggiavauno stormo di gabbiani.Non li vide, il suosguardo sfocato siconcentrò suimuraglionidiroccia.
Ilpolipohailsangue?Allargò le gambe
affondando fino allecaviglie nella sabbiatiepida. Chiuse la manodestra,trannel’indiceeil
medio,nell’imitazionediuna pistola. Immerse ledita nella vagina eproseguí nell’umidonascosto del ventre, gliocchialcielolimpido.
Letiròfuori.Erano intrise di
sanguemarrone.
Camminavaspaventata, deglutendo
saliva che non c’era, pervicolo San Bartolomeo.Daunaspallalependevalo zaino e in manostringeva la busta con ilpolpo. Dal fondo deipantaloncini di jeanscontinuava a colarle unastrisciadisangue.
Doveva trovare i tubi,quelli che mammateneva nel mobiletto delbagno insieme a bustine
di pannolini piccoli,buoniperlebambole.
Inannidiesplorazionine aveva trovati amigliaia. Nei bagniaccanto ai medicinali oalle confezioni di cartaigienica,nellefarmacieenei supermarket, doveavevano addirittura unoscaffaletuttoperloro.Liaveva usati come torceimmergendoli nell’alcol,
a volte per pulirsi leferite, altre come fintisigari, come cannuccesvuotandoli del cotone.In tutti i modi trannequellogiusto.
Di sicuro Pietro eAstor si erano svegliati eprobabilmente sistavano chiedendo dovefossefinita.
Nondovevanovederlacosí.
Girò al primo angolocon Coccolone che laseguiva al passo. SidiresseversolafarmaciaMuzzolini, accanto alDuomo. La vetrina erasfondatadalmusodiunaRange Rover Sport.Scavalcò il cofano edentrò. I muri eranorivestiti da una boiseriedimoganoesugliscaffalic’eranodeivecchivasidi
terracotta bianchi eazzurri. A terra, tra gliespositori rovesciati,trovò delle confezioni diassorbenti. Prese iTampax,quellicheusavala mamma. Le istruzionidicevanodirilassarsiedinonesseretesequandosiinseriva l’assorbente laprimavolta.
Si sedette sul musodella macchina e se ne
infilò uno, sorpresa chefosse cosí facile e pocodoloroso. In unaboutique si pulí con unamaglietta e indossò deipantaloncini scuri e unacamicia a righe che learrivava alle ginocchia.Tornò verso casa un po’sollevata. Avere unascatola di assorbentinello zaino le davatranquillità.
Era stupita che lemestruazioni fosseroarrivate all’improvviso,senza dolore. Mammaquando aveva «le suecose» stava male edoveva prendere unamedicina. Chissà, forseera colpadell’immersione, cheaveva cambiato qualcheequilibriodelsuocorpoeaveva rotto una sacca
nascosta nel suo ventre,come quelladell’inchiostro del polpo.E non era strano che lefossero venute proprio ilgiorno dopo il suocompleanno?
All’hotel aveva vistoragazzi della sua età,spesso anche piú piccoli,già coperti dalla Rossa.Tutti, osservandola, sistupivano che avesse le
tette, i peli e nemmenouna macchia. All’inizioaveva cercato di nonpensarci,eppureapocoapoco si era insinuata inlei la fantasia di esserediversa, speciale.Intuendo che quellasperanza era la stessa dichi precipita e spera chegli spuntino un paio diali, ogni volta lascacciava. Ma si sa, le
illusioni sbocciano comefiori avvelenati in chi hailfuturocorto.
Riflettendoci ora, conqueltuboinfilatodentro,si sentiva un’idiota. Erauguale a tutti gli altri.Anna ricordò quello chela mamma aveva scrittoin fondo al capitolodedicatoall’acqua.
Quando sei assetata
non sperare che piova.Ragiona e cerca unasoluzione. Chiediti: doveposso procurarmidell’acqua potabile? Èinutile sperare di trovareuna bottiglia in undeserto. Le speranzelasciale ai disperati.Esistono le domande edesistono le risposte. Gliesseri umani sono capacidi trasformare unproblema in unasoluzione.
Immersa nei suoipensierisiritrovòinunapiazzetta che affacciavasul mare. Sedette su unapanchina e distrattacominciò a carezzareCoccolone.
Doveva ragionare.Avere il sangue nonsignificavaniente.Primadelviruslemestruazioniindicavano che il corpoera pronto a fare figli,
solo dopo l’epidemiaerano diventate ilsegnale che stavi permorire. Non dovevascambiare il sangue perlaRossa.
Quindi non è detto chenonseiimmune.Smettila.Nonricominciare.
La cosa certa era chepassava del tempo tra ilsangue e l’apparizionedelle macchie. A volte
poco, a volte molto. Inognicasoabbastanzaperarrivarenelcontinente.
Messina non eralontana. Una settimanadi cammino. E neanchela terra dall’altra partedel mare, stando allecartine, sembrava moltodistante. Nessunosapeva che cosasuccedeva oltre loStretto. La Sicilia era
un’isola abitata da pochisopravvissuti e incinque, sei anni almassimo sarebberorimasti solo animali epiante. Forse il resto delpianetaavevasconfittoilvirus.
Cefalú era un belposto, ma ci sarebberomorti.
Controllòdinuovochei pantaloncini nonfossero macchiati, preseun respiro ed entrò nelgarage.
Idue,nellapenombra,trafficavano con labenzinaversandolanelletaniche.
– Prendimi l’imbutoche sennò va tutta fuori,–stavadicendoPietro.
Astor si alzò e vide in
controluce la sagomadella sorella. – Dov’erifinita? – Non le diedenemmeno il tempo dirispondere che corse aprenderesultavolodegliattrezzi un grossoimbutoblu.
Anna sollevò la busta.–Sorpresa!–Nessunodeiduesigirò.–Oh!Miavetesentito? Ho unasorpresa.
Astor diedeun’occhiatanellabusta.–Il polipo. Lo hai preso.Brava–.Lotiròfuorielorimise subito dentro. –Lo guardo dopo. Stiamofacendopartirelamoto.
Anna si appoggiòcontrolamacchina.
Pietro, concentrato,tendeva le labbra inavanti come se stessesucchiando da una
cannuccia. I capelli glicadevano a ciocche sullafronte. Una lama di luceglifinivasulcollo.Vicinoallanucaeraabbronzato,ma sotto, dove eracoperta dalla maglietta,lapelleeracolorlatte.
– Allora come va conquestamoto?–domandòAnna, cercando dimostrarsiinteressata.
– Devo pulire il
carburatore e cambiarela candela –. Il ragazzinopreseunatanicaeconunimbutotravasòunpo’dibenzinanelserbatoio.
Anna lasciò passarequalche secondo. – Ilpolipo potremmomangiarlo con i piselli.Oppureconipelati.Maacasa non ce ne sono piú.E bisogna fare un fuocosulterrazzo.
– Ok. Vai tu, – dissePietroposandol’imbuto.
Annaguardòfuoridalgarage. Si era svegliataall’alba, era uscita insilenzio per nonsvegliarli, era quasimorta combattendo conquel cazzo di polpo e leerano venute lemestruazioni.
Il ragazzino si voltòverso di lei. – Devo
controllare i freni –. Gliocchi nocciola, screziati,toglievanoalvoltounpo’di serietà e gliaggiungevano qualcosadi incerto. Era come senon credesse granché aquellochediceva.
– Bravo, – gli risposelei con un sorrisettosarcastico.
Pietrononlonotò,oloignorò. – Mi sa che la
candela è sporca, è perquello che non parte e…– Smise di parlare e lasquadrò piegando ilcapo.
Anna s’irrigidí e sicontrollò i pantaloncini.–Perchémiguardi?
–Haiunacamicia.–Chec’è?Nonvabene,
nontipiace?– Non ti avevo mai
vista con una camicia –.
Poi cominciò a rovistaresulbancodegliattrezzieprese un martello. Astorintanto si era messo alucidare la carrozzeriadel sidecar con unostraccio. Era la primavolta che suo fratellopulivaqualcosa.
– Io vado a casa –. Sigirò e fece due passi, maarrivata alla saracinesca
si fermò. – Domanipartiamo.
Pietrosgranògliocchi.– Domani? Non so seriesco a far partire lamotoperdomani.
– Affari tuoi. Se ciriesci,bene.Sennòsivaapiedi.Comesempre.
– Ho capito, oggi seiarrabbiata…
Laragazzinasollevòlebraccia.–Arrabbiata?Per
niente.Èsolochesipartedomani.
Il ragazzino poggiò discatto il martello sulbanco. – Perché deciditu?
–Perchéècosí–.Annastrinse i pugni. – Se nonti va bene… – Nonconcluselafrase.
Astor pestò i piedi. –MaAnna…–Lesiappeseaunbraccio.–Perché?
–Perchéhodecisocosí–.Eseloscrollòvia.
Il bambino, con unoscatto di nervi, mollò uncalcioaunmotorinochecadde in un fragoremetallico.
Anna esplose.Strillandolanciòlabustacon il polpo che con unosciac si spiaccicò tra lescapole del fratello che
cadde in ginocchio,frignando.
AnnafeceunfischioaCoccolone e uscí dalgarage.
Entrò in casasbattendo la porta, andòsul terrazzo e si sdraiò abraccia incrociate sopraun lettino, continuandoa parlottare tra sé. Poi,
sbuffando, si strappò didosso quell’orrendacamicia. Si sfilò ipantaloncini, tirò fuoril’assorbente zuppo disangueelolanciòoltrelaringhiera. Ogni quantodoveva cambiare queglistupidi cosi? Se ne miseun altro, lacrimando difrustrazione.
Voleva ucciderePietro. Lei era attenta a
ogni suo minimocambiamento d’umore elui non si accorgeva diniente. L’aveva guardataappena. Se n’era fregatopuredelpolpo.
– Basta. È tutto finito,– disse a Coccolone chedormivanellasuaserenaincoscienza.
Sitrascinòfinoallettoe ci crollò sopraabbracciando il cuscino.
Si concentrò sul rumoredel mare e del vento trale foglie dei limoni,aspettando il sonno chenonarrivava.
Si risvegliòall’improvviso. ChiamòPietro e Astor, ma nonrispose nessuno.Coccolone era sul letto,con la testa sul cuscino.
Lospinseviaarricciandoil naso: – Madonna comepuzzi.
Gli infissi vibravanospinti dal maestrale. Unfronte di nuvoloni bassie lividi si era avvicinatoalla costa avvolgendo ilsole.
–Perchénontornano?– chiese al cane, che sigrattòilcollo.
Al garage aveva
esagerato e adesso sisentiva in colpa. Lamano le andò alla stelladi mare. La strinse nelpalmo.Chiusegliocchieritornò alla nottepassata, a quandoavevano dormito strettiunoall’altra.
Unavampatadicalorelanguido le risalí il pettoelestrozzòilrespiro.
I maschi tornarono acasa che il sole era giàtramontato, carichi dibarattoli di pomodoroche, tutti soddisfatti,lasciarono cadere suldivano.
– Questi qui vannobene per il polipo? –Pietro aveva in mano labustacondentrolapallaviscida.
– Sí! Certo! Benissimo!
– Anna continuava adapplaudire come unacretina, voleva farsiperdonare. – Dobbiamocuocerlo, però. Facciamounfuocointerrazzo.
Le iridi di Pietrorifrangevano la luce,sembravano quelle diuna bestia selvatica, manoneraarrabbiato.Forseconluipotevafarfintadiniente, ma c’era
qualcunoconcuidovevascusarsi.
Astor giocava interrazzo con Coccolone.Gli si avvicinò alle spallee gli sussurrò. – Seiarrabbiato?
Lui si voltò. Qualcosad’infantile negli occhiazzurri si era perso,sostituito da una serietàadulta.
Impacciata,glipresele
mani.–Midispiace.Ilfratellosigettòfrale
sue braccia. Tra i tantidifetti che gli avevatrasmesso non c’era ilrancore.
Comeunacagnaconilsuo cucciolo, si strinseforte a quel piccolettopelleeossa,eloconsumòdi baci, sul collo, sullafronte, finché lui
cominciò a non poternepiú.
– Che c’è? Non tipiacciono i baci?Preferisciimorsi?–Glisigettò addosso e gliaddentò un braccio.Astor spalancò il suosorriso sgangherato.Mentre lei gli faceva ilsolletico premendogli ipollici nei fianchi, lui lacolpiva sulla schiena
sghignazzando. La lottaimprovvisa eccitòCoccolone, che siavvinghiò al culo diAnna ondeggiando ilbacino. Lei gli mollò uncazzotto e ilmaremmano,conlacodafra le zampe, scappòdietroivasidilimone.
I due fratelli rimaserostesi sul pavimento dimaioliche a guardare le
stelle. Sembravano cosívicine che se allungaviuna mano poteviprenderleemetterteleintasca.
– Allora lo facciamo ono questo fuoco? – Latesta di Pietro coprí ilcielo. In mano stringevauna tanica mezza piena.Accatastarono sedie elettini, li innaffiarono dibenzina e accesero.
Subitosialzaronolinguerosse e azzurre, semprepiúalteescoppiettantidiscintille. Presidall’entusiasmotrascinarono fuori imobili del salotto e ligettarono nelle fiamme.Il fumo annerí le vetratedell’attico e invasel’appartamento. Presto ilfuoco si consumò inbrace.
– Buttiamoci sopra ilmaterasso! – proposeAstor.
– No. Quello no! – glirisposero in coro Anna ePietro.
