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Disponibile anche: Libro: 15,00 euro con audiolibro omaggio (dal 27/1/12) e-book (download): 8,99 euro e-book + audiolibro su CD in libreria: 8,99 euro

Amore e Guerra

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Ilaria Goffredo, sentimentale

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Disponibile anche: Libro: 15,00 euro con audiolibro omaggio (dal 27/1/12) e-book (download): 8,99 euro e-book + audiolibro su CD in libreria: 8,99 euro

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ILARIA GOFFREDO

AMORE E GUERRA

www.0111edizioni.com

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www.0111edizioni.com

www.ilclubdeilettori.com

AMORE E GUERRA Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2012 Ilaria Goffredo ISBN: 978-88-6307-409-3

In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Gennaio 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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Dedico questo romanzo a tutti i martiri dei genocidi, vittime silenziose che restano solitarie sui campi di morte,

lontane dalle nostre coscienze.

NON GRIDATE PIÙ

Cessate d'uccidere i morti, non gridate più, non gridate

se li volete ancora udire, se sperate di non perire.

Hanno l'impercettibile sussurro, non fanno più rumore del crescere dell'erba,

lieta dove non passa l'uomo.

Giuseppe Ungaretti

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Prologo

Certe volte l’uomo non immagina neanche lontanamente di cosa i suoi simili siano capaci. Certe volte si rimane così stupiti davanti all’orrore da non riuscire a trovare le parole per descrivere agli altri ciò che si è visto. Certe volte però, l’amore è più forte del terrore, più forte della morte e sboccia delicato e inaspettato come un piccolo fiore in mezzo a un arido deserto.

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Parte prima

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Quando, da ragazzina, meditavo sul mio futuro pensavo di voler aiu-tare gli altri: volevo diventare un’insegnante o un’educatrice. Avevo scelto l’istituto per i servizi sociali della mia città, Cisternino in provin-cia di Bari, e fu proprio grazie alle fantastiche opportunità offerte dalla mia cara scuola che potei partecipare in quinto superiore a un’esperienza di volontariato della durata di un mese in una scuola di Bagamoyo, in Tanzania. «Siria, sei proprio sicura di volerci andare?» mi ammonì mia sorella a pranzo, un giorno di febbraio del 1989, quando le spiegai che avrei par-tecipato alla missione di volontariato in Tanzania. Mia sorella Elena era una ragazza alta, formosa, con occhi castani e capelli scuri e mossi, al contrario di me che ero alta solo un metro e sessanta, avevo un fisico asciutto, occhi grandi e castani e capelli biondi e liscissimi: lei assomi-gliava a nostra madre Marilena, tipica bellezza mediterranea, mentre io avevo gli stessi tratti di nostro padre Tommaso, originario del nord Ita-lia. Purtroppo erano venuti a mancare entrambi in un incidente d’auto quando io avevo solo nove anni e mia sorella, che all’epoca ne aveva diciannove, si era subito assunta una marea di responsabilità: andava a lavorare e svolgeva le faccende di casa occupandosi di me come fosse una mamma. Io la adoravo e tra noi c’era un legame speciale, si preoc-cupava per me ed era sempre molto apprensiva. «Sì, che ci voglio andare!» le risposi sbucciando una mela. «Quando mi capiterà un’altra opportunità del genere?» «Fai come vuoi.» sbuffò lei. «Ma sappi che io non sono d’accordo! Mi farai stare in pensiero!» Le porsi metà della mela che avevo appena pulito. «Non preoccuparti, me la caverò, sono grande abbastanza!» la canzonai.

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«Va bene.» mugugnò addentando il frutto. E così feci. Partii per Bagamoyo, una piccola città sulla costa tanzania-na, dove io e altre due mie compagne di classe affiancammo le missio-narie locali nell’insegnamento ai bambini che frequentavano la scuola. Dire che fu un’esperienza meravigliosa è dire poco: mi cambiò la vita. Amai tutto di quel viaggio: la gente straordinariamente cordiale che in-contrai, l’aria incredibilmente pura e leggera e la natura selvaggia e spontanea come non l’avevo mai conosciuta. I bambini, ai quali mi a-veva legata un profondo sentimento di affetto, mi avevano lasciato un segno indelebile nel cuore, mi avevano colpita profondamente con le loro vite di sofferenza e povertà e mi avevano cambiata per sempre. Al mio ritorno in Italia soffrii di un terribile mal d’Africa e decisi che vo-levo ritornare in Africa per impegnarmi seriamente nell’aiutare gli altri: non volevo restarci solo per un mese, volevo dedicare la mia vita ai po-veri e ai meno fortunati. Purtroppo però, dopo varie e infruttuose ricer-che, capii che nessuna associazione accettava una giovane di dicianno-ve anni con solo il diploma di tecnico dei servizi sociali. Così mi iscrissi all’università degli studi di Bari, alla facoltà di scienze della formazione, al corso per Educatore professionale nel campo del disagio minorile, della devianza e della marginalità. Le materie che stu-diavo riguardavano proprio quello che io volevo fare nella mia vita e non fu per niente pesante studiarle. Passarono tre anni durante i quali studiavo a pieno ritmo e a volte litigavo con Elena perché lei non vole-va che io partissi a tempo indeterminato per l’Africa. Mi laureai a feb-braio del 1993 a pieni voti e riuscii a trovare un’organizzazione no pro-fit che cercava educatori da inserire in un orfanotrofio alla periferia di Kigali, in Rwanda. Finalmente qualcuno che mi dava la possibilità di seguire la mia vocazione! Non esitai e accettai subito quell'incarico. «Mi raccomando a tutto.» mi salutò Elena con le lacrime agli occhi prima che prendessi l’aereo. «Non preoccuparti, ti telefonerò.» l’abbracciai. Ora che io avevo venti-quattro anni, la mia sorellona ne aveva trentaquattro, aveva un buon la-voro nello studio di un notaio e un fidanzato serio e responsabile, Anto-nio. «Se decidi di sposarti fammelo sapere!» «Non c’è questo pericolo!» sorrise tra i lucciconi. Non era molto pro-pensa al matrimonio, preferiva piuttosto la convivenza. «Ti voglio be-ne, stai attenta.» «Grazie di tutto!» La salutai correndo verso il mio gate.

