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AA.vv. - Analog Vol 2, Autunno 1994

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ANALOG

Anno 1. n. 2. autunno 1994

Direttore Responsabile: Daniele Brolli

INDICE

Costruttori di infinito di Kevin J. Anderson & Doug Beason

Georgia on my Mind di Charles Sheffield Quello che non si vede di Martha Soukup

EDITORIALE

Questo secondo numero ospita un lungo romanzo che ha come tema

centrale la nanotecnologia. Crediamo di far cosa gradita e utile ai nostri lettori dando alcuni brevi cenni introduttivi sull'argomento. Il termine è preso a prestito dalle teorie che si occupano di tecnologie futuribili. Di-venta piuttosto diffuso a partire dagli anni Ottanta. Il primo a usarlo è sta-to K. Eric Drexler nel 1976, rendendolo poi popolare nel romanzo Engi-nes of Creation (1987), interamente dedicato all'argomento. La prima par-te del termine nanotecnologia è un prefisso che nel sistema metrico deci-male equivale a 10 elevato alla meno nona. Laddove la microtecnologia si occupa di grandezze microscopiche, la nanotecnologia studia macchine infinitamente più piccole. Drexler parla di queste nanomacchine in termini di assemblers, ossia assemblatori, costruttori. Quanto all'impiego di questi "microrobot" grandi quanto molecole, di ipotesi se ne sono fatte veramen-te tante, dalla chirurgia cerebrale e neuronale alla tecnologia mineraria. Gli assemblatori potrebbero essere usati per eseguire le operazioni più de-licate all'interno delle cellule umane, ma ci sarebbe un grosso rischio da affrontare: non è da escludere infatti l'ipotesi che queste macchine costrut-trici diventino anche capaci di autoreplicarsi. La cosa solleverebbe allora due dubbi fondamentali: potrebbe la nanotecnologia essere considerata una forma di vita? E potrebbero questi congegni infinitamente minuscoli sfuggire al controllo della scienza, autoreplicandosi fino all'esaurimento dei materiali di costruzione? Se questi progetti siano più o meno realistici rimane una questione aperta e ancora tutta da discutere. Moltissimi studi sono stati già fatti sull'argomento, e diverse ricerche sono tuttora in corso. C'è chi pensa che, raggiunto ormai lo stadio della manipolazione dell'a-tomo, la costruzione di macchine nanotecnologiche non sia poi una cosa

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tanto lontana da un'effettiva realizzazione. Il concetto di nanotecnologia, non sempre indicato con questo nome, compare con una certa regolarità nella fantascienza degli ultimissimi anni. Una delle opere che meglio di-scute l'argomento è La regina degli angeli (1990) di Greg Bear. Ci sono elementi di nanotecnologia anche in Stazioni delle maree (1991, tradotto sul numero uno dell'Isaac Asimov, maggio 1994) di Michael Swanwick. In molte opere di fantascienza tecnologica l'esistenza della nanotecnologia è oggi data semplicemente per scontata, come parte integrante di un background della tecnologia futuristica.

Analog

NOTE

Kevin J. Anderson ci ha messo parecchio per riuscire a pubblicare su

Analog. Stanley Schmidt ricorda ancora i suoi racconti, scritti quando An-derson andava ancora al liceo e regolarmente rifiutati. Ci è riuscito solo quindici anni più tardi, dopo aver dato alle stampe tredici romanzi e un centinaio di racconti! Nato nel 1962 in una piccola cittadina del Wisconsin ha iniziato a pubblicare nel 1982 e si è cimentato praticamente in ogni set-tore della narrativa di genere. Da perfetto scrittore popolare, sostiene che se l'idea è buona il problema di scrivere è del tutto secondario. Il suo primo romanzo, Resurrection Inc. del 1988, in cui in un futuro prossimo i cada-veri rianimati vengono utilizzati come forza lavoro, è arrivato in finale al premio Bram Stoker per il miglior romanzo horror americano. Ha studiato astrofisica e storia russa. Il suo primo lavoro che l'ha occupato per otto an-ni, può essere considerato il sogno di ogni scrittore di fantascienza: si è trovato a contatto con enormi laser, computer, armi nucleari e ricerche sul-la fusione magnetica. Nel primo romanzo in collaborazione con Beason, Lifeline (1990), si svolge nello spazio dopo l'olocausto nucleare, risultato di uno scontro USA/URSS che proprio nei mesi precedenti alla pubblica-zione del romanzo aveva perso di credibilità con l'avvenuto disgelo defini-tivo dei rapporti tra le due superpotenze. Il centro dell'azione di Lifeline è un laboratorio filippino di ingegneria genetica.

Doug Beason è quello che si dice un "All American Boy". In giovinezza

ha fatto il giocatore di football americano e il cantante rock. Nato nel 1953, dopo un anno all'istituto di tecnologia della Louisiana, si è iscritto all'accademia aeronautica laureandosi in fisica e in matematica. In seguito

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ha frequentato l'università del New Mexico ottenendo il dottorato in fisica. Dopo anni di ricerca in laboratorio presta adesso servizio alla Casa Bianca in qualità di consulente scientifico. Il suo ingresso nel mondo della fanta-scienza è avvenuto nel 1987, pubblicando un racconto su Amazing Stories. Dopo di allora ha scritto una trilogia di technothriller. Si è segnalato poi con il suo primo romanzo in collaborazione con Kevin J. Anderson: Lifeli-ne che fa tesoro dell'esperienza di Beason nelle Filippine. Nel romanzo se-guente, The Trinity Paradox, i due hanno operato una singolare messa a fuoco sui pericoli morali connessi al viaggio nel tempo.

Charles Sheffield ha vinto quest'anno con la novelette Georgia on my

Mind entrambi i maggiori premi della science fiction: il Nebula e l'Hugo. Nato nel 1935 in Gran Bretagna, laureato in fisica, ha abbandonato la car-riera scientifica a favore di quella letteraria. Il suo primo romanzo è Sight of Proteus (1978) seguito da Proteus Unbound (1989), che insieme costi-tuiscono un unico corpus narrativo reintitolato dall'autore Proteus Mani-fest. Nel 1985 ha pubblicato Between the Strokes of Night, un'opera co-smogonica spesso comparata ai romanzi di Greg Bear. The Nimrod Hunt del 1986 è una vicenda intricata che coinvolge alieni e cyborg. Questo è il secondo racconto di Sheffield presentato in Italia dalla nostra rivista. Nello scorso numero abbiamo tradotto The Invariants of Nature.

Martha Soukup, nella migliore tradizione del racconto roboti-

co/informatico, da Eando Binder e Isaac Asimov in avanti, costruisce una perfetta detective story che come presupposto ha un dilemma etico che an-cora una volta punta il dito sulla fallibilità della cosiddetta "perfezione tec-nologica". Questo racconto, finalista a numerosi premi, è stato giudicato dai critici uno dei migliori racconti robotici degli ultimi anni, dopo la scomparsa del "Buon Dottore" Isaac Asimov.

Analog

COSTRUTTORI DI INFINITO

di Kevin J. Anderson & Doug Beason

La minaccia nanotecnologica

è in agguato sul lato oscuro della Luna...

PROLOGO

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Cratere Dedalo: l'altra parte della Luna

Il cratere Dedalo era, a tutti gli effetti pratici, il luogo più remoto del Si-

stema solare. Situato a centottanta gradi dalla faccia della Luna che guarda alla Terra e solo quattro gradi sotto l'equatore lunare, Dedalo non aveva mai visto né sentito la Terra, né mai ricevuto onde radio disperse che, dif-frangendosi sull'orizzonte lunare, avrebbero potuto rovinare le delicate mi-surazioni astronomiche.

Protetto dall'ombra orbitale, il cratere Dedalo era il luogo perfetto dove collocare una stazione "Very Low Frequency" allo scopo di studiare le bassissime frequenze delle porzioni del radiospettro che finivano sulla Ter-ra. Enormi antenne a dipolo si estendevano per chilometri sul fondo piatto disponendosi a Y, dando al luogo l'aspetto di un gigantesco simbolo della Mercedes Benz circondato dalle pareti del cratere.

Essendo così remota, la stazione VLF doveva essere autosufficiente. Tutta la strumentazione era stata progettata in modo da funzionare da sola; ispezionata da aeromobili riparatori telepresenti, era in grado di riparare autonomamente i propri guasti con pezzi di ricambio modulari. Data la na-tura immutabile della Luna, la VLF avrebbe dovuto rimanere operativa per decenni senza interventi Umani.

Fino al giorno in cui tutto non cominciò ad andare per il verso sbagliato. Trevor Waite "l'Impaziente" aspirò l'aria viziata dell'angusta cabina

mentre la cavalletta lunare si avvicinava alla stazione. La cavalletta era sta-ta inviata dalla base lunare Columbus per indagare ed effettuare le ripara-zioni, e Waite non vedeva l'ora di uscire per dare un'occhiata di persona. Gli scienziati sulla Terra non facevano che lamentarsi per l'interruzione dei loro dati VLF, e Waite l'Impaziente era il miglior tecnico riparatore che ci fosse sulla base.

La cavalletta era automatizzata al novantacinque per cento, ma sfortuna-tamente vecchie norme di sicurezza imponevano ancora che ci fosse un equipaggio di tre persone, di cui una doveva rimanere a bordo del veicolo mentre le altre due erano impiegate per attività esterne. Waite avrebbe po-tuto risolvere il problema da solo in un'ora, ed era convinto che la cautela di Sig Lasserman e le insicurezze da neofita di Becky Snow avrebbero tri-plicato il tempo necessario.

La cavalletta iniziò a scendere presso il margine superiore del cratere Dedalo. Era difficile vedere qualcosa nella notte lunare. «La sto facendo scendere lentamente» disse Siegfried Lasserman con un secco accento te-

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desco mentre metteva in funzione gli strumenti di controllo per l'atterrag-gio.

«Vedo, vedo» borbottò Waite. Controllò la tuta, ansioso di uscire ad ag-giustare le antenne malfunzionanti. Si dia inizio allo spettacolo!

Waite odiava l'idea di sprecare tempo mandando un essere umano a fare il lavoro di un robot, ma tutti i sensori automatici della VLF erano impaz-ziti, e tutte le routine di mantenimento avevano fallito lo scopo. Nessuno riusciva nemmeno a capire a quale ramo dell'immenso albero di dispersio-ne fosse da imputare il danno. Due delle antenne a dipolo della stazione si erano spente a un'ora di distanza una dall'altra; una terza si era fermata do-po meno di un giorno. Le tre unità difettose erano in fila, il che faceva pensare che il danno si stesse espandendo sequenzialmente. Cosa ancor peggiore, gli aeromobili riparatori non davano segni di vita.

La base lunare Columbus non riusciva nemmeno ad avere un'immagine della stazione Dedalo. Waite si chiese se non fosse successo qualcosa di grosso, se per esempio non fosse caduto un meteorite su una parte della stazione distruggendola; ma tutti i sensori sismici erano rimasti silenziosi come fossili.

«Perché ci sta facendo scendere qui?» chiese Becky Snow, interrompen-do i pensieri di Waite. «Non ci avevano avvertito nell'incontro di prepara-zione al volo.» I suoi occhioni neri erano più grandi di quanto avrebbero dovuto essere, e la sua pelle color ebano luccicava di sudore.

Lasserman parlò con voce secca e professionale, senza distogliere l'at-tenzione dai comandi. «Per proteggere la stazione dalla polvere che po-trebbe sollevare la cavalletta. Nella parte superiore del bordo del cratere c'è una strada di accesso che scende sul fondo. Qui saremo vicini a sufficien-za.»

«La stazione sarà visibile anche al buio, non appena scenderete lungo la strada di accesso» disse Waite. Becky Snow non era mai stata sul Lato O-scuro prima di allora, ed era sulla Luna da sole cinque settimane. Waite odiava insegnare il mestiere a qualcuno proprio quando c'era una missione in corso.

Lasserman fece atterrare la cavalletta sulla superficie piatta dell'area di atterraggio che era stata creata dietro il bordo del cratere. Poi passò a un altro gruppo di comandi e spense i motori a metano, mentre Waite e Becky Snow si giravano i pollici aspettando di iniziare il loro lavoro. Indossavano già le tute per le attività esterne nonostante la cabina della cavalletta fosse completamente pressurizzata. Waite si sentiva claustrofobico dentro la ca-

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valletta, anche con la visiera alzata. Voleva uscire. Lasserman era rannicchiato vicino al pannello di controllo della cavallet-

ta; la sua tuta era collegata a dei computer che proiettavano i dati su un guizzante schermo olografico posto di fronte a lui. «Continuo a ricevere ri-sonanze elettromagnetiche anomale. Sembra che ci sia qualcos'altro di arti-ficiale e di grande là fuori, oltre alla VLF. E il livello degli infrarossi non ha senso, è troppo alto. Sono dieci giorni ormai che è tutto buio qui, do-vrebbe fare molto freddo.»

«Forse i segnali sono disturbati dalla polvere che abbiamo sollevato.» Waite abbassò la visiera e accese la trasmittente della tuta, impaziente di risolvere il problema. Che senso aveva continuare a parlarne dopo che a-vevano fatto tutta quella strada per lavorarci di persona?

Lasserman esitò. «La polvere dovrebbe essersi posata ormai.» La sua voce arrivò per radio. «Non può essere questa la spiegazione.»

Waite finì di controllare la tuta e si spostò verso il portellone. «Be', non appena Becky è pronta, usciamo fuori a darci un'occhiata noi. Se andasse tutto bene, non saremmo certo arrivati fin qui.» Se proprio non volevate correre nessun rischio, perché mai siete venuti sulla Luna?

Spaventata, Becky iniziò ad armeggiare con la sua tuta. Waite la osser-vava con la coda dell'occhio per assicurarsi che facesse tutti i controlli del caso.

Lasserman annuì verso i suoi comandi, aggiustandosi il microfono che portava al collo. «Informo Dvorak che siamo arrivati e che riceviamo an-cora segnali anomali. Ora predispongo le cose in modo che sia possibile osservare la missione in tempo reale.»

«Bene» disse Waite. Come se il comandante della base lunare non aves-se altro da fare. O forse era proprio così. Jason Dvorak aveva assunto il comando di Columbus soltanto da poche settimane, e la sua promozione aveva sorpreso tutti, lui stesso compreso, ma soprattutto Bernard Chu, il comandante precedente. Forse Dvorak voleva davvero assistere alle ripa-razioni.

«Pronta» disse Becky. «Ricevuto. Stiamo uscendo. Prepara il veicolo lunare.» Waite sigillò la

camera stagna e lanciò uno sguardo ai massicci pulsanti sul pannello di controllo. Vide la scritta READY che lampeggiava mandando bagliori di verde. Spinse il pollice coperto dalla tuta spaziale contro il pannello, e immediatamente sentì che la tuta si irrigidiva mentre l'aria usciva lenta-mente dalla camera stagna. Un soffio d'aria calda si insinuò attraverso la

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tuta quando scattò l'impianto di riscaldamento interno. Di fianco a lui nello stretto cubicolo, Becky Snow rimaneva completamente immobile.

«Metteremo tutto a posto in un attimo» disse a beneficio di chi stava se-guendo la trasmissione dalla base lunare, e senza dubbio anche degli ha-cker che dalla Terra si divertivano ad ascoltare le noiosissime conversa-zioni delle basi lunari. Il canale Select della United Space Agency aveva ormai smesso da tempo di trasmettere notizie sulle missioni di routine.

Quando la porta esterna della cavalletta lasciò andare la pressione, Waite scese all'esterno della camera stagna. Tese una mano a Becky per aiutarla a scendere dalla scaletta, ma lei si tenne in equilibrio da sola.

Waite si girò, fermandosi un attimo per calcolare la distanza dalla VLF. Il veicolo avrebbe sollevato un po' di polvere, ma non abbastanza da cau-sare problemi alle antenne a dipolo. Anche al buio, attraverso uno spacco nella parete del cratere, riusciva a vedere la strada di accesso ampia e dis-sestata rimasta da quando era stata costruita la stazione cinque anni prima. Non ci sarebbe voluto molto per scendere laggiù.

«Non stare lì ad ammirare il paesaggio» disse a Becky. Si voltò per ve-dere se aveva già iniziato a sganciare il veicolo lunare da sotto la cavallet-ta. Lasserman aveva predisposto tutto mentre èrano ancora nella camera stagna. Il veicolo fece un rimbalzo sulla regolite e iniziò a dispiegarsi.

«Tutto pronto» rispose lei, e aspettò che Waite salisse sul veicolo. «Stiamo partendo, Sig» disse Waite. «D'accordo. Ricevo i dati dalle telecamere delle vostre tute. State tra-

smettendo direttamente a L-2.» «Fantastico il tempo reale, no?» Sperava solo che dalla base lunare non

si mettessero a incasinargli il lavoro. Era lui a essere lì sul Lato Oscuro, e avrebbe preso lui le decisioni. Lasserman avrebbe preferito stare lì ad a-spettare che Dvorak o qualcun altro gli dicesse cosa fare, o addirittura che Celeste McConnell mandasse ordini dalla Terra. Ma Waite l'Impaziente sa-rebbe morto se avesse dovuto aspettare che scegliessero "le misure più op-portune da prendersi".

Waite si fermò un attimo aspettando che uscisse lo sterzo, poi si sedette a bordo del veicolo. I fari emersero dall'interno proiettando un fascio di lu-ce.

La Luna di notte era piena di ombre, ma le luci delle stelle, non filtrate

da nessuna atmosfera, giungevano scintillanti come aghi di ghiaccio. Non appena sorpassarono il limite del cratere, sobbalzando lungo la strada di

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accesso sugli enormi pneumatici del veicolo lunare, Waite capì immedia-tamente perché la VLF aveva smesso di funzionare. «Sta succedendo qual-cosa di molto strano qui» annunciò al microfono, tenendo la voce ferma.

«Lo vedo. Incredibile!» gli fece eco Lasserman. «L'ho già comunicato a Columbus. Qualcuno è già andato a cercare Dvorak.»

A Waite sembrava che questo non avesse alcuna importanza. Fece scen-dere lo sguardo lungo le pareti di Dedalo. Dietro di loro la scia lasciata di fresco dagli pneumatici del veicolo risaliva a serpentina fino alla cavallet-ta.

Di fianco a lui, Becky si sporse in avanti. «Nessuna delle foto di archi-vio assomiglia a questa roba.»

«Quelle foto sono state fatte due anni fa. Vai pure avanti e stupisciti quanto vuoi.»

Alla luce delle stelle, due dei bracci della Y apparivano intatti, ma il ter-zo sembrava fosse stato staccato con un morso. Proprio di fianco alla pare-te del cratere un buco grande come un gigantesco pozzo minerario spro-fondava verso il basso, tre chilometri almeno di diametro. Sembrava la bocca di un gigante che sbadigliava, inghiottendo il terreno, la stazione VLF e ogni segno di presenza umana. Waite non riusciva a vederne il fon-do.

Da quel pozzo usciva una struttura filamentosa, come un tessuto di linee luccicanti che si espandeva in archi quasi invisibili, uno sbiadito ma com-plicato disegno architettonico di fili argentei semicancellato.

Becky Snow sussurrò: «Sembra la tana di un ragno in una galleria. Sai, con il ragno che aspetta nel buco e la ragnatela che si estende in tutte le di-rezioni».

I sensori della tuta si illuminarono avvertendolo che la pressione sangui-gna e la velocità di respirazione erano improvvisamente aumentate. Gli a-sciugatori automatici presero ad andare a doppia velocità per contrastare la grande quantità di sudore che d'un tratto si era riversata fuori dal suo cor-po. Waite andò a sbattere contro il microfono posto sul mento, sorpreso di sentire che la voce ancora non gli tremava.

«Sig, lo vedi anche tu?» «Solo quello che trasmetti tu. Dalla cavalletta non si vede.» «È perché sei troppo in alto, dall'altra parte della parete del cratere. È

meglio che ti accerti che a Columbus stiano ricevendo la trasmissione.» «Ricevuto. I tuoi circuiti sono ancora collegati con L-2. Adesso...» Waite lo interruppe. «Continuo a seguire la strada di accesso per un po',

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voglio spostarmi più avanti per avere un'altra prospettiva.» «Stai molto attento» disse Lasserman. «Ci puoi scommettere» rispose Becky per Waite. Waite fece scendere lentamente il veicolo lungo la china, portandosi così

ancora più lontano sia dalla cavalletta che dalla struttura. Si bagnò le lab-bra e guardò ancora verso il basso per esplorare il buco. Era un totale mi-stero. Sapeva che non s'era mai visto niente del genere nelle foto scattate negli anni precedenti dalle sonde orbitali. La Luna era geologicamente morta, si pensava che fosse assolutamente inutile continuare ad aggiornare la mappa della sua superficie.

«Come è possibile scavare un buco come quello senza far oscillare i si-smografi per giorni interi?» chiese Becky.

«Non si può. È impossibile. I geologi avrebbero dovuto essere in grado di individuare la fonte con uno scarto di pochi metri. Sono dei gran rompi-palle, ma non sono così incompetenti.» Dopo aver parlato si ricordò che aveva il microfono acceso, e che alla base lunare sentivano tutto quel che diceva. Oh, poco male.

Mentre il veicolo continuava la discesa, Waite concentrò l'attenzione sulle parti della stazione, erette dall'uomo solo pochi anni prima. Le "ra-gnatele" si estendevano fino alla quarta antenna a dipolo della stazione, coprendo il dipolo come drappi.

La voce di Lasserman gli esplose ancora nelle orecchie. «Columbus vi consiglia di non avvicinarvi troppo al pozzo.»

Waite era aggressivo, ma non era stupido. «Tranquilli.» Girò intorno ad alcuni massi grandi come camion e tentò di tenersi alla

larga dalle zone più dense di ombra. Con tutte quelle stranezze che stavano capitando, non c'era modo di sapere se gli sarebbe saltato addosso qualcosa all'improvviso. I fari irradiavano luce per un buon tratto, richiamando troppa attenzione sul veicolo lunare. Si sentiva come un intruso in un posto pericoloso.

«Sto iniziando a perderti sugli infrarossi» disse Lasserman. «Il livello di calore è abbastanza alto in tutta l'area, di parecchio oltre il normale.»

«Come è possibile che sia caldo?» disse Waite fra sé e sé. Di notte sulla Luna era così freddo che i progettisti di tute spaziali ci avevano messo anni per studiare dei sistemi che fossero in grado di reggerlo. Molto tempo pri-ma che si potesse parlare di colonie, la NASA, l'ESA e la United Space Agency avevano dovuto escogitare nuovi sistemi per difendersi dal freddo.

Ma la bassa temperatura notturna non aveva niente a che vedere con i

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brividi che correvano lungo la schiena di Waite. Fece correre lo sguardo lungo il cratere all'enorme pozzo. Gli ricordava una miniera a cielo aperto apparsa da un giorno all'altro, senza segno di lavori, tracce sismiche o de-triti. Tentando ancora di convincersi che doveva esserci qualche segno di un impatto, andò alla ricerca di materia espulsa, di fenditure, di un rigon-fiamento lungo il bordo. Ma il buco era profondo e nero, il bordo affilato come un coltello, e non c'era nessun indizio di cosa l'aveva provocato. Era semplicemente... là... Ma chi l'aveva fatto? E nel giro di qualche anno al massimo?

I filamenti a forma di diamante si estendevano giù nel buco a perdita d'occhio, poi riemergevano nel vuoto lunare formando archi simmetrici at-torno all'orifizio. Solo due dei nove archi erano completi, e si congiunge-vano un buon chilometro sopra la superficie, simili ai petali di un gigante-sco fiore di vetro. Gli spazi tra le linee sembravano riempiti da una sottile pellicola di materiale filamentoso. Il resto degli archi sembrava ancora in costruzione.

«Trevor.» Una voce nuova uscì dalla radio della tuta, proveniente dalla base lunare. «Sono Lon Newellen. In questo momento sto cercando di rin-tracciare Dvorak. È meglio che non ti avvicini oltre a quella cosa.»

«Per noi va bene, Big Daddy. Pensi che andremo in onda sul canale Se-lect?» scherzò Waite, cercando di soffocare il suo crescente disagio. Nes-suno più guardava i programmi televisivi sulle routine quotidiane delle ba-si lunari. «Ho addosso la tuta spaziale buona.»

Newellen non fece nemmeno caso a quel tentativo di fare dello humour. «A che distanza sei?»

Waite si guardò attorno e provò a indovinare. «A circa mezzo chilome-tro dal bordo di quella cosa.»

«Va bene, ora cerco di venirne fuori. Dato che non trovo Jason devo contattare la Terra. La McConnell dovrebbe sapere di questa cosa. La-sciamole prendere la decisione finale. Nel frattempo, perché non ve ne tornate alla cavalletta? Non correte altri rischi.»

Waite non si mise a discutere, borbottò solo qualcosa su chi doveva prendere le decisioni che riguardavano lui. Trovò un ampio spazio sulla strada di accesso, e fece manovra finché non riuscì a girare il veicolo. Becky Snow continuava a guardare la struttura sotto di loro.

Waite spinse il veicolo a tutta velocità, facendo rotolare le grosse ruote verso Lasserman e la cavalletta che li aspettavano ora a cinque chilometri di distanza. La strada di accesso era ripida e tortuosa, ma allontanarsi dal

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fondo del cratere per avvicinarsi alla cavalletta gli infondeva sicurezza. Quando dieci minuti più tardi spuntarono oltre il bordo del cratere, la vista della cavalletta gli allentò la tensione.