La ragazzina aprí labusta con il polpo e unazaffata le riempí lenarici. Si era sempreconsiderata una espertadi puzza, era cosíabituata al tanfo di
carogna che oramai nonlo sentiva piú, ma quelloproprio non losopportava.
– Fa schifo? – chiesePietro.
Anna sollevò le spallee frullò la busta oltre ilbalcone. Il mostrotentacolare che per poconon l’aveva ammazzatavolò nella notte e si
spiaccicò sulla spiaggianonlontanodalTampax.
Scaldarono in unagrandepentolaipelatieipiselli, girandoli a turnoe facendo a gara a chiresisteva di piú vicino alcalore. Quando la zuppafuprontaselaversarononeipiatties’ingozzaronodi quella sbobba calda,un po’ insipida mabuona.
Né Pietro né Astor leavevanodettonulladellamoto e Anna morivadallacuriosità.–ComevaconlaVespa?–buttòlí.
Pietro passò il dito sulbordo della pentolarecuperandogliavanzi.–Insomma. Per un attimoèpartita,poisièspentaenon c’è stato verso dirimetterlainmoto.
– Be’, riprovaci
domani.Il ragazzino si bloccò
con l’indice sporco disalsa. – Ma come? Nonvolevi partire? Hai fattotuttoquelcasino…
–Ungiornoinpiúcheci cambia? Ed è vero chepotremmo arrivare aMessinapiúveloci.
Astor si picchiòl’indice sulla tempiaguardando Pietro e
carezzò Coccolone chespalancò le fauci in unosbadiglio.–Elui?
I tre si feceropensierosi.
– I sonniferi! – disseall’improvviso Anna. –Lamammahascrittochealcuni sonniferi possonostenderti pure per ungiorno. Glieli diamo,aspettiamo che siaddormenti e lo
mettiamo sulla moto. Equando si sveglia siamoaMessina.
Pietro non era moltoconvinto.
–Funzionerà,vedrai,–lorassicuròlei.–Domanivado a cercarli infarmacia. E sennò apiedi.
– A piedi… – ripetéAstoraffranto.
Senza piú parole,
stanchi, con tanti dubbi,rimasero in silenzio, gliocchifissisullabracechepulsava.
4Versitrattidallacanzonedi Mia Martini Minuetto (F.Califano/D.BaldanBembo).
piú calda e serena diquella appena passata. Afesteggiarla ci si eranomessipureicolombichetubavano nella pinetinadietroiristoranti.
Anna, seduta sullaspiaggia, indossava unnuovo reggiseno abalconcino azzurro conal centro un vezzosofiocchetto bianco. Eratroppo grande per lei e i
seni ci stavano dentrocome palline di gelato inuna coppa. Sotto si eratenutaipantaloncini.Gliassorbenti facevano illorodovere,mailsanguenon sembravaintenzionatoafermarsi.
Un grosso mosconenero fuori stagione lacolpísullafronteecaddetramortito, continuandoa vibrare nella sabbia.
Annapresedallozainoilquaderno, se lo poggiòsulle cosce e cominciò asfogliarlo cercando ilnome del sonnifero dadareaCoccolone.
Era la prima volta chelo apriva da quando loavevarecuperatoaTorreNormanna.
Non ne aveva maiavuto bisogno durante ilviaggio. Lo conosceva a
memoria e tante cose diquesto mondo lamammanonerariuscitaaimmaginarle.
Trovò la pagina cheparlava dei sonniferi.Diceva che erano: ilMinias…
Gli altri nomi si eranosbiaditi in una macchiad’acqua.
Aveva poche speranzedi trovarli in farmacia. I
sonniferi erano stati frale prime medicine ascomparire, ma tentarenon costava niente.Continuò a scorrere ilquaderno e arrivò sulleultime pagine ancoravuote. Fissò l’orizzontecon il vento che lescompigliavaicapelli.
E se ci scrivessi anch’ioqualcosa?
Fu una specie di
rivelazione. Prima diquel momento nonaveva mai nemmenoosato immaginare unacosa del genere. Quelloera il quaderno delleCose Importanti che lamamma, prima diandarsene, aveva dato alei.
EcheiodaròadAstor.Contò le pagine
bianche. Erano
trentadue. La mamma cisarebbe rimasta male seciavessescrittolei?Fissòle nuvole, prese unamatitaecominciò.
ILMAIS
Astor non mangiare ilmais, quelle palline gialleche ti fanno male e caghitutto il giorno. Te loscordisempre.Ilmaisperfavore lascialo perdere.Tuttoilresto…
–Anna!Laragazzinasollevòlo
sguardoevideCoccolonegalopparesullungomareseguito da suo fratello. –Anna!Anna!
Rimise il quadernonello zaino e gli andòincontro, primacamminando, poicorrendo.
Astorsifermòdavantialeipiegatodallafatica.
– Che succede? – glichieseAnna.
–Pietro…–Ilbambinosi mise una mano sulpetto. – Pietro è riuscitoad accendere la moto. Èpartita!
Da qualche parte, nelpaese vecchio,rimbombava un motore.Le sembrò che fossepassatosoloungiornodaquando sentiva le moto
sfrecciareatuttavelocitàsulla strada oltre ilbosco.
– Vieni, – disse Astorriprendendoacorrere.
Anna gli andò dietro,seguitadalcane.
Dalle case apparvePietro sulla Vespa. Conquelcarrozzinoattaccatoeragrossaeingombrantepoco meno diun’automobile.
Il ragazzino avanzavalento,cercandodievitarela sabbia che ricoprivaampi tratti dellacarreggiata.
Li raggiunse davantial ristorante La lamparaefrenòaccantoairestidiun gozzo da pesca. Ilsidecar sussultò e ilmotoresispenseconunostocviolento.
–Nonsousarebenele
marce –. Pietro era tuttosudato, con il viso rosso,e sotto le ascelle lacamiciaavevaduegrossialoniscuri.
– Incredibile… –mormorò Anna girandointorno al sidecar. Erabellissimo, azzurro congli specchietti cromatiche scintillavano sotto ilsole. Sul carrozzino c’eraunascritta.«Forhire».
Pietroeraentusiasta.–E funzionano le luci,possiamo viaggiareanche di notte –. Scese ediede un colpo forte allaleva d’accensione. Ilmotore, ubbidiente,ricominciò a borbottare.–Visto?
– Bravissimo, –applaudíAnna.
Astor zompettavafelice.
Pietro fece unsorrisetto ammiccante. –Di’ la verità, non credevichecisareiriuscito.
– Sí che ci credevo.Soloche…
–Cosa?–Èstrano.Tuttoqua–.
Anna passò una manosullacarrozzeria.
– È una Vespa 125,quattromarce.Sicambiagirandolamanopola.
Astor saltò sul sellinoe si aggrappò almanubrio tutto eccitato.– Ci andiamo? Ciandiamo?
– Sí, ma dobbiamoportarla fuori dallasabbia.Aiutatemi.
I due fratelli, a testabassa, spinsero da dietromentre Pietro guidavasedutoinpizzoalsellino.Il sidecar sprofondava e
si spegnevacontinuamente.
Arrivaronostravoltidifatica all’imbocco di unastrada che saliva drittaverso le colline. Appenala ruota posteriore toccòl’asfalto, la moto partíslittando e schizzandopietrisco, scortata dalcane che abbaiavatentando di mordere legomme.
– Coccolone! – urlòAnna.–Vieniqua!
Pietro sorrise eaccelerò con ilmaremmano allecalcagna.
Annaerasenzafiato.–Quel cretino diCoccolone non ci saliràmaisuquelcoso.
Il sidecar avanzòincerto facendo il peloalle macchine
parcheggiate ai lati, poi,in qualche modo, Pietroriuscí a domarlo, loriportò al centro dellastrada, rallentò eaffrontò un tornantescomparendo dietro lacurva.
Anna e Astorascoltavano il rombofarsi sempre piú fievole,finchétornòilsilenzio.
– Se n’è andato? –
domandòAstor.Anna sollevò le spalle.
–Nonloso.–PureCoccolone?– No, quello torna di
sicuro.Passato qualche
minuto sentirono dinuovo il motore sgasaree trenta secondi dopo ilsidecar riapparveprendendo velocità giúperilrettilineo.
Anna e Astorsollevarono le bracciacome se festeggiasserol’arrivo del vincitore diunacorsa.
Pietrofilavaindiscesaattaccato al cicalino, alcentro della carreggiata,ma all’improvvisosuccesse qualcosa. LaVespa sterzò a sinistracome se fosse statainvestita dal soffio di un
giganteinvisibileesenzarallentare,senzafrenare,senza ragione, finícontroilmarciapiede.Lacarrozzina si staccòsfasciandosi contro ilmuretto di pietra chefiancheggiava la strada.Lo scooter e il ragazzinofurono proiettati in ariae, roteando, sparirononella scarpata in un
boato di lamiera che siaccartoccia.
Il tutto durò meno ditresecondi.
Anna e Astor sisporsero ansimando dalmuretto.
Un salto di tre metrifiniva su uno sperone diroccia coperto di fichi
d’India,piantedicapperiespazzatura.
La carcassa dellaVespa era accanto alciglio che si affacciavasullaspiaggia.
– Dov’è Pietro? –domandòilbambino.
– Deve essere finito disotto –. Anna sentí ilsangue fluire giú nellegambe ed ebbe paura disvenire. Cadde sulle
ginocchia e rigettò i cecimangiatiacolazione.
Astor si sporse inavanti. – Mi sembra divederlo.
Anna si pulí la boccacon la mano. Le giravatutto, ma riuscí abalbettare:–Dove?
–Sottolamoto.La ragazzina provò ad
alzarsi, le gambe non la
sostenevano. – Vai avedere,mastaiattento.
Il bambino sceseaggrappandosi a rocce ecespugli. Arrivato sullosperone s’insinuò aquattro zampe tra i fichid’India e si avvicinò allaVespa.–Èquisotto.
Laragazzinasollevòlatestaesitiròsu.
Il cielo era ceruleo. Lenuvolette bianche. Il
mare grigio. La spiaggiagialla.Losfondoserenoeindifferente che non eramaicambiatodaquandoerano arrivati. Annaebbe la certezza chenascondesseilmale.
–Èvivo?–Nonloso.Mentre scavalcava il
muretto combattendo lanausea, vide Coccolonealla sua destra. Guaiva e
si dondolava in avanticercando il coraggio persaltaregiú.
– Ti prego, – losupplicò. – Stai buono.Staifermolí.
Il cane ubbidí e siacquattògemendo.
La ragazzinas’intrufolò tra le paledelle piante grasse.Astor, seduto accantoalla Vespa, si mordeva il
pollicefissandoilbracciodi Pietro che spuntavadalle lamiere, la manoadagiata su unbottiglione annerito divarechina. Il resto delcorpo era nascosto dallacarcassa. Il vento si eraquietato e il silenzio erarottosolodaimugoliidelcane.
– Dobbiamo tirarlofuori, – disse al fratello,
ma spostando lo scooterc’era il rischio dischiacciarlo. – Haicapito? – Si girò versoAstor, che fissava ilvuoto imbambolato. –Svegliati,cazzo!Aiutami!Prendigli la mano ereggilomentreiosollevolamoto.
Il bambino, come unautoma, strinse il polso
diPietroconentrambelemani.
– Non lo mollare. Nonlomollaremai.
Anna afferrò la codadella Vespa e fece forzasulle gambe. Riuscí atirarla su di una decinadi centimetri, madovette riabbassarla.Troppo pesante. Ciriprovò. Niente, eraincastrata da qualche
parte. Si sedette, poggiòla fronte sulle ginocchiae sussurrò. – Non ce lafaccio.
Perché gli avevapermesso di aggiustarela moto? Era stata lei adirgli: «Be’, riprovacidomani». Sarebbebastato un: «Mi dispiace,si va a piedi». Quattroparole diverse e adesso
sarebberostatiinmarciaversoMessina.
Fissòleduetorrigialledella cattedrale. –Dobbiamo sollevarla indue. Io dietro e tudavanti.
Al primo tentativoriuscirono a spostarla dipoco. Apparvero unaspalla e un fianco diPietro,lacamiciaarighe.Non c’era sangue. La
seconda volta Astorcambiò un po’ la presa eAnna tirò con un urlodisperato. Lo scooter sipiegòsenzaribaltarsi.Laragazzina si allungòreggendolascoccaconlebracciatese.–Astor,qui.Vieniqui.Veloce.
Il bambino lasciò ilmanubrio e le si miseaccanto.
– Al tre spingiamo.
Chiudiamo gli occhi espingiamo. Pure se glifacciamo male nonimporta. Tu spingi ebasta –. Lo fissò negliocchi azzurri. – Come sefossi il piú forte delmondo,vabene?
Astorfecesegnodisí.–Uno…Due.Tre!Lo scooter si ribaltò
portandosi dietro unanuvola di terra e fichi
d’India e precipitò sullaspiaggia con unfrastuonometallico.
D’istinto Annaabbracciò Astor e se lopremettecontroilpetto.
Pietro giaceva abraccia spalancate. Latesta, piegata da unaparte, affondava trastracci e sacchetti diplastica. Sotto leginocchia i pantaloni
erano zuppi di sangue.Una caviglia si eradisfatta, trasformata inun miscuglio di calzini,ossa e carne. Da ungomito usciva unospunzonediossorosato.
Anna si inginocchiò egli avvicinò l’orecchioallabocca.
–Èvivo.Tre giorni dopo era
morto.