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Fu un arrivederci difficile per entrambe: non eravamo mai state lontane per tantissimo tempo... E io non sapevo quando sarei tornata. Era il 1994 e lavoravo da un anno nell’orfanotrofio gestito dall’organizzazione ONLUS inglese ‘Children and brotherhood’, alla periferia della capitale ruandese. Sin dal primo giorno in cui avevo messo piede in Rwanda, avevo adorato quel Paese, la gente era affet-tuosa e cordiale e la natura era meravigliosa con i rigogliosi banani, le piantagioni di tè e soprattutto nella zona di Kigali il paesaggio era tutto un susseguirsi di verdi colline e grandi fiumi. Anche la fauna era molto ricca, in particolare tra le fronde degli alberi si nascondevano sempre grandi uccelli variopinti che emettevano suoni vivaci e singolari, ani-mando tutto ciò che c’era intorno a loro. Mi sentivo in pace con me stessa in quel luogo e, anche se era uno scenario molto diverso da quel-lo in cui mi ero immersa a Bagamoyo, in Tanzania, anche lì riuscivo a cogliere la vita pulsante e palpitante che trasudava dalla terra, dalle alte palme e dal cielo immenso, terso e luminoso. Kigali era una città molto gradevole: non aveva l’aspetto delle grandi metropoli africane come Nairobi e Johannesburg, piene di grattacieli. Aveva poche strade asfal-tate, la maggior parte infatti erano sterrate e fiancheggiate da file di al-beri e siepi colorate da ibisco e buganvillee e i tetti delle case, ricoperti di tegole rosse, davano alla città un tocco di calore e tranquillità. Spesso qua e la si notava spiegata la bandiera ruandese, verde, gialla e rossa con una grande ‘R’ nel mezzo. Con me lavoravano tre suore francesi e una inglese e due laiche come me, una italiana e una svizzera. Con le suore non avevo stretto una grande amicizia perché le sorelle francesi Adeline, Constance, Gabriel-le e la sorella inglese Isabel, erano molto più grandi di me e riservate e le mie conversazioni con loro riguardavano per lo più l’organizzazione delle lezioni e l’accoglienza dei bambini. Invece con le volontarie Ro-berta e Julia si era instaurata una bella amicizia. Roberta potevo dire che fosse la mia migliore amica laggiù: aveva trent’anni, era alta e slan-ciata, con capelli che davano sul rosso e lineamenti del viso sottili, con naso aquilino. Mentre Julia, che era bassina, con capelli biondo platino e tratti paffuti, aveva trentasette anni. La vita che conducevo lì, anche se era umile e dedita al lavoro, per me era piena e soddisfacente: facevo ciò che più mi faceva stare bene e cioè migliorare in qualche modo la vita di orfani africani. Tenevo le-

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zioni di geografia, di inglese e di francese e, insieme alle mie compagne laiche, mi occupavo di tenere puliti i bambini, che avevano tutti un’età compresa tra i tre e i dieci anni. Tenevamo anche pulita la scuola che in realtà era un basso edificio grigio composto da poche stanze che funge-vano da aule con muri azzurri scrostati e piccoli banchetti di legno. C’erano poi sei stanze da letto dove erano sistemati i venticinque letti dei bambini. Io, Roberta e Julia avevamo stanze singole, ma più che stanze erano piccoli ripostigli della grandezza di due metri per tre, con solo un letto singolo, una sedia di legno e un minuscolo armadio a mu-ro. Anche le stanze delle suore erano uguali alle nostre. Le religiose si occupavano della gestione della scuola, dei contatti con le altre missioni presenti sul posto e con la sede dell’associazione a Londra, insegnavano ai bambini il kinyarwanda, la lingua del luogo, un po’ di swahili, che era diffuso in diverse parti del paese, e tenevano lezioni di storia. Nel complesso la nostra era una bella struttura e funzionava bene. Certo, non avevamo acqua calda e televisione né facevamo pasti da re, ma non mancava nulla ai bambini e neanche a noi. Io ero davvero fiera di poter dare il mio contributo attivo nel migliorare il mondo ed ero pienamente consapevole che invece le altre ragazze del mio paese si preoccupavano solo di essere sempre sistemate, trovare un bel fidanzato e divertirsi. Ecco, l’amore era un pensiero che non mi sfiorava minimamente: non pensavo al mio futuro, se mi sarei sposata o sarei rimasta single a vita... Pensavo solo a donare anima e cuore ai piccoli angeli ruandesi che riempivano le mie giornate e la mia esistenza. Purtroppo però tutto attorno a me percepivo un clima di tensione politi-ca e sociale: in Rwanda c’erano due etnie principali, gli hutu e i tutsi che da anni non erano affatto in armonia tra loro. Un giorno mentre ero con Suor Isabel nella piccola lavanderia nel corti-le disseminato di pietre, le chiesi di spiegarmi perché c’erano queste ri-valità. La suora aveva circa sessant’anni, lavorava in Rwanda da alme-no trenta e di certo ne sapeva di più di me. «Vuoi davvero saperlo?» mi chiese a occhi sgranati. Era minuta ma piena di energia. «Sì, sorella, la prego.» Volevo capire l’ansia e l’angoscia che sentivo crescere nell’aria giorno per giorno. A malincuore Suor Isabel mi spiegò che il Rwanda era stato una colo-nia belga e furono proprio i belgi a introdurre nel 1926 la carta d’identità etnica, un documento personale che distingueva le persone in

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hutu e tutsi. Per la distinzione i colonizzatori si basavano sull’altezza e sulle misure del cranio, del naso... I tutsi erano alti, slanciati e dai line-amenti aquilini, eleganti secondo i belgi, mentre gli hutu erano più bassi e meno aggraziati. Proprio il Belgio pose al governo del Rwanda un re che apparteneva alla minoranza etnica tutsi perché, essendo in pochi, i tutsi erano più facili da controllare. I belgi, attraverso il governo tutsi, sfruttarono le risorse del territorio e il lavoro della stragrande maggio-ranza della popolazione hutu che, una volta morto il re Rudahigwa nel 1959, si ribellò contro l’aristocrazia tutsi uccidendo migliaia di persone. Per fortuna molti tutsi riuscirono a fuggire in Uganda, Tanzania e Zaire. Nel frattempo il Rwanda diventò indipendente e al governo salirono gli hutu, che nel 1962, 1963, 1967 rinnovarono le stragi ai danni dei tutsi. I tutsi vennero banditi dalle università, avevano solo due rappresentanti in parlamento, un solo sindaco, un ambasciatore, nessun incarico regio-nale e nessun elemento nell’esercito. Nel 1973 dopo nuove uccisioni, con il pretesto di riportare l’ordine nel Paese, il capo dell’esercito Juvé-nal Habyarimana, salì al potere con un colpo di stato instaurando un re-gime a un solo partito, il Mrnd (Mouvement Révolutionnaire National pour le Développement). Nel 1986 gli esuli ruandesi si riunirono nel Rpf (Rwandan Patriotic Front), un’organizzazione composta da tutsi e hutu moderati che voleva combattere le ingiustizie ai danni della mino-ranza etnica. Nel 1990 il Rpf invase il Rwanda dando vita ad aspri combattimenti a cui seguì una tregua. Successivamente l’esercito ruan-dese cominciò ad addestrare e armare segretamente l’Interahamwe, una milizia civile da aizzare contro i ribelli del Rpf. Nel 1993 il Rpf iniziò una nuova offensiva e dopo mesi di trattative Habyarimana accettò di condividere il potere con gli hutu moderati e il Rpf. «Quindi ora la situazione si è stabilizzata?» chiesi alla suora. Eravamo a fine marzo del 1994. Lei scosse mestamente la testa. «Non credo proprio... Ascolta Radio Mille Collines e senti cosa trasmettono!» detto questo raccolse la sua cesta di bucato e si allontanò. “Che storia travagliata.” pensai al Rwanda e a tutte le persone che ave-vano sofferto e continuavano a soffrire. Mi sembrava tutto così ingiu-sto! In fondo erano stati i colonizzatori belgi a evidenziare le differen-ze tra la popolazione e a privilegiare un’etnia anziché l’altra. E poi, co-sa avevano fatto? Se ne erano andati senza preoccuparsi di ristabilire l’ordine.