«Ah, Trevor? Columbus?» disse Lasserman. «Sto ricevendo un mucchio di dati strani qui... c'è qualcosa non va. I miei sensori stanno impazzen-do!»

«Che tipo di...» «Oh mio Dio! Si stanno aprendo delle microfalle dappertutto! Da dove

vengono?» Waite aumentò la velocità del veicolo, come se potesse servire a qualco-

sa. Newellen dalla base lunare si rimise in comunicazione, chiedendo a Lasserman di confermare i dati. Che stupido!

«La pressione nella cabina sta crollando!» La voce di Lasserman tre-mava dal panico. «Lo scafo sta perdendo... si sta tutto... disintegrando! Sono senza casco!»

«Sig!» gridò Waite nel microfono proprio mentre Lasserman urlava. La cavalletta andò in pezzi sotto ai loro occhi. Waite e Becky videro che

si riempiva di brina bianca mentre l'atmosfera sgorgava all'esterno ed e-splodeva. Oscillando sotto la forza dell'esplosione, la cavalletta barcollò sulle gambe lunghe e sottili. Lo scafo si sbriciolò, come se il metallo si fosse trasformato in polvere. Il corpo principale cedette e crollò.

Becky stava urlando. Waite gridò cercando di superare l'agitazione. «Columbus! Big Daddy, avete visto?» Da qualche parte del suo cervello - quella parte non tramortita dallo shock - Waite continuava a pensare: Co-me faremo a tornare? Siamo soli qui sul Lato Oscuro dalla Luna. Quanto tempo gli ci vorrà per mandare un'altra cavalletta? Quanta aria ci è rima-sta ancora?

Controllò tremando l'antenna parabolica del veicolo lunare. Il telescopio per le comunicazioni laser era ancora puntato verso il satellite ripetitore L-2 che vegliava sopra di loro. «Columbus. Base Columbus. Mayday, ma-yday!»

Becky continuava a urlare, ma non era terrore immotivato. «Trevor, c'è un buco da qualche parte. La mia tuta ha delle perdite! Sto perdendo pres-sione.» Diede dei colpi alla tuta.

Waite vide le spie rosse nel pacchetto di controllo esterno. Tutti i sistemi della tuta di Becky funzionavano male. Becky era in piedi sul veicolo, agi-tando le braccia, grattando il pacchetto di controllo sul petto con le mani rivestite dagli spessi guanti. «Trevor! Mio Dio, aiutami!»

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Waite non riusciva a reagire abbastanza velocemente. Com'era possibile che andasse tutto storto così all'improvviso? Poi notò la superficie metalli-ca della tuta di Becky che ribolliva. Si trattenne dal toccarla.

Becky emise un suono strozzato per radio, poi improvvisamente uno spruzzo di sangue le schizzò la visiera. La decompressione esplosiva la uc-cise quando il vuoto le strappò la tuta, facendo scendere la pressione così in basso da farle scoppiare la testa. Senza vita, afflosciandosi, si accasciò su un fianco del veicolo.

«Becky?» La voce di Waite si spezzò. L'orrore gli gelò le budella. Do-vette fare uno sforzo cosciente per sbattere le palpebre, per continuare a respirare. Mio Dio, pensò. Non poteva essere vero. Tutto intorno a lui era perfettamente calmo e immobile.

Riusciva solo a sentire il rumore del proprio respiro; da qualche parte in un angolo del suo cervello qualcuno gli stava urlando qualcosa alla radio. La cavalletta non c'era più. Lasserman non c'era più. Becky non c'era più. Una struttura impossibile era apparsa nel Cratere Dedalo e non c'era nes-sun indizio della sua provenienza. Becky l'aveva paragonato a un ragno che aspettava nella sua tana.

Poi cinque spie rosse lampeggiarono sul pannello interno, immergendo-gli la faccia in un bagliore come di sangue. Betsy-la-Lagna, il microcircui-to programmato in voce, strillò: «Attenzione! La protezione esterna è stata lacerata. La tuta sta subendo infiltrazioni alla velocità di...» Posò lo sguar-do sulle maniche. Sembrava che qualcuno avesse versato dell'acido sul ri-vestimento argenteo impermeabile. Migliaia di minuscole fenditure si sta-vano aprendo sulla tuta, allargandosi sempre di più. Il suo sistema interno di impermeabilizzazione fece un eroico sforzo, ma l'intera tuta sembrava andare in pezzi. Qualcuno stava urlando alla radio...

L'aria gli soffiò sulle orecchie, e in un istante gli esplosero i timpani. Il petto gli si contrasse mentre il vuoto gli strappava il respiro dai polmoni. Waite aprì la bocca e uno strato di ghiaccio sottile e schizzi di sangue co-prirono l'interno del casco. Tentò di gridare ma la visiera si dissolse.

Non riuscì nemmeno a vedersi mentre cadeva sulla superficie lunare.

1.

Base lunare Columbus

La fabbrica per la produzione dell'elio-3 sembrava un veicolo lunare

messo assieme da una équipe di artisti astratti.

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A duecento metri di distanza Jason Dvorak riconobbe le enormi ruote e l'impianto a energia nucleare pesantemente schermato. Radiatori termici triangolari grandi come vele di vecchie navi si innalzavano ad angolo, dando l'impressione di uno stegosauro che si muovesse pesantemente sul fondo del cratere.

La parte frontale del processore di elio si apriva in un cilindro contorna-to di denti a punta di diamante usato per raccogliere e triturare la regolite di cui era costituito il manto esterno del suolo lunare; sul retro era deposi-tato un ammasso di detriti caldi come escrementi.

Mentre il leviatano strisciava lungo la superficie, ingoiando regolite, Ja-son avvertì una pressione sul braccio rivestito dalla tuta. Si girò, e seguen-do un'abitudine di cui apparentemente non riusciva a sbarazzarsi, guardò la visiera riflettente della tuta spaziale della sua compagna, invece di abbas-sare prima lo sguardo sulla targhetta di riconoscimento. Mai guardare la faccia per riconoscere qualcuno quando sei all'esterno, continuava a dire a se stesso. Dopo un anno, uno pensava di averci fatto l'abitudine.

Il tono acuto della voce di Cyndi Salito gli giunse all'orecchio. «Sono diversi minuti che sei fermo lì, Jase.»

«Non so che farci.» Jason tornò a girarsi verso il processore mobile. «Non riesco a crederci che funzioni veramente. Una settimana prima della scadenza. È un ottimo risultato per noi. Specialmente per me. Sono al co-mando da solo due settimane e ho già un grosso risultato di cui vantarmi.» Ed è un miracolo che la base non sia andata in pezzi, aggiunse tra sé e sé. Ancora non riusciva a capire come mai la direttrice dell'agenzia spaziale, Celeste McConnell, lo avesse nominato comandante - lui, un architetto, fra tutte le persone possibili. Ancora non si era del tutto abituato al titolo.

«Se funziona» corresse Cyndi. «Le dieci tonnellate cubiche di terriccio che sta processando dovrebbero produrre un centinaio di milligrammi di elio-3. Se i maghi giù sulla Terra fanno la loro parte come hanno promes-so, per l'inizio del prossimo anno dovremmo avere un impianto di fusione funzionante. Dovremmo ricevere un'altra trasmissione di protoni dalla Zo-na di Sperimentazione del Nevada il mese prossimo.»

«Lo farò diventare un posto ideale per farci le vacanze» rise Jason. «È per questo che sei qui, Jase» disse Cyndi Salito. A Jason non piaceva

che lo chiamassero con il diminutivo, ma non si preoccupava mai di cor-reggere la gente. Con un cenno del capo lei gli indicò il veicolo. «Forza, la dimostrazione è finita. Se avessi dieci anni di meno ti inviterei a cena.»

«Stai solo tentando di ingraziarti il tuo capo» rispose lui.

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«Tempo un mese e non ne avrò bisogno» fece Cyndi di rimando. «Columbus non sarà più la stessa senza di voi» disse. «Mi mancherà

quest'equipaggio.» «Ci saranno altre sessanta persone a tenerti compagnia.» Jason appoggiò un piede su una roccia per salire a prendere posto sul

veicolo, facendo attenzione a non afferrarsi a niente. Anche con una pres-sione di 4,5 psi nella tuta i guanti gli davano un prurito violento. Erano in molti a lamentarsene. Dopo cinquant'anni di viaggi nello spazio uno si a-spettava che fossero riusciti a risolvere un problema così semplice come stabilizzare il volume delle tute, pensò. Erano mesi ormai che sì grattava le mani a sangue ogni volta che si toglieva i guanti.

Cyndi Salito mise in moto e si avviò verso la base lunare Columbus. «Non hai voglia di rivedere tua moglie? E i tuoi gemelli?»

«Certo» disse. Questo era quello che Cyndi si aspettava di sentire. Ma Margaret, la moglie di Jason, aveva fatto richiesta di separazione un mese prima, quando lui non era ancora stato via nemmeno un anno. Bella devo-zione! Come rigirare il coltello nella piaga a quattrocentomila chilometri di distanza. E i suoi bambini, Lacy e Laurence, da quando avevano compiuto un anno di età lo avevano visto solo nelle trasmissioni video. Non aveva voglia di tornare a casa. La lontananza attutiva un po' il dolore.

Tentò di mostrarsi su di tono, a beneficio di Cyndi. «Ehi, bisognerà che qualcuno si decida a costruire quel secondo livello di moduli abitativi e a rendere la base vivibile, non più uno squallido accampamento militare. Non ci si può aspettare che un branco di fisici e astronomi si sporchino le mani per scavare gallerie e fare mucchi di regolite. Ho visto quanta fatica ha fatto Bernard Chu riunirvi tutti per mettere in piedi la base di Simul-Marte!»

Cyndi Salito rispose con un grugnito; Jason ebbe paura che avesse intui-to quello che si nascondeva dietro le sue chiacchiere.

Le sessanta persone della base erano divise in quattro gruppi, e ognuno lavorava e socializzava all'interno del proprio gruppo. Ogni sei mesi avve-niva la rotazione, e un gruppo se ne andava dalla Luna per far posto a un altro. Dopo un apprendistato di un anno sotto Bernard Chu, che era stato trasferito nella stazione Collins su L-1, Jason si era improvvisamente tro-vato a essere il nuovo comandante della base Columbus. Il cambiamento di assegnazione aveva sorpreso lui quanto Chu...

Mentre il veicolo avanzava, il Mare Smythi si schiuse per rivelare la ba-se Columbus. La Terra era sospesa appena sopra la parete del cratere, co-

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me una grossa goccia blu brulicante di vita. La sommità del telescopio del-la base, alto sedici metri, era a malapena visibile dietro il cumulo di modu-li abitativi interrati. Dal punto in cui si trovava, Jason non vedeva né l'in-terferometro ottico, né il telescopio a raggi gamma, né le altre attrezzature astronomiche.

Uno dei primi problemi che aveva dovuto affrontare come comandante era stato quello di placare gli animi della comunità astronomica, garanten-do che le vibrazioni sismiche provenienti dagli impianti itineranti che pro-cessavano l'elio-3 non avrebbero disturbato le delicate strumentazioni a-stronomiche. Nessuno di quelli che si divertivano con i collegamenti tele-presenti di Disney World avrebbe voluto guidare questi mostri; i luna park usavano solo piccoli veicoli robotizzati.

Anche Jason stesso l'aveva fatto una volta, quando ancora non aveva ri-velato a nessuno il suo sogno di andare là sulla Luna. Dopo cinque ore di fila era riuscito a sedersi davanti al pannello di controllo. Si ricordava an-cora della meraviglia che aveva provato a guidare un vero veicolo lunare situato a quasi quattrocentomila chilometri di distanza, solo per diverti-mento. Sorrise fra sé e sé mentre Cyndi Salito proseguiva verso la base.

Come se qualcuno avesse premuto un interruttore, le voci radio riempi-rono il casco di Jason non appena furono abbastanza vicini da essere avvi-stati. «Non so cosa sia successo. Abbiamo perso il contatto con la cavallet-ta poco prima di perdere il segnale radio di Waite.»

«Sei riuscito a parlare con Dvorak?» «Ci sto ancora provando! L-1 non riesce a mettersi in contatto.» Cyndi si girò verso di lui, ma Jason aveva già acceso il microfono per

intervenire nella discussione. «Columbus, sono Dvorak. Big Daddy, cosa sta succedendo?»

«Jason, sono contento di sentirti! Stavamo mandando qualcuno a cercar-ti...»

Jason interruppe Lon Newellen. «Va bene, sono qui. Cosa sta succeden-do?» Notò appena che Cyndi Salito stava accelerando.

«La cavalletta di Trevor Waite, non siamo riusciti a sollevarla.» «È caduto il collegamento?» «No, non è questo. Stavano... stavano trasmettendo dalla VLF. Waite era

andato giù nel cratere Dedalo con Becky Snow e Lasserman stava ritra-smettendo le informazioni dalla cavalletta.» Newellen tacque imbarazzato. Jason stava per insistere, quando riprese a parlare.

«C'è dell'altro. È meglio che vieni qui e vedi le immagini di persona.»

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Jason era lì al centro di controllo accanto all'oloscopio. Con i suoi due metri di diametro, il cilindro trasparente delle oloscopie occupava tutto il centro della stanza emisferica. Mise una mano sull'immagine luccicante e trattenne il respiro. «Wow. Che diavolo è?»

Delle braccia semitrasparenti, lunghe ed esili, emergevano da un buco incredibilmente profondo vicino alla parete del cratere. Fra le braccia si in-travedeva un debole luccichio; due di esse si congiungevano in un arco a mezzo chilometro di altezza dal buco. Il resto della cosa sembrava in co-struzione.

L'enormità della scala fece indietreggiare Jason quando vide la zona di atterraggio della cavalletta, fuori dal cratere. La cavalletta stessa era stata distrutta. Trevor Waite, Becky Snow e Siegfried Lasserman erano morti. I primi a morire sulla Luna dopo anni. E ne era responsabile lui.

Ma il mistero di quella cosa continuava a catturare" la sua attenzione. Era enorme, e nessuno aveva mai sospettato la sua presenza.

«Proietta la foto più recente fatta in quel luogo dalle sonde orbitali.» Nell'oloscopio si formò un cubo, che ruotò per poi mostrare la stessa iden-tica scena - senza il buco e senza quell'infrastruttura spettrale. «Quando è stata scattata?»

«È della LO-3, una sonda passata due anni fa. Queste foto furono fatte poco dopo che la VLF divenne operativa.»

Jason si avvicinò e fissò con gli occhi socchiusi le immagini trasmesse da Waite, ma la definizione della camera non migliorò. «Non vedo tracce di veicoli, a parte quello di Waite.»

«Infatti non ce n'erano.» Newellen si tirò su la tuta e, nella bassa gravità, si mosse verso l'olosco-

pio con la grazia di un ballerino. Era un uomo grande e grosso che sem-brava fuori posto lì nell'ambiente lunare; ma il fisico corpulento di Newel-len era tenuto su dall'ossatura più grossa che Jason avesse mai visto. Per capire perché lo chiamassero "Big Daddy" bisognava aver visto il soggetto da vicino.

Newellen infilò il suo indice tozzo nella luccicante immagine tridimen-sionale. «Da questa parte potete vedere parecchie tracce del veicolo lunare - qui, qui, e anche qui. Risalgono tutte al periodo, anni fa, in cui la stazione VLF venne costruita. Si riconoscono perfino i punti dove alcuni se ne an-davano a zonzo. Ma a eccezione di questo punto isolato da... dalla cosa» disse delineandone il volume con il dito «la regolite è intatta. Osservate.» Premette dei tasti sull'oloscopio e l'intera veduta si contrasse nel punto che

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aveva indicato pochi secondi prima. Cyndi Salito si sporse verso l'immagine, infilandosi fra Jason e Newel-

len. «Com'è che non abbiamo scoperto niente prima? È impossibile che quella cosa sia stata costruita due anni fa senza lasciare impronte. E se la regolite fosse stata cosparsa lungo il buco per coprire le tracce?»

«Impossibile.» Newellen ingrandì le immagini ancora di più, e il terreno assunse un aspetto ancora più confuso. «Abbiamo già eseguito una simula-zione Mandelbrot. Abbiamo ottenuto la stessa distribuzione che vedete qui. Il terreno è fondamentalmente intatto.»

Tutti tacquero mentre Newellen ripristinava la veduta che comprendeva l'intera struttura. Jason continuava a fissare l'immagine. «Così stai dicendo che una cosa grande come uno stadio da football è apparsa là così, senza nessun segno della sua costruzione, senza nessun prodotto di scarto? Que-sto non spiega un accidente!»

Newellen si limitò a scrollare le spalle. «Abracadabra.» «E la Cavalletta-1? Hai idea di cosa le sia successo? E l'ultima trasmis-

sione di Trevor Waite?» Jason aggrottò la fronte e si passò una mano fra i capelli ricci e scuri. «Andiamo, dannazione! I grattacieli non nascono sulla superficie lunare dal nulla!»

Per un lungo momento nessuno parlò. Allora Newellen proiettò per u-n'altra volta la videotrasmissione di Lasserman, rinviata dallo stereochip di Waite. Si fermò ai primi piani della struttura filamentosa che emergeva dal pozzo.

Cyndi Salito ruppe finalmente il silenzio. «Non sarò la prima a pronun-ciare la parola che comincia per A.»

Newellen roteò gli occhi. «Giusto. Squadre di costruzione aliene inva-dono la Luna. Della serie: "Statua di Elvis Presley scoperta su Marte".»

Jason guardò uno a uno i presenti con gli occhi stretti. «Non ho inten-zione di diventare lo zimbello di nessuno. Ma sono morte tre persone, e dannazione, scopriremo perché. Mettetemi in linea con la Terra. Voglio parlare con la direttrice.»

2.

United Space Agency

Washington D.C. Il generale era nel suo elemento naturale. Celeste McConnell lo capiva

dai suoi gesti animati e dall'emozione che gli si leggeva in volto mentre

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camminava a lunghi passi davanti all'oloscopio che brillava di attività. At-tirò l'attenzione di Celeste sulle immagini dell'asteroide che stava precipi-tando verso la Terra, un'inarrestabile isola di pietra larga più di un chilo-metro e mezzo.

«La rotta di Icaro è stata intercettata» disse il generale Simon Pritchard. «Non si è mai avvicinato così all'orbita della Terra dal 1968. Queste vedu-te provengono dalle telecamere ad ampio raggio situate sui satelliti Lean-sats.» La finestra mostrava un Icaro a forma di patata che si avvicinava ro-teando. Quando le inquadrature cambiarono divenne più grande.

Un'immagine della Terra riempì un'altra finestra mentre il generale ma-neggiava i comandi del computer. Man mano che l'asteroide si avvicinava alla Terra il punto d'impatto veniva inquadrato da un bersaglio mobile. In quel momento passò sopra il Brasile.

«Se usiamo il sistema di difesa orbitale della Guardia Spaziale...» Esat-tamente sul bordo dello schermo, Celeste vide un missile affusolato che procedeva lungo l'esterno, con le insegne della United Space Agency sin troppo evidenti sulla sua testata nucleare. I missili della Guardia Spaziale proposti dal generale erano stati pensati per essere utilizzati contro le mi-nacce provenienti dallo spazio.

Celeste si lisciò l'abito d'affari. Lo trovava ancora scomodo, dopo tutti quegli anni. Ma Washington D.C. aveva un codice d'abbigliamento molto rigido. La gente indossava cravatta, pantaloni, giacca e panciotto anche quando si rilassava di fronte al caminetto. Non si era mai abituata. Preferi-va le comode tute per la gravità zero che portava quando faceva l'astronau-ta, sette anni prima, alla Grissom.

Pritchard non sollevò lo sguardo mentre controllava la simulazione. Su ciascuna spalla facevano bella mostra due stellette. Si chiese come se la sa-rebbe cavata come professore universitario. Come le capitava di solito con i suoi conoscenti universitari, Celeste sospettò che si fosse tirato a lustro apposta per la sua visita; aveva fissato l'incontro molte settimane prima.

Pritchard rimaneva completamente assorto e concentrato. Sullo schermo principale, Celeste osservò un cratere grande come un centro commerciale che era apparso sopra il terminatore dell'asteroide mentre Icaro ruotava sul suo asse. I missili della Guardia Spaziale schizzarono via verso la massa di roccia.

A quel punto la situazione le parve surreale: un generale a due stellette e la direttrice della United Space Agency soli nella sala di controllo. Pri-tchard aveva cacciato via i tecnici e il suo aiutante. Voleva dirigere la si-

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mulazione da solo; aveva sperimentato il sistema abbastanza a lungo. «I missili si stanno avvicinando» disse Pritchard accennando all'imma-

gine di Icaro. Celeste vide la roccia che si muoveva, mutava, attirata verso l'enorme pozzo di gravità della Terra. Il muso di uno dei missili della Guardia Spaziale si inclinò, e sulla superficie dell'asteroide apparve la cro-ce di un bersaglio. Sulla terza finestra di visione, la Terra ruotava, placi-damente inconsapevole della minaccia che si avvicinava.

«Correzione della rotta.» I sistemi di propulsione reagirono con un'e-splosione di vapore argenteo.

Gli occhi di Pritchard erano spalancati, rapiti dagli eventi. Celeste distol-se a fatica lo sguardo dagli schermi per osservarlo, cercando di mantenere un'espressione professionale. I suoi capelli castano chiaro erano arruffati, appiccicati alla fronte da un velo sottile di sudore. Con il suo aspetto a-sciutto e spigoloso, Simon Pritchard non sembrava uno di quei generali rozzi e sanguigni.

«Ci siamo... ecco! Colpito.» Toni gialli e arancioni divamparono sullo schermo su cui appariva Icaro.

«Ora ci sono due possibilità. O l'impatto è abbastanza basso da deviare l'orbita dell'asteroide...» Su un altro schermo apparve un diagramma orbi-tale raffigurante l'orbita originaria in rosso; il punto di intersezione con la posizione della Terra era indicato sinistramente con una X. Poi apparve u-n'ellisse più allungata, colorata di blu, che portava Icaro lontano, fuori dai confini terrestri.

«... o è maggiore della resistenza alla rottura dell'asteroide e lo frammen-terà in pezzi più piccoli. Ed è questo il problema. Una moltitudine di schegge può causare un danno maggiore dell'intero asteroide. Il trucco consiste infatti nel far in modo che i missili identifichino le caratteristiche dell'asteroide mentre sono in volo, e nel modificare quindi il loro impatto in modo da farlo solamente deviare.»

Celeste si mise le mani sui fianchi. Era più bassa del generale di molti centimetri. «Sempre che riesca a convincere qualcuno a prendere sul serio il pericolo.»

«La probabilità di un impatto è realmente alta» ribatté Pritchard. «Ogni anno l'atmosfera viene colpita da un chilotone di pietra, anche se si tratta solo di un mucchio di roba piccola. Icaro si sta avvicinando, dopo tutto. Guardi.»

Lo schermo era ripartito con un'immagine inalterata di Icaro, in rotta di collisione verso la Terra. Celeste guardò mentre le immagini generate al

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computer mostravano l'asteroide che ruotava da un lato all'altro. Entrando nell'atmosfera terrestre si accese di un bagliore accecante come quello del Sole, creando un ammasso di vapore tale che Celeste non riuscì a distin-guere più i contorni dei continenti. Quando il modello simulò l'impatto Ica-ro svanì in una luce arancio e rosso sangue.

«Due gigatoni» commentò Pritchard. «Come quello che colpì i dinosau-ri. Ci estingueremmo, spazzati via dall'urto, dai terremoti e dalle maree, o come minimo stroncati a lungo andare dall'enorme sconvolgimento clima-tico.»

Lo sguardo di Pritchard sembrava scrutarle dentro. Celeste si sentì a di-sagio, ma continuò ad ascoltare attentamente. Qualcosa della tecnica di Pritchard avrebbe potuto tornarle utile quando doveva convincere i mem-bri del Congresso ad appoggiare un progetto che le stava a cuore.

Celeste incrociò le mani. Era contenta di assistere a questa simulazione invece che a una noiosa conferenza pensata per un grande pubblico e inter-rotta di continuo dagli assistenti e dagli squilli dei beepers.

Con un movimento del mento sottile Celeste indicò l'olografia. Tutte le immagini erano scomparse, tranne una, quella del globo terrestre, soffocata da nuvoloni grigi dietro i quali si scorgevano bagliori incandescenti color arancio. «Questa simulazione serve a qualcosa, generale?»

Lui alzò le sopracciglia, rifletté per un attimo, poi scelse la risposta. «I-caro passa vicino a noi una volta ogni diciannove anni. Nel 2025 i bar di errore della sua orbita quasi si sovrapponevano al percorso della Terra. Una collisione ci sarà, se non con Icaro, con un altro asteroide. Ci siamo andati vicini un mucchio di volte. Forse dipende da quanta fortuna pensano di avere sei miliardi di persone. Saremmo preparati se succedesse vera-mente? La risposta è: decisamente no.»

Poi Pritchard fece ricorso a una tattica che non la offese, anche se la maggior parte della gente avrebbe avuto troppo timore di farne uso. Le disse, abbassando la voce: «Proprio lei non dovrebbe sentirsi tanto tran-quilla, anche se c'è chi dice che il margine di rischio è insignificante.»