Anna in quei giornitentò di portare Pietrosullastrada.Preparòunascala e delle corde, maappena provava amuoverlo lui lanciavaurla disperate e tremavacome se fosseattraversato dallacorrente elettrica. AlloraAnna s’impauriva e siritraeva.
Abbatterono i fichi
d’India, accesero unfuoco e facendoattenzione lo stesero suun materassinogonfiabile. Anna gli apríconilcoltelloipantalonie la maglietta. Un lividoscuro partiva da sottol’ombelico, gli copriva lostomaco e scendeva suun fianco. Sul sedere esotto le ascelle, comeavevasospettato,c’erano
le macchie scarlatte delvirus.
Il ragazzino giacevaincosciente, bruciatodalla febbre. Quandoprovavano a farlo bere,sputava l’acqua comefosseveleno.
La notte cominciò aurlare.
Nel buio pesto,scortata da Coccolone,Anna attraversò i vicoli
bui di Cefalú in cerca dimedicine. C’era rimastopocoonienteneicassettidelle farmacie. Cremeperlapelle,deodorantiescatole mangiate daitopi. Scovò una boccettadi melatonina, dellaTachipirina e degliantibiotici, ma nienteper alleviare lasofferenza.
Il giorno dopo Pietro
sprofondò in undormiveglia ansimanteda cui riemergevastrillando, come seondate di dolore gli sifrangessero addosso.Continuava a ripetereche aveva freddo,neppure il fuoco e lecoperte riuscivano ascaldarlo.
La mattina successivadal mare grigio come
una pietra uscí un solepallido e freddo. I duefratelli dormivanorannicchiati accanto alragazzino, che avevapersoisensi.Ilsanguesiera coagulato in unimpasto nero e densocome pece che loincollava alla tela delmaterassino.Lamacchiaviolacea sul ventregonfioerascuraecalda.
A metà giornatacominciò a delirare. Cel’aveva con un certoPatrizio. Diceva chedoveva smetterla discrivere, che il rumoredei tasti lo facevaimpazzire.
– Adesso glielo dico, –lo rassicurava Anna,sollevandogli la testa. –Losenti?Hasmesso.
Unasmorfiaditerrore
irrigidiva la bocca diPietro, che con occhighiacciati fissava il cielospento come se su di luialeggiasse qualcosa dispaventoso.
Anna corse di nuovoalla farmacia e aprendotutte le scatole delmagazzino trovò dellecompresseedellefialedainiettare, ma non lesiringhe. Gli versò il
liquido tra le labbrascrepolate e tentò dicacciargli in bocca unamanciata di pillole, maluitenevaidentiserrati,quasi volesse farle undispetto. Ci riprovò piúvolte, senza riuscirci,allora lanciò in aria lecompresseepreseacalcibarattoli e fichi d’India eurlando sradicò gliarbusti. Astor le si
aggrappò alle gambe,supplicandola dismettere.
A quattro zamperecuperarono lemedicine e glieleinfilaronoinboccaunaauna finché si quietò. Ilsuo volto si distese esprofondò in un sonnopesante.
IlterzogiornoAnnafurisvegliata dalla voce di
Pietrochelachiamava.–Anna…Anna…
Uscí dalle coperte, glisi inginocchiò accanto egli prese la mano. –Eccomi.Sonoqua.
Il ragazzino strizzò lepalpebre come se avesseun faro puntato negliocchi, sollevò appena lanuca e la fissò con losguardocieco.–Laruota.Si è bloccata. Ho
provato…–Unattaccoditosseglisquarciòilpettoe sputò un grumo disangue scuro. Le tastò ledita cercandola nelletenebre.–Devitrovarelescarpe.
Anna si asciugò lelacrime e gli carezzò lafronte sudata. – Sí, letroverò.
–Devitrovarle,capito?Tisalveranno.
– Capito. Adessoriposa.
Le parole di Annasembraronorassicurarlo,forse un sorriso gliincrespò le labbra e perqualche minuto rimasein silenzio, poi parlò aocchi chiusi. – Anna…prendiduebuste.
–Perfarecosa?– Due buste. Senza
buchi.
LEDUEBUSTE
A Vita, un paesinodell’entroterratrapanese, in viaAleramo, sorgeva unapalazzina modernacircondata da ungiardinetto di alberi dafrutto, proprietà dellafamiglia Lo Capo. Apiano terra viveva la
signoraCostanza,vedovadi Domenico Lo Capo,proprietario diun’impresaedilemortoasessant’anni per uninfarto fulminante. Alprimo piano abitavaLaura,lafigliamaggiore,madre di Pietro,divorziata da MauroSerra, meccanico dellasquadra corse Ducati. Ilsecondo piano era diviso
in due appartamentioccupati dalle altre duefiglie,AnnaritaeCeleste.
Annarita, la piúgiovane, studiavaArchitettura. Celesteavevasuperatodaunpo’i trent’anni, era single eaveva una bottega diceramica in centro. Lagente diceva che Celestenon fosse né carne népesce, una di quelle
creature a cui il sessonon interessa,indipendentemente dalgenere. Di Annaritainvecesimormoravachefosse lesbica e chel’università fosse unascusa per andare aPalermo dove aveva unafidanzatachelavoravaincomune. Chiacchiere dipaese.
Stadifattochedopola
mortediDomeniconellapalazzina di via Aleramovivevanosoltantodonnedevote a Pietro, unpiccolorecoccolatodallezieeviziatodallanonna.
Solo un altro maschioaveva il permesso disoggiornare nel gineceo:Mauro, il padre delbambino. Il meccanico,sempre in giro per ilmondo, trovava un
week-end al mese e duesettimane d’estate pertornare dal figlio e dallaex moglie, che insiemealle sorelle lo mettevaall’ingrasso con piatti dicaponata senza troppoaceto,fritteddaecannolicon la ricotta di pecora.In quei giorni la stella diPietro si offuscava ebrillava quella di suopapà.
Mauro Serra era alto erosso di capelli, con gliocchiazzurrieunabarbafoltachegliincorniciavail viso. Si vestiva concamicie di flanella e aipiedi portava stivalitexaniapunta.Lesorellesostenevano che fossesputato a RobertRedford. E come l’attoreamericano era un
fimminaro di primaclasse.
Quando le tre, ladomenica, si piazzavanodavanti al gran premio,cercavano di indovinarechi delle ragazzeombrello accanto aimotociclisti Mauroavessesedotto.
– Una a ogni gara, –sbuffava Laura,servendolaparmigiana.
LauraLoCapoeraunabella donna, scura dipelle e con due occhicolorcarbone,madopoildivorzio aveva presopeso e lasciava che laricrescitalechiazzassedibianco la radice deilunghicapelli.Chiamaval’exmaritoilplayboy,mainvece di esserne gelosane andava fiera. – Puoiimpedire a un leone di
smettere di cacciare? Lodevi chiudere in gabbia.Io non me la sento. È undelitto contro il sessofemminile –. Il fatto chelei fosse l’unica leonessacon cui Mauro avevaavuto un figlio lainorgogliva e le bastava.Erasufficientechenonsidimenticasse di Pietro eche le portasse dai suoiviaggi le calamite da
attaccare al frigo. Anchele sorelle minorisubivano il fascino delcognato,eognivoltachetornava si vestivano,s’impupazzavano egiocavanoachieralapiúseducente. Il sogno divivere in un haremspartendosi i favori delmeccanico regalava alleduesferzatedilibidine.
– Allora, visto che gli
sonopiaciutiicannelloniche ho preparato con lemie manine sante,stanotte il playboy sicurca da me, – diceva lapiú piccola, perdendoognitimidezza.
– Che se ne fa di unasicca sicca come a te? –replicava Celeste. – Iosono la… come si diceMauro? La Milf –. E
faceva il gesto disostenersilegrossetette.
– Dài… Se vi stringeteci entrate tutte nel letto.Tantoloso,Maurino,checerte cose le fai, – urlavaLaura accaldata mentresciacquavaipiatti.
Eccitate come liceali,le donne scoppiavano inrisatine nervosesentendositrasgressiveemoderne.
Il meccanico già sivedeva in pensione, ingrazia di Dio, con le treche lo servivano e loriverivano come un rebabilonese.
AncheilpiccoloPietrocrebbe nel mito di quelpadrebelloespecialechegli portava magliette egadget della Ducati.Rimaneva ore nellarimessa a guardarlo
mentre rimetteva aposto una vecchiaLaverdaJota.
Nellegiornatedisoleidue si allungavano finoal mare, il piccoletto acavallodelserbatoio.
Insomma, tuttoandavaperilmeglio,macome in ogni trama chesi rispetti accadde unfatto che scombussolòl’armonia della famiglia
LoCapo.AviaAleramosipresentò PatrizioPetroni, il nuovofidanzato di Annarita.Romano. Stazzasuperiore al quintale.Basso e largo, uno chefacevi piú in fretta asaltarlo che a girargliintorno.Uncascodiriccineri incollatopocosoprailmonociglio.Occhialidavista con la montatura
pesante sul nasone apatata. Il ventre gonfiotraboccava daipantaloncini da surfappesiallechiappebassee i polpacci, tondi comefusi di tacchino,spuntavanodirettamente da un paiodiscarpedabasketnere.
Annarita era restia aparlare di come si eranoconosciuti, ma da
qualche particolare siintuiva che Facebook ciavevamessolozampino.Patrizio, con la suaparlata strascicata delPrenestino, spiegò allesorellecheluieAnnaritasi amavano da sempre,praticamente dal BigBang.Inquestaesistenzaeranofinalmenteriuscitia congiungersi dopo
migliaiadivitepassatearincorrersi.
– Quei due stannoassieme come u paniduru e u cuteddu ca nuntagghia, – commentòsconsolata la vecchiaCostanza.
– Patrizio resterà quiper un po’, deve finire ilsuo romanzo, – spiegòAnnarita alle sorelle che
la ascoltavano con lamascellacaduta.
Lo scrittore si piazzòin casa della fidanzata etrasformò il salotto nelproprio studio. E inmeno di una settimanariuscí con poche mosseprecise a farsi odiare datuttalafamiglia.
A Pietro non piacevaperché gli fregava iKinder Bueno. La nonna
sosteneva che quello eraentrato di fino e si eramesso di lasco. Laura lodetestava perché dicevache era zozzo e bruttocome la peste. E Celesteperchéavevaraggiratolasorellache,poverina,eraun poco leggera dicervello.
Patrizio era sensibilealle occhiatacce dei LoCapo come un bufalo al
morso di un pappatacio.Si sedeva a tavola es’ingozzava, poi sisbracava sul divanoabbracciato allafidanzatina guardandointvlegaredibarbecue.Per il resto passava iltempo a scrivere. Ilrumore dei tastirimbombava per le scaledella palazzina giorno enotte. Usciva
dall’appartamento dirado, per andare inrosticceria a comprarecartate di patatine fritteekebab.
In un campoabbandonato, Celeste eLaura tennero unariunione carbonara doveelaboraronounpianopersbattere fuori il Cessoinfinito (questo era ilsoprannome che si era
guadagnato) senza feriretroppo la sorella. Fustabilito che spettava aMauro il compito diconvincerlo. Con lebuoneoconlecattive.
Il meccanico invitòfuori Patrizio per unapizza tra uomini e alritorno trovò le duesorelle in piedi incamicia da notte. –Allora?
– Si è fatto fuori duepatapizze, un calzoneconlaricottaewürstelequattroboccalidibirra.
Laura cadde affrantasu una poltrona. – Che èlapatapizza?
–Lapizzaconsopralepatatinefritte.
Celestesiaggiravaperilsalottosucchiandounasigaretta. – Ma gli haichiestoquandoseneva?
– Deve finire ilromanzo.
Laura tagliò unospicchio di crostata e looffrí all’ex marito. – Sipuòsaperealmenodicheminchia parla questoromanzo?
– Sta riscrivendo lastoria del mondoimmaginando che gliesseri umani siano deigrossicriceti.
Le due donne lofissavanoinattesa.
Il meccanico addentòla crostata: – Ha appenafinitolapreistoria.
Nulla cambiò per i tremesi successivi, fino aquando i telegiornaliraccontarono che a Liegiun morbo sconosciutostava mietendo vittimenella popolazione e cheperqualcheragionepoco
chiara, legata allamancanza degli ormonidella pubertà, i bambinisembravano esserneimmuni.
Mauro era stato unmese in Olanda a fare itest alla nuova moto enell’aereo che loriportava a Palermo nonsi era sentito bene. Duecoltelli gli spingevanoalla base del naso e una
morsa d’acciaio glipremeva sulle tempie.Nella toilette, dopo avervomitato, si accorse diavere una macchia rossasuunfianco.
Laura andò aprenderlo all’aeroporto.Lovideusciredagliarrivisciupato e con gli occhilucidi. In macchina,diretti a casa, ilmeccanico cominciò a
tossire.Lomiseroaletto,ma nonostante lespremute di limoni e leaspirine gli salí unfebbrone da cavallo. Fuvisitato dal dottorPanunzio,ilmedicodellamutua, che tranquillizzòlesorelle.–Nonèniente.Un’influenza. Deveriposare.
Le notizie chearrivavano dal Nord
Europa non eranoconfortanti, il virusaveva varcato i confinidelBelgioesidiffondevainarrestabile in tutto ilcontinente. Un’équipe discienziati tedeschi stavalavorando a un vaccinostabile.
Per fortuna in Italia ipochi casi che siregistravano erano statiisolati.