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«Che fai?» mi chiese Roberta dopo cena mentre cercavo di far funzio-nare una vecchia radiolina che avevo trovato nella scuola. «Un attimo...» Armeggiai ancora un po’ con le rotelline delle frequenze e alla fine una voce uscì dalla radio: era lo speaker dell’emittente Mille Collines. «Cari amici hutu... È arrivato il momento di riprenderci il Rwanda! Questo Paese è terra degli hutu! Liberiamoci degli scarafaggi... Disinfe-stiamo il Rwanda... Rispediamo i tutsi in Etiopia!» Una voce di uomo esortava ad aggredire i tutsi. «Ma che significa rispedire i tutsi in Etiopia?» mi chiese Roberta senza capire. Scrollai le spalle. «Non ne ho idea.» «Erroneamente» intervenne Julia «molti hutu credono che i tutsi siano originari dell’Etiopia e altrettanto erroneamente credono che molti fiu-mi ruandesi passino per quel Paese... In pratica la radio sta incitando gli hutu a gettare nei fiumi i tutsi!» «Oh, mio Dio!» disse Roberta in un soffio. “Oh, mio Dio!” pensai e continuai a fissare la radiolina nera dalla quale la voce dell’uomo, un estremista hutu, fuoriusciva insistente. «Ragazze, basta!» Sentii una voce femminile e austera alle nostre spal-le. Mi voltai e, alla luce tremolante delle candele accese sul nostro tavolo nel cortile, vidi Suor Adeline con le mani sui suoi larghi fianchi. «I bambini sono spaventati!» continuò indicando un gruppetto di bam-bini affacciati sul cortile dal buio della porta d’ingresso di legno scuro. «Ha ragione, spegnila!» mi disse Julia indicando la radio. «Mi dispiace.» mi scusai con la suora e mi alzai. Effettivamente molti di quei bambini erano tutsi e ascoltare certe cose doveva davvero terro-rizzarli. Anche se erano piccoli avvertivano il clima d’odio che aleggia-va nell’aria. «Forza, andiamo a letto!» Roberta corse verso gli orfani con la sua soli-ta allegria. Entrai e vidi un bambino raggomitolato in un angolo che non aveva se-guito gli altri. Mi chinai davanti a lui. «Ehi, Thomas, cosa c’è?» Non rispose.

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«Dai, vieni a letto.» Lo presi delicatamente per mano, lui si alzò e mi seguì. «Siria.» mi chiamò prima che lo facessi entrare nella sua stanza. Aveva otto anni, era magro e aveva grandi occhioni scuri. Era un bambino piuttosto sveglio e a dire la verità non sapevo come aveva perso i suoi genitori. «Dimmi, Thomas.» «Mi prometti che non mi lascerai solo?» chiese timidamente. «Cosa?» Lo guardai con tenerezza. «Ma che dici? Starò sempre qui con voi!» «Davvero?» «Sì, ora vai a dormire!» «Va bene!» Mi sorrise raggiante e corse al suo letto. Il giorno seguente andai con Julia al mercato per comprare da mangia-re. Il mercato dal quale noi compravamo rifornimenti per l’orfanotrofio distava solo un paio di chilometri e ci andavamo con il pulmino che il parroco della vicina parrocchia di Saint Antoine metteva a disposizione per noi. Le bancarelle di ambulanti erano disposte su di una lunga stra-da impolverata e certo un ricco occidentale non avrebbe apprezzato il cibo posto direttamente su tavole di legno ed esposto all’aria con il ri-schio di contatto con mosche e zanzare. Purtroppo però non c’era altro e noi ci accontentavamo di quello, provvedendo a lavare per bene e cuocere con cura ogni tipo di cibo prima di servirlo ai bambini e man-giarlo noi stesse. «Salve ragazze!» Alzai gli occhi dal banco della verdura e vidi Jimmy che ci stava davan-ti. Jimmy era un giovane tenente canadese dell’Onu che era diventato nostro amico quando era stato qualche notte di guardia davanti all’orfanotrofio e alla parrocchia di Saint Antoine. Era molto alto e lon-gilineo, con capelli biondi rasati e occhi azzurri e leggermente allunga-ti. Avevo sempre pensato che fosse un bel ragazzo. Come ogni volta in cui l’avevo visto indossava una divisa beige chiaro con un gilet azzurro e un elmetto azzurro con la scritta bianca ‘UN’. «Ciao, Jimmy!» lo salutò Julia, felice di vederlo. Secondo me la mia collega aveva un debole per lui, ma conoscendola, non si sarebbe mai dichiarata. «Ciao!» lo salutai anch’io.

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«Che ci fai da queste parti?» gli chiese Julia. «Oggi sono di pattuglia in quest’area.» rispose lui sorridente. Ma vede-vo che guardava più spesso me anziché la mia amica. Mi feci seria. «Allora, com’è la situazione? Noi abbiamo ascoltato Ra-dio Mille Collines e quello che trasmettono è allucinante!» «Sì, lo so, gli estremisti stanno istigando gli hutu a uccidere i tutsi. Le organizzazioni per i diritti umani presenti a Kigali stanno avvertendo la comunità internazionale della catastrofe imminente.» rispose cupo. «Catastrofe?» gli fece eco Julia. «Cosa pensi che succederà?» «Non so risponderti... Ma molti attivisti ruandesi stanno evacuando i loro familiari da Kigali. Credono che presto avranno inizio nuove stragi contro i tutsi.» «Oh, no...» sussurrai. «Voi ragazze, state attente. Se qualcuno dell’Interahamwe vi chiede di visitare l’orfanotrofio non fateli entrare, sono pericolosi.» continuò Jimmy guardandosi intorno con aria circospetta. «Va bene...» «Non voglio spaventarvi, ma se avete bisogno di qualcosa raggiunge-temi alla base dell’Onu.» Nelle ultime settimane in Rwanda erano state inviate diverse truppe delle Nazioni Unite al fine di vigilare sulla pace precaria tra l’esercito e il Rpf. Purtroppo i soldati di pace, anche se erano ben addestrati, non avevano l’autorizzazione di intervenire militarmente e neanche di usare le armi, quindi il loro compito era per lo più quello di osservare e tra-smettere notizie ai governi occidentali. Di certo le loro basi erano delle oasi di calma, perché nessuno dei due fronti si azzardava ad attaccare le forze di pace internazionali. La guarnigione di Jimmy si trovava nel quartiere amministrativo, dall’altra parte della città. «Grazie, Jimmy.» lo ringraziai posandogli una mano sul braccio e lui mi sorrise cercando di sembrare rassicurante. Sulla strada del ritorno, mentre Julia guidava, vidi numerose jeep di troupe televisive straniere: in quel momento le vicende del Rwanda e-rano sotto gli occhi della stampa mondiale. Lentamente notai profilarsi all’orizzonte una massa colorata che gridava a gran voce. Erano i mili-ziani dell’Interahamwe che sfilavano in un corteo per le vie della città. Indossavano una divisa variopinta e urlavano motti contro i tutsi sfog-giando striscioni di propaganda. Alcuni erano armati di machete.