Celeste lo fissò freddamente. L'unica cosa che notò fu il tremore quasi impercettibile di una palpebra. Se lei avesse opposto resistenza, lui avreb-be probabilmente ritirato le sue parole con una scusa. Ma Celeste non lo fece.

La stazione Grissom era stata spazzata via proprio da una collisione ina-spettata con dei "detriti spaziali". Erano morte due persone, una delle quali era suo marito Clark. Celeste stessa e altri cinque erano riusciti a salvarsi

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solo grazie alla sua capacità di fronteggiare con prontezza la situazione, e a ciò che tutti gli altri avevano definito fortuna pura e semplice. Quell'inci-dente le aveva rovinato la vita, l'aveva trasformata in un'eroina internazio-nale e infine, dopo averle fatto salire i gradini della gerarchia amministra-tiva, le era valsa la nomina di direttrice della United Space Agency. Erano poche le persone che se la sentivano di menzionare quella parte del suo passato; ma evidentemente Pritchard non aveva peli sulla lingua.

«Ammiro quello che sta facendo, generale Pritchard. Sul serio. Lei sa di trovare in me un orecchio sensibile. E apprezzo il suo candore; ne sento già troppe di balle con dodici riunioni di comitato alla settimana. Ma devo essere sincera con lei. A prescindere dal pericolo Icaro, che sia reale oppu-re no, il suo sistema di difesa di Guardia Spaziale non è qualcosa che io possa vendere al Congresso. Nessuno vuole sentire parlare di missili spa-ziali. Nessuno vuole nemmeno pensarci - anche se ne avremmo bisogno.»

Il generale si irrigidì. «Non ho calcolato io le probabilità che abbiamo di essere colpiti. Siete stati voi a interpellarci perché trovassimo una soluzio-ne.»

«Me ne rendo conto» ribatté Celeste «ma con l'attuale clima politico, an-che se la collisione con Icaro fosse un fatto indiscusso, non servirebbe a niente lo stesso. Nessuno vuole sentir parlare di una minaccia proveniente dallo spazio. Per quanto terribile sia.» Gli fece un fece sorriso accattivante. «Nella mitologia Icaro era un povero pazzo che perse le ali e si schiantò in mare. Dedalo, invece, era un tipo interessante che creò nuove tecnologie strabilianti. Venga con me. Mi permetta di mostrarle che posto interessante è diventato Dedalo.»

Celeste guidò Pritchard oltre i volti impassibili delle due guardie poste

all'ingresso del Controllo Missioni della United Space Agency. Le due gio-vani guardie, un uomo e una donna giapponesi, scrutarono il distintivo di Celeste, sebbene l'avessero già vista mille volte, perché le recenti minacce terroristiche del gruppo PRIMA LA TERRA! avevano reso necessarie maggiori misure di sicurezza. Prima che una delle due guardie potesse o-biettare alla presenza del generale, Celeste alzò la mano e disse: «È tutto a posto. Garantisco io per lui».

Pritchard cominciò a guardarsi attorno ancor prima che la porta rifletten-te della cabina si richiudesse dietro di lui. Celeste lo vide spalancare gli occhi dallo stupore. Il Controllo Missioni locale aveva dimensioni drasti-camente ridotte rispetto ai centri Controllo Missioni dei tempi delle vec-

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chie missioni Shuttle. Grazie ai progressi compiuti nel campo delle reti neurali e dei sistemi di elaborazione distribuiti, nonché all'aumentata po-tenza dei computer, la United Space Agency non aveva più bisogno di uno stanzone grande come la platea di un teatro e di un personale nutrito come un esercito per eseguire le varie missioni. Bastavano una manciata di tec-nici e una spaziosa sala riunioni.

Mentre Pritchard si guardava attorno instupidito, Albert Fukumitsu, il caposervizio di turno, la chiamò. «Direttrice, è da un bel po' che cerchiamo di rintracciarla.» Si asciugò la fronte dal sudore. Aveva i capelli neri e i-spidi raccolti all'indietro da una fascia. «Jason Dvorak ha cercato più volte di mettersi in contatto con lei.»

«Avevo il beeper spento» rispose Celeste. Si era goduta quei pochi mo-menti di pace abbastanza da sopportare le seccature che ne derivavano. «Jason deve smetterla di farsi prendere dal panico. Deve imparare a cavar-sela un po' più da solo.»

Fukumitsu la guardò con un'espressione scettica di disappunto. «Si tratta di una circostanza abbastanza insolita.»

«D'accordo. Ha lanciato la sonda telepresente all'orario previsto?» «Sì, un'ora fa.» Indicò con la mano gli schermi alla parete. Uno dei tec-

nici che aveva colto la loro conversazione aprì un file che mostrava la se-quenza della cavalletta che si sollevava fra sbuffi di metano. «ETA su De-dalo fra dieci minuti.»

«Nel frattempo mettiamoci in contatto con Jason.» Celeste prese una se-dia lasciata libera da un tecnico fuori servizio e si sedette di fianco a Fu-kumitsu. «Deve essere là che scalpita come un padre fuori dalla sala parto alla nascita del primo figlio.»

Pensò divertita a quanto poco plausibile dovesse sembrare a Jason il suo nuovo ruolo. Non era in grado di spiegargli le ragioni che l'avevano spinta a decidere improvvisamente di porlo al comando della base.

Dvorak era un architetto innovativo, che aveva vinto molti premi; dopo aver progettato l'impossibile per una decina di volte, si era stufato del ba-nale lavoro sulla Terra. Così aveva usato le sue conoscenze per farsi rice-vere dalla direttrice della United Space Agency. Quando si era seduto di fronte alla sua scrivania, Celeste non aveva assolutamente idea del perché volesse parlare con lei. Ma quando aveva cominciato a spiattellarle la sua idea di riparare e ristrutturare la vecchia base lunare per prepararla alla successiva ondata di insediamenti, Dvorak l'aveva convinta. «Sono i nostri pionieri» aveva detto lui. «Al momento vivono nelle tende. Diamogli al-

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meno delle capanne di legno.» Lei aveva approvato il suo addestramento e la sua nomina e, dopo aver

passato quasi un anno alla base a soppesare le varie possibilità e a ristruttu-rare alcuni quartieri residenziali, Jason Dvorak aveva già lasciato un segno nella vita quotidiana del luogo. Senza dargli alcun preavviso, Celeste ave-va spostato il comandante precedente della base, Bernard Chu, alla stazio-ne di transito Collins su L-1. Quanto alla comandante della Collins, Eileen Dannon, l'aveva fatta ritornare sulla Terra, dove i suoi frequenti disaccordi con Celeste potevano essere coperti più facilmente.

All'inizio, Dvorak si era goduto l'avverarsi del suo sogno, ma in momen-ti come quello si stava rivelando troppo un bravo ragazzo per riuscire a prendere decisioni difficili sotto stress. Forse Bernard Chu se la sarebbe cavata meglio, almeno provvisoriamente... dai tempi del disastro della Grissom, sette anni prima, aveva acconsentito a tutto quello che lei gli chiedeva. Ma no, dopo tutto Dvorak era al comando della base solo da due settimane. Meritava più fiducia.

«Mi faccia vedere le immagini di Waite» disse Celeste. Fukumitsu fece un cenno a uno dei tecnici, che si diede da fare per mandarle in onda.

Il generale Pritchard le si avvicinò, rilassato nella sua uniforme dell'Ae-ronautica. «Dedalo, dov'è stazionata parte della vostra strumentazione a-stronomica dall'altra parte della Luna...»

«Esatto.» Sullo schermo apparve l'immagine del cratere, visto dal punto di osser-

vazione di Trevor Waite. «Zoom in avanti» ordinò Fukumitsu. Le immagini dell'anomalia di Dedalo si definirono su un'ampia finestra

che sbocciò al centro della parete. Ma a differenza della computer graphics del generale, quelle immagini erano vere. Celeste sentì accapponarsi la pelle allo strano presentimento di cosa era in serbo per il mondo non appe-na fossero riusciti a capire cosa stava succedendo sulla Luna. Aveva avuto degli incubi a proposito.

«Stiamo ancora analizzando la situazione» disse Celeste a Pritchard «ma spero che fra pochi minuti sapremo qualcosa di nuovo.»

Sullo schermo videro dei primi piani di Dedalo, con il fondo del cratere dominato da segmenti della stazione VLF e il pozzo dalle pareti lisce co-perto dall'intelaiatura semitrasparente della struttura principale. Le linee bianche ricordavano lo schizzo di un architetto, una cianografia tridimen-sionale che aveva misteriosamente fatto la sua comparsa senza lasciare macerie, impronte sismiche o indizi evidenti della sua origine.

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Il generale parve capire che si trattava di una cosa molto più strana di quello che si era immaginato. «Che cos'è? Da dov'è venuta?»

In quel momento la porzione principale dello schermo venne invasa da un'immagine troppo ravvicinata di Jason Dvorak. I suoi occhi castani era-no lucidi dalla fatica, i capelli scuri e ricciuti erano tutti scompigliati, ma le labbra perennemente curvate all'insù davano sempre l'impressione che fos-se lì lì per sorridere. Fece un passo indietro per essere più a fuoco.

«Direttrice, stavo cominciando a chiedermi se sarebbe stata presente alla sonda.»

Celeste si lisciò il lindo abito d'affari e avanzò in primo piano. Benché fosse minuta, aveva una presenza imponente. I suoi occhi erano così scuri da sembrare smaltati di nero. Sulle newsnets continuavano a chiamarla "la signora di ghiaccio". Parlò a voce bassa, facendo trapelare un tono di rim-provero, non così forte tuttavia da mettere in pericolo il suo buon rapporto con Dvorak.

«Jason, avevo detto che sarei stata presente, ma non avevo promesso di venire in anticipo.» Dopo un attimo di silenzio, proseguì. «Ti presento il generale Simon Pritchard. È qui per darci il suo contributo. Forse assieme riusciremo a capire questa cosa.»

Pritchard annuì sorpreso, ma recuperò in fretta. Una conversazione dalla Terra alla Luna con la conseguente sfasatura della trasmissione assomi-gliava un po' alla camminata di un ubriaco: due passi avanti, poi una sosta per orientarsi, e di nuovo altri due passi avanti.

Dvorak guardò fuori dallo schermo. Fece un cenno col capo, poi disse: «Passiamo alle telecamere situate sulla cavalletta». L'immagine si allargò per comprendere un gruppo di persone raccolte attorno a lui.

Un omone vicino a Dvorak chiamò a sé un pannello di controllo ologra-fico sospeso per aria. Altri tecnici nell'affollato centro di controllo gridaro-no alcuni numeri e inviarono sulla Terra delle letture di dati. La finestra che mostrava Dvorak si spostò sull'angolo a sinistra in alto, mentre si apri-vano nuove finestre che mostravano la telemetria, un'animazione CAD che illustrava l'assetto della cavalletta, e un globo lunare roteante che disegna-va traiettorie, con la croce di un bersaglio posto in corrispondenza del cra-tere Dedalo, sulla parte notturna della Luna. Poi sullo schermo a parete si aprì la finestra più grande, su cui apparve Dedalo ingrandendosi di secon-do in secondo. Si poteva già vedere la misteriosa struttura filamentosa del-l'anomalia.

Quando la cavalletta ci volò sopra, Dvorak si trattenne dal far commenti,

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cosa che Celeste apprezzò. D'altra parte nessuno era in grado di dire cosa stesse succedendo là.

Pritchard stette col fiato sospeso mentre la telecamera a media definizio-ne della cavalletta mostrava gli archi che si levavano dalla polvere, la struttura simile a quella di uno stadio enorme, impossibili travi di pizzo che sembravano poggiare sul nulla. Sembrava che un essere gigantesco si fosse divertito a tendere dei fili giocando a ripiglino nel bel mezzo del cra-tere.

«Va bene, stanno arrivando dei dati» disse Dvorak. «Il diffusore retro-grado a raggi x indica che i materiali sono estremamente duri e leggeri, non molto densi. Come un aerogel, ma fatto di fibre di diamante. Forse è come la schiuma di diamante che stanno cercando di fabbricare nei labora-tori orbitali.»

Celeste annuì. Poi la voce di Dvorak suonò lievemente allarmata. «Non vedo traccia del mio equipaggio. Niente. Ci dovrebbero essere un veicolo lunare e una cavalletta. Per non parlare di tre corpi, tre tute. Dove cavolo sono?»

«Di che cosa sta parlando?» chiese Pritchard. Bisbigliando in fretta dal-l'angolo della bocca, Celeste gli disse di Waite, Lasserman e Becky Snow.

«Ma come è arrivata lì?» esclamò Pritchard senza togliere gli occhi dallo schermo. «Guardi quel pozzo! Per scavarlo ci vorrebbero alcuni megatoni di energia!»

Celeste aveva dimenticato che Pritchard aveva un passato di scienziato. «Lo so. Ma non abbiamo trovato nulla. Posso mostrarle tutte le tracce. La Luna è un milione di volte meno attiva della Terra, e avremmo dovuto tro-vare almeno qualcosa. Ma non c'è attività sismica vicino a Dedalo.»

La cavalletta autopilotata volò sopra l'ampio pozzo. Un'operazione mi-neraria clandestina sulla Luna? Pirati dell'estrazione? Il pensiero era così assurdo che Celeste fu contenta di non avere detto niente a voce alta. Sotto la fioca illuminazione della parte notturna, le profondità del pozzo erano nere come catrame. Se c'era qualcuno che stava lavorando laggiù, di certo non aveva bisogno della luce.

«È possibile che abbiano...» Il generale si interruppe, accentuando la pa-rola "abbiano" come se avesse paura di suggerire quello a cui poteva star pensando; Celeste aveva già cominciato a litigare con se stessa per il me-desimo motivo. «Cioè, è possibile che la vostra rete di rilevazione sismica sia stata in qualche modo manomessa? Che siano state cancellate le trac-ce?»

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«Forse» disse. «Oppure hanno trovato un modo per scavare quel pozzo e hanno eretto quelle strutture senza provocare neanche un tremolio.»

«Impossibile, no?» «Generale, tutta questa storia è impossibile!» Dvorak li interruppe. L'animazione CAD stava mostrando la cavalletta

che si allontanava dal pozzo. Avevano scelto di utilizzare tutto il carburan-te per effettuare una ricognizione completa del luogo, facendo a meno del viaggio di ritorno. «Il carburante di manovra sta scarseggiando. Non pos-siamo andare oltre con la ricognizione aerea se vogliamo garantirci un at-terraggio sicuro.»

«Fa' scendere la cavalletta» ordinò Celeste. «Si sposti su una di quelle torri» suggerì Pritchard. Mentre la cavalletta si posava su un tratto pianeggiante di regolite, Cele-

ste vide le impronte nitide dei battistrada dei veicoli lunari che avevano costruito la stazione VLF tre anni prima. La base di una torre si ergeva spettralmente dal suolo senza alcuna linea di giunzione con il terreno, ta-gliando a metà l'orma lasciata da un costruttore. La polvere sollevata dal-l'atterraggio della cavalletta offuscava il cielo buio.

Dei fari illuminarono le ragnatele di archi. Nell'angolo superiore sinistro dello schermo a parete, Lon Newellen azionò i comandi del pannello di te-lepresenza. La sonda dispiegò i propri strumenti.

«Non registro nessun movimento. Neanche un tremito, un battito, solo alcune vibrazioni rimaste dall'atterraggio. Questo posto è immobile come una statua.»

Per qualche motivo l'immagine ricordò a Celeste le grandi piramidi egi-zie, o la sfinge, o un tempio abbandonato da secoli eretto agli albori della storia. Ma queste non erano antichità. Si sforzò di tenerlo presente.

I dati degli scandagli elettromagnetici, degli spettrometri di rilevazione, dei sensori chimici, mineralogici, topografici e gravitazionali iniziarono a scorrere nelle rispettive finestre sulla parte bassa dello schermo, seguiti dai commenti di Dvorak. «Non si vede nessuna radiazione, nessuna fluttua-zione di energia, ma la temperatura dell'area è di sette gradi più alta del normale. Continuo a ottenere segnali di ritorno ultratransienti sui rilevatori a raggi gamma. Troppo brevi per contenere informazioni. Tenderei a dire che si tratta di un problema tecnico, ma sono concentrati in una gamma di frequenze molto definita. È veramente strano...»

L'immagine sullo schermo si offuscò per una scarica di elettricità statica, poi tornò a fuoco. Ci fu un'altra scarica, più forte questa volta, e l'immagi-

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ne non si riaggiustò del tutto. Rimase distorta e granulosa. Poi la telecame-ra oscillò fortemente di lato, come se qualcuno avesse urtato l'intera sonda.

«Non sono stato io!» esclamò Newellen, mettendo le mani in alto come per dimostrare la sua innocenza.

Parecchi strumenti situati sulla sonda cominciarono a stridere, emetten-do messaggi di errore. Due non diedero più segni di vita.

«Gira la telecamera in direzione del terreno» ordinò Celeste. Le sue parole si sovrapposero alla risposta di Newellen. «L'elettronica è

tutta incasinata. Ci sono guasti dappertutto.» L'immagine sobbalzò, come se fosse partito qualche pezzo. Ma Newellen riuscì a ruotare la telecamera, zoomando in avanti sul sostegno sottile della sonda.

La superficie dorata cominciò a coprirsi di buchi. Mentre era intenta a osservare, Celeste vide che si dissolveva come schiuma.

«Si sta disintegrando tutto!» gridò Dvorak. La cavalletta si inclinò, poi si capovolse sul fianco. L'immagine sbandò

terribilmente per poi posarsi sulle silenziose torri di ragnatela slanciate verso le stelle. Tutte le finestre dello schermo a parete furono invase da un terremoto di scariche, finché Fukumitsu le chiuse riportando l'immagine di Dvorak in posizione centrale.

«Non so cos'altro possiamo fare» disse Dvorak. «Non ci sono aumenti di radiazioni, non ci sono fluttuazioni di energia. Non vedo niente che possa aver causato tutto questo!»

«Va bene.» Celeste cercò di parlare con calma per non accrescere lo spavento di Dvorak. «Voglio che provi ancora. Se sta irradiando negli in-frarossi, voglio un'ispezione IR. Metti un altro pacchetto di sensori in quel-le sonde perforatrici che hai usato per prelevare quei campioni del sotto-suolo per i geologi. La prossima volta, organizza una spedizione per prele-vare dei campioni.»

«Abbiamo bisogno di dare un'occhiata più da vicino» disse il generale. «Non ho intenzione di mandarci nessuno là. Ho già perso tre persone, e

ora questa sonda» disse Jason. Celeste tacque per vagliare le alternative possibili. «No, possiamo tele-

comandarla. C'è qualcosa in quel posto che pare faccia disintegrare le no-stre macchine. Dobbiamo riuscire a impossessarci di un pezzo di quella re-golite, poi fare ritorno alla base. Ma non voglio rischiare di contaminare Columbus se ci fosse qualcosa nel terreno. Potresti mettere su un laborato-rio isolato sul modulo di Simul-Marte. Dovrebbe essere abbastanza lonta-no dalla base lunare da non causarvi pericoli.»

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Dvorak parlò ancora, stavolta in tono formale. «Non credo di avere gli strumenti per fare granché, direttrice. Non siamo una stazione di ricerca vera e propria, lo sa.»

Lei sospirò. «Raccoglierò un'équipe di esperti per aiutarti, Jason. Li spe-diremo anche su se sarà necessario, ma prima di sceglierli abbiamo biso-gno di saperne un po' di più.»

Dvorak annuì, con la faccia ancora stravolta, ma leggermente sollevato. «Va bene. Penso però che sia ora di rendere pubblico quanto è avvenuto. Waite, Lasserman e la Snow si meritano almeno questo.»

«Sono d'accordo. Non ho nessuna intenzione di tenerlo segreto» rispose Celeste. «Ripeto: nessuna.»

Dopo che Dvorak ebbe chiuso la comunicazione, il generale Pritchard rimase scuro in volto. Celeste gli mise una mano sulla spalla, cosa che lo fece trasalire. La sua uniforme era ruvida e sgradevole al tatto. «Be', gene-rale, com'è questa come minaccia dallo spazio? Non credo che abbia biso-gno di continuare le sue congetture su Icaro. Cosa ne dice, crede che riu-sciremo a suscitare un po' di interesse adesso?»

3.

Antartide: Laboratorio Isolato di Nanotecnologia

I raggi bassi del sole battevano sui pannelli solari del Laboratorio Isolato

di Nanotecnologia. Il dottor Jordan Parvu sorrise fra sé e sé guardando le immagini dei suoi quattro nipotini. Si stropicciavano gli occhi e lo saluta-vano. Parvu si era scordato che era il cuore della notte quando aveva chia-mato suo figlio, ma Timothy era corso lo stesso a svegliare i bambini. In-daffarato com'era con il lavoro e immerso nel perenne giorno antartico, Parvu a volte si dimenticava dei ritmi naturali delle altre persone.

In teoria i collegamenti ottici e il grande schermo visivo del LIN dove-vano servire per teleconferenze, trasferimento di dati e occasionali esperi-menti telecomandati da ricercatori di nanotecnologia sparsi in tutto il mon-do. Ma nessuno gli avrebbe rinfacciato una chiamata personale una volta ogni tanto. E poi la sua assistente, Erika Trace, usava raramente la sua por-zione.

Timothy pareva non trovare le parole e non sapeva come continuare la conversazione. Parvu stesso non aveva molto da dire; la sola vista della sua famiglia gli infondeva un senso di calore.

Nel volto del figlio Parvu vedeva l'immagine di se stesso: il naso affila-

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to, i capelli folti che presto sarebbero diventati di un grigio ferro uniforme, le sopracciglia cespugliose, gli occhi scuri circondati da un ventaglio di rughe di espressione, la pelle molto scura, e denti smaglianti in un sorriso perfetto.

Erika Trace irruppe nella sala delle teleconferenze. «Jordan, scusi, dottor Parvu» si corresse in fretta, vedendolo parlare con la sua famiglia. «Siamo pronti per installare i nuovi prototipi di nanomacchine. Ho preparato il contenitore e il nanonucleo.» Aveva i capelli biondi, lunghi e lisci, tagliati in modo funzionale senza particolare attenzione allo stile. Gli occhi erano sul verde, e con la luce bassa parevano più scuri.

«Ah, un attimo...» Si girò di nuovo verso Timothy e fu sorpreso di scor-gere sul volto del figlio un'espressione di disapprovazione. Ma Erika non aveva mai mostrato nessun tipo di attrazione nei suoi confronti - grazie al cielo! La passione per il suo lavoro la consumava. Quel tipo di ossessione dovrebbe comparire solo più avanti, pensò Parvu, dopo che uno si era go-duto la vita. Sperava che Erika lo capisse prima di sprecare la sua giovi-nezza.

«Devo andare ora, caro figlio, cari nipoti...» «Salutate il nonno adesso» disse Timothy. All'unisono, i quattro bambini

sventolarono le mani ridendo. Parvu chiuse la comunicazione. Lo schermo vuoto lo deprimeva.

Parvu e Erika uscirono attraverso la serie di doppie porte di pressurizza-zione. Mentre superava la seconda porta, Parvu sentì la corrente d'aria pas-sargli accanto. La pressione dell'aria aumentava del 20 per cento a ogni porta per eliminare qualsiasi possibilità di contaminazione o migrazione nanotecnologica.

Entrò nella cupola del LIN. La cornice più esterna conteneva la sala del-le teleconferenze con i computer principali, i generatori di corrente, gli schedari, un piccolo cubicolo con gli animali per i test, i terminali e le aree di lavoro. Al di là di un muro spesso e doppiamente isolato, c'era la princi-pale area sterilizzata di assemblaggio.

Parvu si sfregò le mani; la voglia di analizzare i nuovi esemplari lo face-va scalpitare. Avevano aspettato intere settimane. Voleva sentire Maia Compton-Reasor e la sua équipe di Stanford, e poi mettersi in contatto con quella di Maurice Taylor al MIT. Assieme, avrebbero cominciato le prime analisi. I loro ricercatori avevano lavorato congiuntamente per mesi per sviluppare questi nuovi esemplari, ma l'attivazione degli automi poteva avvenire solo lì, nello spazio sicuro del LIN.

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Indossata l'uniforme sterilizzata, Erika preparò il contenitore nero vicino alla colonna del nanonucleo, che sì ergeva fino al soffitto. Aveva già con-trollato tutto innumerevoli volte e richiesto il collegamento ottico con Stanford e con il MIT. Parvu stesso avrebbe effettuato il trasferimento dei campioni.

Entrando dalla seconda serie di porte pressurizzate, Parvu si era fermato per indossare un copricapo di plastica, un camice anti-pulviscolo e delle soprascarpe. Sulle mani sudate si era infilato dei sottili guanti di gomma, poi, prima di varcare la soglia del laboratorio vero e proprio, si era pulito le suole su una stuoia grigia di materiale adesivo.

Erika era tutta indaffarata. Era sempre così piena di sollecitudine per lui e per i suoi progetti. Quando la conobbe, Erika era una degli studenti di Taylor al MIT, dove studiava fisica e tecniche di fabbricazione dei circuiti integrati. In lei, Parvu scoprì un'anima affine; lavoravano bene insieme. Quando lasciò il MIT per andare a lavorare per il Centro per i Materiali ad Alta Tecnologia di Albuquerque, Erika lo pregò di portarla con lui. Si chiedeva cosa avesse fatto per meritarsi una discepola così devota.