Due giorni dopoMauro ebbe un collassorespiratorio e Laura loaccompagnò inambulanzaaPalermo.Ladonna tornòfebbricitante e con ilnaso che le colava.Raccontò che ilPoliclinico era nel caos eche Mauro era statobuttato in un corridoioinsieme ad altre
centinaia di malati conglistessisintomi.
Unasettimanadopolafamiglia Lo Capo, aeccezione di Celeste chegiaceva squassata dallatosse nella sua stanza,era riunita di fronte altelevisore aspettando ilmessaggio a retiunificate del presidentedel Consiglio. Apresentarsi davanti ai
giornalisti fu però ilministro della Sanità,chesiscusòperl’assenzadel presidente e,tossendo, consigliò allapopolazione di restare acasa e di muoversi soloin caso di estremanecessità. «Chiunquesoffra di una sindromerespiratoria acuta,associata a macchiecutanee edematose,
febbre e sintomi dipolmonite o altremalattie respiratorie,deve essereimmediatamente isolatoperché potrebbe avercontratto il virus ecostituire una minacciaper chi gli sta nelleimmediatevicinanze».
Laura, preoccupata ebruciata dalla febbre,non avendo piú notizie
dell’ex marito da giornichiese ad Annarita diandare a Palermo. Lasorella trovòsull’autostrada una filainterminabile diautomobili cariche dibagagli che tentavano diabbandonare l’isola. Ledissero che il capoluogoera presidiatodall’esercito e non sipoteva né uscire né
entrare. Anchel’aeroporto era statochiusoeitraghettiperlaCalabriaeranofermi.
La prima a morirenella palazzina di viaAleramo fu la nonna. Ilvirus ci mise meno diuna settimana a finirla.Annarita fu l’unica dellefiglie che riuscí adandare al funerale. InchiesaoltreaPatrizioea
Pietro non c’era quasinessuno. Nemmeno ilcarrofunebresipresentòe la bara fu caricata daun cugino sulla suastation-wagon. Il paeseera deserto e gran partedei negozi erano chiusi.AVitachinoneraalettoera di fronte allatelevisione o al telefonoconiparentilontani.
Patrizio passava le
giornate al computer incerca di notizie. Ilpianeta era statocontaminato, dall’Indiaagli Stati Uniti, neanchel’Australia era statarisparmiata. Ormai erachiarocheilcontagioeraavvenuto molto tempoprima dei casidocumentati in Belgio.C’era un’atroce genialità,secondo molti di natura
umana, nel modo in cuiil virus si propagava enella sua lungaquiescenza che lo avevatrasformato in unabomba biologica. Lavelocità con cui mutavarendeva impossibilesintetizzare un vaccino.Nemmeno i ricercatoriche ci lavoravano,nonostante le rigoroseprocedure anti-
contaminazione,riuscivano asopravvivergli.
Vita, che primadell’epidemia contavaduemilacinquecentoabitanti,inpocomenodiunmeseneavevapersilametà. C’era chi morivaaspettandoconfiduciailvaccino e chi, piúscettico, si barricava incasa sigillandola con il
nastro adesivo, ma lostesso non scampava almorbo. I bambini, gliunici in salute, siaggiravano per il paeserecuperandociboeacquapergenitorienonni.
La televisione avevasospeso i notiziari etrasmetteva solo vecchifilm. Le reti telefonichesmisero di funzionareunadopol’altra.Quando
anche l’elettricità siinterruppe, l’uccellodell’Apocalisse spiegò lesue ali di buio e gelo suVita.
Nella palazzina, dopola scomparsa dellasignora Costanza, fu lavolta di Celeste. Ilcadavere venne buttatoin una fossa comunesenza gli onori funebri.Laura e Annarita
giacevano nei loro lettiprosciugate dalla febbree incoscienti. Pietrorestava ore sedutoaccantoallamadreinunsilenzio afoso, giocandocon i soldatini. Unamattina, con una scusa,Patrizio lo acchiappò peruna mano, loaccompagnò nella suastanzetta,chiuselaportaachiaveedisse:–Stanno
morendo. Non possiamofarenienteperloro,sonocondannate. Dobbiamorimanerequaeaspettare–. Dentro la cameraaveva accatastatoscatoloni pieni di cibo elattinedibirra.
Ma Pietro piangeva,volevalamamma.Allorail ragazzone perdeva lestaffe e cominciava aprendere a calci
l’armadio, a strappare lebraccia ai peluche, arovesciarsi in testa ilsecchio con il Lego. –Perché non capisci?Perché non ti adatti?Abbandona il vecchiomondo. Hai tutta la vitadavanti.Siamoentratiinunanuovaèra.
Appena un po’ di lucesiinsinuavaattraversoletende si sedeva alla
scrivania e riempivarisme di carta con unavecchia macchina dascrivere Olivetti. Eraentusiasta:–Questoèuncapolavoro –. Siavvicinava al bambino eglicarezzavalatesta.–Èla cronaca nuda e crudadell’Apocalisse. Non hocensuratoniente.
Ma Pietro non sapevacosafossel’Apocalisse.
– È quando muoionotuttiperchéDiohadettostop.Vihodatoungiocoevoiloaveterotto.Vihodato un pianetabellissimo e voi l’aveteridottounamerda.
L’epidemia, secondoPatrizio, era la cosa piústraordinariachepotesseaccadere all’umanità.Girava nella stanzettacome un orango e
parlava, parlava, sifaceva domande e sidava risposte fino aquando, sbronzo,crollavasuunasediolinaagambedivaricate.
Pietro sapeva chePatrizio teneva la chiavedella porta dentro latasca dei pantaloni. Unanotte si alzò dal letto eprovò a prendergliela.Maleditafacevanofatica
a entrare nella tasca,nascosta sotto le pieghediciccia.
L’orco si risvegliò conun grugnito. – Volevi lachiave? – La tirò fuori. –Bella, vero? – Aprí labocca e la ingoiò comefosse una Saila Menta. –Magia. Non c’è piú –.Incrociò le braccia ericominciòarussare.
Un’altra volta fu
Patrizio a svegliare ilbambino. – Pietro…Pietro… – Sussurravacome se nella camera cifossero dei microfoni. –Losenti?
Il bambino,avvinghiato al suopanda, era da giorni chenon sentiva piú niente.Neanche i lamentisoffocati di zia Annaritae quelli di mamma. Pure
le automobili eranosparite.
–Allora,losenti?–Ilvento?– Ci assomiglia, ma
nonèilvento.Èilfrusciodi milioni di anime cheabbandonano il pianeta,un flusso costante einarrestabile di spiritiche superano la nostraatmosfera, attraversano
il sistema solare e siriaggregano.
Pietro erapreoccupato. – Tu staibene, vero? Non muori?Non mi lasci solo quidentro?
– Tranquillo. Io sonodiverso. Guarda –. Siesibivainunapiroetta.–Non ho una macchia enon mi sono mai sentitocosí bene in vita mia.
Sono pervaso dallagrazia. Esistonopochissimi prescelti cheDio risparmia e chehanno il compito dirifondare la specieumana. Io sono unbardo, la mia missione èraccontare la fine e larinascita. E tu sarai ilmioassistente.
Il cibo cominciò ascarseggiare e Patrizio
decise di razionarlo. Idue, appena faceva buio,si stendevano tra ipeluche, sul lettinoazzurrodiPietro.Patriziogliraccontavaconilfiatoalcolico storie di esercitidi criceti checombattevano controantichi dèi egizi o glifischiettava We Are theChampionsdeiQueen.
Una mattina Pietro si
svegliò e se lo trovòseduto di fronte, che lofissava. Si era cambiatola maglietta e si erarasato. La porta dellacameretta eraspalancata.
– Assistente,buongiorno. Come haidormito? Oggi si tornanel mondo. Un bardonon può raccontarechiusoinunastanza.
Il bambino corsesgambettando dallamadre.Noneranellasuacamera, nemmeno insalotto. Uscí sulle scale ela trovò riversa sulpianerottolo. Era gonfiae coperta di mosche.Pietrosischiacciòcontroil muro coprendosi gliocchiconlemani.
Patrizio lo prese inbraccio. – Vedi che
succede a un corpoquando l’anima loabbandona? Puzza.Diventa cibo per i vermie le mosche. Non devipiangere. Quella roba línon è tua madre. Tuamadre è stata liberata eora è in volo oltre AlfaCentauri.
– E mio papà? Dov’èmiopapà?–singhiozzòilbambino.
– Stessa storia. Ancheluièpartito.Isuoiatomisi sono fusi con quelli ditua madre in un mondodiperfezione.
Trovarono Annaritaancora viva, stesa su unletto matrimoniale. Ilvirus l’aveva asciugata etrasformata in unoscheletrino ansante.Pietro le si avvicinò e lecarezzò i capelli. La
ragazza, con gli occhivelati da una patinagrigia, apriva e chiudevalaboccacomeunpesce.
Patrizio le avvicinòl’orecchioallelabbra.–Cichiedediaiutarla–.Portòilbambinoinsalottoelofece sedere sul divano. –Quel corpo malatoimprigiona l’anima diAnnarita. Noi dobbiamoliberarla. Alla fine ce la
farebbe da sola, mapotrebbe soffrire ancoratantoenoinonvogliamochesoffra.Vero?
Il piccoletto rimase insilenzioacapochino,poiguardòPatrizio.–Lavuoiuccidere?
Patrizio gli si sedetteaccanto.–Haimaivistoivideo degli animaliselvatici quandovengono rimessi in
libertà? A volte succedeche gli aprono le gabbiema quelli non escono, ele guardie forestali sonocostretteaspingerlifuoricon i bastoni. Lo saiperché non escono?Perchéhannopauradellalibertà. Stessa cosa perl’anima–.Patriziomossele dita tozze come seavesse davanti unatastiera. – L’anima,
quell’essenza misteriosa,quella particella di Dioche ha fatto vivere lacarne della zia, èspaventata all’idea dilasciare il corpo. Maappena lo farà proveràuna gioia infinita. Noisaremo le guardieforestali. Hai capito? Lalibereremo.
Il bambino fece segnodisí.
Patrizio si guardòintorno.Ilsoletagliavailsalotto in due e nell’ariachiusa della stanza lapolvere fluttuavarendendo tutto dorato. –Dove tenete le buste diplastica?
– In cucina. Sotto illavello.
– Vai. Prendine due.Senzabuchi.
Patrizioeraalcapodel
letto, sotto aveva ilcranio smagrito diAnnarita e tra le manistringeva le busteinfilate una nell’altra.Guardava il suo piccoloassistente che, in piediaccanto al materasso,stringeva la mano dellazia.–Adessoglielemettosulla testa. Si agiterà. Tubuttati su di lei ebloccala, usa tutta la
forza che hai, non devimollarla.
Il bambino annuí,serio.
– Quando l’animadella zia lascerà le suespoglie passeràattraverso di te, vivràancora per qualcheistante nel tuo corpo. Lasentirai scivolare dentrocomeunacarezza.Saràil
suo modo di salutarti.Pronto?
Pietrosiarrampicòsulletto e si stese sullamoribondaabbracciandola.–Pronto.
La zia ci mise poco adandarsene.
Patrizio, tutto sudato,prese un respiro. – L’haisentita?
–Sí.–Ecomeèstato?
Pietroscesedalletto.–Bello.
AnnaritaLoCapofulaprima. Nei giornisuccessivi i dueliberatori di anime sioccuparono deimoribondi di viaAleramo, poi di tuttiquelli di Vita. Uscivanopresto la mattina etornavano all’imbrunire.Procedevano seguendo i
numeri civici. Spessoerano costretti ascassinare le porte, ascalare le facciate dellepalazzine. I malati sierano chiusi dentro perpaura di essere derubati.Ce n’erano ancoraparecchi che sidibattevano tra vita emorte.Ipochiadulticheancora si reggevano inpiediliaccompagnavano
dai parenti moribondi.LaFerrari458delnotaioBotta, che Patrizioguidava violentando ilsilenzio del paese, eraspessorincorsadabandediorfani.
Ilsistemadelladoppiabusta funzionava, ilproblema era che, avolte,i liberandi,comelichiamavano, siagitavano in preda alle
convulsioni, e Pietrofiniva a terra. Cosí i dueperfezionarono letecniched’immobilizzazioneancorando il malato alletto con dei ragnielastici prima che ilbambino ci si stendessesopra.
Un giorno Patriziodecise di allargare il lororaggio di azione a una
frazione di case vicino aVita. Parcheggiarono laFerraridavantiaunbarescesero armati di busteed elastici. Due file dipalazzine a due piani siaffacciavano sulla viadiritta. La continuitàdegli edifici erainterrotta da giardinettirecintati in cuicrescevano palme elimoni. Un branco di
randagi appena li videsparítraleabitazioni.
– Quei bastardibisogna ammazzarli.Entrano nelle case e simangiano i morti –.Patrizio tornò allaFerrari, prese un fucileda caccia e lo caricò. –Primaopoitiinsegneròausarlo.
Negli appartamenti ilvirus aveva fatto piazza
pulita, trovarono solocadaveri. Patrizio sisbracòsconfortatosuundivano.–Prestoilnostrocompitosaràfinito.
– E che faremo? – glidomandò Pietro,giocando con le lancetteferme di una grossapendolaantica.
– Andremo a Palermo,poi a Parigi –. Si girò e siallungò sullo schienale
per prendere da untavolino una scatola dicioccolatini.Lamagliettasi sollevò e i pantaloni siabbassarono sullechiappe scoprendo unamacchia rossa. Pietrodovette appoggiarsiall’orologio per nonfinireaterra.SichiesesePatrizio sapesse di averele macchie. Avevasempre detto che era
immune, che non sisarebbemaiammalato.