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«Oh, Signore, fa che non accada nulla...» sentii Julia pregare sottovoce e il mio pensiero corse ai nostri bambini all’orfanotrofio. “Non credo che se la prenderebbero con i bambini” conclusi nella mia mente cercando di tranquillizzarmi.

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Parte seconda

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«Domani mattina verranno dei giornalisti qui all’orfanotrofio.» ci co-municò Suor Constance durante la cena. Mangiavamo patate e carne nel piccolo cortile accidentato davanti alla scuola. I bambini chiacchierava-no tra loro come al solito e mangiavano con gusto. «Giornalisti?» Le chiese Roberta incuriosita. «Sì, sono giornalisti americani della CNN. Vogliono visitare l’orfanotrofio e parlare con voi volontarie.» Rispose Suor Adeline. «E di cosa vogliono parlare?» domandò ancora Roberta. «Secondo te di cosa?» sbottò Julia. «Vorranno sapere come noi viviamo questa situazione politica tesa, come la vivono i bambini... I giornalisti sono solo dei gran rompiscatole!» «Saranno anche dei rompiscatole, ma è giusto che il mondo sappia cosa accade qui in Rwanda!» replicai decisa. Roberta era rimasta zitta. «Mmm... Può essere.» concluse Julia sovrappensiero. Quella notte non riuscii a dormire granché. Fissavo il soffitto sopra il mio letto e ascoltavo il silenzio della notte ruandese mentre fastidiose zanzare mi ronzavano nelle orecchie. Chissà come stava mia sorella E-lena? Chissà com’era preoccupata per me! Sicuramente in televisione aveva sentito qualcosa riguardo al Rwanda... Decisi che nei giorni se-guenti le avrei telefonato per tranquillizzarla. «Grazie, Siria.» Dafina mi abbracciò quando finii di sistemarla con i suoi abiti migliori prima dell’arrivo dei giornalisti. Dafina era una bam-bina tutsi di sei anni che viveva nell’orfanotrofio da quando ne aveva due. I suoi genitori una sera erano usciti per andare a trovare degli ami-ci e non erano più tornati. «Di niente!» Le sorrisi accarezzandole la massa di capelli ricci e ribelli.

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«Vieni, Siria, presto! Sono arrivati!» Roberta mi chiamò a gran voce dal corridoio. «Arrivo, arrivo.» Quel giorno anch’io mi ero sistemata un po’ meglio, in fondo i giornali-sti avrebbero potuto riprendermi con la telecamera! Avevo i capelli biondi lasciati sciolti sulle spalle e indossavo un vestito rosa chiaro sen-za maniche lungo fino al ginocchio. Del resto non avevo con me chissà che guardaroba... Aprii la pesante porta di legno dell’ingresso e uscii in cortile. Roberta e Julia erano ferme pochi metri più avanti e parlavano con un uomo sulla quarantina che reggeva un taccuino. L’uomo era alto e magro, con ca-pelli quasi totalmente grigi e occhiali rettangolari sul naso, indossava una camicia a righe bianche e blu e pantaloni neri. Accanto a lui un al-tro uomo che poteva avere circa trentacinque anni reggeva un microfo-no su di una lunga stecca. Sembrava di origini asiatiche, ma parlava correntemente l’inglese e indossava jeans chiari e una polo gialla. Mi avvicinai ai due e notai che dietro di loro c’era un terzo giornalista accovacciato che cercava qualcosa in una grande borsa nera poggiata sui ciottoli del cortile. «Salve.» salutai timidamente i due uomini in piedi. «Oh, salve, signorina, piacere, io sono Carl Kingstone.» mi disse l’uomo sulla quarantina tendendomi la mano. «E lui è il mio collabora-tore John Sorbit.» indicò l’amico forse giapponese. «Piacere mio, Siria Laurenti.» risposi cordiale. «Ian, insomma, hai finito? Aspettiamo solo te!» disse Carl al ragazzo piegato sulla borsa nera. Ora che ero più vicina vidi che armeggiava con una telecamera. «Sì, non trovavo la lente giusta!» si giustificò questi alzandosi. Lo guardai: era un ragazzo alto circa un metro e ottanta, con capelli ca-stano scuro portati molto corti, occhi grandi di un verde chiaro pene-trante. Sotto la maglietta scura attillata scorgevo un fisico ben allenato. Indossava pantaloni beige con diverse tasche e scarpe da ginnastica scure. Era davvero bellissimo. I nostri occhi si incrociarono per un attimo e mi sembrò che mi fissasse più a lungo del normale. «Piacere, Roberta.» gli si avventò subito addosso la mia amica e lui fu costretto a distogliere il suo sguardo dal mio. «Piacere, Ian.» rispose lui stringendole la mano protesa.

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«Io sono Julia.» si fece avanti l’altra mia collega. Anche qui lui ricam-biò la stretta. Poi guardò me, ma io non parlai. «Piacere, Ian Knightley.» mi disse cercando la mia mano. Io ero come paralizzata, ma riuscii ad alzare la mano per stringere la sua. Aveva una stretta forte ma delicata. «Siria Laurenti.» dissi fissando quei favolosi occhi chiari. «Bene!» Carl interruppe il nostro scambio di sguardi. «Possiamo co-minciare.» Ian imbracciò la telecamera mentre Carl cominciò a farci domande sul-le nostre impressioni riguardo alla situazione politica, su cosa ne pensa-vamo della divisione della popolazione in due diverse etnie e su come si comportavano i nostri bambini, se avvertivano l’aria di angoscia che aleggiava in tutta la città. Io lo ascoltavo e rispondevo come meglio potevo ma ero sempre attratta dagli sguardi intensi che Ian mi rivolgeva. Il cuore mi batteva forte quando mi accorgevo che lui mi fissava o mi riprendeva più delle altre volontarie. “Ma che cavolo mi sta succedendo?” pensai mentre Carl prendeva ap-punti sul suo taccuino di pelle. Portammo i giornalisti a visitare l’orfanotrofio e i bambini li accolsero con gioia cantando per loro una canzone in kinyarwanda. In quel mo-mento adorai ancora di più i miei piccoli angeli: sapevano davvero toc-carti il cuore con un sorriso! Infine i giornalisti parlarono anche con le suore che però non vollero rilasciare interviste. Dopo aver fatto diverse riprese, Ian spense la grande telecamera e mi si avvicinò. Io ero l’ultima della fila. «Ciao.» mi disse camminando al mio fianco mentre il gruppo si dirige-va di nuovo in cortile. «Ciao.» risposi guardandolo timidamente. «Siria... posso chiederti una cosa?» mi disse scrutando i miei occhi. «Certo...» Mi aveva colta di sorpresa. «Voi ragazze state sempre qui in orfanotrofio?» «Cosa? Sì...» Non avevo capito bene il senso di quella domanda. «Voglio dire... non uscite mai?» Mi colpì. «Intendi uscire la sera?» Temevo di aver fatto la figura della stupida. «Prego.» Ian mi aprì la porta di legno che dava sul cortile. «Grazie.»