«Ho preparato tutto. Taylor non è reperibile, probabilmente sarà per strada diretto al campus. Hanno convocato la dottoressa Compton-Reasor. Credo che stesse dormendo, ma aveva lasciato detto di chiamarla in qua-lunque momento ci fossimo messi in contatto.»

«Avremo bisogno del codice di Taylor per attivare i campioni» disse lui. «Sta arrivando.» Abbassò la voce. «Riesce sempre a essere in ritardo, in

qualsiasi situazione.» «È vero» disse Parvu, e si mise ad aiutarla. Erika aveva sistemato il contenitore dei campioni sul portellone d'acces-

so della colonna trasparente del nanonucleo. I sigilli erano bloccati; tutti i contatti di sicurezza intrinseca erano scattati automaticamente. Se qualcu-no avesse manomesso i sigilli del contenitore, l'interno sarebbe stato steri-lizzato da una scarica inceneritrice. I campioni nanotecnologici erano inat-tivi, lasciati volutamente incompleti. Il codice di Maia Compton-Reasor li avrebbe inizializzati; un secondo codice, quello di Taylor, li avrebbe atti-vati. Solo Parvu, infine, avrebbe potuto aprire i sigilli per far entrare i pro-totipi nel nanonucleo.

Il nanonucleo trasparente giungeva fino allo scudo di uranio impoverito posto sul soffitto della cupola del LIN, ed era colmo di una soluzione. Al-l'interno del nucleo c'erano dei microwaldo, dei laser di precisione, dei mi-croscopi elettronici e a raggi x, e un raggio di particelle collimate a bassa

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energia. Una forte corrente elettrostatica scorreva lungo una pellicola con-duttrice che rivestiva internamente le pareti del nanonucleo, bloccando la fuoriuscita delle nanomacchine.

Ma la protezione principale contro la fuga dei campioni era rappresenta-ta dalle batterie di condensatori poste sotto la cupola; esse fornivano cor-rente al conduttore coassiale che scorreva attraverso il nanonucleo fino alla camera di bombardamento posta sul tetto. Come ultima risorsa, se gli au-tomi avessero infranto tutte le barriere, le batterie dei condensatori avreb-bero scaricato, inviando attraverso il conduttore centrale un anello di pla-sma magnetizzato, che sarebbe poi andato a sbattere contro lo scudo di u-ranio. Un'immensa pioggia di raggi x avrebbe sommerso l'intero LIN, ste-rilizzando tutto... e uccidendo tutti quelli che c'erano dentro.

Prima di accettare di dirigere il lavoro del LIN, Parvu aveva insistito sul-le misure di sicurezza. Sapeva come potessero essere pericolose le fughe di automi autoreplicanti, e come lui tutti gli altri ricercatori di nanotecnologia in ogni parte del mondo. La maggior parte della gente non capiva - il che a Parvu andava benissimo - ma non voleva correre rischi. I sistemi di sicu-rezza del LIN, e il fatto che fosse isolato là nell'Antartide, gli consentivano di lavorare con tranquillità.

Stranamente Parvu non aveva mai pensato che l'appoggio maggiore gli sarebbe giunto dalla United Space Agency, ma quando Celeste McConnell gli aveva lanciato l'incredibile proposta di terraformare Marte, la sua im-maginazione si era scatenata. Aveva immaginato generazioni di automi au-toreplicanti disseminati sulla superficie glaciale di Marte, che si propaga-vano sulla sua crosta sabbiosa e ricca di ferro.

Programmarli sarebbe stato semplice: il loro unico compito sarebbe stato quello di liberare molecole d'ossigeno nella roccia e interrompere la loro attività quando la pressione parziale avesse raggiunto un livello predefini-to. Un codice di terminazione del programma, trasmesso via satellite, a-vrebbe potuto arrestare la produzione di ossigeno in qualsiasi momento, se gli uomini preposti ai controlli avessero deciso in tal senso.

Data la velocità con cui i nanominatori di ossigeno potevano riprodursi, Marte avrebbe potuto essere dotato di un'atmosfera respirabile nel giro di una settimana. Una settimana! Parvu sapeva che c'era un altro laboratorio, quasi identico al LIN, sulla superficie della Luna, pronto a partire se loro avessero avuto successo... ma ci sarebbero voluti altri due anni prima che diventasse operativo.

Lo schermo delle teleconferenze si accese e apparve un'immagine di

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Maia Compton-Reasor. Era un'afroamericana tarchiata, con occhi sonno-lenti e capelli rasati che sembravano feltro. «Dottor Parvu? Dottor Parvu, siete lì?»

Erika aveva disattivato il comando di invio, e Parvu lo reinserì. «Ci sia-mo. Abbiamo appena ricevuto i campioni. Ci scusiamo per averla sveglia-ta.»

Lei fece cenno che non importava. «Posso dormire in un altro momento. Siete pronti?»

«Quasi. Stiamo ancora aspettando la risposta di Taylor.» Maia Compton-Reasor fece una smorfia. «Dobbiamo sempre aspettare

lui.» Erika non riusciva a star ferma. Parvu notò che si era spostata di lato,

fuori dal campo visivo dello schermo. Era così, non voleva mai prendersi il credito che le era dovuto. Era lui a dover insistere perché si comportasse da collaboratrice alla pari, anziché da assistente. Se lo meritava, che lo vo-lesse o no. A sua insaputa, Parvu l'aveva già fatta figurare come prima au-trice su una serie di articoli che avevano scritto assieme.

«Vedrà che sono le nanomacchine più promettenti prodotte finora» disse la Compton-Reasor. «Se tutto va come previsto, si apriranno degli sviluppi completamente nuovi.»

Per decenni i ricercatori avevano cercato di mettere a punto una serie di tecniche: quella dei microscopi scanning-tunnelling per costruire nano-strutture; la microscopia balistica a emissione di elettroni, per incidere pia-strine adattabili su circuiti ancora più piccoli; e infine l'uso dei raggi colli-mati di neutroni per cesellare barre e ingranaggi larghi meno di un milio-nesimo di metro. Altri ricercatori avevano lavorato sull'ingegneria delle proteine, cercando di programmare macchine organiche.

Al lavoro svolto a Stanford e al MIT, si era aggiunto quello dei ricerca-tori di Cambridge, di Tokyo, e di un consorzio europeo con base in Belgio. Per determinati periodi tutti costoro avevano affittato le attrezzature del LIN. Parvu spesso si sentiva come il custode di un telescopio di importan-za internazionale mentre gli astronomi provenienti da ogni parte del mon-do litigavano per i tempi di osservazione.

L'équipe di Stanford aveva progettato un nuovo prototipo organico e meccanico, assemblato in parte con l'ingegneria delle proteine e in parte con parti micromeccaniche. Lavorando in tandem, l'équipe di Taylor aveva elaborato un software che trasformava queste macchine in miracolosi strumenti analitici, teoricamente capaci di smontare un campione, di ana-

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lizzarlo, e di ritrasmettere i dati dettagliati a livello molecolare ai computer riceventi.

Con i nuovi prototipi finalmente a disposizione, Parvu tremava al pen-siero di dover passare un'ora a parlare del più e del meno con Maia Com-pton-Reasor in attesa che Taylor si facesse vivo. Ma prima ancora che co-minciassero a scambiarsi dei convenevoli, Taylor rispose. Lo schermo ri-cevente si divise in due per mostrare da un lato la faccia arrossata di Mau-rice Taylor, più simile a quella di un giocatore di football che a quella di uno scienziato di fama.

Taylor non perse tempo. «Scusate il ritardo. Non avevamo idea che sa-rebbe arrivato il pacchetto» disse pastrocchiando su una tastiera fuori dallo schermo. «Erika, lieto di rivederla. Jordan, è pronto? Posso trasmettere.»

Maia Compton-Reasor stava per rispondere bruscamente, ma Parvu oc-cupò la sua metà dello schermo e annuì cortesemente. «Proceda pure. Tut-to il resto è pronto.»

Erika andò al nanonucleo. Parvu attese finché Taylor ebbe inviato la sua parte del codice di attivazione. Una luce verde incorporata, fino ad allora nascosta, si accese sul lato liscio del contenitore nero.

«Benissimo, aprirò ora l'ambiente al nanonucleo.» Premette la sequenza criptata di tasti per eseguire l'autodistruzione dei sigilli. Il contenitore fece uno scatto sordo. Parvu sapeva che le macchine inerti erano state immesse nel nucleo completamente isolato. Risigillò il contenitore vuoto e lo stac-cò. L'avrebbe poi sottoposto a un bagno di raggi x per purificarlo dalle sco-rie.

«A posto. Ora, dottoressa Compton-Reasor, vuole fare gli onori di casa? La seconda metà del codice di attivazione.»

Erika si avvicinò per scrutare all'interno della parete curva e trasparente del nanonucleo. Parvu sapeva dagli indicatori di stabilizzazione che i mi-crowaldo stavano fluttuando a causa della leggera corrente prodotta dal-l'immissione dei nuovi campioni.

«Inviato» rispose la Compton-Reasor. «Il processo è stato messo in mo-to.»

Tutto stava avvenendo senza particolari emozioni. I nuovi campioni - così piccoli che decine di milioni tutti in fila non avrebbero superato il centimetro di lunghezza - non erano visibili all'interno della soluzione. Passati alcuni giorni, lui e Erika avrebbero potuto cogliere un certo offu-scamento del fluido, causato dalla grande quantità di piccoli corpi in so-spensione.

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«Congratulazioni a tutti voi» disse la Compton-Reasor. «Spero che lei e la dottoressa Trace abbiate dello champagne lì per festeggiare.»

«Faremo con quel che c'è» rispose Parvu sorridendo. «Controllerò come procede» annunciò Erika. «Bene, allora tornerò a letto» disse. Salutò con la mano e chiuse il con-

tatto. «Fateci sapere se succedesse qualcosa» disse Taylor, poi la sua immagi-

ne svanì. Il Laboratorio Isolato di Nanotecnologia rimase completamente silenzio-

so. Parvu credette di poter udire il respiro di Erika. Stavano entrambi sor-ridendo. C'era qualcosa in questi nuovi prototipi che sembrava promettere bene. Parvu sperava molto nel progetto, e nella terraformazione di Marte.

All'interno del nanonucleo, i piccoli prototipi, appena risvegliati, inizia-rono ad autoreplicarsi, utilizzando i materiali grezzi della soluzione in cui erano immersi. Presto avrebbero cominciato il loro lavoro.

4.

Base lunare Columbus

La parte notturna della Luna era così fredda che sette gradi in più attorno

a Dedalo brillavano come un riflettore negli infrarossi. La traccia IR era un cerchio perfetto di un rosso incandescente.

Con l'epicentro situato proprio sulla bocca del pozzo, il calore residuo del terreno si estendeva per un raggio di tre chilometri. L'oloschermo mo-strava i punti dove Lasserman aveva fatto atterrare la sua cavalletta, dove Waite aveva condotto il suo veicolo lunare e dove era atterrata la cavalletta telepresente. Tutti rientravano al centro del cerchio rosso «Abbiamo biso-gno di prendere un campione di regolite da quella zona calda, ma tutto quello che spediamo là si disintegra» disse Jason. Sollevò lo sguardo verso le altre persone che erano là nel centro di controllo. «Qualcuno ha delle i-dee?»

Lanciò un'occhiata a Big Daddy Newellen. L'omone scosse il capo; die-tro di lui, Cyndi Salito guardava fisso nell'oloscopio. Tutti evitarono lo sguardo di Jason. «Andiamo, gente!»

«Be'» disse Newellen, tormentandosi il labbro inferiore con le dita «di-pende tutto dalla risposta che diamo a un'altra domanda. Cos'è che sta suc-cedendo veramente? C'è un raggio disintegratore laggiù, che fa fuori tutto quello che entra nella zona? O è la regolite stessa che è impregnata di aci-

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do o infestata da un qualche tipo di microbi che distruggono la nostra ro-ba? Comunque sia, come facciamo a procurarci un esemplare da esamina-re?»

«Come si fa a prendere un pezzo di un solvente universale?» chiese Cyndi Salito.

Jason li zittì con un gesto della mano. «Va bene, abbiamo già guardato i dati relativi alle due cavallette. Non c'è nessun segno di fluttuazione di e-nergia. Nessun raggio disintegratore.»

«Per lo meno niente che noi siamo riusciti a rilevare» commentò Cyndi Salito.

«Abbiamo bisogno di un campione di regolite, proprio come ci ha detto la McConnell.» Newellen assunse un'espressione distratta. «E se lo mettes-simo in una capsula magnetica? In quel modo il campione non toccherebbe nulla.»

«Un pezzo di terra?» disse Cyndi. «Starai scherzando. La regolite non è influenzata dai campi magnetici.»

«Ma il ferro sì» replicò Big Daddy Newellen. «E la regolite contiene il-menite, che a sua volta contiene ferro. Se avessimo un campo B sufficien-temente alto, potremmo riuscire a isolare un campione di regolite. Po-tremmo mettere una capsula magnetica sul contenitore. Le sonde perfora-trici penetreranno nel suolo, ne afferreranno un pezzo, poi rilanceranno il contenitore nel punto dov'è stato effettuato il prelievo, abbandonando il guscio esterno. Se facciamo tutto in fretta e riusciamo a prendere un picco-lo campione, forse potremo conservare l'esemplare abbastanza a lungo da farlo arrivare a Simul-Marte, e usare il loro laboratorio isolato.»

Jason provò un sollievo enorme a sentire finalmente qualcosa di ragio-nevole. Costruita nel corso dei tre anni precedenti, la postazione di Simul-Marte distava 50 chilometri dalla base Columbus e fungeva da struttura di esercitazione finale per le prove generali della progettata missione su Mar-te. I laboratori autonomi di Simul-Marte sarebbero stati il posto perfetto per studiare a distanza la regolite della faccia nascosta della Luna.

«Be'... direi che possiamo iniziare a pensare ai dettagli dell'operazione» disse Jason.

Nell'aria viziata della sala di controllo, Jason chiuse gli occhi e cercò di

respirare più lentamente. La sonda perforatrice sembrava metterci un'eter-nità a raggiungere l'altro lato della Luna e fare ritorno. In quel momento avrebbe voluto andarsene per un'ora sulle piste da jogging della base, dove

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spesso riusciva a pensare meglio. Prima, la sua carriera sulla Terra era stata facile; progettare strutture

stravaganti utilizzando le nuove leghe e le nuove fibre rese possibili dal-l'ingegneria microgravitazionale, giocherellare con i sistemi CAD e sfrut-tare le proprietà dei nuovi materiali al limite delle loro possibilità.

Gli risuonavano ancora nelle orecchie le parole che gli aveva detto Mar-garet quando aveva lasciato la Terra: che aveva più lavoro di quello che riuscisse a fare, che avrebbe dovuto restare a casa con lei. «Cos'altro vuoi?» gli aveva detto. «Abbiamo già più soldi di quanti ne riusciamo a spendere.»

Margaret non lo aveva mai capito. Jason si inumidì le labbra. L'aria artificiale della base era così secca da

provocargli spesso una tosse fastidiosa, e labbra screpolate. Ruotò nuova-mente la sedia verso il gruppo riunito nel centro di controllo. Le luci rosse e verdi dei pannelli si riflettevano sulla patina di sudore che copriva i loro volti. L'aria della sala di controllo era appesantita dall'odore dei corpi am-mucchiati nello spazio troppo limitato.

Stavano tutti aspettando che la sonda perforatrice terminasse la sua mis-sione. Era atterrata, aveva afferrato un minuscolo campione con la capsula magnetica, e aveva già rimandato indietro il contenitore verso Simul-Marte, a cinquanta chilometri di distanza da Columbus.

«È proprio una missione stile "impronta e bandiera"» aveva detto Big Daddy, aspettando di avere qualcosa da fare con i suoi comandi.

Dovevano solo vedere se la sonda sarebbe rimasta intatta sufficiente-mente a lungo da raggiungere il suo obiettivo, o se il pezzo di regolite a-vrebbe corroso il contenitore dall'interno.

«Big Daddy, manda un veicolo lunare telecomandato a Simul-Marte» disse Jason dopo essersi schiarito la gola. «Lo useremo per maneggiare il campione nel laboratorio automatizzato.»

«Vuol dire toglierne uno da Disney World, Jase. Pensa a come piange-ranno i bambini.»

Jason continuava a dimenticare così tante cose, così tanti particolari. Come aveva fatto Bernard Chu a ricordarsi tutto quando era comandante della base? «Mi pare che questo sia un po' più importante.»

«Cattivone.» Jason ignorò il commento. Alzò lo sguardo verso gli orologi digitali che

indicavano l'ora su vari punti della Terra: WASHINGTON D.C., JOHNSON SPACE CENTER, STAR CITY, PARIGI, TOKYO, HONG

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KONG. Ma al di là di quello che segnavano gli orologi, non erano passate più di ventiquattro ore da quando la cavalletta telecomandata si era dissolta su Dedalo, e non più di due giorni da quando la costruzione aliena era stata scoperta... e da quando tre dei suoi erano morti.

«Attenzione» disse Newellen. «Il campione sta arrivando.» Sorrise. «In-tatto.»

Cyndi Salito richiamò un'altra immagine nell'oloscopio già strapieno.

Mostrava una stanza semibuia, piena zeppa di strumenti che sembravano troppo puliti, troppo nuovi. Fece accendere le luci. «Simul-Marte è on li-ne» disse. «Pronti con i telecomandi.»

Newellen si curvò sui comandi virtuali per guidare il veicolo telecoman-dato. Raggiungendo il punto di impatto previsto, la telecamera ondeggiò avanti e indietro, e il suo stereochip cominciò a cercare il pacchetto in arri-vo della sonda.

Il telerobot attese, pronto a dirigersi sulla sonda e a rimuovere il cam-pione incapsulato non appena fosse atterrato. A Simul-Marte, intanto, un altro ricevitore 3-D teneva d'occhio il missile.

Jason si bagnò ancora le labbra. Avrebbe dovuto richiedere del burro ca-cao nella prossima spedizione dalla Terra.

Sull'angolo del cubo di visione apparve una spruzzata di polvere, e la te-lecamera del robot si spostò per aggiustare la propria posizione. Poiché la Luna non aveva un'atmosfera come la Terra, i missili in arrivo non striava-no il cielo.

«Preso» annunciò Newellen. Azionava i comandi virtuali di fronte a lui, come se fosse seduto al posto del guidatore, e stesse veramente guidando sul suolo lunare per andare a recuperare il pacchetto.

Seguì il lungo solco di regolite finché giunse al contenitore pesantemen-te schermato e circondato da materia espulsa. Usando le braccia robotizza-te si protese verso il luogo dell'impatto.

«Tombola!» gridò Big Daddy sollevando in alto l'esemplare con i bracci del veicolo lunare. La televisione tridimensionale ad alta definizione dava l'impressione agli spettatori di Columbus di trovarsi veramente là.

«Presto, a Simul-Marte!» ordinò Jason. Mentre il velivolo telepresente si avvicinava alla struttura isolata di ad-

destramento, un robot con quattro braccia si staccò dal modulo spaziale di Simul-Marte e si srotolò all'esterno per ricevere il campione. Apposita-mente progettato dalla Hitachi-Spudis per eseguire ricognizioni geologiche

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particolareggiate, il robot estrasse il suo nucleo schermato di regolite e lo depositò nella stazione di consegna, poi ritornò verso Simul-Marte.

Newellen azionò il veicolo telepresente, allontanandosi rombando dal laboratorio. «Sto andando a Disney World!» gridò.

«Cyndi» disse Jason «lascialo andare a venti klicks da Simul-Marte, poi ridà i comandi ai ragazzi.» Guardò Newellen ridendo. «Agli altri ragazzi, intendo.»

Un'ombra affilata come un rasoio si proiettò di fronte al robot mentre fa-ceva ritorno a Simul-Marte, coperto dal fine pulviscolo che ricadeva dalle gomme del veicolo.

Il robot si diresse verso l'entrata del modulo di servizio e azionò i co-mandi per ottenere accesso. Con i loro occhi ad alta definizione, videro la sala di ingresso mentre varcava le doppie porte. Non appena ebbe termina-to la procedura pre-programmata di recupero del campione, Newellen ini-ziò a telecomandarlo.

«Stiamo registrando tutto, giusto?» chiese Jason. «Sì» rispose Cyndi. «E probabilmente il Controllo Missioni dell'agenzia

spaziale lo sta anche trasmettendo attraverso le newsnets.» «Volete stare un po' zitti?» disse Newellen. «Sto cercando di concen-

trarmi, io.» Newellen stava lavorando con il robot a quattro braccia, distante cin-

quanta chilometri. Dopo aver cautamente sollevato il contenitore recupera-to dalla zona calda di Dedalo, il robot lo pose all'interno di una camera blindata rivestita di uno spesso strato di piombo. La sigillò e poi si girò verso il centro della stanza, tenuto ad alimentazione ridotta e lasciato inat-tivo fino a nuovi ordini.

«Pronto per la decontaminazione esterna» annunciò Newellen. «La sto eseguendo» gridò Cyndi dal fondo della sala di controllo. Al centro della camera isolata di Simul-Marte, un tubo spesso un metro

saliva dal pavimento al soffitto. Nel vuoto, i condensatori d'induttanza sca-ricavano fino a trenta milioni di volt senza produrre nessun suono. Un i-stante dopo, un anello di un milligrammo di xenon evaporò in plasma e ac-celerò verso il soffitto. Quando l'anello di plasma colpì il disco di bombar-damento posto sul tetto, megajoules di raggi x spruzzarono tutto il labora-torio, sterilizzandolo da qualsiasi organismo che fosse rimasto sull'esterno del contenitore del campione.

Passò un minuto. Compiaciuto all'idea che niente fosse sopravvissuto al-l'esterno della camera piombata, Newellen azionò ancora il robot telepre-

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sente. Solo il campione, schermato dal piombo, restava intatto. Il robot, i cui circuiti erano anch'essi massicciamente schermati contro le

esplosioni dei raggi cosmici e le radiazioni pesanti del Sole, si avvicinò al campione. «È giunta l'ora di aprire il pacchetto» disse Newellen.

Jason deglutì nervoso. Il cratere Dedalo sembrava lontanissimo, ma Si-mul-Marte era dietro l'angolo. Cosa sarebbe successo se si fosse rivelato un vaso di Pandora?

Lon Newellen scosse il capo. Il sudore gli colava dalla fronte, e i suoi

capelli scuri erano fradici. Dannazione! Ci voleva un po' di pratica per riu-scire a manipolare i waldo, ma non era mai stato così maldestro.

«Vuoi che ti sostituisca io, Big Daddy?» chiese Cyndi Salito. «Chiudi il becco.» Newellen incurvò i suoi waldo telepresenti provando nuovamente a

"toccare" il campione blindato. L'espressione "mani di pasta frolla" gli bal-zò in mente per la quinta volta.

«Sei sicura che la direttrice stia guardando tutto?» chiese. «Sì che sono sicura» replicò Cyndi. «Non farò errori allora.» Newellen spinse in avanti la mano e cercò di usare i campi per pizzicare

il pezzo più grande del campione, ma questo scivolò ancora dalla sua pre-sa. Dannazione e dannazione! Lì vicino giaceva il guscio esterno del con-tenitore, aperto in due parti.

Si ripassò sulla fronte la mano sudata e fissò la roccia tenendo gli occhi socchiusi. La cosa sembrava che si stesse rimpicciolendo. E come poteva essere così scivolosa? Anche le pareti metalliche del contenitore pareva che si stessero sciogliendo.

«Ehi, la temperatura dentro la camera blindata si sta alzando!» disse Cyndi. «Molto di più di quanto si spieghi con la pioggia di raggi x.»

Newellen grugnì. «Fammi mettere le mani su questo coso maledetto.» Aveva già completato un terzo della Procedura Standard per l'Esame degli Oggetti Extraterrestri. A parte il problema di tenere stretto il campione, tutto era proceduto normalmente.

La roccia gli cadde per la terza volta. Attorno a lui si stavano affollando troppe persone.

Cyndi Salito si sporse dentro l'ologramma ad alta definizione, offuscan-done i contorni. «Dì, cos'hai rovesciato su quel campione?»

«Niente.» Newellen stava considerando di staccarle la testa dal collo, ma

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probabilmente Jason avrebbe avuto qualcosa da obiettare. «No, veramente. Da' un'occhiata.» Cyndi scansò il gomito di Newellen e

ficcò un dito nell'ologramma. «Qui. Sembra una specie di poltiglia.» «Poltiglia? Sposta la testa, accidenti!» Newellen non riusciva a vedere

con tutta quella gente in mezzo. «Che mi venga un colpo... c'è qualcosa su quella roccia. Fammi rivedere meglio.» Si staccò dai waldo e batté con forza sui tasti del registratore. L'oloscopio brillò a intermittenza, poi iniziò a mostrare all'indietro i tentativi di Newellen di afferrare il campione.

Rivedendo l'immagine al contrario, la poltiglia spariva e la roccia si in-grandiva di nuovo.

Newellen fermò il playback. La superficie del campione schiumava e ri-bolliva. «Mi sa che ci siamo portati dietro qualcosa di veramente poco ca-rino.»

5.