–Vuoi?–Ilragazzogliporse la scatola dopoessersi fatto fuori tregianduiotti.
Pietrofecedinoconlatesta.
– Che hai? È la primavoltacherifiutiundolce–.Econidentisporchidicioccolato scartò untorroncino.
Il bambino si morseun labbro, deglutí e, conquelpocofiatocheavevain corpo, sussurrò: – Haidellemacchie.
Patrizio sembrò nonsentireoforsenoncapí.
– Hai delle macchie, –ripeté Pietro,balbettando. I suoi occhisi erano riempiti dilacrime.
Patrizio si alzò di
scatto, lo afferrò per lamaglietta e lo sollevò inaria come fosse di pezza.– Che hai detto? – Labocca,troppopiccolaperquel faccione tondo, glitremava, e gli occhiettispiritati si eranorintanati tra le occhiaiescure e le sopraccigliaarruffate.–Checazzohaidetto? – Sollevò unpugno.Eralaprimavolta
che metteva le maniaddosso al bambino. –Dove?
Pietrochiusegliocchi.–Sullaschiena.
Patrizio lo lasciòandare e si avvicinò auna grossa specchieracon una cornice dimogano. Si sfilò lamaglietta. Si guardò alungo inspirando con ilnaso. Abbassò i
pantaloni. Pure lechiappebiancheepeloseerano coperte di chiazzerosse.
Il bambino si erarintanato in un angolodel salotto. Patrizio loguardò a lungo, poiindicò la porta. –Vattene.
–Dove?–Via.Vattenevia.L’altro scoppiò a
piangereenonsimosse.– Te ne devi andare.
Subito, – abbaiò ilragazzone. Prese unalampada di vetro daltavolino e la schiantò aterra.
Pietro scivolò con laschiena lungo il muro esi strinse le gambe tra lebraccia.
– Fai come cazzo tipare–.Patriziosisedette
suldivano,preseilfucile,si infilò la canna inbocca, portò il pollice algrillettoeloguardò.
Pietro si tappò gliocchi con le ginocchia ele orecchie con le mani.Cercò di pensare aqualcosa di bello. A lui ea suo padre sullaLaverda.Allavoltachesierano fermati accanto auna laguna piatta come
una tavola da cuiemergevano colline disale bianco. Lontano sivedevano uccelli rosacon il collo a esse, ilbeccocomeunabananaele gambe sottili cheparevano stecche dabiliardo.
– Alzati, forza –. Unamano potente come unatenaglia lo prese per unbraccio.
–Doveandiamo?–Tiriportoacasa.L’assistente seguí il
suo maestro checamminava a gambelarghe con il fucile suunaspalla.
In macchina non sidissero una parola.Patrizio guidava veloce ePietro chiudeva gli occhiogni volta cheaffrontavano una curva.
Inchiodarono davantialla palazzina di viaAleramo lasciando sullastradamezzocopertone.
Il ragazzo spalancò laportiera.–Scendi.
–Tudovevai?–Scendi.–Possovenireconte?–Hodettoscendi.La Ferrari ripartí con
un boato facendo levare
in volo tutti i corvi daglialberi.
Nontornòpiú.Pietro si uní agli altri
bambini del paese.Vivevano tutti nellascuola. Erano unatrentina, maschi efemmine, tra i cinque e itredicianni.Giocavanoapallone nel campetto,dormivano sui grandimaterassidellapalestrae
setacciavano le case allaricercadicibo.
UngiornoPietroealtridue decisero diavventurarsi fino a undiscount sulla statale,dove pareva ci fosseancora la Coca-Cola. Eraunascatoladicementoalcentro di un piazzale diasfaltodesolato.
Uno dei suoicompagni indicò
qualcosa.–Guardalí.Una Ferrari era
schiantata di musocontro una fila dicassonettidell’immondiziaconunaportieraspalancata.
– Andate, io viraggiungo,–dissePietro.
Patrizio era nellamacchina, seduto alposto di guida, trabarattoli di birra vuoti e
in una puzza rivoltantediescrementi.Lebracciaeranocopertedimacchieelividi,ilventreglisieraafflosciato come unpallone sgonfio. Lapappagorgia, che erasempre stata turgida,adesso gli pendeva untae giallognola sul collotumefatto. Gli occhi,opachicomeduemarronglacé, fissavano il
parabrezzaimbrattatodivomitosecco.Unrantolocavernoso gli sgorgavadallaboccaspalancata.
Ilbambinofusorpresochefosseancoravivo.Glitoccò una spalla. –Patrizio. Patrizio, misenti?SonoPietro.
Il ragazzo chiuse lepalpebre, ma nulla mutòinquellamascherapriva
di espressione. – Comestai,assistente?
Pietro deglutí. –Bene…Etu?
Qualcosa, forse unsorriso, attraversò lelabbra sottili, martoriatedatagliecroste.–Cel’haiduebuste?
Prima di partireavevano issato ilcadavere di Pietro sullastradacondellecorde,loavevano caricato su uncarrello della spesa espinto fino alla spiaggia.Avevano scavato unabuca nella sabbia, loavevano seppellito e ciavevano rovesciatosopraunabarca.
DitantointantoAnna
si girava ancora acercarlo, ma dietro di leic’eranosoloAstor,chelaseguiva trascinando ipiedi, e Coccolone, cheannusava i lati dellastrada.Alloraprendevailciondolo e lo stringevaforte finché le puntedella stella non leentravanonellacarne.
Pietro le era esplosonel petto e migliaia di
frammenti aguzzi lescorrevano nelle venestraziandolelacarne.
Adesso capiva cos’eral’amore, quella cosa dicui si parlava tanto neilibridellamamma.
L’amore sai cos’è soloquandotelolevano.
L’amoreèmancanza.Senza Pietro il mondo
era tornato a essereminaccioso e il silenzio,
che prima le facevacompagnia, oral’assordava e lastruggeva. Era cosístupidoilmodoincuisen’era andato, la lungaagonia che aveva patito,e non riusciva a trovarciunsenso.
Era come se qualcunola osservasse dall’alto escrivesse la sua storiainventandomodisempre
piú crudeli per farlasoffrire. La metteva allaprovapervederequandoavrebbe mollato. Leaveva portato via ilpadre,lamadre,el’avevalasciata sola con unbambino da crescere. Siera divertito a farleincontrare Pietro, glieloaveva resoindispensabile e glieloavevatolto.Laveritàera
che avanzava come uncriceto in un percorsoobbligato.L’ideadipoterscegliere se andare adestra o a sinistra eraun’illusione.
Le ritornò in mentequellocheleavevadettotante volte Pietro.«Questo mondo nonesiste. È un incubo dalquale non riusciamo asvegliarci».
Mancavano uncentinaio di chilometri aMessina. Secondo i suoicalcoli ci avrebberomesso altri tre, quattrogiorni al massimo.L’autostrada rotolavasotto i suoi piedi sempreuguale e il paesaggio lescorreva ai lati lento enoioso, interrottosoltanto da una filainterminabile di tunnel.
Non avevano ancoraincontratonessuno.
SigiròversoAstorchea testa bassa trascinavaun bastone. Parlarci eradiventato difficile, leparole erano troppopesanti per esserepronunciate.
–Tuttobene?Il bambino fissò
assente la costa verde
checadevainmarenellafoschiadelmattino.
– Devi rispondermiquandotiparlo.
Astor sbuffò, incrociòle braccia e corse inavantipestandoipiedi.
Era scostante. Se lei siarrabbiava,scappavaesinascondeva in qualchebuco.
Come se fosse colpamia.
Gli si avvicinò e glipoggiò una mano sullaspalla.–Haifame?
Il bambino scrollò latesta.
– Io sí –. Si sedette albordo della carreggiata etiròfuoridallozainoduescatolette di tonno, unadi cibo per cani e unabottigliad’acqua.
Coccolone, sedutocomposto, scodinzolava.
Unrivodibavaglicolavadagli angoli della bocca.Anna gli rovesciòsull’asfalto i pezzi dicarne, che ilmaremmano divoròtremando. Aprí il tonno,scolò l’olio e cominciò amangiareconilcoltello.
Astor continuava amenare colpi contro ilguardrailconilbastone.
–Lasmetti?
Lui si tirò i capellisullanuca.
Era preoccupata. Suofratello avevacominciatoastrapparsiicapellieaparlaredasolo.Faceva lunghechiacchierate tra sé e séin una lingua tutta sua,piena di esclamativi erisatine.ConPietroAstorera diventatochiacchierone e
socievole, ed eranosparite le lucertolecapellone. Ma adesso,dopo l’incidente, eraritornato nel suo mondofatto di cose piccole, disassi, insetti, animalettimortiebastoni.
–PietroavevalaRossa,sarebbe morto lo stesso–. La ragazzina lanciò lascatoletta nel canale discolo. – Dobbiamo
andare avanti. Siamoancoranoidue,ioete.
Il bambino fece segnodino.–Siamonoitre–.Eindicòilcane.
Anna gli porse l’altrascatoletta. – Sicuro chenonnevuoi?
– Un pochino, – disseAstor.
Come avrebbe fattosuo fratello quando leinoncisarebbestatapiú?
Scrivergliilquadernoerainutile, non lo avrebbemai aperto, rifiutavaperfino di leggere icartellistradali.
Non era nemmenocerta che sarebberiuscito a procurarsi damangiare.
Nel pomeriggiocominciò a piovere.
L’acqua scendeva freddae implacabile da unacoltre di nuvole grigie.Dall’autostrada cheserpeggiava seguendo lepieghe della costa sivedeva, giú in basso, ilmaregrosso,dellostessocolore del cielo, cheschiumava contro lerocce nere. Uscironofradici da uno svincoloed entrarono in un
paesino arroccato su uncolle sotto un viadottodell’autostrada. Uncostone della montagnaera franato sulle case,invadendo le vie esradicando gli alberi.Ruscelli di pioggia sierano scavati il letto trale macerie e correvanoverso la spiaggiaunendosi in un torrente
chestemperavanelmaremacchiandoloditerra.
Anche lí non c’eraanimaviva.
Entrarono in unavilletta bianca,circondata dalle agavi,cheerarimastainpiedi.Imuri erano sporchi difuliggine e nelle stanzedalettolacartadaparatipendevaingrossestriscemarce. Neanche una
finestra era rimastaintegra e tirava unacorrente fredda. Incucina diedero fuoco aipensili, misero i vestitiad asciugare e siaccoccolarono intornoalle fiamme perscaldarsi. Non avevanopiú niente da mangiareederanocosístanchichesi addormentaronosubito, mentre la brace
arrossava le loro sagomenelletenebre.
Ripresero la marciaall’alba.Avevasmessodipiovere, ma le nuvoleerano sempre lí,minacciose. Dopoappena una decina dichilometri trovarono unviadotto crollato. Nerestavano due monconi.
Sotto, tra i piloni,scorreva una fiumaraingrossata dalla pioggia.Un tir ribaltatoemergeva con le sueruote accoppiate dalleacquefangose.
Scesero attraverso unbosco fitto e spinoso checresceva alle falde dellacollina. Il rio era troppoimpetuoso per essereguadato, dovettero
risalirlo fino a un’ansadove era caduto ungrande pioppo,formando un ponte.Anna attraversò perprima, camminando inequilibrio sul tronco.Astor e Coccolone laseguirono a quattrozampe.
La pioggia attese chefossero tornatisull’autostrada per
riprendere.Siripararonodentro una Volvoposteggiata in unapiazzola di sosta.Accanto aveva ancora iltriangolo d’emergenza.Coccolone si allungò sulsedile posteriore e Astorsimisealpostodiguida.L’abitacolo rimbombavadella pioggia chemartellava il tetto ecolava sul parabrezza
come una cascata. Annarovistò tra i bagagli allaricerca di qualcosa dicommestibile,mal’unicacosa che aveva qualcheparentela con il cibo eraun libro di ricette per lapentola a pressione. Logettò fuori. Quandol’acquazzone finí eratroppo buio perrimettersi in marcia edormirono lí,
acciambellati sullepoltrone.
DurantelanotteAnnasisvegliò.Lescappavalapipí.Uscíevideunalucebrillare in lontananza.Forse un fuoco. Rientròin macchina e trovòAstorsveglio.
–Hofame,– ledisseilbambino.
– Non ci pensare,domani cerchiamo
qualcosa.Dormi.–Perchénontorniamo
acasa?Anna si strinse tra le
braccia. – Dobbiamoandarenelcontinente.
– Mi piaceva stare acasa.
– Anche a me. Mavedrai che staremomegliodall’altraparte.
–Comefaiasaperlo?–Loso.Adessodormi.
Ilsolesieraapertounvarco nelle nuvoleviolacee ma il vento erafreddosuivestitiumidi.
Anna cominciava adavere un sacco di dubbisulla traversata delloStretto. Non aveva ideadi quanto fosse grande.Come un fiume? Comeun mare? E come loavrebbero superato? Suunabarca?
Giunsero allo svincolodi Patti. A destra sisollevavano delle collinebasse e aride mentre asinistra, oltre unastriscia di terra verdeaffollata di tetti, siscorgeva il mare.Oltrepassaronoirestidelcasello carbonizzato euna colonna diautomobili abbandonateal centro della
carreggiata e siavviarono sullatangenziale che portavaincittà.