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«Sì, non uscite mai di sera?» continuò la conversazione sotto il caldo sole di mezzogiorno. «Veramente no... Solo qualche volta per assistere a dei convegni negli hotel qua vicino.» Ma perché era così curioso? «Perfetto! Allora ti invito a un’assemblea delle Nazioni Unite e di al-cune associazioni non governative che operano qui in zona. Discute-ranno della situazione difficile che si sta delineando a Kigali. Inizia alle 21.00 all’hotel Sultan.» Mi sorrideva... Quel ragazzo aveva qualcosa che riusciva a mettermi a disagio. «Veramente io non so...» «Vengo a prenderti io.» mi interruppe. «Ho a disposizione la jeep della troupe.» Disse indicando una jeep beige parcheggiata nel cortile. Rimasi senza parole. Sorrise compiaciuto. «Allora ci vediamo alle 20.30!» Concluse corren-do verso l’auto dove i suoi colleghi stavano caricando le attrezzature. «Ehi... ma che succede?» Roberta mi aveva vista parlare con Ian e ve-deva anche la faccia sorpresa che avevo in quel momento. «Mi viene a prendere alle 20.30...» dissi sovrappensiero. «Cosa?» Roberta spalancò la bocca. «Ti ha invitata a uscire?» Tornai in me. «No!» esclamai. «Stasera c’è una conferenza dell’Onu e mi ha invitata a partecipare. Sicuramente lui può entrare con la sua tes-sera da giornalista.» «Che fortuna...» Mi diede una gomitata. «È proprio un bel tipo, però...» Arrossii di colpo. «No, che dici! Forza, andiamo a cucinare!» Mi avviai a passo spedito verso la cucina. Nel pomeriggio parlai con le suore per avvisarle che avrei partecipato a un convegno quella sera e loro sembrarono molto tranquille. Ero io in-vece che non ero tranquilla. Come mai Ian aveva deciso di invitarmi? In fondo non lo conoscevo per niente! Dovevo fidarmi di lui? Forse sì... e in fondo ero curiosa di sapere cosa avessero da discutere le Nazioni U-nite. Cenai con i bambini e le mie colleghe e poi verso le otto corsi in came-ra mia a prepararmi. Mi vestii con un vestito beige chiaro a bretelle e sandali dello stesso colore; faceva molto caldo quella sera. Poi mi spaz-zolai per bene i capelli mentre mi specchiavo nell’unico specchio di tut-ta la scuola che si trovava nel piccolo bagno che avevamo in comune

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noi volontarie con le suore. Avevo ancora qualcosa della scorta di mati-ta e eyeliner che mi ero portata dall’Italia un anno prima, così mi truc-cai con cura gli occhi con quel colore nero leggero che tanto mi piace-va. «Ehi, ma allora è un appuntamento!» Julia mi sorprese mentre uscivo dal bagno. Le diedi una piccola spinta. «Ma dai! Voglio solo essere presentabile visto che all’hotel ci sarà un sacco di gente!» «A proposito, se incontri Jimmy salutalo da parte mia.» «Jimmy?» «Se è una conferenza dell’Onu c’è la possibilità che ci sia anche lui, no?» «Sì, può essere...» «Siria.» la voce di Suor Isabel era alle mie spalle. «Mi dica, sorella.» La suora aveva uno sguardo preoccupato. «Mi raccomando, fai atten-zione. Spesso i giornalisti restano da queste parti pochi giorni e voglio-no trascorrere del tempo con le ragazze più carine...» Mi stava davvero dicendo una cosa del genere? Mi meravigliai della suora. «Non si preoccupi... Io vado lì solo per la conferenza.» mi giusti-ficai. Mormorò qualcosa tra sé e si avviò alla sua stanza. Però le sue parole mi fecero riflettere. E se Suor Isabel avesse avuto ragione? Ian quali scopi aveva realmente? «Siria, c’è un’auto nel cortile!» Julia interruppe il flusso dei miei pen-sieri. Era davanti a una delle finestre del corridoio. «È arrivato!» Un brivido mi attraversò da capo a piedi. “Ok” pensai. “Ormai è fatta.” Mi avviai a passo deciso fuori dalla scuola e raggiunsi l’auto che con i suoi grandi fari illuminava il cortile spoglio. Era la jeep della troupe. «Ciao.» mi salutò Ian quando aprii la sportella ed entrai in macchina. Non era una macchina nuovissima, ma aveva una bella radio e la pelle chiara dei sedili era intatta. Ian indossava una polo bianca e pantaloni di cotone neri. Stava benissimo e per fortuna non era elegante come teme-vo. Mi sarei sentita fuori luogo se lui fosse stato tutto in tiro. «Ciao.» Gli rivolsi un abbozzo di sorriso e i suoi occhi chiari sorrisero a loro volta.

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«Andiamo.» Fece manovra e uscimmo in strada. La strada sterrata si affacciava su diverse abitazioni. Io guardavo fuori dal finestrino, ero imbarazzatissima e non sapevo cosa dire o cosa fare... Che ci facevo in macchina con lui? «Siamo in perfetto orario per l’inizio dell’assemblea.» disse mentre guardava davanti a sé. Aveva una guida calma e sicura nonostante la strada fosse disseminata di buche. «Scusa, ma possono partecipare tutti?» volli sapere. «No, io posso entrare perché sono un giornalista della CNN.» disse fie-ro. Un vecchio furgone ci passò davanti illuminando per un attimo i suoi occhi chiari... Sperai che non si accorgesse che lo fissavo. «E io come farò a entrare?» chiesi tornando in me. Lui mi guardò per un attimo. «Quando sei con me non devi preoccupar-ti di nulla!» Credo proprio che diventai bordeaux, così non risposi e guardai fuori dal finestrino. In lontananza vidi il bagliore di un incendio nell’oscurità di quella strada senza lampioni. «Ma che diavolo...» sussurrai. Mentre ci avvicinavamo capii che il fuo-co proveniva da una capanna: davanti all’ingresso c’era una jeep con alcuni miliziani dell’Interahamwe. «Presto, vieni!» Ian mi chiamò all’improvviso e mi indicò il volante dell’auto. «Cosa?» «Passa un attimo al posto di guida, devo riprendere!» «Ma come faccio...» Non ebbi il tempo di finire la frase che mi prese una mano e me la mise sul volante, poi mi sollevò e in un attimo mi fe-ce scivolare al posto di guida passando sotto di me. Mi sentii avvampa-re a quel contatto, ma lui era totalmente preso da altro. «Ascolta, non devi fermarti. Hai capito? Per nessun motivo.» disse ti-rando fuori una piccola telecamera dal cruscotto di plastica nera. «Ok...» risposi senza capire. Ma che stava succedendo? Passammo davanti alla casa in fiamme e sentii urla di donne mentre un uomo veniva trascinato verso l’auto della milizia da due ragazzi in divi-se colorate. Rimasi senza fiato davanti a quella scena e pensai che dovevamo inter-venire. «Dobbiamo fare qualcosa!» esclamai.