Controllo Missioni,

Washington D.C. Il generale Pritchard era affascinato e schifato allo stesso tempo. Celeste

McConnell lo guardò per un attimo, poi tornò a osservare sulla finestra principale l'analisi telecomandata del campione di Dedalo. Si aspettavano di scoprire nella regolite una qualche anomalia: granuli alterati dallo shock termico, una modificazione della struttura cristallina, o addirittura tracce di un residuo chimico sconosciuto. Ma mai una cosa del genere.

Su una finestra separata, la sala di controllo di Columbus brulicava di at-tività. «Siete sicuri che sia sigillato?» stava dicendo Dvorak mentre osser-vava l'immagine del campione ricoperto di poltiglia.

Sulla Terra, il generale Pritchard borbottò a Celeste: «Certo che è sigilla-to. Niente all'esterno sarebbe sopravvissuto a quella dose di sterilizzazione, e il campione è schermato da dieci centimetri di piombo».

«E se la contaminazione si diffondesse all'esterno?» disse Celeste. Si volse verso Albert Fukumitsu; tutti i suoi tecnici erano lì intenti a os-

servare le trasmissioni della base. Persino la guardia giapponese all'ingres-so si era girata a guardare.

Fukumitsu si scrollò i lunghi capelli dalla fronte e indicò uno dei tecnici mentre Celeste entrava nell'area di ripresa. «È in onda» le disse.

«Jason?» Fece una pausa aspettando che sollevasse lo sguardo. Con la sfasatura della trasmissione cercava di mettere in conto che ci volevano un

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paio di secondi prima di ottenere risposta. Dvorak si girò verso di lei. «Signora direttrice, non ho idea di cosa stia

succedendo, quindi per piacere non inizi a farmi domande» rispose secca-mente.

«Voglio solo che tu prenda in considerazione alcune misure drastiche nel caso che tutto volga al peggio. Voglio che siate tutti pronti a evacuare Columbus se si rendesse necessario.»

Due secondi più tardi: «Come facciamo a mettere in atto una cosa del genere? Ci fate andare su L-1?» Jason sembrava stremato, sconfitto. «La Collins non potrebbe mai contenere tutta questa gente, e le navette di ri-fornimento non hanno assolutamente la capienza necessaria per effettuare un'evacuazione rapida. Non abbiamo via d'uscita.»

Celeste strinse le labbra. Dvorak aveva ragione. A cosa sarebbe servita un'evacuazione di emergenza?

«Senta, signora McConnell, apprezziamo il suo interessamento, ma per la gente della mia base i pericoli sono all'ordine del giorno. Tutto è perico-loso qui. Siamo abituati a farci i conti.»

«Capisco, Jason» disse Celeste. Ho forse cercato solo di fare bella figu-ra per le newsnets? Celeste non se ne era mai preoccupata, e men che me-no in quel momento. Come direttrice dell'agenzia, non doveva rendere conto a nessuno tranne a se stessa. Molte volte le newsnets l'avevano criti-cata aspramente per le sue decisioni radicali stile al diavolo le conseguen-ze, nonostante si fossero sempre rivelate giuste.

«Va bene, cerchiamo allora di capire cos'è questa cosa così non dovremo preoccuparcene più. Ho un'idea che vorrei suggerirvi.»

Jason annuì e lei continuò: «Di qualunque cosa si tratti, sta avvenendo su una scala molto più piccola di quella che stiamo vedendo adesso». Ce-leste tamburellò le dita sulla sedia. «Usa un ingrandimento maggiore. Un ingrandimento molto più elevato. Forse avrai bisogno di fare una spettro-scopia agli infrarossi, ma usa il MET prima.»

Dvorak rimase interdetto. «Stiamo ancora cercando di finire il protocollo di analisi. C'è una sequenza prestabilita di procedure che dobbiamo rispet-tare.»

«Un ingrandimento gigantesco» ripeté lei. «C'è una possibilità che vi siate imbattuti in qualcosa che stavamo studiando qui...»

«Studiando?» Dvorak sollevò lo sguardo di colpo. Sotto i suoi lineamen-ti, Celeste vide il ragazzo arrabbiato. «Cosa intende dire? È qualcosa che ha fatto l'Agenzia? State sperimentando qualcosa a Dedalo di cui io non

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sono a conoscenza?» «No, ma in Antartide stiamo lavorando su un progetto speciale. Fa parte

del progetto di missione su Marte. Potrebbe essere qualcosa di simile.» «Esattamente simile a cosa, signora McConnell?» domandò Dvorak do-

po i soliti due secondi di ritardo. «Nanotecnologia.» Pritchard si raddrizzò. La maggior parte del personale del Controllo

Missioni non sapeva cosa volesse dire. E nemmeno Jason Dvorak. «Se lo dice lei» rispose Dvorak. Si diresse verso Newellen, che era anco-

ra alle prese con la sua analisi telecomandata. Nella finestra principale, che mostrava il primo piano del campione di regolite, la visione roteò verso l'interno, sfocandosi, e ridefinendosi poi tramite un diverso sensore per mostrare una veduta al Microscopio Elettronico di Trasmissione.

Tutto a un tratto, la struttura cristallina del campione di regolite apparve come una città enorme durante l'ora di punta. Lo schermo pullulava di pic-coli oggetti, che si muovevano a frotte attaccando e masticando la roccia, e costruendo repliche di se stessi. Macchine minuscole come microscopici bulldozer, che correvano indaffaratissime su e giù da minute strutture po-ste sulla regolite.

Un mormorio si propagò nella sala del Controllo Missioni, raggiunto una frazione di secondo dopo da uno simile, proveniente dalla base lunare.

«Cos'è, un virus?» chiese Pritchard, avvicinandosi allo schermo. «Un'in-festazione, un'epidemia? Microrganismi.»

«No, non è una malattia» lo interruppe Celeste. «Sono... meccanici. Macchine piccole piccole.»

Erano a forma di scatola, ricoperte di peluria, dotate di piccole protube-ranze simili a bracci o leve, e di nuclei cristallini che dovevano contenere delle specie di comandi. Parevano essercene cinque o sei modelli differen-ti, varianti nel numero di flagelli e nelle dimensioni del nucleo. La struttura era cosparsa di substazioni maggiori, simili a centri di controllo.

Celeste si mise a sedere e rifletté, dondolandosi in avanti con le mani sui braccioli. «Jason, devi distruggere quel campione. Prima che scappi.»

«Ma è dentro una camera piombata!» Dvorak appariva disorientato. «Subito!» insisté lei. «Il piombo non le fermerà. Una volta che hanno fi-

nito di distruggere la regolite e i detriti lasciati dal contenitore di recupero, inizieranno a smantellare lo scudo di piombo, atomo per atomo, per conti-nuare a riprodursi.»

Mentre Dvorak esitava, il generale Pritchard entrò nell'area di ripresa e

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alzò la voce. Bene, pensò Celeste, vedendo che almeno Pritchard aveva af-ferrato subito la gravità del pericolo. «Dvorak, ha visto cos'è successo alla sua cavalletta e a quelle tre persone. E se questi aggeggi riescono a disin-tegrare un'intera navicella spaziale, può star certo che riescono anche a corrodere una parete di piombo.»

Celeste parlò con voce suadente. «Jason, non possiamo perdere Simul-Marte. Dobbiamo modificare il nostro piano d'attacco. Puoi prendere un al-tro campione più avanti, dopo che ti abbiamo inviato degli aiuti. Adesso almeno so di che tipo di esperti hai bisogno. E so anche dove andarli a prendere.»

Ci volle più dei consueti due secondi di ritardo prima che Dvorak mo-strasse il suo assenso. «Va bene» disse Dvorak. Diede istruzioni a Newel-len affinché inondasse l'interno della camera schermata con una raffica di radiazioni decontaminanti.

Il generale Pritchard si girò verso Celeste. «Le vedo, ma ancora non ca-pisco. Come ha fatto a riconoscerle? Cos'è che stiamo guardando?»

«Nanotecnologia» gli ripeté, ma sapeva che stavano ascoltando anche Dvorak e l'intero equipaggio della base lunare. «Piccolissimi robot autore-plicanti che possono costruire o distruggere praticamente tutto, molecola per molecola. Sono loro che stanno assemblando quella costruzione enor-me su Dedalo.»

La voce le si strozzò in gola. «E questi non sono stati fabbricati da noi. Non vengono dalla Terra.»

6.

Antartide: Laboratorio Isolato di Nanotecnologia

Un vento forte faceva turbinare la neve nell'aria, oscurando gran parte

del desolato paesaggio antartico. All'interno del Laboratorio Isolato di Na-notecnologia, Erika Trace strabuzzò gli occhi, stupefatta, vedendo Parvu che portava cracker e caviale.

«Dove li hai presi?» chiese. La sorpresa rendeva il suo accento del sud più pronunciato del solito.

Jordan Parvu era indaffarato con scatolette, pacchetti sigillati e boccette di condimenti in polvere. «Effetti personali» dichiarò. «Stavo aspettando un'occasione per usarli, per dirti la verità. Adesso, abbiamo di che festeg-giare.»

Erika sorrise, felice del successo comune. Festeggiare con uova salate di

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pesce non l'attraeva particolarmente, però. Il nanonucleo del LIN si era offuscato, segno che i prototipi avevano

cominciato ad assemblarsi e a replicarsi. Le nanomacchine funzionavano meglio del previsto. Taylor aveva guardato i dati compiaciuto; Maia Com-pton-Reasor era in estasi. Appena un'ora prima, i prototipi avevano tra-smesso i loro primi dati all'esterno.

Parvu e Erika avevano dimostrato di poter veramente costruire macchine replicanti funzionali su scala submicroscopica, macchine che in grado di effettuare un'analisi del loro ambiente circostante e di ritrasmettere i dati alla macroscala.

Erika osservò Parvu che apriva la sua scatoletta di caviale. «Be', aspetta-vamo questo da molto tempo.» Le uova di pesce erano nere e viscide. «Non ho mai assaggiato questa roba.»

«Allora preparati ad assaporare una leccornia, Erika. Questo è caviale autentico di prima qualità. Viene dal fiume Amur, in Mongolia. Uova di storione, non quelle terribili imitazioni fatte con le uova di lompo. Ti pia-cerà.» Parvu aveva i capelli curati e lo sguardo acceso. «Con quello che costa questa roba, non possiamo permetterci troppi festeggiamenti, così godiamoci questo.»

Erika annuì senza parlare. Avrebbe fatto come voleva Parvu. Era stato lui a salvarla dalla condizione di eterna dottoranda al MIT, strappandola a Taylor. E il caviale era solo una delle tante cose che non aveva mai prova-to.

Cresciuta a Aiken, nella Carolina del Sud, Erika aveva dovuto patire per la sua intelligenza, fuori posto in una tipica famiglia operaia come la sua. Suo padre e suo fratello maggiore Dick lavoravano al supercomplesso nu-cleare del fiume Savannah. Erano due tipi violenti, che giocavano a biliar-do, si sbronzavano di birra, e ascoltavano canzoni che parlavano di ca-mion, cani fedeli, e donne traditrici. Si facevano beffe delle aspirazioni di Erika.

Il merito era stato tutto di sua madre, che aveva pianificato per sua figlia una vita migliore. Aveva messo da parte una somma per mandarla all'uni-versità, risparmiando denaro a sufficienza da permetterle le scuole miglio-ri, e insistendo sempre perché riportasse voti eccellenti. Stretta fra l'indiffe-renza di suo padre e di suo fratello e le pressioni di sua madre, Erika, non trovando altra via di fuga, si era chiusa sempre più in se stessa.

Era fuggita al MIT e aveva lavorato per Taylor, e avrebbe potuto essere ancora là, a cercare di finire il dottorato. Poi aveva conosciuto Parvu, e si

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era appiccicata a lui. Parvu aveva visto in lei la stoffa della ricercatrice, e lei per gratitudine aveva lavorato al suo meglio. Parvu sembrava imbaraz-zato da tutta la storia. Aveva fatto il possibile per dissuaderla dal seguirlo prima ad Albuquerque, poi in Antartide, ma Erika aveva insistito con de-vozione selvaggia. Non si era mai sentita così felice o così utile in tutta la sua vita.

Ogni tanto, fissando la neve e le rocce al di là delle finestre coibentate, Erika avrebbe voluto essere a Aiken, con le sue fitte foreste, la sua aria fre-sca, e la distesa incontaminata degli Hitchock Woods. A volte avrebbe semplicemente voluto ascoltare ancora il canto degli uccelli. Ricordava la primavera, con il suo trionfo di glicini, cornioli e azalee che permeavano l'aria con il loro mutevole profumo, e di come era solita guardare da lonta-no quelli che passavano a cavallo sui viottoli di terra battuta di fronte alle loro ville.

Ma poi Erika pensava alla vita che si era lasciata alle spalle, e quelle po-che ore di divertimento nei boschi non compensavano il resto. Lì, nello spazio ristretto dei loro appartamenti, con la musica classica scelta da Par-vu che usciva dagli altoparlanti del sistema sonoro, Erika era consapevole di festeggiare molto di più del semplice successo delle nanomacchine.

«Jordan» disse «per te assaggerò anche le uova di pesce.» Parvu tirò fuori due cracker da un pacchetto, porgendogliene solenne-

mente uno come se si trattasse di un'ostia. Prese su un po' di caviale con la punta di un coltello. Sembravano piccole perle nere. Spalmò il caviale sul suo cracker, poi ne prese un'altra porzione per Erika. Lei lo annusò e imitò i suoi gesti.

«In condizioni ideali» spiegò Parvu «si accompagna il caviale con una fettina di uovo sodo, panna acida, e cipolla bianca tritata. Qui dobbiamo accontentarci dei loro equivalenti liofilizzati.»

Erika spruzzò di polverine il suo caviale. Voleva dare solo un piccolo morso, invece mise in bocca tutto il cracker, masticando in fretta per supe-rare il primo shock. Fu sorpresa di scoprire che non trovava il caviale af-fatto spiacevole, ma salato e succoso, con solo un lieve sapore di pesce. Continuò a masticare, inghiottì, e sorrise. Un vero sorriso.

Parvu prese una beuta di metallo e ci versò dentro un tappo di un liquido trasparente che sembrava disinfettante. «Tieni. Vodka al pepe. È quello che ci vuole. Pulisce il palato.»

Erika la prese e la sorseggiò. La combinazione di alcol e di pepe le in-fiammarono la bocca, lavando via il sapore di pesce e facendole venire le

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lacrime agli occhi. «Allora...» disse Parvu. «Festeggiamo!» Proprio in quel momento la soneria delle comunicazioni squillò attraver-

so il citofono. Qualcuno stava cercando di contattarli nella sala delle con-ferenze situata nel perimetro esterno della cupola.

«Anche qui ci interrompono!» sospirò Parvu. Erika lo seguì, ma restò dietro, sapendo che la comunicazione poteva

benissimo giungere dalla famiglia di Parvu. Varcarono le porte che davano sull'area esterna del laboratorio, e Parvu accettò la chiamata sui grandi schermi.

L'immagine si mise a fuoco. Erika sobbalzò quando riconobbe la donna. Negli ultimi tempi avevano avuto scarsi contatti diretti con lei, limitati alla trasmissione di routine dei progressi fatti. Erika si sentì prendere dall'ansia. Era la direttrice della United Space Agency, Celeste McConnell.

Aggirandosi lì intorno, stando attenta a non disturbare la conversazione,

Erika ascoltò la McConnell che descriveva la costruzione scoperta a Deda-lo e quello che era successo là. Erika e Parvu erano stati così assorbiti nel loro lavoro sui prototipi che in certi periodi non avevano guardato le ne-wsnets per diversi giorni.

Celeste McConnell mostrò delle immagini degli assemblatori nanotec-nologici alieni. Erano più sofisticati di quello che Parvu avesse mai imma-ginato nei suoi sogni più ambiziosi. Erica fece un passo indietro, sbigottita; vide Parvu che lottava con se stesso per nascondere il proprio stupore. Tut-to a un tratto, il grande progresso che avevano appena ottenuto al LIN ap-pariva assolutamente banale. Erano rotolati giù sul gradino più basso della scala.

La direttrice McConnell terminò il suo resoconto e fece una lunga pausa. Parvu, cortese come sempre, aspettò che continuasse. Erika sapeva che la direttrice stava per rivelare il vero scopo della sua chiamata.

La McConnell incrociò le mani. «Dottor Parvu, ho bisogno di lei sulla Luna. Lei è non solo uno degli esperti più importanti di nanotecnologia, ma anche l'unico con esperienza pratica. Questo non è un problema teori-co. Ho bisogno che ci risolva questo mistero.»

Parvu alzò le mani come per respingere lo shock. Erika aggrottò la fron-te. Jordan che se ne va? Cosa ne sarebbe stato di lei? Cosa ne sarebbe sta-to del loro lavoro laggiù, dei prototipi? E se Parvu se ne fosse andato e fos-se venuto - chi? - Taylor a sostituirlo? La McConnell sicuramente non gli

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avrebbe lasciato dirigere il LIN, vero o no? Non poteva essere vero... Parvu si rimise dallo shock prima che Celeste McConnell potesse ag-

giungere altro. «Temo proprio che sia impossibile, signora direttrice. Sono vecchio, e posso essere di maggiore aiuto se resto qui a dare consigli, non le pare?»

«Dottor Parvu, non abbiamo altra scelta. Nessuno degli altri ricercatori di nanotecnologia ha l'esperienza diretta che ha lei. Sono costretta a insi-stere.» Il tono della sua voce si era indurito.

«Forse lei non capisce.» «Forse è lei a non capire, dottor Parvu. In questa storia c'è in gioco mol-

to di più del fatto che lei abbandoni la sua ricerca lì in Antartide. Sessanta persone sulla Luna potrebbero perdere la vita. E la prossima vittima po-trebbe essere il nostro programma spaziale.»

Parvu rimase in silenzio per molto tempo. Celeste McConnell strinse le labbra, lasciandogli tempo per riflettere. Incrociò le mani e attese.

Finalmente Parvu aprì bocca. «Avete un'altra scelta, a dire il vero.» Al-lungò una mano per afferrare il polso di Erika, trascinandola di fianco a lui dove poteva essere vista. La direttrice strabuzzò gli occhi.

Erika si sentì mancare il respiro, e diventare tutta rossa. Parvu proseguì. «Perché non prendete la mia collega, la dottoressa Erika

Trace? Ho una fiducia assoluta nelle sue capacità. Ha altrettanta esperienza pratica di me, e un po' più d'immaginazione. Ed è fisicamente idonea.»

«Apprezzo il suo suggerimento, dottor Parvu, ma, senza offesa per lei, signorina Trace, francamente...» disse allargando le braccia «abbiamo bi-sogno di un esperto riconosciuto a livello internazionale.»

«Erika ha pubblicato più articoli di me in questo campo, signora direttri-ce!» ribatté Parvu irrigidendosi.

Per un attimo Erika non riuscì a spiccicare parola. Questo era peggio di quel che aveva temuto. Non voleva andare via dal LIN. E questo avrebbe dovuto essere un onore? Immaginava di sì, ma in quel momento le suona-va più come una punizione.

Parvu le diede un colpetto rassicurante sul polso, e aggiunse: «Avremo occasione di riparlarne, direttrice. Grazie per averci dato quelle informa-zioni interessanti sulla Luna. Le riesamineremo con più calma, va bene?» Stava parlando sempre più in fretta, come se sapesse che Erika stava cer-cando gli argomenti giusti per ribattere. «La richiamerò presto» disse, e chiuse la comunicazione.

Erika si girò verso di lui, stringendo i pugni. «Grazie tante per aver deci-

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so al mio posto! Non potete mandarmi via così! Il mio posto è qui. C'è un mucchio di lavoro da fare.»

Parvu la guardò con dolcezza e indicò l'immagine della costruzione su Dedalo, che aveva congelato in una finestra separata dello schermo. «Non credi che possiamo imparare molto di più studiando quella che passando un'eternità qui in laboratorio?»

«Non è questo il punto. Non ho voglia di andarci.» «Non fare la stupida, Erika. Con un'opportunità come questa, sarai la ri-

cercatrice di nanotecnologia più rispettata e invidiata del mondo.» Aveva parlato con un tono severo e paterno, completamente diverso da quello di suo padre, comunque, che sarebbe scoppiato a ridere incredulo al pensiero che sua figlia fosse l'unica persona qualificata al mondo per svolgere un lavoro importante. Parvu continuò con tono più dolce: «Inoltre, forse è ora che lasci il nido».

«Sembra che tu stia cercando di liberarti di me!» Anche ad Albuquerque l'aveva tempestata di domande sul perché non aveva un ragazzo, perché non andava mai al cinema, perché non faceva vita sociale. Facendosene carico, Parvu l'aveva trascinata fuori a cena, l'aveva forzata ad andare in posti frequentati normalmente da gente della sua età - con il risultato che lui stesso finiva con l'apparire irrimediabilmente fuori posto.

«Oh, Erika! È per il tuo bene.» Parvu si allontanò. Aveva detto tutto quel che aveva da dire.

Lei non gli rispose, e uscì dalle doppie porte diretta al suo appartamento. Il caviale era ancora lì aperto sulla tavola; molti cracker si erano rovesciati dal pacchetto. Si augurò che Parvu li desse ai tre topi del laboratorio.

Gli altoparlanti iniziarono a diffondere un'altra selezione proveniente dal lettore cd di Parvu. Riconobbe la Messa da Requiem di Mozart. La spense con rabbia. Era troppo appropriata alla situazione.

Era lì in piedi, sola, vicino alle rocce altissime e alle lastre di ghiaccio di

McMurdo Sound. Avviluppata in una giacca a vento della Marina, guanti di pelliccia sintetica e uno strato di gel riscaldante, Erika si coprì la faccia con la sciarpa, cercando di proteggersi dal freddo che le mordeva le guan-ce. Le rocce alte e l'oceano grigio-blu facevano pensare alle porte degli In-feri, e lei stava per entrarvi.

I banchi di ghiaccio che si estendevano nell'acqua erano soffusi di un blu fosforescente, provocato dalle bolle di ossigeno intrappolate sotto. Il mare si muoveva impercettibilmente, come se l'oceano stesse tremando. Sopra

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di lei, albatros enormi volavano in cerchio come deltaplani dall'apertura alare di tre metri e mezzo. Su una serie di isolette situate di fronte all'in-stallazione di McMurdo, colonie pigiate di pinguini riempivano l'aria di un rumore e di un odore incredibili. Era un paesaggio stordente, tetro e pitto-resco allo stesso tempo.

Anni prima, aveva lasciato le foreste rigogliose della Carolina del Sud per recarsi a Boston, poi ad Albuquerque nel deserto del Nuovo Messico. Aveva creduto che l'Antartide fosse il posto più desolato che avrebbe mai visto; ma ora, si trovava in partenza per la Luna, con una fermata frettolosa a Star City per un addestramento astronautico accelerato e le relative certi-ficazioni.

E poi, dove l'avrebbero sbattuta? Perché non la lasciavano in pace? Troppe volte la gente aveva agito "per il suo bene".

Udì a distanza un jet. Strizzando gli occhi, riuscì a intravedere la sagoma dello Starlifter C-141 che arrivava per riportarla alla civiltà per alcuni giorni.

Erika sentì sul viso gli schizzi pungenti dell'acqua sferzata dal vento. Mentre l'aeroplano si avvicinava, si sentì rodere dentro dal terrore - non per paura dei viaggi spaziali, o della vita su una spartana base lunare, e nemmeno per la responsabilità di essere la prima persona a studiare la na-notecnologia aliena. Quello che terrorizzava Erika era la prospettiva di es-sere, per la prima volta in dieci anni, separata dal suo mentore.

PARTE II

7.

Verso la luna

Erika non aveva ancora compiuto tre rivoluzioni orbitali quando avven-

ne il rendez-vous tra il suo aeroveicolo spaziale alimentato da un autoreat-tore supersonico e la navetta-rimorchiatrice Lagrange. La Terra ruotò so-pra di lei come se stesse per caderle sulla testa, ed Erika si sentì cogliere dalle vertigini. Il rimorchiatore lungo ed esile che emergeva dall'oscura profondità spaziale le ricordava un modellino giocattolo che aveva costrui-to lei da piccola. Suo fratello Dick l'aveva rotto.

Dopo l'aggancio l'equipaggio la sistemò velocemente sul rimorchiatore di costruzione giapponese. Sembrava che tutti avessero una gran fretta, da quando aveva lasciato Star City fino al lancio dell'aeroveicolo spaziale che

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l'aveva portata sull'orbita inferiore della Terra. Se avesse fatto il percorso consueto, il viaggio sulla Luna avrebbe richiesto un tempo dieci volte su-periore. Ma l'agenzia aveva fretta di metterla al lavoro.

La combinazione di tecnologia aerospaziale e di rimorchiatori elettroso-lari costituiva una possibilità efficace e relativamente economica per viag-gi frequenti sulla Luna. Ma per giungere dall'orbita inferiore della Terra a L-1, la zona di attestamento del Lagrange sulla superficie lunare, era ne-cessario seguire una traiettoria a spirale che richiedeva un mese di tempo. La direttrice McConnell alla United Space Agency non poteva permettersi di aspettare tanto. Già erano state necessarie due settimane perché Erika ottenesse la preparazione di base necessaria per il suo incarico.