Dopo un centinaio dimetri Anna si fermò e sigirò.
Un rumore basso, unaspecie di rimbombo,crescevad’intensità.
– Lo senti? – chiese adAstor.
Il bambino annuí e si
guardòipiedi.L’asfalto tremava
come in un terremoto.Un gruppo di cornacchiesisollevòdauncedro.
Coccolone ringhiò,ritraendo le labbra erizzandol’orecchio.
Una mandria dimucche sbucò da unacurva riempiendo lacarreggiata di un fiume
animatocheavanzavaalgaloppoversoitre.
Anna trascinò ilfratellooltreilguardrail.
Iltrenodipeloecornasfilò accanto a lorocompressotralebarrieredimetallo.Duròquasiunminuto, poi, immersi inuna nube di polvere,comparvero decine dibambini armati dibastoni che correvano
dietro gli animaligridandoefischiando.
Astor fissò la sorella abocca spalancata e conun salto rientrò sullastrada, unendosi allaschiera urlante seguitodaCoccolone.
– Dove minchia va? –fece Anna, e cominciò acorrereanchelei.
La mandria percorsetutta la tangenziale ed
entrò in un parcheggiodove l’aspettavano uncentinaio di altribambini che a strilli laindirizzarono verso ilcentro commerciale ReArtú, una grandecostruzionerosasimileaun castello, con tanto dimerli e quattro torricilindricheagliangoli.
Le vacchegaloppavanoterrorizzate
tra due ali di folla che lepercuoteva con i bastonie, senza rallentare,attraversarono la paratadi porte spalancateinfilandosi in unagalleriabuiacheportavanelle viscere del grandemagazzino. I baracchinidiFastweb,diSkyedellascopa magica Super Mopfurono travolti dallebestie inunfrastuonodi
zoccoli e muggiti. Quelleai lati finivano dentro inegozi di abbigliamento,rotolando contro gliespositori vuoti,sfondando le vetratedello snack bar Lozecchino, planando nelkebab Bosforo etravolgendo banconi,grill e tavolini. Altrescivolavano e venivanocalpestate. Dietro di loro
esili braccia sollevavanotorce che dipingevanobagliorisulleinsegnedelBig Burger, dei negozi edella Würstelleria Liebe.La mandria, azzoppata,ferita, terrorizzata, siritrovò in fondo allagalleria su un enormeballatoio circolare. Difronte mancava labalaustra, e a destra e asinistra due barricate
fiammeggiantichiudevano ogni via difuga.
Unadopol’altra,senzanemmeno rallentare, levacche si lanciarono nelvuoto, proprio come imammut spinti dagliuomini primitivi giú daidirupi.Soloche,dopounvolodiunaquindicinadimetri,nonfinivanotraleboscaglie gelate del
Pleistocene, ma sopra itavolinidelristoranteLaparanza, si schiantavanocome bombe vive sullagrande vasca di cristalloche un tempo avevaospitato una coppia disqualetti azzurri e sullabarchetta che serviva daespositore per il pescefresco.
Anna arrivò in fondoalla galleria mezza
intossicata dai fumi edalla polvere.Ansimando si affacciòdallabalconata.
Sottodileiagonizzavauna montagna dimucche con le schienespezzate e le teste rotte.Molte erano morte sulcolpo, altre sicontorcevano sullecompagne. Daquell’ammasso saliva un
tanfodimerda,sangueebenzina. Un esercito dibambini coperti distracci sudici incitavadai ballatoi e dalle scalemobili. Alcuni si eranodipinti la faccia constrisce nere e tutti,maschi e femmine,avevano i capelli lunghiche arrivavano a metàschiena. Erano storpi,orbi, segnati dalle
cicatrici. Urlavano, sibattevano le mani sulpetto, pestavano i piedi,semprepiúforte,semprepiú forte, coprendo iversi lancinanti dellebestie. Quando la sala fuun unico frastuono,quelli che stavano giúpresero a scalare lamontagna di carne e abastonare gli animali
ancora vivi aizzati daglispettatorisuglispalti.
Sonotuttipiccoli…Il cuore di Anna fece
unbalzonelpetto.Astor!Dal fumo che
invadeva la galleria,figure irriconoscibiliemergevano e sifondevanotraloro.Annacercava il fratellofacendosi spazio tra i
corpi, inciampandonellepanchine di marmo. Manel buio erano tuttiuguali.
Girò intorno allecolonnedegliascensoriesgomitando si aprí unvarcoversolescale.
Astor si sporgevaverso il bassomassaggiandosilabocca.
Lo scrollò per unbraccio. – Tu devi stare
con me. Hai capito? Ladevi smettere discappare –. E lo strinseforte.
Astor tremava perl’eccitazione.–Haivisto?Hai visto che hannofatto? Le hanno buttatedisotto.
–Alloranonmihai…Gli abbai di Coccolone
esploseronellagalleria.Ilcane, schiacciato contro
la vetrina di un negoziodi telefonini, i peli drittisullaschiena,mostravaidenti. Un gruppetto dibambini gli puntavaaddosso dei bastoniacuminati.
Anna corse da lui. – Èbuono.Lasciatelostare–.Fecesegnodistarecalmi,ma un bambino piúaudace degli altri tentòdi colpire l’animale, che
con un balzo lo buttò aterra e gli azzannò unbraccio.
Anna afferròCoccoloneperilcolloelotiròindietro.
Quelliintorno,eccitatie impauriti, urlavano,grugnivano edigrignavano i denticome un branco dimacachi, minacciandolicon le lance, mentre il
poveretto si rialzavatenendosiilgomito.
– Astor! Astor, dovesei? – urlò Annaaggrappataalcane.
Astor sgusciò nelcapannello e laraggiunse.
– Fallo mettere acuccia,subito.
Lui spinse il culo diCoccolone a terra e loabbracciò.
– Carezzalo. Questi ciammazzano–.Annaalzòle mani. – Guardate, nonècattivo.
Il gruppo si aprí perlasciar passare unabiondinaseccasecca,chefissòitreeteseinavantile braccia come unpredicatore. Gli altri sizittirono e fecero unpasso indietro. Un paiodi occhiali da sole con la
montatura verde lecopriva gran parte delvolto. Indossava deglistivaletti sbrindellati dacuiuscivanolegambettemagre, una gonnascozzese e una pellicciaunta.
Anna, stiracchiandoun sorriso, carezzò latesta di Coccolone. – Èbuono.
– Buono? – fece la
bambina poco convinta,eindicòquelloazzannatoalbraccio.–Cattivo.
– No, no. Buono. Canebuono.
La biondina siavvicinò a Coccolone.Intorno a lei i cacciatorierano pronti adaffondare le lance nellabestia. Allungò senzaesitare la mano verso latestadelmaremmano.
Anna chiuse gli occhi,sicura che quellogliel’avrebbe staccatacon un morso, invece ilcane la scrutò con legrandi biglie lucide,allungò il collo el’annusò.
La bambinaindietreggiò di un passo,siportòleditaalnasoesiguardòattornodivertita.–Buono,–disseaglialtri
che la guardavanotrattenendo il respiro. –Buono.
Tutti esplosero in unarisata. Solo il disgraziatoche si era beccato ilmorso sghignazzava unpo’menoconvinto.
Anna capí che queibambini erano troppopiccoliperricordarsichei cani, un tempo, eranostati animali da
compagnia. O forse sen’eranodimenticati.
Sisentívecchia.
Il popolo di cacciatoridi Patti organizzò unagrigliata nel parcheggio.C’erachitrascinavafuorile carcasse, chi tagliavalacarne,chialimentavaifuochi bruciando vestiti,mobili,pallet.
Un venticello deboletrascinava sul piazzalebuste di plastica, carta efoglie, mentre il sole, unovale arancione,scompariva dietro lecollinearide.
Le colonne di fumoattiravano altri bambiniche arrivavano al centrocommerciale da soli o ingruppetti. Con il buio ilpiazzalepullulòdifigure
nere che siincolonnavano accantoai falò aspettando diavere una porzione dicarne.
Anche Astor e Annafacevano la fila. Eranodue giorni che nonmangiavano e conquell’odore d’arrosto sisentivano svenire. PureCoccolone scalpitava. Loavevano legato con una
corda e lo tenevanostretto al guinzaglio.All’inizio aveva cercatodi liberarsi, puntando lezampe e scrollando latesta,poisieraabituato.
Grazie a lui Anna eAstor erano diventatil’attrazione della serata.Tutti, tenendosi a debitadistanza, li ammiravanoe commentavano conversi gutturali e smorfie
le dimensioni di quellabestia che se ne stavacosí buona accanto aisuoi padroni. Astor siguardava intornoimpettito e fintamentedistratto. Ad Annaveniva da ridere. Era laprimavoltachevedevailfratellofareilfigo.
Quando finalmente fuil loro turno ricevetterotrepezzidicarneenormi,
carbonizzati e grondantigrasso, ma all’internoancorasanguinolenti.
Si sedettero su uncordolo di cemento e lidivoraronoinsilenzio.
– Com’è? – domandòAnnaalfratello.
Astor, a bocca piena,bofonchiò qualcosa diincomprensibilesollevando gli occhi alcielo.
Laragazzinasicercòlastella marina sotto lamaglietta. La tirò fuori eselarigiròtraledita.Perlecosebruttepotevafarea meno di Pietro, quelleselesbrigavadasola,maadesso che c’era dagioire, da ridere, dagustarsi una bistecca, lasua assenza diventavapiú dolorosa. Ripensò aquando avevano gettato
dal terrazzo il polpopuzzolente e le venne dasorridere.
Astor le diede unagomitata. – Ne voglioancora.
– Andiamo a vedere…– Stava per alzarsiquandolesiparòdavantila biondina con gliocchiali verdi. In unamano stringeva unatorcia e nell’altra un
grosso stincobruciacchiato cheallungòversodiloro.
–Grazie,–disseAnna,ma la bambina lo lanciòa Coccolone, che loaddentò al volo e se losbranò bloccandolo conlezampeanteriori.
La secca lo indicò. –Buono.
– Buono –. Anna noncapiva se intendeva
Coccoloneolacarne.La biondina indicò il
cane.–Mio?Anna aggrottò un
sopracciglio.–Cosa?–Mio.Annasibattésulpetto
stirando le labbra. – No,mio.
La bambina fissòCoccolone.–Canebuono.
–Buono.–Canemio.
Anna indicò se stessa.–No.Canemio.
Astor sussurròpreoccupatonell’orecchio dellasorella. – Questa vuoleCoccolone.
–Sorridi.Il bambino spalancò
un sorriso esagerato suidenti storti. – Canenostro.
La biondina si sollevò
gli occhiali. L’occhiodestro era vitreo eguardava da un’altraparte.
– Cane nostro? – Siallontanò grattandosi lanuca e ripetendo: – Canenostro?Canemio?
Anna tirò Coccoloneper il guinzaglio. –Muoviamoci, – disse adAstor.
–Doveandiamo?
–Via,primachequellasidecida.
Astor si guardòattorno.–Elacarne?
– Lascia perdere lacarne. Filiamo. Veloci.Anzi, no, piano.Tranquilli. Come senientefosse.
I due fecero pochipassi e appena il buio liavvolse cominciarono acorrere.
Da Patti a Messinaimpiegarono due giorni,marciando dall’alba altramonto. La primanotte la trascorsero inuna palazzina accantoall’autostrada. Apianterreno c’era unufficio di collocamento,ma in un appartamentoalprimopiano,frugandonei cassetti della cucina,trovarono dei dadi per il
brodo ammuffiti chesciolsero nell’acqua.Tirarono via le tendedalle finestre e ci siavvolserodentro.
L’ultimo giorno diviaggio soffiava unvento freddo, il cielo eraazzurroel’ariacosítersache tutto sembrava piúvicino.
L’autostrada correvasu viadotti che
tagliavano le collinealberate e s’infilava ingalleriebuie.
Avvicinandosi allacittàunafilaininterrottadi automobili intasavatutte le corsie. Lemacchine erano ancoracariche di bagagli. In unSuv, cercando nellevaligie, rimediarono deigolf pesanti, magliettepuliteegiaccheavento.
In cima a una lungasalita, finalmente, sispalancò davanti a lorola vista che attendevanodamesi.LoStretto.
Anna e Astorcominciarono a saltare ea girare su se stessitenendosi per le mani. –Ce l’abbiamo fatta! – E siarrampicarono sul tettodi un camion perguardaremeglio.
L’isola finiva in unastriscia di palazzi che siaffacciava su un grandeporto e su un braccio dimare blu oltre il quale sialzava una catena dimontagne scure. Ilcontinente. Le due riveerano cosí vicine chesembrava ci fosse solounfiumeadividerle.
Anna se lo eraimmaginato sconfinato,
impossibile da varcare, eadesso,vedendolo,pensòche avrebbe potutoattraversarloanuoto.
Il resto della strada lofecero di corsa,fermandosi solo perriprendere fiato.Uscirono a uno svincoloe proseguirono su stradedi periferia chelentamentesicaricarono
dipalazzi,negozi,pompedibenzinaesemafori.