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«Non rallentare!» mi ammonì Ian mentre con la telecamera nascosta sotto un telo riprendeva la scena da dietro il finestrino. «Ma...» tentai di replicare ma lui non volle sentire ragioni. A quel pun-to, incapace di pensare, feci come mi aveva detto e continuai la nostra corsa nella notte. «Ok, accosta un attimo.» mi disse dopo un po’. Ora la sua voce era più tranquilla. Fermai la jeep sul bordo della strada e lui venne ad aprirmi la portiera. «Grazie. Puoi tornare al tuo posto.» Quando ripartimmo gli chiesi spiegazioni. «Ora posso sapere cos’è suc-cesso?» Si fece serio. «Hai visto i miliziani?» «Sì, ma che stavano facendo?» «Sicuramente l’uomo che stavano arrestando era un tutsi. Hanno preso lui e hanno incendiato la sua casa.» «È terribile... Ma perché?» Non riuscivo a credere a una cosa del gene-re. «Perché è tutsi. Basta, tutto qui.» «E possono farlo?» «Di regola no... Non hanno buoni motivi... Ma anche la polizia è d’accordo.» Lui, che veniva da fuori, conosceva la situazione molto meglio di me. Ma in fondo Ian era un giornalista e io invece vivevo prevalentemente nei confini dell’orfanotrofio. «Non sai che l’esercito di Habyarimana è favorevole allo sterminio dei tutsi?» Mi fece sentire stupida. «E tu sei sicuro di quello che dici?» «Vorrei tanto sbagliarmi, credimi.» La sua voce divenne più dolce. «Comunque dovevamo aiutarlo...» «Ah, sì? E come? Buttandoci davanti ai fucili dell’Interahamwe?» Quella risposta mi zittì. Guardai fuori: ancora case e capanne, la mag-gior parte illuminate da candele. Per fortuna non incontrammo altri mi-liziani e altri incendi. Ian parcheggiò in una grande area asfaltata sorvegliata da tre soldati dell’Onu che dava su di un atrio ampio con mattoni rossi. Davanti a noi si ergeva la grande struttura bianca e rossa dell’hotel Sultan. Scese per primo e venne ad aprire la mia portiera. Io ero ancora pensie-rosa per ciò a cui avevo assistito poco prima.

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«Tutto bene?» mi chiese tendendomi la mano per aiutarmi a scendere dalla jeep. Posai la mia mano destra sulla sua e lui me la strinse. Per l’imbarazzo scesi senza guardarlo. «Non va tutto bene.» ammisi. «Mi dispiace, non avevi mai visto cose del genere?» «No... ma tu sì?» Spalancai la bocca. «È il mio lavoro. Purtroppo vedo sempre più spesso scene come quella di stasera.» Non risposi. Non potevo accettare la realtà a cui avevo appena assistito. «Ahi!» Avevo sentito il pizzico di una zanzara sul braccio. Le zanzare africane non erano leggere e impercettibili come quelle che io avevo conosciuto per ventitré anni nel mio dolce paesino sulla Valle D’Itria. Le zanzare che c’erano lì in Rwanda erano enormi e a volte facevano male. «Vieni, entriamo.» Dolcemente mi posò una mano sulla schiena e mi guidò verso l’ingresso dell’hotel. Io mi sentivo così strana a quel suo tocco... «Tesserino, prego.» ci disse un omone alto in divisa nera e bianca da-vanti alla hall. Ian gli mostrò la sua tessera da giornalista su cui c’era una sua foto, po-chi dati e la scritta a caratteri cubitali ‘Press’. «E la signorina?» disse l’uomo indicando me. “Ecco lo sapevo!” pensai. Come avrei fatto a entrare? «La signorina è la mia fidanzata.» disse Ian serio. «Prego, passate.» l’uomo ci liberò il passaggio e noi entrammo in una grande hall con pavimento in marmo beige, enormi lampadari di cristal-lo e divanetti in pelle tutt’intorno al perimetro. Guardai il mio accompagnatore a occhi sgranati. «Cosa gli hai detto?» «Sei entrata, no? È questo quello che conta!» Sorrise. «Vieni, da questa parte.» Attraversammo il grande ingresso gremito di turisti e persone in abiti formali ed entrammo in una sala molto grande. L’arredamento era dello stesso stile dell’ingresso ma lo spazio era completamente stipato di se-die. Sul palco una grande bandiera azzurra con il simbolo dell’Onu e la scritta ‘UN’. Il locale era pieno di uomini d’affari e giornalisti ma non vedevo Carl e John, i colleghi di Ian.

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«Non ci sono i tuoi colleghi, stasera?» gli chiesi a voce alta per farmi sentire in mezzo a tutto quel vociare. La conferenza non era ancora ini-ziata. «No, loro sono in visita a un altro hotel qua vicino per parlare con la Croce Rossa.» Mi guardò con i suoi begli occhi penetranti. «Capisco.» Quindi voleva dire che ero sola con lui. Comunque fino a quel momento si era comportato bene. Mentre cercavamo delle sedie libere mi sentii chiamare da una voce familiare. Mi voltai e trovai Jimmy sorridente davanti a me, ovviamente era in divisa. «Ciao!» mi salutò raggiante abbracciandomi. «Ciao, sei di guardia qui?» gli chiesi. Ian era dietro di me. «Sì, diciamo che questa per me è una serata tranquilla. Mai nessuno viene a disturbare le conferenze dell’Onu.» «Mi fa piacere.» gli sorrisi e lui sorrise a me in un modo... «Sei con le tue colleghe?» «Ah, no, sono venuta solo io dall’orfanotrofio, mi accompagna lui.» ri-sposi indicando il mio accompagnatore. Ian porse la mano a Jimmy. «Piacere, Ian Knightley, giornalista della CNN.» Jimmy gli strinse la mano e lo studiò con sguardo indagatore. «Piacere mio, James McGregor, tenente delle Nazioni Unite.» C’era un non so che di tono di sfida nella voce di entrambi. «Ti salutiamo, noi dobbiamo prendere posto.» disse Ian al giovane te-nente. Mi mise una mano sulla schiena e mi sospinse dolcemente verso alcune sedie vuote. Sorrisi a Jimmy. «Ciao, ci vediamo, allora.» «Mi raccomando a te.» rispose lui guardando il mio nuovo amico. Ci sedemmo in terza fila; si vedeva bene il palco dove un uomo sulla quarantina con una divisa dell’Onu stava sistemando il microfono per parlare. Probabilmente era un ufficiale di alto grado. Ian tirò fuori dal marsupio la telecamera che aveva usato poco prima per riprendere gli uomini dell’Interahamwe. «Chi è quel tizio?» mi chiese sistemando l’obiettivo della telecamera. «Cosa?» «Chi è quel McGregor?» si spiegò meglio. Ma che cavolo di domanda era quella? «Jimmy è un mio caro amico.»