Al solo scopo di farle raggiungere la Luna nel minor tempo possibile era stato quindi portato in servizio su L-1 un rimorchiatore giapponese apposi-tamente equipaggiato. Dotato di propulsione termonucleare relativamente inefficiente ma veloce, il rimorchiatore avrebbe portato Erika su L-1 entro settantadue ore.

Stordita dal turbinio di eventi, Erika non aveva fatto altro che seguire le istruzioni, lasciando che la sballottassero da una persona all'altra, la allac-ciassero alla poltroncina e facessero i controlli di sicurezza. Era stata trop-po occupata per sentire la paura, ma sapeva che l'avrebbe provata prima o poi durante i tre giorni di viaggio durante i quali non avrebbe avuto nulla da fare. A malincuore aveva lasciato che la sua inquietudine per essersi al-lontanata da Parvu si dissolvesse facendo posto a un crescente entusiasmo per la sfida che l'attendeva.

Di tutte quelle sedute di addestramento a Star City conservava un ricor-do caotico - un miscuglio di dimostrazioni di sicurezza, prove per la tuta spaziale, tecniche di sopravvivenza, esercizi di respirazione, lezioni sulla gravità zero e sull'igiene a bassa gravità. Un corso accelerato di sopravvi-venza al posto di un addestramento completo per la certificazione astro-nautica. Era stato come fare una bevuta da un idrante.

Le mancavano la pace e l'isolamento dell'Antartide, dove ora Jordan Parvu aveva il LIN tutto per sé. Era così che lo desiderava? Erika pensava di no. Non aveva dubbi che avrebbe ancora avuto bisogno dell'aiuto di Parvu per capirci qualcosa sull'infestazione di nanomacchine. Una buona occasione per verificare se era vero lo slogan "non c'è nulla di meglio della comunicazione a lunga distanza se non potete essere là di persona", pensò.

Erika trascorse i tre giorni di viaggio studiando le registrazioni degli av-venimenti di Dedalo. Gli avvenimenti, non le morti. Non riusciva a capaci-

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tarsi che della gente fosse morta solamente per essersi avvicinata troppo a quella costruzione. Se si fosse lasciata troppo coinvolgere dalle persone, dalle perdite, non avrebbe potuto condurre i suoi studi con la dovuta ogget-tività. Non poteva lasciarsi prendere dal rancore verso quelle piccole mac-chine.

Non doveva pensare a Waite, Lasserman e alla Snow come esseri umani, carne viva con un passato, degli affetti, un futuro in mente. Tutto il chiasso fatto sulle newsnets non aveva aiutato molto, le interviste con le persone che i tre avevano lasciato dietro di sé, i funerali cittadini, le aule scolasti-che decorate con poster fatti a pennarello che li ritraevano come eroi.

No. Erano semplicemente dati, W, L e S, organismi complessi che erano stati disassemblati, proprio come era successo al campione di regolite. Eri-ka aveva sempre saputo che la nanotecnologia era pericolosa, era questo il motivo di tutte le incredibili precauzioni per la sterilizzazione prese da Parvu al LIN. Ma queste nanomacchine superavano di gran lunga qualsiasi cosa lei o Parvu avessero mai fatto. O immaginato.

Si sentiva come un collezionista di farfalle che aveva sempre studiato esemplari morti e incorniciati e che ora si trovava improvvisamente scara-ventato nel mezzo di una giungla fitta e inesplorata.

Avviluppata nel suo sedile dentro la piccola cabina, Erika richiamò i dati immagazzinati nel suo computer portatile. Con gli occhi fissi sullo scher-mo virtuale, rallentò le immagini del processo di disassemblaggio della re-golite nella camera blindata di Simul-Marte. Fotogramma dopo fotogram-ma osservò la sequenza, zoomando su ogni pixel in 3-D fino a farlo scom-parire alla vista.

Visionò nuovamente l'ultima trasmissione di Waite. Vide le immagini della cavalletta telepresente che veniva disassemblata su Dedalo. Sembra-va che ci fosse abbastanza da studiare, ma non abbastanza da tenerle la mente completamente occupata. Capiva il bisogno della direttrice di placa-re gli animi di milioni di abitanti della Terra. Quando a qualcuno serviva una risposta in fretta, il modo più facile era quello di gettarsi sull'esperto di turno e continuare a fare pressione finché non veniva trovata una soluzio-ne. Erika era stata fatta piombare in pieno nel mezzo del problema. Si sen-tiva come se avesse messo il piede su un grosso mucchio di sterco di ca-vallo.

Ora dopo ora meditò attentamente sugli eventi. Per tre giorni. Gli altri membri dell'equipaggio, impegnati nei loro compiti, l'avevano lasciata da sola. Erika non desiderava altro.

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Ritornò con il pensiero a Parvu. Perché non era voluto venire sulla Lu-na? Se davvero desiderava così tanto studiare la nanotecnologia funziona-le, perché non aveva colto l'occasione al volo? Non riusciva a credere che non volesse correre il rischio. Dopotutto, l'Antartide era forse il posto me-no civilizzato che fosse rimasto sulla Terra. E il laboratorio isolato di Si-mul-Marte non poteva essere meno sicuro del LIN.

No, doveva esserci qualcos'altro. Jordan non voleva essere al centro del-l'attenzione, voleva che fosse lei sotto i riflettori. Parlava sempre di quanto voleva che lei riuscisse.

Provò un caldo nodo alla gola e le si inumidirono gli occhi. Questo era il vero motivo. Ne era sicura. Ora lei aveva soddisfatto le sue aspettative. Non era come venire incontro alle richieste di sua madre - voleva che Jor-dan sprizzasse orgoglio per i suoi successi. Ma non per questo sentiva di meno la monumentale pressione a cui era sottoposta.

«Salve, dottoressa Trace, sono Bernard Chu, il comandante della base

lunare...» si interruppe turbato, poi si sciolse in un lieve sorriso. «Mi scu-si... con tutte le cose che succedono non riesco neanche più a ricordarmi il mio titolo! Sono il direttore della stazione di appoggio del Lagrange... benvenuta alla Collins.»

Erika gli strinse la mano. Era un uomo asciutto ed energico, dai tratti o-rientali. «Grazie. E la prego, mi chiami Erika. "Dottoressa" suona troppo formale.» Il suo accento strascicato della Carolina del Sud di solito mette-va a loro agio le sue nuove conoscenze.

Chu annuì e, tenendo Erika per il gomito, la aiutò a uscire fluttuando dalla cabina. Scatole, corde, carta igienica, carta argentata e un centinaio di altre cose che non riuscì a identificare né a capire se fossero organizzate secondo qualche criterio erano trattenute da una rete. Dato che non riusci-va a distinguere il "su" dal "giù" nell'assenza di gravità, Erika pensò che immagazzinare le cose in una rete fosse ragionevole.

«Dato che la navetta-rimorchiatrice normalmente impiega quasi un mese per giungere qui, all'arrivo tutti di solito hanno fatto l'abitudine alla gravità zero» disse Chu. «Ma lei non ha fatto a tempo ad adattarsi. Si sente bene? Sommovimenti spaziali?»

Erika preferiva che non le fosse ricordata la nausea. «Sono riuscita a te-nere fermo quello che ho mangiato per tutto il giorno.»

Chu annuì. «Tutto bene allora. Entro un'ora sarà in viaggio verso la su-perficie lunare. La navetta è già pronta che aspetta, i piloti sono in attesa di

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partire. Celeste, cioè la direttrice, ci ha detto di non perdere tempo.» «Un'ora?» Erika sbatté gli occhi e sentì un improvviso nervosismo co-

glierla di nuovo. «È questo il bello di essere su L-1, siamo sempre posizionati per un ren-

dez-vous lunare. Il capitano Z., cioè Zimmerman, è il pilota di navetta che la porterà giù.» Chu indicò con un cenno un uomo alto e dinoccolato, con la mascella quadrata che fluttuava a testa in giù in fondo alla stanza.

Erika fece per salutarlo, ma Zimmerman la interruppe. «Se fossi in lei farei una doccia. Una doccia veloce.» E detto questo si spinse fuori dalla camera.

«Non è il suo forte spiegare le cose» disse Chu. «Voleva dire per la pol-vere.»

«Polvere?» Chu sembrò vagare col pensiero. Improvvisamente Erika ricordò che era

stato il comandante della base lunare fino a poche settimane prima. «Sì, la polvere lunare arriva dappertutto, anche nelle riserve d'acqua, non importa quanto vengano filtrate. Perciò se vuole sentirsi pulita ancora un'ultima volta, faccia una doccia prima di andare. Le nostre riserve d'acqua sono limitate, all'ospite di riguardo di Celeste possiamo concederne un po'.»

«Non c'è da stupirsi che nessuno voglia rimanere a lungo laggiù» disse Erika.

Alzò lo sguardo verso Bernard Chu, aspettandosi che facesse un cenno di assenso; ma aveva un'espressione seria, come se stesse pensando a qual-cos'altro. «Sì, probabilmente ha ragione.»

«Cinquanta chilometri dal suolo. Controlli un'altra volta le cinture di si-

curezza.» La voce di Zimmerman la fece sobbalzare; aveva rotto il silenzio sola-

mente poche volte durante l'orbita di trasferimento da L-1 alla discesa sulla Luna. Il viaggio dalla Collins era stato un silenzio continuo, con Zimmer-man che rispondeva alle sue domande con dei grugniti finché non aveva deciso di rinunciare.

Sulla parete interna del suo veicolo Bryan Z. aveva scritto GLORIA, il nome di sua moglie. Aveva raccontato a Erika di come era tradizione di-pingere il nome del proprio coniuge all'esterno di un aeroveicolo speciale - Glamorous Glennis, Enola Gay - ma dato che non aveva modo di raggiun-gere l'esterno della sua navetta, aveva dovuto accontentarsi della parente interna.

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Aveva sistemato diverse immagini di Gloria sul ponte di volo vicino a una targhetta che gli era stata data dai suoi diplomandi al corso di adde-stramento per astronauti. Gli avevano conferito il titolo di "Mr Persona-lity", ma probabilmente era una specie di scherzo. Erika non era sicura che Bryan Z. l'avesse capito.

Cercò a tentoni le cinture, ma erano già tirate al massimo. Erika sentì che arrossiva per l'agitazione e anche un po' per la paura mentre tentava di guardare la ripresa televisiva della loro discesa. Sotto di loro la superficie lunare sembrava una meringa ghiacciata. Forme grigie e nere riempivano lo schermo ad alta definizione. Crateri, cime di montagne aguzze e ampie distese di lava indurita scivolavano sullo schermo durante la discesa della navetta. Ma l'ombra della notte lunare nascondeva la maggior parte dei particolari.

Individuò una distesa illuminata di cilindri seminterrati in lontananza, simili al campo di addestramento per Marte nell'Antartide. Fin troppo ve-locemente la vista si restrinse a una spianata di atterraggio.

«Cinque chilometri.» Zimmerman era davvero preso. Non aveva mai detto tante parole di seguito da quando erano partiti da L-1. Erika non gli vedeva la faccia mentre era concentrato nell'atterraggio, ma lui proseguì. «Di solito facciamo arrivare i rifornimenti con il pilotaggio a distanza, ma con un uomo di mezzo c'è un senso di sicurezza molto maggiore.» Appog-giò le mani sui controlli principali.

«Immagino di sì.» Erika fece uscire le parole a forza, poi chiuse gli oc-chi.

«Due chilometri, scendiamo di cinquanta metri al secondo.» La navetta lunare vibrò quando i motori posteriori si accesero per pochi

secondi. Lo schermo non mostrava altro che una piattaforma di atterraggio in lontananza. Cerchi concentrici si irradiavano dal centro dell'area. Una linea di luci lampeggianti situate a terra con un angolo di Novanta gradi tagliava a metà i cerchi, risplendendo nell'oscurità.

«Ottimo.» Con sollievo di Erika, Zimmerman non si girò, ma continuò a parlare. «Se avessimo un'angolatura sbagliata, i lampeggianti sarebbero rossi a causa dei prismi sul bordo. Siamo in linea perfetta. Si rilassi.»

Il suolo venne loro incontro. La navetta iniziò a vibrare quando i motori si accesero, questa volta senza spegnersi. Le luci lampeggianti della piatta-forma scomparvero dallo schermo che si riempì della polvere che si alzava in un turbinio rovinando la visuale.

«Venti... dieci... cinque... tombola!» Zimmerman colpì i comandi e im-

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mediatamente i motori si spensero. Erika non si era mai immaginata che potesse essere così allegro.

Quando si alzò, Erika provò un senso di vertigine. «La Luna. Un piccolo passo per il genere umano, eccetera eccetera.»

Zimmerman la guardò senza espressione e tornò a girarsi verso il pan-nello di controllo per far passare sullo schermo la veduta dell'orizzonte lu-nare al posto della piattaforma. L'immagine poi si spostò dal piano stermi-nato a un veicolo che si avvicinava luccicando tra i pennacchi di polvere alzati dall'atterraggio della navetta. Dall'altro lato della piattaforma appar-ve un'incastellatura che si allungò fino alla navetta di Zimmerman e vi si agganciò con un debole rimbombo.

Erika tirò fuori la sua tuta per le attività esterne, pronta a eseguire tutte le procedure che aveva imparato a Star City. Ma Zimmerman non si mosse per prendere la propria. «Non viene con noi?»

«No» rispose con voce piatta. Erika si aspettava di sentirlo dire qualcosa come "Sono i fatti, signora". «Non rientra nei miei compiti. È pericoloso là fuori.»

Mentre aspettava, la luce ambrata posta sopra la porta di pressurizzazio-

ne divenne verde. L'aria sibilò e Erika sentì l'odore acuto e penetrante del-l'ozono. La porta si aprì con un debole crepitare di scintille; Erika sentì i capelli volare verso l'alto e un brivido le corse lungo la schiena.

Un uomo in tuta spaziale con la targhetta DVORAK uscì dalla camera di pressurizzazione. La tuta sembrava pulita di fresco, cosa strana dato che Erika l'aveva appena visto attraversare la polverosa superficie lunare.

La voce uscì dal pannello di controllo radio, anziché dalla tuta. «Erika Trace?»

Zimmerman indicò con un cenno lo sconosciuto. «Il signor Dvorak è il direttore della base lunare Columbus. Trasmette attraverso la radio.»

«Oh.» Erika guardò la tuta ma parlò verso la trasmittente sul pannello di controllo. «Sissignore.»

«La prego, mi chiami Jason se non la fa sentire a disagio.» Mosse le braccia, ma la voce che proveniva dall'altra parte della stanza disorientò Erika. «Possiamo partire per Columbus non appena ha finito di vestirsi.»

Erika si girò e raccolse il suo casco. Bryan Z. la condusse in una rien-tranza di fronte alla camera di pressurizzazione. «Sa come si fa?»

«Sì. Mi sono esercitata abbastanza.» «Davvero? Lasci che la aiuti lo stesso. C'è una grossa differenza tra en-

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trare nel vuoto puro e in una vasca d'acqua sulla Terra. Una differenza di viscosità, per esempio.»

Per un attimo, Erika provò nuovamente un impulso di rabbia difensiva, ma da come Zimmerman si dispose ad aiutarla capì che avrebbe agito allo stesso modo con chiunque. Ma Erika era così abituata a fare le cose da so-la, a lavorare da sola o con l'unica compagnia di Parvu che capì avrebbe dovuto fare uno sforzo consapevole per inserirsi. Altrimenti avrebbe tra-scorso un periodo ancora peggiore di quanto temeva.

Rimase in piedi di fronte alla rientranza che ospitava l'unità di sostenta-mento e trascorse il quindici minuti successivi ad attendere che Zimmer-man chiudesse i suoi collegamenti. Dopo aver stretto l'ultima cerniera, le attivò la tuta.

Sentì un fiotto di liquido caldo scorrere lungo il rivestimento interno. «Sento il riscaldamento.» Girò il collo per verificare che il mento fosse nella giusta posizione, tentando di ricordare tutta la lista dei controlli che aveva memorizzato. «Sembra tutto a posto. Sono pronta per il casco.»

Una volta indossato il casco sentì improvvisamente il respiro di Dvorak nella radio della tuta. «Signor Dvorak?»

«Pronta?» Dvorak si alzò con uno sforzo da una di quelle reti di maglia che servivano come sedie dato il volume ingombrante delle tute.

«Impossibile esserlo di più.» Si sforzò di sorridere per sembrare rilassa-ta, anche se nessuno poteva vederla attraverso il casco.

«Forza.» Dvorak girò il casco opaco verso Zimmerman. «Grazie, Bryan.»

Zimmerman grugnì, tornando alle sue vecchie maniere. «Andiamo, dottoressa Trace.» Dvorak si diresse verso la camera di pres-

surizzazione. Erika attraversò il ponte della navetta e lo seguì, provando una gran sor-

presa per la facilità con cui riusciva a muoversi. I servosistemi che funzio-navano come muscoli della tuta rendevano tutto semplice. Durante il corso accelerato che aveva fatto sulla Terra, la tuta e l'unità di sostentamento pe-savano quasi cinquanta chili; anche nelle prove di simulazione in acqua non aveva provato la vera sensazione di cosa significasse muoversi in un ambiente a bassa gravità.

Si infilò nella camera di pressurizzazione e aspettò che l'aria rifluisse nelle cisterne di riserva della navetta. Dvorak le diede una spinta contro la tuta e fece un gesto con la mano.

«Cerchi di non muoversi troppo velocemente e tenga sempre il centro di

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gravità sopra i piedi. Se inizia a cadere le sembrerà di annegare in una va-sca di melassa senza poterci fare niente. Perciò se le cade qualcosa, la lasci andare o chiami aiuto. Ma non si chini. È una cosa che si impara.»

La conversazione di Dvorak la faceva sentire un po' più rilassata. Era un cambiamento piacevole dopo l'impenetrabilità di Bryan Z. Si ritrovò a par-lare con un tono di voce leggero. «Sembra "come sopravvivere sulla Luna in due facili lezioni".»

«Questo è tutto quello che ha bisogno di sapere per adesso. Ma la cosa più importante è che se ha delle domande non abbia paura di chiedere. Mi creda, la sola domanda stupida qui è "perché è morta?"»

Erika tenne la bocca chiusa. Se veramente quel pericolo nanotecnologico sull'altro lato della Luna era reale, avrebbe avuto molto di più di cui preoc-cuparsi che imparare a camminare con la bassa gravità.

La camera di pressurizzazione si aprì, e Erika si sentì come Dorothy che apre la porta della fattoria ne Il mago di Oz. Di fronte a lei si aprì lo stesso paesaggio che era apparso sullo schermo ad alta definizione della navetta.

Passarono su una piattaforma circondata da cavi di sicurezza. Sopra di loro una pioggia di stelle illuminava i dirupi lontani di un chiarore perlace-o. Mentre la piattaforma si abbassava verso la superficie lunare, Erika non sentiva nessuna sensazione di movimento.

Dvorak l'aiutò a salire sul veicolo lunare simile alla carrozzeria di una vecchia macchina a cui qualcuno avesse tirato via tutto e aggiunto degli pneumatici gonfiati a dismisura. Dietro di loro l'incastellatura si ritirò dalla piattaforma di atterraggio.

Dvorak girò intorno al veicolo e salì dietro ai comandi. Accese i fari. «Ci sono circa dieci chilometri per la base, mezz'ora di strada.»

«Quando potrò vedere i campioni di nanotecnologia?» «Stiamo preparando un'altra spedizione per recuperare dei campioni,

non appena si sarà acclimatata, dottoressa Trace.» «Va bene, per favore la smetta di chiamarmi dottoressa Trace. Mi chia-

mo Erika, d'accordo?» «Bene. Ma in cambio mi devi promettere di non chiamarmi mai Jase. Ja-

son va bene, ma odio i soprannomi.» Si scoprì a sorridere dietro la visiera. «Affare fatto. Quando avremo i

nuovi campioni? Ho viaggiato a duemila miglia all'ora nelle ultime due settimane pensando a questo. Quindi prima mi porti al laboratorio e mi fai avere i campioni e prima potrò iniziare il mio lavoro.» E prima me ne po-trò andare a casa, pensò.

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Mentre il veicolo si allontanava dalla navetta di Zimmerman, Erika si sorresse con una mano. La tuta a volume costante le causava dei fastidi. Quando piegava le gambe l'aria si ridistribuiva dentro la tuta, e la tuta rea-giva pizzicandola. E le mani già le dolevano per la pressione del dover muovere i guanti.

Afferrò un montante di supporto mentre il veicolo si allontanava sobbal-zando dalla ristretta area di atterraggio. «Sarò stazionata a Simul-Marte? Quanto dista dalla base Columbus?»

«Circa un po' più di cinquanta chilometri, dall'altra parte dell'area di at-terraggio. Non abbiamo tutti gli attrezzi specializzati per usare il laborato-rio teleroboticamente, quindi dovrai andarci di persona.»

«Non avrei mai pensato di andarci prima dell'equipaggio di Marte.» Dvorak sospirò. «Neanche noi avremmo pensato che sarebbe stato usato

così presto.» Erika si fece silenziosa, perdendosi nello scenario brullo ed esotico tra

cui avanzavano. Il grigiore della parte notturna sembrava carico di presagi. Era sulla superficie della Luna solo da un paio d'ore e già desiderava di po-ter vedere un po' di colore, di odorare qualcosa di diverso dal disinfettante della tuta. Come il deserto del Nuovo Messico, o le lussureggianti foreste della Carolina del Sud. Perfino la neve pungente dell'Antartide e il puzzo di un'affollata colonia di pinguini.

Il limite dell'orizzonte sembrava stranamente vicino, come se tirando una pietra potesse colpirlo. Mentre il veicolo lunare avanzava sobbalzan-do, fissò lo sguardo su un punto dell'orizzonte e provò a indovinare quanto tempo ci sarebbe voluto per raggiungerlo.

Quando furono vicini alla base lunare, Dvorak le indicò le lontane at-trezzature astronomiche, l'enorme scatola oscillante dell'osservatorio a raggi gamma, lo smisurato radiotelescopio, l'osservatorio ad alta energia di raggi cosmici, e il telescopio solare. L'ampio collettore di raggi protonici stava sulla sinistra, pronto a ricevere una scarica dalla Zona di Sperimenta-zione del Nevada.

Pensò con sbigottimento all'enorme sforzo che doveva essere stato ne-cessario per mettere assieme e distribuire l'imponente attrezzatura. Alla lu-ce delle stelle Erika riusciva a scorgere altre tracce sulla regolite, a indica-re che altre attività avevano avuto luogo. Le veniva da pensare alla gigan-tesca costruzione di Dedalo.

Dvorak disse: «Ci siamo quasi». Erika vide delle alture rotondeggianti stagliarsi contro l'orizzonte illuminato dalle stelle. Improvvisamente fu

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contenta di essere lì. La base lunare Columbus sembrava una serie di lattine di birra vuote che

un gigante avesse sparpagliato sul terreno e poi coperto di terriccio a calci. Al centro della base una cupola emisferica coperta di regolite - il centro di controllo - torreggiava sui moduli semisepolti. Altri cilindri erano disposti come raggi intorno alla cupola. Gli altri edifici erano piazzati sopra il livel-lo del terreno in ordine casuale, con collegamenti da cilindro a cilindro.

«La base originaria è quella roba carina al centro. Tutto il resto è il ma-gazzino temporaneo per la Fase II fino a che non scaviamo sotto la struttu-ra originaria» spiegò Dvorak.

«Un formicaio sulla Luna!» disse Erika ridendo improvvisamente. «Be', il terriccio serve a proteggere dalle radiazioni dei bagliori solari e

dai raggi cosmici galattici.» «Wow! cosmici!» Erika rise di nuovo. Da dove le veniva tutta quella al-

legria? Si sentì piena d'energia, magnificamente. Non si sentiva così bene da... molto tempo. Si chiese come sarebbe stato ballare nella bassa gravità.

Dvorak improvvisamente si girò verso di lei. Non riusciva a vedergli la faccia attraverso la visiera opaca, ma immaginava l'occhiata che le stava dando. Avrebbe voluto fargli una boccaccia, insegnarli una lezione, chia-marlo "Jase" in continuazione finché non si fosse arrabbiato sul serio...

La voce di Dvorak risuonò forte nella radio dentro il casco. «Erika! Con-trolla il CO2.»

«CO2? Ci ho due? Ci ho due cosette da dirti...» Dvorak si chinò a controllare le letture diagnostiche sulla parte anteriore

della tuta di Erika. «Diminuisci l'afflusso di ossigeno.» Ossigeno. Erika accese col mento il pannello di lettura e guardò le luci

colorate che ballavano sull'interno del casco. Erano tutte verdi, tranne un paio che lampeggiavano in rosso. Le sembrò di ricordare qualcosa a Star City a questo proposito.

Sentì una pressione contro la tuta. Dvorak teneva con una mano il volan-te e con l'altra le palpava il petto a tentoni. Wow, avventura passionale con lacerazione del corpetto sulla Luna! «Ehi!» disse provando ad allontanargli la mano.

L'idea di pomiciare su un veicolo lunare parcheggiato, con addosso quel-le voluminose tute spaziali, le fece venire un altro attacco convulso di risa, ma improvvisamente capì che non c'era nulla da ridere. Aggrottò le so-pracciglia e diede uno sguardo allo schermo frontale. Le luci rosse erano diventate color ambra:

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Pressione parziale 02 - 3 psi: in diminuzione. Pressione parziale CO2 - 2 psi: in aumento.