Messina era uningorgo immobile dimacchine che nonrisparmiava nemmeno ivicoli, eppure,avvicinandosi al mare,non si provava quellasensazione di morte eangoscia tanto forte aPalermo.Quilanaturasela stava riprendendo, la
città. Ovunque, tra lecrepe dell’asfalto,crescevano alberelli ecespuglispinosidimore.I viali e i marciapiedierano coperti di terra efoglie, erba e granostavanomettendoradici.Le piante rampicantiscalavano floride lefacciate dei palazzi. Erapieno di animali. Greggidi pecore brucavano
accanto ai monumenti,caprette barbute siarrampicavano suicassonetti dellaspazzatura, stormi diuccelli uscivano dallefinestre e branchi dicavalli e puledricorrevano tra le auto.Soloilporto,recintatodarotoli di filo spinato ecircondato dai mezzidell’esercito,ricordavala
violenza dei giorni diquarantena, ma il ventoportava l’odoresalmastro del mare e leonde, al di là dellebanchine, erano orlatedacrestedispuma.
Era tardi e decisero diaspettare il giorno dopoper affrontare latraversata. Cercaronoqualcosa da mangiarenei negozi e nei
supermarket, senzatrovare nulla. Stanchimorti s’infilarono in unvecchiopalazzosignorileconl’ingressodimarmo,laguardiolael’ascensorenella gabbia di ferro.All’ultimo pianotrovarono una portaaperta. Sul campanellod’ottone c’era scritto:«FamigliaGentili».
L’attico era pieno di
quadri,cornici,mobilidilegno scuro e poltrone afiori. Le finestreaffacciavano sullungomare. Nella stanzada letto c’erano duescheletri e nel salottograppoli neri emembranosi dipipistrelli pendevanodalle mantovane e dailampadari di cristallo.Nei pensili della cucina
non c’era piú niente, manellacredenzatrovaronodelle bottiglie diSchweppes, noccioline,pistacchi e un pandorosecco che divisero con ilcane.
Si allungarono suidivani del salotto difrontealloschermodellatelevisione.
Astor crollò subito.Anna si addormentava e
si risvegliava dicontinuo, riemergendoda un groviglio di sognisbiaditi e angoscianti.Stesa sui cuscini divellutorespiravaaboccaaperta sentendo le ondeche si frangevano sulmolo.
NonsapevanulladellaCalabria. Si chiese cosaavrebbe trovato. Sedavvero lí i Grandi
fossero sopravvissuti.S’immaginò che non lilasciasserosbarcare.
Via! Andate via! Sieteinfetti.
E ripensò connostalgiaallasuacasa,albosco, a TorreNormanna. Ritornò conla mente a quei quattroanni vissuti insolitudine,aifintiNatali,alle strade che aveva
percorso e alla fatica dimigliaia di decisionipresedasola.
In meglio o in peggio,dal giorno dopo tuttosarebbecambiato.
Nella stanza mancaval’aria. Aprí una finestra,uscí sul terrazzo e lasciòche il vento le soffiassefra i capelli.Rabbrividendo siaffacciò dalla ringhiera
nella notte buia e senzastelle. La Calabria eraspenta.
Non avere troppesperanze.
Poi si accorse che inlontananza una lucinarossa si accendeva e sispegneva con regolarità.Era come se qualcunoavesse ascoltato i suoipensieri.
Unsegnale.
Rimase a fissarlasfregandosi le braccia.Chi poteva fare una cosadelgenere?
SoloiGrandi.Tornò dentro e si
sedette in pizzo aldivano, accanto alfratello. Dormiva con lafaccia premuta contro loschienale, le righe delvelluto stampate sullaguancia. Lo chiamò con
unfilodivoce.–Astor…Astor…
Il bambino sistropicciò un occhio. –Chec’è?
Anna sollevò le spalle.–Tivogliobene.
Il bambino sbadigliò esi passò la lingua sullelabbra.
–Stavisognando?–glichieselei.
–Sí.
–Cosa?Astorcipensòunpo’.–
Deipaniniconibrustel.Annapreseunrespiro.
–Matuamevuoibene?Il bambino fece segno
disíesigrattòilnaso.–Allorafammispazio.Coricata accanto al
fratello riuscí infine adaddormentarsi.
mare calmo e ilcontinenteeralí.
Esplorarono il portoma sulle banchine nonc’erano imbarcazioni.Fuori, all’imboccaturadella darsena, vicino aifrangiflutti, dall’acquaemergevano pancearrugginite di traghettiaffondati, eliche eciminiere. Colonie digabbiani ne avevano
fatto la loro casaricoprendolidiguano.
Si avviarono sullungomare, diviso da uncavalcavia. Alla lorosinistra, una filaininterrotta di palazzonimoderni si affacciava sutorsoli di palme,lampioniesuunalinguadi ciottoli mangiata dalmare. Ma anche línessuna barca. Che ne
avevano fatto? Leavevano usate tutte perscapparedall’isola?
Ilcontinente,ilgiornoprima cosí vicino, stavadiventandoirraggiungibile e la città,che oltre il mare sistendeva come unastrisciaopalescentesottole montagne, solo unmiraggio.
Anna si sedette
sconfortata su unapanchina.
A nuoto eraimpossibile.Econfessòase stessa che, se ancheavessero trovato uncanotto, non sapevaremare. Riprese agironzolare con Astorche parlava per contosuo e Coccolone chepisciavasuilampionipersegnareilterritorio.
Dopo una serie dipompe di benzina siallungava una fila dicostruzioni basse. Lataverna del marinaio.Ristorante La cicala dimare. Bar Scilla. Dietro ivetri, opachi per lasalsedine, si scorgevanotavoliimpolverati,piledisedieeacquarivuoti.
Astor s’infilò in unastrettoia di sabbia tra
due locali e Anna loseguí.Dietrolebaracche,su un minuscolopromontorio,arrugginiva un parcodivertimenti nascostotra gli eucalipti. Unagiostra con le sediolineappese. Un autoscontro.Un capannone pieno dicarcassedivideogiochi.
Durante il viaggio neavevano incontrati altri
e ogni volta Astormontava sullemacchinine es’incaponiva cercando dimetterle in moto, poichiedeva ad Anna diraccontargli com’eranocon le luci colorateaccese, la musica, ibambini. Invece questolo attraversò senzafiatare.
Il boschetto finiva in
un parcheggio desolatocinto da una schiera dicassonetti carbonizzati.Il lungo piazzale dava suuna spiaggia di sassi,coperta d’immondizia eramisbiancatidalsale.
– Andiamo… Qui nonc’èniente,–urlòAnna.
Il bambino fece unsaltooltreilmurettocherecintava il parcheggio escomparveallasuavista.
– Astor! Io me nevado…–sbuffòlei.
Ma Astor gridò: –Anna! Anna! Vieni qui.Corri.
Si chiamava Tonino IIe non era proprio unabarca, era un pedalò,bianco e rosso, con iltimone, i sedili diplastica e in mezzo uno
scivolo con la scalettache terminava oltre lapoppa. Astor lo avevascovatosottountelone.
Era perfetto. Nonbisognava remare, mapedalare. E Anna sapevapedalare. E anche suofratellopotevaaiutarla.
Finalmente un po’ difortuna.
Bisognavaspingerloinacqua, ma non sarebbe
stato difficile, bastavametterglideiramisottoefarloscivolare.
Stampò un bacio sullafronte di Astor, che sipulí schifato fissando ilmare. – Ma quanto cimettiamo?
–Tanto.
Di cosa avevanobisogno per la
traversata?Braccioli per Astor.
No, meglio deisalvagenti. Meglioancora dei giubbotti disalvataggio. Acqua. Damangiare. Avrebberoavuto freddo. Quindivestiti piú pesanti.Ricambi.Equellegiacchegialle per la pioggia.Insomma, un sacco diroba.
Inegozisullungomareavevano tutti lasaracinesca abbassata equelli forzati eranovuoti. In unostabilimento balneare,dentro una cabina,trovarono dei salvagentiarancioni e degliasciugamani.Sfondarono una finestradelristoranteLacicaladimare e frugando nella
dispensarimediaronotrescatolette di polpa diriccio e due bottiglie diChardonnay. Le ceratenonletrovarono,madalbagagliaio di unamacchina presero unpaio di trolley pieni dimaglie e pantaloni e daun camion degliimpermeabili di plasticatrasparente.
Finirono di
equipaggiarsi che il soleera ancora alto esistemarono i bagagli aprua.
Portare il pedalò sulbagnasciuga fu piúcomplicato del previsto,era pesante e i rami nonrotolavano sui ciottoligrossi. Quandoimmersero la prua inacquaeranosfiniti.
Il mare era poco
mosso ma il vento glisputavainfacciaspruzzidiacquafredda.
Siinfilaronoduegolfedue paia di pantaloni atesta, e sopra gliimpermeabilitrasparenti. Sembravanodue pupazzi avvolti nelcellophane.
Pronta?Pronta.Astor si era seduto al
suo posto e faceva dellepernacchie imitando ilsuonodiunmotore.
– Saluta la Sicilia, – glidisseAnna.
Il bambino chiuse lamanina.–Ciao.
Almeno lui non avevanostalgie.
Il cane era seduto infondo alla spiaggia e lifissava con l’orecchiobuonodritto.
– Vieni, Coccolone.Forza.
Nonsimosse.– Astor, vai a
prenderlo.Ilbambino,sbuffando,
corse dal cane. – Vieni,Coccolone –. Ma appenagli si avvicinò, l’animalescartòdilato.–Vieniqua–. Riprovò senzariuscirci. – Fermo! Staifermo –. Con le mani sui
fianchi, si rivolse allasorella. – Non vuolevenire.
Tentarono in tutti imodi di acchiapparlo inun balletto a tre, ma ilcane gli girava intornoconlacodafralegambe,prontoascattareappenaiduesiavvicinavano.
– Che facciamo? –chiese Astor con ilfiatone.
Anna sollevò le spalle.–Nonloso.
Avevapensatoatutto,tranne che a Coccolone.Credeva che sulla barcaci sarebbe salito, infondo era un minuscolopezzo di terra. – Houn’idea –. Prese dallozaino una scatoletta dipolpa di riccio, l’aprí e lamostròalcane.–Mmm…– Immerse il dito nella
pappettaarancione.–Nevuoi un po’? – Eraveramente schifosaquellaroba.
Il cane fece qualchepasso cauto verso il ciboe Anna, trattenendo ilrespiro, ne fece unoversodilui.–Assaggia.Èbuonissimo –. Versò lapolpa su una pietra e sispostò.Ilmaremmanosiavvicinò guardingo
annusando l’aria, tiròfuori la lingua e prese aleccare.
I due, come un soluomo, gli saltaronoaddosso, loabbrancarono e Anna glimise una corda intornoalcollo.–Fregato.
Cominciaronoatirarloverso il bagnasciuga, mail cane s’impuntava,scrollava la testa
mugolando, finché conuno strattone si liberòdal cappio e scappò nelparcheggio.
– Non ci salirà mai –.Anna gettò la corda aterra e guardò il cielo. –Basta. È tardi. Lolasciamoqua.
Astorsgranògliocchi,come se non avessecapito.–Nonloportiamoconnoi?
–No.–Diamogliisonniferi.– Non c’è tempo,
dobbiamo andare. Sennòdiventabuio.
–Lolasciamoqui?–Sí.Ilbambinocaddesulle
ginocchia.–No.Anna gli si avvicinò e
gli carezzò la testa. –Ascoltami. Non ci saliràmai su quella barca. E se
pure riusciamo a farcelosalire, appena può sibutterà in acqua. E se sibutta al largo, muore –.Anna si accorse che ilsole era stato inghiottitodallenuvole.–Dobbiamoandare.
Astor affondò le ditatralepietre.–Tiprego…Nonlasciarlo.
Lei gli si accucciò difronte. – Coccolone ci ha
accompagnati fin qui.Nessuno lo ha obbligato,lui ha deciso di seguirci.Eadessohadecisodinonvenire. Se vuole restarequi, noi non possiamofarci niente. È libero –.Stirò un sorriso. – È uncane siciliano, se lacaverà.
Astor tirò su con ilnaso. – Non è un canesiciliano.Èilcanenostro.
Anna gli porse lamano.–Su.
Ilfratellopiegòilcapoe mugugnò: – Io nonvengo.
–Perfavore…Il bambino batté il
palmo a terra. – Io restoconCoccolone.
– Non dire cretinate –.E riprovò a prendergli lamano.
Astor incrociò le
braccia.–No.Laragazzinaloguardò
in silenzio, poi, calma,disse:–Vieni.
Il bambino avvolseuna ciocca di capelliintorno all’indice e se latirò.–No.No.Eno.
Anna si morse lelabbraestrinseipugni.
Perché era tutto cosídifficile? Avevanotrovato il pedalò, i
salvagenti, i vestiti, maquel cane idiota avevapaura dell’acqua, eadessocisimettevapuresuofratello.
–Tuvieni!–mormoròaocchichiusi.
Astorabbassòlatesta.– No. Non vengo. Nonvengo.Nonvengo.
Al terzo «non vengo»la rabbia travolse Annairrigidendole i muscoli
delle braccia. Fece unultimo disperatotentativo di contenerlasussurrando: – Astor, faicome ti dico. Vai allabarca. È meglio –. Ma sisentírispondereunaltrono.–Basta!Adessobasta!– Afferrò il fratello per icapelli e lo trascinò dipeso verso il pedalòmentre quello urlava,scalciava,sicontorcevae
cercava di afferrarsi aisassi. – Adesso tu sali suquesta cazzo di barca –.Loacchiappòperilfondodei pantaloni e lo spinsesulprendisolefacendoglisbattere la fronte controil corrimano. Astorululava con gli occhigonfi e iniettati di rosso,ilvoltocongestionatoeilmocciocheglicolavadalnaso. Anna non lo
sentivaenonprovavanépena né rimorso. Nonavrebbe permesso anessuno di fermarla,tantomeno a un canefifone.