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«Amico?» indagò. Lo guardai cercando di cogliere spiegazioni nel suo sguardo. «Sì, ami-co. Qual è il problema?» «Hai visto come ti guarda? Per lui tu non sei solo un’amica.» Strabuzzai gli occhi. «Davvero?» Avevo notato certe volte che Jimmy mi guardava con insistenza ma non ci avevo mai dato tanto peso. Ian annuì. «Stai attenta ai soldati.» «Che vuoi dire? Jimmy si è sempre comportato bene e a volte è stato di guardia all’orfanotrofio.» Non capivo da dove venisse tutta quella diffi-denza. «Sai cosa si dice su di loro... Ai soldati piace andare con diverse donne per sfogare la tensione della guerra...» Forse iniziavo a capire... Era geloso? «E sai cosa si dice dei giornali-sti?» risposi con aria di sfida. «Anche a loro piace avere diverse avven-ture nei posti che visitano!» Mi guardò serio. «Non mi approfitterei mai di te.» Il tono della sua vo-ce, così profondo e carezzevole, mi tolse il fiato. «Buonasera a tutti!» Una voce che proveniva dal palco risuonò striden-te nel microfono. Distolsi i miei occhi da quelli di Ian e guardai l’uomo che parlava: era l’ufficiale che avevo notato poco prima. «Sono il maggiore Ondore dell’Onu. Siamo qui, oggi 1 aprile, per di-scutere i pericoli reali della difficile situazione politica che si sta crean-do qui in Rwanda.» Ian accese la telecamera e inquadrò il maggiore. Quello, dopo una bre-ve introduzione, passò la parola ad altri ufficiali che esposero le situa-zioni a cui avevano assistito in diverse zone del Paese. Molti racconta-rono che in alcune aree le stragi di tutsi erano già cominciate. La parola passò poi a diverse associazioni umanitarie che operavano nei territori limitrofi a Kigali e anche loro confermarono che la situazione presto sarebbe peggiorata. «Il loro obbiettivo sono i bambini tutsi: gli estremisti hutu vogliono spazzare via la prossima generazione per impedire che in futuro i tutsi formino un esercito di ribelli come è successo con gli esuli ugandesi che hanno costituito l’Rpf!» disse una giovane attivista bionda come il sole. «Oh, Dio!» mormorai. I bambini no... Pensai ai miei dolci orfani e un brivido di terrore mi percorse al pensiero che qualcuno avrebbe potuto

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far loro del male. Ian mi posò una mano sul braccio, aveva notato che ero molto scossa. «Vuoi che usciamo?» mi chiese dolcemente. «No, voglio ascoltare.» Ancora per una buona mezz’ora il dibattito continuò senza riuscire ad arrivare a una conclusione reale. «Che succederà ora?» chiesi a Ian mentre uscivamo dalla sala confe-renze. «Non lo so, ma la situazione non è per niente positiva.» «Già.» risposi pensierosa. «Visto che siamo qui, ti va di prendere qualcosa da bere?» mi chiese gentile. «Sì, ok.» risposi d’istinto. Volevo distrarre un po’ la mente dalle cose terribili che avevo sentito. Mi portò in una veranda che si affacciava direttamente sulla piscina dell’hotel. Il bar era arredato con bassi tavolini in vetro e poltroncine in vimini con grandi cuscini bianchi, le luci erano soffuse e c’era un’atmosfera molto intima nonostante il gran numero di turisti. Notai che Ian sapeva benissimo come muoversi all’interno di quella struttura. «Conosci bene questo albergo!» «Veramente è qui che alloggiamo io e i miei colleghi.» Mi sorpresi. «Ah, è per questo che mi hai portata qui?» indagai. Lui rise. «Guarda che non sono un soldato!» Sospirai e mi sedetti su di un divanetto. «Cosa prendi?» mi chiese il mio accompagnatore. «Ah, non lo so, fai tu, l’importante è che non sia molto alcolico.» Ian ordinò per entrambi un liquore che io non conoscevo. Dopo pochissimi istanti il cameriere ci portò dei bicchieri con un liqui-do cremoso e dal colorito chiaro. «Brindiamo a questa serata!» Tintinnò il suo bicchiere con il mio. Assaggiai: era dolce e dal gusto delicato. «Ti piace?» mi chiese. «Molto!» «Bene.» Sorrise. «Allora, parlami di te.» «Di me? Che vuoi sapere?» «Non so, da dove vieni, come mai ti trovi in questo sperduto luogo dell’Africa...» Sorseggiò il suo drink.

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Gli raccontai dell’Italia, di Cisternino il mio paese natale, che era un paese piccolo ma molto rinomato per il turismo grazie al suo bellissimo centro storico di epoca barocca e alla possibilità di degustare la carne tipica locale in trattorie caratteristiche. Gli dissi che avevo ventiquattro anni e gli parlai anche della mia famiglia e del mio viaggio a Bagamo-yo, in Tanzania, che mi aveva cambiato la vita. «E così sei qui da un anno...» convenne. «Sì, mi trovo benissimo a lavorare all’orfanotrofio. Comunque basta parlare di me, dimmi di te.» Ian era originario di New York e da qualche anno era andato via dalla casa dei suoi genitori trasferendosi in un appartamento vicino a Ellis Island. Dopo essersi laureato aveva lavorato per diversi giornali ne-wyorkesi, finché un uomo della CNN l’aveva notato e gli aveva propo-sto di fare l’inviato per la sua emittente. Aveva lavorato in Sudafrica e in Etiopia prima di giungere in Rwanda. «Ti piace il tuo lavoro?» gli chiesi mentre prendevamo il secondo drink. «Sì, molto. Mi permette di viaggiare e di conoscere il mondo.» «Non mi hai detto quanti anni hai.» gli ricordai. «Ne ho ventinove. È un problema?» Mi sorprese. «Un problema per cosa?» «Niente, scherzavo!» Sorrise e io quasi mi persi in quegli occhi chiari e profondi. «Ti va di uscire a prendere un po’ d’aria?» Indicò la piscina. Annuii e mi alzai sorridente. Era così bello... e io adoravo stare in sua compagnia. Era da molto tempo che non mi interessavo così tanto a un ragazzo. “Basta Siria, controllati!” mi dissi. La grande piscina olimpionica era chiusa a quell’ora e non c’era gente in acqua. Tutt’intorno c’erano tavolini in legno rotondi con grandi om-brelloni in paglia e sedie a sdraio in vimini. I faretti disposti nel prato illuminavano gli alti banani dando all’atmosfera una dimensione magi-ca. Ci sedemmo sul bordo della piscina e io alzai gli occhi a guardare il cielo. Ogni volta, ogni notte, quella visione mi toglieva il fiato. Era un anno che vivevo lì ma non mi ero ancora abituata allo splendore incre-dibile del cielo africano di notte: era un’immensa distesa di stelle grandi