«Ehi, ero in iperventilazione!» «Forse è meglio che attivi l'allarme vocale per accorgertene la prossima

volta. Lo chiamiamo Betsy-la-Lagna. Zimmerman non te l'ha acceso» bor-bottò Dvorak.

Erika avviò le opzioni della tuta e lo attivò. «Grazie.» Si sentiva incredi-bilmente stupida. Iperventilazione! Aveva cominciato proprio bene - e per di più con il comandante della base!

«Niente di grave. Succede a tutti.» Girò il veicolo e si diresse verso quella che sembrava una tenda interrata. «Be', a molti perlomeno.»

Quando furono più vicini Erika distinse altri quattro veicoli parcheggiati all'ombra di un tendone argenteo. «Il garage più semplice del mondo» dis-se Dvorak. «Dato che non ci sono cambiamenti climatici, tutto quello che dobbiamo fare è tenerli al riparo dalla luce del sole durante il giorno.»

Il veicolo lunare si fermò e Erika scese. Dvorak la condusse alla camera di pressurizzazione della base lunare. «Entra e aspettami lì.»

All'interno della camera c'erano diverse prese di ventilazione disposte in fila. Nelle pareti metalliche erano incassati dei pannelli di controllo. La targa di istruzioni in diverse lingue li descriveva come programmi di e-mergenza manuali da eseguire in caso di guasti ai collegamenti del centro di controllo.

Quando furono entrambi all'interno della camera pressurizzata, Dvorak le ordinò di stare lontana dalla parete e di alzare le mani.

Erika fece un maldestro passo indietro e mise le mani sopra la testa. Sen-tì un veloce risucchio lungo il casco, poi uno schiocco netto.

«È il nostro acchiappapolvere. Una scarica elettrica polarizza la polvere, la stacca dalla tuta e poi l'aria la trascina via. Tra questo e l'attrazione del suolo riusciamo a toglierne la maggior parte. Ma vedrai che ti farà impaz-zire lo stesso.»

La porta si aprì. Di fronte a loro all'entrata c'era un uomo enorme che in-dossava solo una tuta da astronauta blu cobalto. Era così grosso che sem-brava che non sarebbe mai potuto passare dalla porta della camera di pres-surizzazione. Aiutò Erika a togliersi il casco, lasciando che Dvorak si sve-stisse da solo. La prima cosa che notò quando la raggiunse un fiotto dell'a-ria interna fu un odore umido e stagnante che le ricordò una stanza affolla-ta di gente in un giorno afoso.

«Erika Trace? Sono Lon Newellen. Ti condurrò subito a Simul-Marte,

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dopo che avrai tirato il fiato.» Iniziò ad aiutarla a slacciare la tuta. «Grazie.» Erika permise all'omone di staccarle l'unità di sostentamento

dalle spalle mentre lei si guardava attorno. L'ambiente era un lungo cilin-dro pieno di scorte alimentari. Dappertutto erano accatastati scatoloni con la scritta LIOFILIZZATO. Dal soffitto pendevano delle reti anch'esse pie-ne di scatole. All'altro capo del modulo, come alla fine di una galleria sca-vata nella roccia, c'era la porta di una camera di pressurizzazione.

Dvorak si mosse di fronte a lei; gettò a lato il casco. Una donna di mez-z'età lo afferrò e alzò il pollice verso il comandante. Altra gente si diresse verso l'ingresso.

Newellen finì di staccare l'unità dalla schiena di Erika. «Adesso dovresti sentirti un po' più libera di muoverti. Togliti pure il resto della tuta - queste sono stanze a doppia carenatura. Tutti i confort di casa.» Erika pensò alla sistemazione spartana che aveva al LIN e convenì fra sé che non si era sbagliato di molto.

Erika si girò verso Dvorak. Finalmente riusciva ad associare una faccia alla voce che aveva sentito per radio: capelli scuri e ricci, occhi castani, li-neamenti sottili. Sembrava sui trentacinque anni. Teneva le labbra ripiega-te all'insù in quello che sembrava un perenne, timido sorriso.

«Benvenuta a Columbus, Erika.» Indicò col capo la donna di mezz'età. «La dottoressa Salito è la nostra esperta mineraria; puoi dividere la stanza con lei quando non sei al laboratorio di Simul-Marte.»

«Chiamami Cyndi» disse la Salito, stringendole le mano. «Aspettiamo con ansia che tu risolva tutti i nostri problemi a Dedalo.»

«Certo.» Si sentiva già sopraffatta dalle responsabilità. «Abbiamo in programma di portarti a Simul-Marte domani» annunciò

Dvorak. «Appena Big Daddy ha un momento libero.» «Quando dice domani, vuole dire ventiquattro ore» spiegò Newellen.

«Dato che un giorno lunare è lungo quattordici giorni della Terra, "doma-ni" letteralmente significherebbe dieci giorni a partire da adesso.»

«Grazie per la spiegazione, Lon» interruppe Salito. Lo prese per il brac-cio e lo guidò verso la porta all'altro lato della galleria, scuotendo la testa.

Dvorak aspettò che fossero usciti prima di accennare un sorriso. «Big Daddy esagera con l'aiuto a volte, ma è in buonafede.»

«Non avevi detto che odiavi i soprannomi?» disse Erika. «I miei, non quelli degli altri. Sono inevitabili quassù. Dopo che vivi con

questa gente per mesi a stretto contatto, diventano qualcosa di più che dei vicini. L'altra faccia della medaglia è che tendi a dimenticare come com-

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portarti con le altre persone.» Erika assentì. Poteva identificarsi in quella situazione dopo aver vissuto

isolata per mesi, senza vedere nessuno tranne Jordan, se non si contavano le rare visite di quelli che si addestravano per Marte. Era stato bello. Pace e quiete senza nessuno intorno a disturbare la sua ricerca. E gli articoli spe-cializzati che aveva pubblicato parlavano da soli.

Iniziò a tirarsi indietro i capelli quando si accorse che aveva ancora il re-sto della tuta addosso. Alzò il guantone che le racchiudeva la mano e si mise a ridere.

Dvorak le lanciò uno sguardo curioso, poi si strinse nelle spalle. «Togliti pure quella roba di dosso. Ti presenterò all'equipaggio.»

8.

Springfield, Virginia

Al generale Simon Pritchard parve di essere entrato in un mondo che a-

veva lasciato molti anni prima. Di domenica e senza uniforme, si sedette a un tavolo coperto da una grande tovaglia di carta marrone. Dall'esterno il ristorante sembrava uno di quelli che di solito espongono una ronzante in-segna al neon con scritto semplicemente EAT, "qui si mangia"; invece questo posto si faceva chiamare ERNIE'S CRAB HOUSE.

Celeste McConnell gli aveva chiesto di incontrarsi là. Le tovaglie erano di carta marrone. Il piano di formica macchiettata era

di quelli tipici anni Cinquanta, spariti dalla circolazione per alcuni decenni e ritornati poi di moda durante i nostalgici anni Ottanta, e adesso sembra-vano di nuovo vecchi. Il ristorante di granchi di Ernie sembrava non pre-occuparsi molto dei cambiamenti del mondo esterno.

Una cameriera gli portò una caraffa di birra e un boccale vuoto. Trasalì dato che non aveva ordinato niente, ma accettò comunque il boccale. Quando la cameriera tirò fuori il blocchetto verde delle ordinazioni - un blocchetto di carta! - Pritchard la fermò. «Sto aspettando una persona.» Sbirciò il suo orologio da polso. Era in anticipo di dieci minuti.

«Va bene. Mi chiami lei.» I tavoli erano disseminati all'interno del risto-rante e non offrivano alcun tipo di privacy. Un juke-box vicino alla porta faceva la concorrenza a una televisione appoggiata sopra il bancone. Si chiese cosa avesse in mente Celeste. Si sentiva a suo agio nei vecchi jeans e nella camicia a scacchi che usciva dai pantaloni, ed era in sintonia con gli altri clienti. In un angolo, quindici uomini avevano messo assieme i ta-

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voli e facevano un gioco con il totale dei conti, per vedere chi avrebbe do-vuto pagare; forse erano operai oppure dipendenti della Casa Bianca.

Bevve un sorso di birra. Era molto tempo che non si trovava in un posto come quello, e sentiva di non farne più parte. Gli sembrava tutto estraneo. Sperava che Celeste arrivasse presto.

Il padre di Simon Pritchard era un sindacalista convinto dell'industria au-tomobilistica. I suoi fratelli più grandi - Dan, Alien e Robert - erano robu-sti e atletici, l'orgoglio del padre. Simon, il figlio più intelligente e perseve-rante, era riuscito a entrare nell'Accademia Spaziale di Colorado Springs, e si era poi avventurato in una carriera costellata di successi.

Suo padre era morto di cancro ai polmoni a quarantatré anni, prima che Simon avesse dato prova dei suoi successi in campo militare. Dan era di-ventato un meccanico d'automobili, Alien un operaio alla catena di mon-taggio, Robert il gestore di un negozio di alimentari. Simon si era elevato rispetto a loro, ma non ne esultava. In effetti, pensava raramente a loro.

Era tornato una volta a Detroit a rivedere sua madre. Faceva ancora la casalinga, e tirava avanti modestamente con quanto le veniva dalla pensio-ne e dall'assicurazione del marito, lasciandosi semplicemente vivere. Du-rante la visita di Simon gli aveva parlato del giardino, delle soap operas e dei vicini, raccontandogli nei minimi particolari delle persone con cui Si-mon era andato a scuola, dei nipoti, dei suoi altri figli e delle loro squadre di bocce e di battute di caccia in Canada.

Simon avrebbe voluto parlarle dell'importanza del suo lavoro, del modo in cui stava apportando il suo contributo al futuro del paese. La sera che la madre aveva organizzato una grande cena di famiglia con i fratelli e le ri-spettive famiglie era stata per Simon una delle più interminabili della sua vita.

La sua vita era fulgida di successi, ma aveva perso la famiglia lungo la strada. Ormai non avevano più niente in comune. Perché sono stati fermi mentre io andavo così avanti? Sono io o loro l'anomalia?

«Spero che stia pensando a qualcosa di importante» disse Celeste McConnell infilandosi nel sedile di fronte a lui. «Ha uno sguardo così in-tenso che potrebbe dar fuoco a qualcosa.»

Pritchard tentò di riprendersi facendo un segno alla cameriera. «Stavo solo pensando a questo posto. Mi fa tornare alla mente vecchi ricordi. Co-me ha fatto a trovarlo?»

Celeste alzò le spalle e gli sorrise. «Girando i bassifondi.» Si versò della birra dalla caraffa. «Per un certo periodo, in realtà, è stato un posto molto

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conosciuto.» Indicò con un cenno le pareti da cui pendevano ritratti di vec-chi presidenti, astronauti e senatori che avevano frequentato il locale.

Celeste indossava un'ampia camicia e un paio di jeans sintetici aderenti. Si era puntata i capelli castano scuro dietro le orecchie in uno stile che la faceva sembrare una ragazzina, nonostante avesse almeno sei anni più di lui. Era truccata poco. Nell'insieme sembrava molto più distesa, meno donna in carriera rispetto alla ferrea direttrice della U.S.A... e molto più at-traente.

«Che cosa sta guardando così attentamente?» gli chiese, sorridendo. Pritchard si irrigidì e bevve un sorso di birra, sentendosi arrossire. «Ha

un aspetto diverso, solo questo.» Il commento sembrò divertirla. «Anche lei, generale. Non sembra così

pieno di sé, non fa così tanta soggezione senza uniforme.» «Soggezione?» Pritchard sorrise al pensiero. «Stavo pensando la stessa

cosa di lei. Questa versione mi piace molto di più.» «Lo stesso a me» disse lei. «L'idea era di andare in un posto dove nessu-

no ci avrebbe riconosciuto. Dio solo sa quante volte è apparsa la mia faccia sulle newsnets nelle ultime due settimane.»

«Allora perché siamo venuti qui?» disse osservando gli altri clienti e la mancanza di privacy.»

«C'è sempre qualcuno che controlla il mio ufficio. Volevo esser certa che nessuno ci vedesse insieme. Avrebbe potuto prendere una piega sba-gliata. Dobbiamo fare molta attenzione a mostrarci in pubblico in questo momento.»

Adesso era riuscita a catturare il suo interesse. Il generale incontrò i suoi occhi, poi distolse lo sguardo. «Pensavo avesse cambiato idea e avesse in-tenzione di lasciarmi fuori. Non sono più un personaggio pubblico...»

La cameriera li interruppe per prendere le ordinazioni. Mentre si allon-tanava gli uomini nell'angolo scoppiarono a ridere. Probabilmente qualcu-no era rimasto incastrato con il conto da pagare.

Celeste si sporse in avanti, incrociando le mani. Sembrava piccola, deli-cata e molto forte. Gli occhi neri e lucidi erano impenetrabili, ma la voce era dolce e ragionevole.

«C'è molto di più di un semplice mistero nel cratere Dedalo, Simon. L'e-sistenza stessa della costruzione e la sua origine aliena hanno sconvolto l'opinione pubblica. Non siamo più soli nell'Universo, e non sappiamo as-solutamente nulla dei nostri nuovi vicini di casa. Cos'è quella costruzione? Fra quanto tempo sarà finita, e cosa accadrà quando lo sarà? Che succede-

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rà se non hanno intenzioni amichevoli? E se fosse una minaccia esterna, un'invasione aliena?»

Pritchard annuì, era serio ora. «Ci ho pensato anch'io, e potresti proprio aver ragione, ma non ha senso che tenti di tenermi nell'ombra. Non potrei aiutarti a sostenere le tue ragioni? Con il mio grado e le mie capacità...»

Celeste sollevò una mano per farlo tacere. Bevve una lunga sorsata di birra, la riappoggiò sul piano del tavolo, si asciugò la bocca col dorso della mano, poi lo studiò di nuovo. «Simon, hai mai visto quel vecchio film, Il dottor Stranamore?»

Pritchard sorrise. «Sì. Proprio l'anno scorso in effetti.» Era uno dei suoi preferiti; aveva provocato un bel po' di agitazione

quando era stato ridistribuito come il primo dei vecchi classici a essere sta-to non solo colorizzato ma anche tridimensionalizzato. I puristi avevano boicottato gli spettacoli e gli avevano fatto una tale pubblicità da far molti-plicare gli incassi di almeno dieci volte. Pritchard era andato a vederlo in-curiosito da tanto scalpore; il film era una satira di tutti quegli stereotipi sui militari.

«Allora ti ricorderai del colonnello Jack D. Ripper, l'uomo che vuole di-struggere tutto quello che non è in linea con la sua filosofia? E quel gene-rale, Bloodworth? Il soldato infoiato che vuole tutti i grossi giocattoli mili-tari...»

Pritchard sbuffò. «Conosco ancora della gente come quella. Ma penso che il mondo se la cavi meglio se si dimenticano quegli assurdi stereotipi.»

Celeste sorrise aspramente. «Ma non succederà! Noi pensiamo di essere andati oltre ormai, e che i militari devono solo tenere sotto controllo i punti caldi nel Terzo Mondo. Ma non appena un generale con due stelle come te inizia a parlare di invasioni aliene e a fare una campagna per mettere in moto tutto il complesso militare e gli armamenti, quale tipo di immagine pensi che si venga a formare nell'opinione pubblica?»

Pritchard aveva dovuto fare i conti con questo tipo di ragionamento per tutto il corso della sua carriera. Da un lato aveva imparato a tenere sempre duro, trovandosi ogni volta al posto giusto nel momento giusto. Quando era colonnello aveva portato l'Aviazione a collaborare con la United Space Agency ed era rimasto sorpreso dalle proteste esplose anche tra scienziati molto colti a proposito della ricerca pura che si contaminava con i "guerra-fondai".

Pritchard aveva sempre pensato che il nuovo ruolo dei militari avrebbe dovuto essere focalizzato sull'esterno, ad aprire la strada verso la coloniz-

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zazione del sistema solare - come i militari di una volta, che erano stati i veri pionieri della frontiera americana, con spedizioni come quelle di Le-wis e Clark, che avevano sfidato l'ambiente ostile per preparare la strada per la seconda ondata di civili.

Dopo che erano stati tagliati i fondi per le costosissime armi ad alta tec-nologia, le forze armate si erano accontentate di armi convenzionali avan-zate, migliorando la loro accuratezza ed efficacia. I trattati stipulati sotto il controllo dell'International Verification Initiative avevano smantellato la maggior parte degli armamenti nucleari, lasciando solamente una manciata di testate in alcune località sicure - più che altro come deterrente contro al-cuni paesi del Terzo Mondo che stavano ignorando gli accordi di non pro-liferazione e stavano costruendo le proprie scorte.

Dopo che la Comunità Economica Europea aveva effettivamente spazza-to via i confini politici, lasciando solo le differenze culturali che interessa-vano più ai turisti che ai capi dell'esercito... e che le frammentate potenze comuniste erano preoccupate più che altro di risolvere i loro problemi in-terni - cos'era rimasto? Contro chi dovevano fare la guardia - oltre che a qualche folle? «Capisco cosa vuoi dire» rispose Pritchard.

«Voglio che lavori in stretto contatto con me, ma devi tenere un basso profilo. Credo che abbiamo le stesse idee, e che insieme possiamo realiz-zarle.» Fece una pausa. «Unendo le nostre forze. Questa cosa può contri-buire a lanciare il nostro futuro nello spazio, alla colonizzazione e all'e-spansione molto più delle esercitazioni sperimentali o delle pubbliche rela-zioni.»

Adesso Pritchard capiva a cosa aveva sempre mirato Celeste. Era qual-cosa che aveva sempre sospettato, ma che non era mai riuscito a definire chiaramente. «Anch'io ho questo sogno.»

Il suo commento sembrò farla trasalire. «Mi farebbe piacere sentire i tuoi sogni» disse Celeste biascicando le parole e con lo sguardo rivolto lontano...

Undici anni prima, a bordo della Grissom, Celeste si era svegliata da un

sogno con il terrore viscerale di precipitare senza mai fermarsi - come spesso si svegliava in assenza di gravità. Suo marito Clark le aveva detto che si sarebbe abituata a dormire sulla stazione spaziale, ma dopo due mesi Celeste era ancora disorientata.

Era stato più di un sogno, più di un incubo. Uno di quei sogni che stava a un normale incubo come un'emicrania sta a un normale mal di testa.

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Questo era stato anche più chiaro degli altri, più definito. Esplosioni - Gelo - Metallo dilaniato - Urla - Morte... Ora stava fluttuando verso uno dei moduli. Il Modulo 4. Il modulo spor-

gente con il laboratorio medico. Solo lì si poteva essere al sicuro. Doveva arrivarci.

Ritraendosi dalle immagini che svanivano rapidamente, ricordò con fol-gorante chiarezza di aver visto il cronometro emanare bagliori verdi dal pannello a parete. Ricordò a che ora sarebbe avvenuto il disastro. Disastro. La parola in sé significava un allineamento sfavorevole di pianeti o stelle. Che ironia. Celeste sbatté gli occhi e vide che rimanevano solamente ven-titré minuti.

Ventitré minuti prima di essere colpiti dalla catastrofe. E il Modulo 4 sa-rebbe stato l'unico posto sicuro sull'intera stazione Grissom - ma come fare a farci arrivare tutti gli altri? Come poteva fare per salvarli? Non sapeva niente dei dettagli, solo che qualcosa sarebbe successo. Sarebbe successo! Non poteva dire a nessuno perché lo sapeva. Le avrebbero riso in faccia. Ne avrebbe riso anche lei se i suoi sogni non fossero risultati veri fin trop-pe volte.

Era da sola nella stanza da letto. Clark doveva essere di servizio sul mo-dulo di comando con Rico Portola. Non aveva mai raccontato a suo marito dei suoi sogni - e ora non avrebbe capito. Le rimanevano solo venti minuti.

Come poteva evitare la tragedia se non sapeva da cosa metterli in guar-dia? Doveva far arrivare tutti e otto i membri dell'equipaggio in un solo modulo, e in pochi minuti.

Le vennero in mente le altre volte che i sogni l'avevano avvertita... l'in-cidente stradale... l'annegamento di suo fratello. Celeste si decise infine a premere l'intercom a parete e alzò il volume. «A tutto l'equipaggio. Atten-zione! A tutto l'equipaggio, anche voi, Clark e Rico! Sto convocando una riunione di emergenza nel Modulo 4. Subito, tutti.»

Non rispose quando alcuni membri dell'equipaggio che stavano facendo il suo stesso turno di riposo risposero frastornati subissandola di domande. Clark prese la linea e le chiese cosa stava facendo.

«Scendi e basta! Subito. È molto importante.» Non aveva idea di quale scusa avrebbe trovato una volta che fossero tutti

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riuniti. Se il disastro non fosse successo, come avrebbe fatto a spiegare? Avrebbe potuto essere punita, rimandata forse sulla Terra. Ma se non fosse successo niente, non sarebbe stato un prezzo molto basso da pagare? Pri-ma di uscire dalla stanza da letto che divideva con Clark, diede un'occhiata al registro del personale sull'infopad a parete. Forse avrebbe avuto fortuna - otto membri dell'equipaggio, famiglie, compleanni, anniversari. Scorse rapidamente le date, con un occhio puntato sui numeri verdi che indiffe-renti si susseguivano sul cronometro. Ancora quindici minuti.

Trovò una data che corrispondeva. Ottimo! Lesse il nome, se lo impres-se nella memoria e afferrò lo stipite della porta per aiutarsi a uscire.

La voce di Clark uscì dall'intercom a onde corte che comunicava solo con la loro stanza. «Celeste, che diavolo succede? Non possiamo lasciare il centro di controllo proprio adesso. Rico ha trovato qualcosa. Un detrito spaziale pensiamo, ma ha un segnale di ritorno anomalo. Sta venendo ver-so di noi. Deve rimanere a controllarlo.»

Anche se fluttuava in assenza di gravità, Celeste sentì le ginocchia di-ventarle di gelatina. «Clark, è quello! Penso che stia per colpire la Gris-som!»

Lo sentì sbuffare nel microfono. «No, ha una sezione diagonale molto piccola e un'orbita molto incasinata. Ci mancherà di sicuro. Probabilmente è un cacciavite perso da qualcuno durante una missione esterna venti anni fa. Però non è nelle nostre mappe e quindi dobbiamo tracciarlo in modo che al Controllo Missioni lo immettano nella banca dati.»

«Clark, giurami che verrai al Modulo 4. Subito. Tu e Rico! Non sto scherzando.»

Dopo una lunga pausa, strascicando le parole con il suo accento texano, Clark le rispose con cautela: «Va bene, tesoro. Scendiamo. Promesso».

Celeste si spinse dentro lo stretto corridoio e si allontanò dalla parete di sostegno per entrare nella camera pressurizzata intermodulare. Undici mi-nuti. Si fece strada attraverso la camera pressurizzata, fino al modulo suc-cessivo, poi si tuffò in quella verticale sopra di lei. Sulla porta chiusa era scritto "4" in un blu acceso.

Il dottor Bernard Chu, un giovane biochimico sottile dall'espressione in-tensa, si unì a lei affrettandosi all'incontro di emergenza. Celeste non ve-deva il cronometro. Spinse Chu nel laboratorio medico. Erano già tutti lì, tranne suo marito e il compagno.

L'equipaggio radunato la guardò; una batteva le palpebre dal sonno, un altro sembrava arrabbiato, e due erano impauriti. Rimanevano solo sette

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minuti. Il modulo era gremito dai loro corpi, che andavano alla deriva. Non essendoci maniglie o cinture sufficienti per tutti e sei, continuavano a urtare l'uno contro l'altro, mugugnando sul perché fossero stati convocati lì.

Se Celeste doveva avere un qualche straccio di copertura per quando tut-to fosse finito, doveva trovare una scusa in quel momento. Era una scusa debole, perfino stupida. Ma non avrebbe mai potuto affrontare una com-missione di indagine se avesse semplicemente detto che aveva avuto una premonizione.

«Immagino che vi starete tutti chiedendo di che cosa si tratta» disse, guardandoli tutti in faccia. «Be', è a causa di Bernard Chu.»

Chu rimase sbigottito. «Io?» Gli altri gli lanciarono delle occhiate, attri-buendo immediatamente al biochimico la causa di quello scompiglio. «Co-s'ho fatto?»

Ma Celeste stava guardando il cronometro sul portello. Muoviti, Clark! «Siamo tagliati fuori dalla Terra qui, e dobbiamo sforzarci di mantenere i nostri legami affettivi. Vi ho riuniti tutti qui per festeggiare il compleanno del figlio di Bernard, Shelby. Oggi compie otto anni.» Sorrise a Chu, che rimase stupefatto. Celeste vide che gli si bagnavano gli occhi.

Alcuni degli altri membri dell'equipaggio brontolarono infastiditi per la sorpresa. Qualcuno batté le mani. Una voce disse: «Che trovata del cazzo».

Celeste accese nuovamente l'intercom sulla parete. «Clark, dove sei!» Mancava un solo minuto. Clark era sempre in ritardo. Con le sue gambe

lunghe e la sua figura massiccia, era in netto contrasto con la piccola Cele-ste e il suo lesto sgambettìo. Le newsnets li avevano definiti una "coppia deliziosa".