Non si guardòindietro,diedeun’ultimaspinta al pedalò,scorticandosi leginocchia sui ciottoli, esaltò su. Scavalcò Astorcome fosse un sacco, si
sedette e cominciò apedalare.
IguaitidiCoccolonesiperseronelvento.
Anna spingeva suipedali mentre Astorfrignava. Il pedalòavanzava lento verso illargo attraverso unreticolodiboe.
Dopo un po’ di prove
capí che se tirava iltimone a sinistra, labarca andava a destra eviceversa.
Prese dallo zaino unabottiglia di vino, l’aprí ecisiattaccò.
Astor aveva smesso dipiangere,macontinuavaasinghiozzaretirandosuconilnaso.
Glipasserà.Arrivato sul
continente si sarebbedimenticato diCoccolone. Tutto sidimentica. Tutto passa.La mamma. La casa delgelso. Pietro. Adessoc’eranosololeielui.
E se non gli passa,pazienza.
La corrente portaval’imbarcazione verso illargo.Annanonriuscivaa calcolare quanto ci
avrebbero messo adarrivare dall’altra parte.Diede un’altra sorsata divino e si concentrò suipedali.
– Anna! Anna! – Ilfratellolestrinsefortelaspalla e cominciò asaltare.–Anna!Guarda!
La ragazzina schizzòsu e si girò. Un puntinobianco appariva esparivatraleonde.
Prima le sembrò unaboa,poiungabbianochegalleggiava, poi vide latestadelsuocane.
– Non è possibile, –sussurrò. – Come hafatto? Siamo troppolontani –. Una vampatadicalorelebruciòlagola.–Chemerdachesono.
Astor le si piazzòaccanto e cominciò a
pedalare. – Andiamo,veloce.
Annatiròiltimoneeilpedalò cominciò unalarga curva lasciandosidietro una scia bianca.Mulinavano le gambe adenti stretti, aggrappatiai braccioli, cercando dinonperderlodivista.Eralí e un attimo dopo nonc’erapiú.
–Dov’è?
–Nonloso…– Eccolo! Eccolo! –
Astor indicò la testa delcanecheerariemersa.
Ripresero a pedalarecon piú vigore anche selegambeeranodiventatedure.
– Resisti, resisti. Tiprego, Coccolone, resisti,– implorava Anna. Ma labarca, controcorrente,avanzavatroppolenta.Il
maremmanogliaffogavadi fronte, sbattendo lezampetraglischizzi.
– Coccolone!Coccolone! – gliurlavano.
Erano vicini.Riuscironoperunattimoa scorgere il muso delcane che annaspava, gliocchi fuori dalle orbite,poiilmarelorisucchiò.
– Non mollare, – urlò
Annaalfratello.–Pedala–. E si gettò sulla pruasporgendosi con il bustoelebraccia.Videarrivareveloce, verso di lei, unamassa bianca chescivolava sotto il pelodell’acqua come unfantasma. Si allungò eafferrò la pelliccia contutteeduelemani,malacorrente spinse il canesotto la barca. Anna
cercò qualcosa doveincastrare i piedi, non lotrovò, si sbilanciò e finíinmare.Passòingoiandoacqua sotto il pedalò,sbattendolanucacontrogliscafi,manonmollòlapresa. Con una manoteneva l’animale, conl’altra riuscí adaggrapparsi alla scaletta.Mezza affogata e tesacome una gomena tra
Coccolone e la barca,resistette fino a quandol’abbrivosispense.Astorcercando di aiutarlascivolò sul prendisolebagnato e per poco noncadde in mare anche lui.Si rialzò e afferrò lasorellaperilpolso.
Cercarono di issare ilcane sullo scivolo dipoppa, lei spingendoloda sotto, lui da sopra
tirandolo per le zampe.Sembravadipiombo.
– Tienilo. Tienilo, –feceAnna,esiarrampicòansimando accanto alfratello. In due,puntellandosiconipiedisul corrimano,riuscirono a tirareCoccolonesullabarca.
Anna era sfinita,tremava di freddo, nonriusciva quasi a
respirare. Vomitò acquadi mare e Chardonnay.Astor gonfiava esgonfiavailpetto.
Scossero il canecercando di rianimarlo,ma la testa con gli occhispalancati e vitreirimbalzava inerte sulpiano di vetroresina. Lalingua pendeva scuradallabocca.
– È morto? – balbettò
Astor.Anna cominciò a
colpire il cane sul petto,gridando: – No, non èmorto.
Quellabestiaeracomei gatti, aveva sette vite.Era sopravvissuto alletorture del figlio dellosfasciacarrozze, al fuoco,alle lotte mortali, allafame e alla sete, alle
ferite, alle infezioni, eadessoseneandavacosí.
Anna si piegò su sestessa e si nascose ilvolto nelle mani. – Ècolpa mia. È tutta colpamia.
Astor piangeva con laboccaaffondatanelcollodelmaremmano.Ilmareli bagnava e lisballottava,
trascinandoli verso lacostadellaCalabria.
Toc.Toc.Toc.La coda di Coccolone
batteva debole sulprendisole.
Lasettimavitadovevaancoraconsumarla.
–Ioaquestoquimelosposo –. Anna stringevaCoccolone che ansimava
accantoaunlagodibavae acqua. – Ci si puòsposareconuncane?
Astor allargò lebraccia.–Nonloso.
La ragazzina,tremando, stampò unbacio sul muso delmaremmano e glisussurrò nell’orecchiobuono. – Perdonami. Tusei il mio amore. E iosonounastronza.
– Io pure lo vogliosposare, – fece ilbambino.
– Va bene. Ce losposiamotuttiedue.
Anna battendo i dentisi tolse di dosso i vestitibagnati,sisfregòfortelapelle con l’asciugamanoe indossò i vestiti diricambio.
Versò nelle mani acoppetta di Astor un po’
di vino, che a Coccolonenon piacque. Poco dopo,come se non gli fossesuccesso nulla, come senon fosse resuscitato, ilcane si mise in piedi dasolo,siscrollòunpaiodivolte e incerto sullezampe si piazzò a pruacomeunapolena.
I fratelli ripresero apedalare mentre il solecontinuava la sua
discesa a ovest. Lacorrente li spingevaveloci verso terra e leonde si rompevano sullaprua spruzzandoli dischizzi salati che siseccavano sulla facciacome maschere. Ognitanto un pesce volanteusciva dall’acqua eplanavalontano.
Passarono nondistanti da una grande
boa gialla con deipannelli solari e unatorretta su cui un faroemettevaimpulsidi lucerossa.
Ecco cosa ho visto dalterrazzo.
Man mano che siavvicinavano alla costadistinguevano le spiaggedeserte, le barrierefrangiflutti, le case e i
palazzi silenziosi einanimati.
Anna non parlava, unpeso le gravava in petto.Durante il viaggio,giorno dopo giorno, siera ammalata disperanza e avevacominciato,insilenzio,acredere che la Calabriafossediversa.
Lasciaronoilpedalòsuuna spiaggia piena dipiccole barche buttateuna sull’altra e siavviaronoversolacittà.
Attraversarono uncampo di ulivi,fiancheggiando lacancellata di una villacon la piscina in cuierano cresciute leerbacce. Si spinsero trafile di palazzine ancora
in costruzione, con imattoni a vista e itondini arrugginiti chespuntavano dai pilastri.Guadarono una paludeputrida chiazzata dastrisce colorate dibenzina.
Lontano, in alto,poggiata su enormipiloni che azzannavanola montagna, correval’autostrada. Arrivarono
in una piazza dovec’erano un baretto conl’insegna caduta, unnegozio di cellularisaccheggiato e unagrande chiesa dicemento grigio a cui sierastaccatodalfrontoneil mosaico. Risalironouna via larga, piena dinegozi e di barincendiati. Un camionera ribaltato al centro
dellacarreggiata,ilmusoera tutt’uno con i restiaccartocciati di unaSmart.
– Dove sono i Grandi?–silamentòAstor.
Annanonrispose.Ungattoneroebianco
si materializzò dal nullaegliattraversòlastrada.Coccolonescattò.
Il felino schizzava escartava, ma il cane gli
tenevadietrocercandodimordergliilculo.Quello,con un salto prodigioso,salí sul tetto di una Opele da lí volò verso unnegozio,infilandosisottola saracinesca sollevatadi mezzo metro. Ilmaremmanoloseguí.
– Ancora i gatti –.Anna era incredula. –Noneramezzomorto?
I latrati del cane
arrivavano bassi esoffocatidall’interno.
– Coccolone!Coccolone!Vieniqua,–lochiamòAstor.
–Dài,valloaprendere.Il bambino si sedette
sul marciapiedemassaggiandosi ipolpacci.–Vaccitu.
Anna sollevò gli occhial cielo. Prese la torcia
dallo zaino, l’accese esgusciòsottolaserranda.
Lo stanzonerettangolare non avevafinestre. Appesi ai muric’erano surf, foto dicantanti, magliette,stivali e jeans vecchi. Inun angolo, una cabinatelefonica rossa e unflipper. Gli scaffali,ricavati con palanche dilegno, erano vuoti e i
vestiti erano sparsi aterra. Sentiva Coccolonechesisgolava,manonlovedeva. Raggiunse ilbancone decorato confile di lucchetti. La cassaera a terra. Dietro, dellescale strette e ripidescendevano nelmagazzino.
Anna puntò la torcia,fecelarampaedentròinuna stanzetta cubica,
chiostrine sul soffittodiffondevano una bavadiluce.
Il maremmano stavaringhiando al gatto che,trasformato in un pontedi pelo, lo guardavadall’alto, arroccato suuna pila di scatole.All’improvviso il cane cisi scagliò controfacendole franare. Ilfelino guizzò su una
pareteescomparveperlescale.
A terra, di fronte adAnna, si era aperta unascatola azzurra.All’interno c’era un paiodiscarpe.
La ragazzina ne preseuna in mano. La strinsetra le dita. Nel naso learrivòunodorebuonodigomma e pelle nuove.Mosse la lingua torpida
nella bocca, sentendo unsapore amaro. Con latorcia illuminòl’etichetta.
«Adidas Hamburg.MadeinChina.US8½UK8FR42».
Le tre strisce nere, latomaia scamosciatagialla, la suola colornocciola.
Cadde di culo a terra,si piegò in avanti e
poggiò la testa contro lemattonellefredde.
Provò a chiamareAstor, ma aveva perso lavoce. Espirò l’ariatrattenuta nei polmoni.Il cane, gli appendiabiticon le giacche, ildistributore dell’acqua,l’estintore rosso, lescatole azzurre, tutto legiravaattorno.
–Anna.Seilísotto?
Aprirono tutte lescatole, guardaronoovunque nel magazzinoe sopra nel negozio. Manonceneeranoaltre.
Astor si girava unascarpa tra le mani comese non fosse vera. Poi laporse alla sorella. – Dài,mettitele.
Anna lo guardò insilenzio, gli occhi lucidi,le labbra serrate. Si tolse
lentamente gliscarponcini, si pulí ipiedi con una maglia,allargò i lacci, tirò su lalinguetta e infilò unpiede. Fece il doppionodo.
Il fratello le passòl’altra.
Lei si sistemò unacioccadietrol’orecchio.–Unaperuno.
Uscirono da sotto lasaracinesca con ai piediun’Adidas e una scarpavecchia e si avviaronociabattando. Coccolonetrotterellava accanto aloro.
Il sole era scomparsodietro i palazzoni grigi,ma il cielo, in basso, netrattenevailrossore.
Una farfalla si levò daun carrubo galleggiando
in aria controvento. Unrefolo la trascinò verso ifratelli.SfioròicapellidiAnnaefusospintaversoAstor, che allungò lamano, si trattene per unistante sul palmo delbambino e riprese il suovolo incerto. Poi nearrivò un’altra e un’altraancora,finoachefuronoavvoltidacentinaiadialiche riempirono la via
comeunanevicatagiallaenera.
Superarono le case eimboccarono la rampad’accesso all’autostrada,che si appoggiava sulfianco di una collinatagliata dalle terrazzedellevigne.
Davanti al caselloAstor si fermò, tese lagamba e si guardò la
diventata un’immensarovina, una tredicennecocciuta e coraggiosaparte alla ricerca delfratellino rapito. Fracampi arsi e boschimisteriosi, ruderi dicentri commerciali ecittà abbandonate, fra igrandi spazi deserti diun’isola riconquistatadalla natura e selvaggecomunità disopravvissuti, Anna hacome guida il quadernoche le ha lasciato la
mammaconleistruzioniper farcela. E giornodopo giorno scopre cheleregoledelpassatononvalgono piú, dovràinventarnedinuove.
Con Anna NiccolòAmmaniti ha scritto ilsuo romanzo piústruggente.Unalucechesi accende nel buio eallarga il suo raggio perrivelare le incertezze, glislanci del cuore e lapotenza incontrollabiledella vita. Perché, come
L’autore
Niccolò Ammaniti hapubblicato Fango(1996,2014),Branchie(1997,2006,2015),Tiprendo e ti porto via
(1999,2014),Iononhopaura (2001, 2014),Come Dio comanda(2006), Che la festacominci (2009, 2015),Io e te (2010) e Ilmomento è delicato(2012).
©2015GiulioEinaudieditores.p.a.,Torino
ProgettograficodiRiccardoFalcinelli.
Incopertina:illustrazionedi
Chevnenko/Shutterstock.
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