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e luminose, impossibili da contare. Pensavo spesso che non avrei potuto vivere lontana da quel firmamento. «La prima cosa che mi è piaciuta dell’Africa è stato il cielo.» Mi disse Ian guardando anche lui sopra le nostre teste. «È meraviglioso.» «Sì, hai ragione.» concordai. «Sai» mi guardò «volevo ringraziarti per aver accettato il mio invito.» mi disse serio. «Di niente... Ma non era un appuntamento, mi hai chiesto di partecipare alla conferenza!» risposi quasi senza vergogna. Tra di noi l’imbarazzo si stava sciogliendo man mano che ci conoscevamo meglio. Si avvicinò a me e il cuore mi balzò in gola. «E se ti chiedessi di uscire con me, accetteresti?» Avevo sentito bene? “Wow!” pensai “Mi sta davvero chiedendo que-sto?” Decisi però di non comportarmi da quindicenne innamorata, ma di farmi desiderare. «Non lo so.» dissi timidamente. Sorrise tra sé. «Vuoi farmi penare, allora...» «Visto che ti comporti da soldato?» lo canzonai. «Eh, no, guarda che i soldati non perdono tempo, vanno subito al so-do!» rise e risi anch’io: aveva un’allegria che mi contagiava. Poi si fece serio e posò la sua mano sulla mia. «Stamattina quando ti ho vista, ho subito pensato che sei bellissima.» disse d’un fiato. Lo guardai. I suoi grandi occhi smeraldo sembravano sinceri e il suo viso era così vicino al mio... Mi scostò una ciocca di capelli dalla guan-cia e me la portò dietro l’orecchio. Mi sembrò di sciogliermi come un gelato al sole. Mi guardò le labbra e poi di nuovo gli occhi. Pensai che avrei accettato volentieri un bacio da quelle labbra piene. «Ian! Eccoti!» Una voce di uomo dietro di noi ci fece allontanare. Ian si alzò. Era Carl. «Ciao.» lo salutò. «In camera tua non c’eri, volevo chiederti...» Carl si interruppe quando vide me. «Ah, sei in compagnia...» Probabilmente mi aveva riconosciu-ta. Mi alzai. «Buonasera.» «Buonasera, signorina... Siria, ricordo bene?» mi disse l’uomo cordial-mente. «Sì.»

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«Va bene, allora io vado in camera, John è già a letto...» disse all’amico. «Ok, Carl.» Ian lo salutò mentre l’uomo si allontanava. Poi guardò me con una punta di imbarazzo: il suo collega aveva interrotto qualcosa tra noi... «Che ora è?» ruppi quel silenzio. Guardò il suo orologio di metallo. «Quasi mezzanotte.» «Ian, Ian!» Mi voltai in direzione di quella voce femminile. Una ragazza africana corse incontro al mio accompagnatore e gli gettò le braccia al collo. «Dov’eri finito?» gli chiese. La ragazza era alta, scura e bella, con oc-chi da cerbiatta, lunghi capelli stirati e forme prosperose. Indossava un mini abito rosso e mi sembrò una prostituta. «Ero alla conferenza, Anais.» rispose lui visibilmente a disagio. Forse non pensava di incontrarla mentre era con me. «Dovevamo vederci stasera, ricordi?» gli disse ancora la giovane ruan-dese. Nel frattempo lo accarezzava e gli baciava il collo. Io mi sentii il terzo incomodo, così mi voltai e mi avviai verso l’uscita. «Siria!» Mi chiamò Ian ma io non mi girai. Che stupida che ero stata! Era evidente che lui conosceva quella ragaz-za e da come lei si comportava non erano semplici amici. E io quasi mi ero fatta abbindolare dai suoi begli occhi e dalla storia che lui non era come i soldati! Superai il bar in veranda e uscii nella hall. «Siria!» Ian era ancora dietro di me. «Dove vai?» Non mi fermai ma lui mi raggiunse, mi prese per un polso e mi fece voltare. «Che vuoi?» gli dissi in tono acido. «Dove stai andando?» «Oh, io me ne torno al mio orfanotrofio, mentre ti lascio a divertirti con la tua amica!» La ragazza non ci aveva seguiti. «Aspetta un attimo.» insistette senza mollare la presa. «Grazie della bella serata, addio.» mi divincolai e continuai a cammina-re. Lui mi si parò davanti. «Mi fai spiegare?» «Non mi devi nulla, in fondo io e te ci conosciamo solo da un giorno. Ora devo tornare a scuola, è tardi.» Ero arrabbiata con me stessa o forse delusa.

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Sospirò. «Come torni da sola? Lascia almeno che ti accompagni!» «Troverò un passaggio, grazie!» risposi sorpassandolo ma in realtà non avevo idea di come tornare a scuola. “Stupida!” mi dissi, ancora nervosa. «Siria!» insistette e venne al mio fianco. «Mi vuoi lasciare in pace?» sbottai. «C’è qualche problema?» Una mano grande e forte si posò sulla mia spalla. «Jimmy, ciao!» Ian non lo salutò. «Senti ho un favore da chiederti.» dissi al giovane tenente. «Tutto quello che vuoi.» «Non è che potresti accompagnarmi all’orfanotrofio?» chiesi speranzo-sa. Di lui mi fidavo davvero, sapevo che mi avrebbe protetta e non mi avrebbe fatto del male. «Certo, ho la macchina qui fuori.» rispose Jimmy guardando male Ian. «Andiamo.» lo esortai. «Siria.» mi chiamò ancora Ian. «Grazie per avermi portata alla conferenza.» risposi in tono sarcastico e mi avviai alla grande porta a vetri che dava all’esterno seguita da Jimmy. «Tutto bene?» mi chiese il mio amico soldato mentre salivamo nella jeep bianca e blindata dell’Onu. «Certo, benissimo.» Risposi cercando di non far trasparire il mio nervo-sismo. «Ti ha dato problemi quel reporter?» mi chiese per strada. «No, no, stai tranquillo.» «Comunque devi stare attenta a girare per le strade a quest’ora. I mili-ziani stanno iniziando a istituire dei posti di blocco. Finché sei con me non c’è problema, ma non so cosa potrebbero fare a una ragazza ac-compagnata da un semplice giornalista.» «Grazie per il pensiero.» risposi guardando fuori. Non c’erano luci: an-che le candele nelle capanne erano spente. Non parlai per il resto del tragitto pensando a quel ragazzo che con i suoi occhi verdi mi aveva quasi fatta innamorare. Jimmy entrò nel cortile dell’orfanotrofio e fermò l’auto davanti al pe-sante portone in legno. «Grazie.» gli dissi con il cuore in mano prima che scendessi dalla jeep.

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«Siria.» Jimmy mi prese la mano e il cuore cominciò a martellarmi nel petto. «Volevo dirti che tu sei importante per me. L’ho capito stasera quando ti ho vista con quel ragazzo.» Mi guardava intensamente come non mi aveva mai guardata prima. «Jimmy...» sussurrai. «Ti prego, non dire niente. Volevo solo che tu lo sapessi.» Mi attirò a sé e mi baciò sulla fronte. Il mio respiro si bloccò e chiusi gli occhi. «Vai.» mormorò staccandosi. «È tardi.» «Grazie.» gli dissi timidamente prima di scendere dall’auto e correre in camera mia. Quella notte ci misi parecchio prima di riuscire ad addormentarmi. Mi rigiravo nel letto pensando a Ian, a quanto mi avevano colpito il suo a-spetto e la sua personalità prima di scoprire che frequentava le prostitu-te. Ma pensai anche a Jimmy: inaspettatamente mi aveva quasi fatto una dichiarazione e io non sapevo se esserne contenta o meno. Perché capitava tutto così all’improvviso? Poi la mia mente si spostò su ciò che avevo sentito alla conferenza dell’Onu. «Signore, prego per tutti i bambini del Rwanda, affinché tu possa pro-teggerli sempre.» recitai poco prima di sprofondare nell’incoscienza. FINE ANTEPRIMACONTINUA...