«Sono ancora qui» rispose lui. La voce suonava perplessa. «C'è qualcosa di strano in questo detrito. Non si riesce a riceverlo bene. Non ho mai visto niente di simile.»

La disperazione le bruciava in gola come acido. L'ultimo numero sul cronometro cambiò. Non c'era più tempo. «Chiudi il portellone!» urlò a Chu, che sedeva vicino alla camera di pressurizzazione del modulo. Inti-morito Chu si mosse per chiuderlo.

Attraverso l'intercom tutti sentirono la voce di Rico Portola che urlava a Clark. «Attento al portellone, Clark! Lo vedo!»

«Oh, merda!» Fu l'ultima cosa che Celeste sentì pronunciare da Clark McConnell. L'intera stazione risuonò come una campana di chiesa buttata dalla fine-

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stra del decimo piano. L'impatto li fece sbattere dappertutto nel modulo af-follato. Due uomini finirono con alcune ossa fratturate; quattro persone, tra cui Celeste, con il naso che sanguinava.

Chu riuscì a chiudere il portellone in tempo. Le luci tremarono e poi si spensero, sostituite dalle luci rosse di emer-

genza che si alimentavano con cellule solari montate all'esterno di ogni modulo. Urla e grida riempirono il piccolo laboratorio medico. Celeste si ritrovò schiacciata contro l'arbitrario soffitto, a sussurrare in continuazione il nome di suo marito, con le lacrime che le bruciavano i bordi degli occhi prima di uscire in rivoli. Perché non l'aveva ascoltata?

Dall'intercom collegato con il modulo di comando provenivano solo sca-riche di energia statica...

Più tardi, quando tutto finì, Celeste venne a sapere che la Grissom era stata colpita da un satellite spia fatto di materiale radar-assorbente e appo-sitamente progettato per apparire ai sensori come un oggetto di piccole dimensioni. Il satellite, grande come un bulldozer, aveva strappato via completamente il centro di comando e un altro modulo, e aveva sparso dei detriti che erano penetrati negli altri tre moduli. La maggior parte dei si-stemi di sostentamento erano stati portati via, e i sopravvissuti avevano poca aria e niente cibo. Ci vollero quattro giorni prima che una missione di soccorso fosse pronta a lasciare la Terra.

Quando fu chiara la gravità del disastro, Celeste lavorò con Bernard Chu per tranquillizzare gli altri e abbassare il loro metabolismo. Era l'unico modo in cui sarebbero potuti sopravvivere.

E ne erano usciti vivi, anche se a malapena. Quando il veicolo di soccor-so arrivò, la maggior parte dell'aria era irrespirabile; i corpi storditi erano prossimi alla morte per fame. Ma solo due persone erano morte: Rico Por-tola e Clark McConnell.

La rapidità con cui Celeste era riuscita a gestire la situazione aveva sal-vato sei degli otto sulla Grissom. Alcuni pensarono che era stato solo un colpo di fortuna che li avesse radunati nello stesso posto nello stesso mo-mento, per una stupida festa di compleanno.

E così era divenuta un'eroina, e si era aperta la sua carriera nell'agenzia; prima come capo dell'Ufficio Astronauti, poi come amministratrice ag-giunta alle Esplorazioni, finché non era stata nominata direttrice della Space Agency, organizzazione internazionale, unificata e autonoma, re-sponsabile solo di fronte alle Nazioni Unite...

«Non mangi?» disse Simon Pritchard, interrompendo i suoi pensieri. Il

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generale prese una chela di granchio e la schiacciò con un martelletto di legno. Celeste si chiese per quanto tempo fosse rimasta in silenzio. La ca-meriera aveva portato un vassoio fumante di granchi del Maryland.

«Spero che tu stia pensando a qualcosa di importante» disse Pritchard con un sorriso, poi ripeté le parole che lei aveva pronunciato prima. «Hai uno sguardo così intenso che potresti dar fuoco a qualcosa!»

Celeste bevve un piccolo sorso di birra. «Stavo solo sognando» mormo-rò.

9.

Base lunare Columbus

«Sei sicura di non aver bisogno di un assistente laggiù?» chiese Dvorak.

«Newellen è uno specialista di telerobotica.» «Sì» lo interruppe Cyndi Salito. «Siccome nessuno riesce a lavorare con

lui, è costretto a fare tutto in telepresenza.» «Oh, piantala!» disse Newellen. Erika scosse la testa. Dopo una notte intera di sonno si sentiva riposata

per la prima volta in una settimana. «Mi sento più a mio agio a lavorare da sola, veramente. Con roba pericolosa come queste nanomacchine, è meglio per tutti se non sono nervosa. E inoltre è meglio tenere al minimo il nume-ro di persone a rischio.»

«Se insisti» disse Dvorak. «La direttrice vuole che ti diamo tutto l'aiuto possibile.»

«Quella ha delle nanobestiole per la testa» mugugnò Newellen. Nanobestiole! Le piaceva quella parola. Erika nascose un sorriso giran-

dosi per caricare la sua attrezzatura dentro il veicolo lunare pressurizzato. La camera pressurizzata era direttamente collegata con uno degli ambienti di rifornimento, rendendo l'operazione di carico molto più semplice che se fosse avvenuta all'esterno.

Erika gettò un fascio di nastro a vuoto nel mucchio che si stava accumu-lando nel retro del veicolo. Nella bassa gravità il cumulo volteggiò nell'a-ria. Aveva già caricato più cose di tutte le proprietà personali che si era portata dietro dal LIN.

Il veicolo lunare assomigliava a uno di quei rimorchi Winnebago usati per i viaggi verso la Terra, ed era più largo di quello spoglio ed essenziale su cui Erika era salita una volta scesa dalla navicella di Zimmerman. Quasi si aspettava che sulla carrozzeria esterna fossero appiccicati degli adesivi

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del tipo: "SALVE! SALUTE A TUTTI DA MERLE E BILLY JOE EBERT DI ALEXANDRIA, LOUISIANA!"

Secondo Big Daddy Newellen, il grosso veicolo poteva spingersi sino a cinquecento chilometri di distanza da Columbus e rimanere all'esterno per due settimane, se necessario. Era equipaggiato con un pannello di controllo telerobotico per interfacciarsi con i veicoli di osservazione geologica, ed era completamente autosufficiente. La cosa migliore era che dentro la ca-bina pressurizzata non avrebbe dovuto tenere sempre addosso la tuta spa-ziale.

Si asciugò le mani sudate sulla tuta blu e si girò a guardare Dvorak. An-che lui la stava guardando, appoggiato alla camera di pressurizzazione. Non avrebbe saputo dire se stesse sorridendo o se avesse il solito ghigno sulla faccia. «Mi getteresti quella scatola?» chiese Erika.

Dvorak si chinò e la raccolse, girandola verso di sé. «Cloro?» La buttò verso di lei, facendola volteggiare nella bassa gravità.

Erika la intercettò e la mise assieme al resto degli approvvigionamenti. «Quelle, mmh, nanobestiole potrebbero avere una base organica, e una so-luzione caustica potrebbe essere utile. E poi non voglio che gli esemplari entrino in contatto con i miei germi. Chissà che tipo di informazioni po-trebbero derivare anche soltanto dal DNA di un virus. A parte le prime tre persone che sono morte, quelle cose non sono mai entrate in contatto con niente di vivo. Continuiamo pure così.»

Dvorak fece per aprire la bocca, ma sembrava che non sapesse che dire. Erika lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. «Ho visto le registrazioni,

Dvorak. Lo so che stai pensando a quanto è pericoloso. Ma devi capire che ho trascorso la maggior parte della mia vita professionale a lavorare con la nanotecnologia.» Si diresse verso la camera di pressurizzazione. «Quindi è meglio che cominci, d'accordo?»

«Era quello che volevo sentire.» Dvorak si strofinò per togliersi di dosso la polvere lunare fine e sabbiosa che in qualche modo riusciva a entrare dappertutto. «Farò sapere all'agenzia che sei partita. Prenditi pure tutto il tempo di cui hai bisogno per studiare i campioni neutralizzati che sono an-cora dentro la camera blindata. Possiamo fare in modo di lanciare un'altra sonda perforatrice per prendere un altro campione di regolite.»

«Grazie. E continuate a fare le ricognizioni giornaliere a raggi infrarossi, per assicurarci che non ci sia nessun cambiamento drastico.» Iniziò a sen-tirsi irrequieta. Era ora di andare e di essere di nuovo da sola; di nuovo al lavoro, di nuovo al suo posto.

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«Va bene, ma un controllo a raggi infrarossi non ha molto valore ora che il luogo è esposto alla luce solare. La differenza di temperatura è molto più evidente di notte.» Dvorak le tese la mano. «Faremo il possibile. Buona fortuna. Tieniti in contatto.»

«Lo farò.» Dvorak si girò verso Newellen, che era appena all'interno della camera

di pressurizzazione. «E buon divertimento. Non lasciarti tiranneggiare da Big Daddy.»

Erika salì sul Winnebago e si mise a sedere tra i mucchi di rifornimenti. La sua tuta spaziale era appesa vicino alla camera di pressurizzazione e sembrava piccola in confronto alla figura di Newellen che chiudeva la por-ta.

Le rivolse un largo sorriso. «Mi sembra di partire per una vacanza.» Con apprensione Jason Dvorak guardò la porta della camera di pressu-

rizzazione del veicolo lunare che si chiudeva con un sibilo, non sentendosi sicuro di aver fatto la cosa giusta a lasciare che Erika Trace andasse da so-la ad affrontare la cosa che aveva ucciso tre membri della sua squadra.

Ma Erika era una donna adulta, una professionista, scelta personalmente dalla direttrice come la persona più qualificata sulla Terra per studiare gli esemplari trovati su Dedalo.

Il fatto che assomigliasse a com'era sua moglie Margaret dieci anni pri-ma, non aiutava molto. Ma Margaret sembrava sempre indifesa e fuori dal suo elemento naturale. Erika non aveva quel problema.

Jason pensò a cosa avrebbe fatto Bernard Chu in quella situazione. Era davvero una buona idea lasciare che Erica andasse da sola? Non avrebbe dovuto pensare a Erika come prima cosa. Avrebbe dovuto pensare piutto-sto ai rischi che comportava portare degli altri esemplari vivi di nanomac-chine così vicino alla base lunare.

«Che cos'è?» Erika si strinse nella parte anteriore del Winnebago. Guar-

dò in basso verso lo schermo, non fuori dal parabrezza. Guidata da un radar Doppler e da un telesensore euristico, il veicolo si

dirigeva verso Simul-Marte. Lon Newellen se ne stava seduto a guardarlo trovare la sua strada nel paesaggio lunare e mangiucchiava da un sacchet-to. Puntò una mela disidratata verso lo schermo televisivo ad alta defini-zione incassato nel pannello di controllo. «Sono tutte le registrazioni dei voli di ricognizione a raggi infrarossi. Se vuoi posso farti vedere un mon-

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taggio in dissolvenza lenta di quelle della scorsa settimana.» «Buon'idea.» Guardando le immagini, giorno dopo giorno, dell'alone

rosso che luccicava intorno alla costruzione di Dedalo, vide dei punti più intensi che fluttuavano attorno ad alcune parti della grande struttura, ma niente si muoveva oltre un diametro di tre chilometri. Quando la giornata lunare di due settimane sparse il calore del sole sull'area, la definizione della variazione di infrarossi diminuì drasticamente.

A molta distanza, invisibile nella notte lunare, stava Simul-Marte, co-struito in preparazione alla missione simulata finale su Marte. Nessuno a-vrebbe mai immaginato che sarebbe stato usato per studiare nanotecnolo-gia aliena prima che avesse inizio la missione di addestramento.

Newellen parlò con la bocca piena di frammenti di mela secca. «Per quanto mi riguarda non mi fido molto di quell'irradiazione di raggi x. Cioè, non ci metterei la mano sul fuoco. Non c'è modo di avere la certezza che quella cosa compatta toroidale produca abbastanza radiazioni da uccidere qualunque cosa possa aver contaminato il laboratorio. E poi queste nano-bestiole sono sopravvissute chissà quanti anni nello spazio, esposte a ogni tipo di radiazioni che si possa immaginare. Voglio dire, come è possibile che quella misera spruzzatina che gli abbiamo dato faccia tutto questo danno?» Fece per portarsi alla bocca un altro pezzetto di mela raggrinzita e si girò verso di lei. La bocca di Erika era serrata, e non uscì una parola.

Newellen alzò le spalle e buttò il pezzo di mela in aria. Volteggiò nella bassa gravità e scese dolcemente verso la sua bocca. Lui restò fermo sotto e la inghiottì. «Ma non importa cosa penso io, vero? Sei tu quella che va lì. Da sola.»

«Sì» disse Erika. «Lo so.» Il Winnebago attraccò a Simul-Marte e il motore si spense con un bor-

bottio. Newellen non lasciò che Erika aprisse la camera di pressurizzazio-ne fino a che non si fu convinto che il modulo di laboratorio isolato aveva aria e luce in abbondanza.

Erika esitò prima di entrare. Tutto quello che era contenuto là dentro do-veva essere stato sterilizzato. L'atmosfera era stata controllata con la stru-mentazione a distanza; i dati sullo schermo televisivo mostravano che tutto era pronto per ospitare esseri umani.

«Non aspettarti che ti porti in braccio oltre la soglia, Erika. Non è il mio forte, neanche con la bassa gravità.»

Erika si sforzò di sorridergli, poi inspirò profondamente ed entrò. L'aria

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aveva lo stesso odore che permeava tutti i posti della Luna su cui era stata: stantia, con una punta di fuliggine e di olio per motori.

Se nonostante tutto fosse rimasto qualche esemplare nanotecnologico, probabilmente non avrebbe fatto neanche in tempo a scoprirlo. Sarebbe scomparsa proprio come Waite, dissolta nel nulla...

Era un'idea sciocca e cercò di allontanarla dalla mente; se il campione di Dedalo avesse contaminato il laboratorio, Simul-Marte sarebbe stato irri-conoscibile.

Si girò verso Newellen. «Grazie per il passaggio, eh, Big Daddy.» Newellen si strinse nelle spalle. «Vorrei poter rimanere per darti una

mano. Sarò stazionato a circa dieci klicks di distanza se hai bisogno di me.»

La attendevano momenti quanto mai pericolosi ed emozionanti, la re-sponsabilità più forte che avesse dovuto sostenere. Erika allungò il passo, senza badare alla porta che si chiudeva ermeticamente alle sue spalle.

Erika piegò i milliwaldo, che penetrarono nelle viscere della camera ste-

rilizzata. Guardò le minuscole estensioni multi-digitate che seguivano i suoi movimenti nella colonna olografica ad alta definizione posta di fronte a lei. Nonostante i milliwaldo fossero circa mille volte più piccoli della sua mano, erano in grado di duplicare i suoi movimenti con esattezza. E poi non voleva correre il rischio di contaminare anche una sola cellula delle sue mani in un ambiente che conteneva le nanobestiole aliene.

Le faceva già male la testa. Erano cinque ore che lavorava con il cam-pione "morto" portato lì dalla prima sonda perforatrice geologica, quello che era stato studiato in telepresenza dalla base lunare Columbus. Sfortu-natamente il bombardamento con raggi x ad alta energia aveva cancellato quasi tutte le tracce di nanomacchine, lasciando solo pezzetti di scorie mi-croscopiche. Pochi tra gli involucri morti erano rimasti intatti. Era riuscita a raccogliere qualche informazione in più solo guardando le registrazioni in rapida successione.

No, aveva bisogno di un nuovo campione. Di un campione vivo. Si mise immediatamente in contatto con Columbus. Jason Dvorak fu

d'accordo nel procurargliene immediatamente uno, e inviò un'altra sonda perforatrice sul Lato Oscuro.

Mentre aspettava gli esemplari vivi, Erika ispezionò la strumentazione che aveva a disposizione a Simul-Marte. Praticamente ogni strumento a cui si potesse pensare per analisi extraterrestri era ammassato nel laborato-

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rio, in attesa di essere usato dagli astronauti di Marte per i loro studi esau-stivi del quarto pianeta. Nonostante molti fossero diventati scettici nell'ul-timo mezzo secolo dopo che il Viking era atterrato su Marte, una parte im-portante delle attività della missione su Marte riguardava la ricerca dell'e-sistenza di microrganismi in quell'ambiente ostile.

Condusse dei test sulle nanobestiole morte, osservandole con microscopi a trasmissione di elettroni, microscopi a scansione ottica, e utilizzando poi elettroni secondari, elettroni a dispersione retrograda, raggi x per caratteri-stiche ed elettroni a bassa perdita. Ebbe dei buoni risultati con uno spettro-scopio Auger/ESCA a elettroni, poi altri ancora migliori con un microsco-pio a scansione ottica a raggi x. Alterando il livello di potenza del bombar-damento con raggi x, aveva raffinato il metodo, quando il robot a quattro braccia si diresse verso la piattaforma esterna di Simul-Marte per ricevere il secondo involucro dalla sonda proveniente dal Lato Oscuro...

Ora i suoi milliwaldo erano sospesi a circa cinquanta micron sopra il nuovo pezzo di regolite. L'intera apparecchiatura analitica era collocata in un ambiente foderato di uranio impoverito, e il contenitore stesso era schermato da uno strato di piombo. Con l'immagine tridimensionale tra-smessa ai suoi occhiali virtuali lungo una coppia di cavi a fibre ottiche, E-rika lavorava con la sensazione di avere veramente sotto gli occhi un mon-do in scala infinitamente piccola.

Una voce giunse dall'altoparlante posto sul pannello di controllo. Pur trovandosi a dieci chilometri di distanza dal laboratorio isolato - distanza di sicurezza, come l'aveva chiamata Dvorak - sembrava che Lon Newellen fosse nella stanza accanto. «Il collegamento video ci dà ancora dei pro-blemi, Erika. Sei sicura di avere attivato tutti i canali?»

Erika si voltò per controllare la video camera tridimensionale, sistemata alle sue spalle in modo da riprendere l'intera analisi dei campioni. Una luce verde intermittente indicava che la registrazione era in corso, ma due file più in basso, su un visualizzatore a cristalli liquidi si leggeva ERRORE TRASMISSIONE PARITÀ: RESET. Erika sorrise tra sé e sé. «Mmh, qui sembra tutto a posto, Big Daddy. Dice che sta registrando.»

«Perché non provi a fare un reset del controllo parità?» Erika fece il gesto di spingere il comando che aveva disattivato, ma si

fermò prima di toccarlo; rivedendo la registrazione in uh secondo tempo, nessuno sarebbe stato in grado di dire se avesse o no pigiato il pulsante. «Sembra che non funzioni.»

Newellen rimase in silenzio per un momento. «Potrei venire lì e siste-

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martelo.» «Senti, io devo continuare a lavorare» disse Erika con un filo di nervosi-

smo. «Non sappiamo quanto tempo ho ancora. Queste attrezzature sono nuove, ricordi. È naturale che ci sia qualcosa che non va. Non preoccupar-ti. Chiamerò non appena trovo qualcosa.»

«Oh, d'accordo.» Probabilmente era stanco di stare lì a girarsi i pollici senza ricevere nessuna immagine.

Già era abbastanza essere costretta a registrare tutto quello che faceva, in modo da lasciare una documentazione permanente dell'analisi nanotecno-logica. Ma Erika non avrebbe mai potuto lavorare con mezza dozzina di persone che guardavano da sopra le spalle. Sarebbe stato come avere qual-cuno nel sedile posteriore che le dicesse come guidare, in tempo reale. A-veva bisogno di prendere le sue decisioni da sola, di stabilire il suo ritmo.

«Dovremo accontentarci del contatto in voce per la prima parte delle o-perazioni» disse Dvorak attraverso l'altoparlante.

«Sto iniziando ora a ingrandire, partendo dal basso e andando verso l'al-to.» Erika aveva già portato i milliwaldo sulla superficie del campione. L'ingrandimento scattò non appena si attivò il microscopio a luce polariz-zata. L'immagine sembrava strana nell'ingrandimento computerizzato, con la colorazione artificiale aggiunta alla topografia tridimensionale.

Erika parlava a voce alta a beneficio degli altri, cosa che le andava be-nissimo dato che normalmente parlava da sola o con Parvu nel laboratorio. «Non vedo niente di strano in questo ingrandimento. La superficie del campione sembra vischiosa però, come se fosse liquida. Forse è solo moto browniano. Forse no.»

Controllò un messaggio diagnostico nell'angolo inferiore basso dei suoi occhiali virtuali. «Ne escono un bel po' di radiazioni di calore, però. Molte di più di quante ce se ne potrebbe aspettare da una roccia ambientale. Il campione non è radioattivo, e non riesco a individuare nessun processo chimico. Probabilmente calore residuale generato dalle nanobestiole.»

Ecco, aveva adottato la terminologia di Newellen per quelle apparec-chiature microscopiche. Non c'era dubbio che sarebbe rimasta non appena le newsnets l'avessero raccolta.

«Un ingrandimento maggiore?» chiese Dvorak dall'altoparlante. Erika parlò con un tono duro. «Sto ancora facendo un'analisi generale di

questo pezzo. Chiamo io gli ingrandimenti, d'accordo Jase?» Usò il dimi-nutivo di proposito.

«Scusa. Starò zitto.»

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Erika eseguì i macro-esami standard, controllando le proprietà meccani-che della regolite, la conduttività del colore, la malleabilità e la frangibili-tà. Raschiò il bordo con la punta del milliwaldo, sperando di riuscire a grattare via la superficie degli esemplari, ma sembrava scivolosa.

Riportò i milliwaldo alla base, una sottilissima sezione di ceramica. Su-bito a destra del suo campo visivo c'erano i waldo di precisione dieci volte più grandi, da utilizzare per le operazioni macroscopiche.

Alla sinistra della sottile pellicola di ceramica apparve un puntino appe-na visibile. Mosse lentamente le mani sui controlli virtuali verso il puntino; mentre si avvicinava aumentò di un grado l'ingrandimento.

I dettagli sfocarono in strisce di aberrazione cromatica, ma Erika riuscì a manipolare il puntino con dei waldo ancora più piccoli, in grado di ma-neggiare oggetti di un milionesimo di metro di diametro. Lasciò sospeso il milliwaldo, che ora sembrava enorme, e mise in azione un paio di micro-waldo.

«Va bene» disse nei microfoni. «Sto portando con me i micro sul punto del campione con il grado di temperatura più alta.» Guidò il milliwaldo verso la fonte di calore, e insieme a quello un gruppo di piccoli microwal-do. «Diamoci un'occhiata.»

Una volta sul posto, guidò il gigantesco milliwaldo a posizionare il mi-cro nella posizione esatta. Prese i comandi di quest'ultimo e ne fece flettere le estremità. Ci fu una zoomata di tre ordini di grandezza; nell'oloscopio sembrò che tutto le precipitasse contro. Ora vedeva il campione di regolite con un ingrandimento cento volte maggiore di prima, attraverso gli occhi di un microscopio Auger/ESCA.

«Wow!» A quella vista trattenne il fiato. Posizionato appena sopra il campione di regolite, i sensori del micro-

waldo restituirono una visione stereoscopica: oggetti sfaccettati correvano precipitosamente lungo il campione come formiche attorno a un formicaio smosso. Erika aveva visto le immagini in telepresenza del primo campio-ne, ma ora le nanobestiole sembravano proprio di fronte ai suoi occhi, in una moltitudine di forme e misure.

Era protetta solamente da un muro di piombo e da uno schermo di ura-nio impoverito che le nanomacchine avrebbero probabilmente potuto di-sassemblare in qualsiasi momento avessero voluto. Le passarono dinanzi le immagini di Waite l'Impaziente e di Becky Snow con le tute che ribolliva-no e si disintegravano, ma Erika strizzò gli occhi e le allontanò, portandosi con la faccia più vicino all'oloscopio per cogliere altri dettagli.

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Dopo aver aggiunto il microscopio a raggi x, raggiunse la definizione massima. Nessuno aveva mai previsto di dover osservare qualcosa nella scala di un miliardesimo di metro. Con quell'ingrandimento, un virus sa-rebbe sembrato grande come una casa. Ma gli alieni erano stati capaci di mettere assieme delle macchine un centinaio di volte più piccole.

Erika non aveva mai visto niente del genere. Al loro confronto, i malde-stri prototipi nanotecnologici del LIN erano come delle barche a remi pa-ragonate a una nave spaziale. I prototipi di Parvu erano pezzi di macchine radunati assieme finché non fossero andati a posto da soli. Le nanomac-chine aliene, invece, sembravano scolpite, progettate con intuito artistico in cinque o sei varietà diverse; ogni sottosistema era stato assemblato con la precisione con cui un modellista avrebbe costruito una nave nella botti-glia. Era incredibile.

«Ehi, Erika? Sei ancora lì?» Era Lon Newellen. «Vuoi che venga a recu-perarti?»

«No! Aspetta un attimo.» Portò le mani verso la superficie olografica di fronte ai suoi occhi. I microwaldo imitarono i suoi movimenti.

Erika sentì il cuore che le batteva più forte. «Queste creature sono così piccole che faccio perfino fatica a capire la loro morfologia.» Più si faceva prendere dall'eccitazione e più parlava in fretta, ricadendo nel suo accento del sud. «Non capisco nemmeno come facciano a funzionare, non sono più grandi di molecole, disposte in un modo che non ho mai visto. Qual è la loro fonte di energia? Immagino che distruggano i legami chimici dentro le materie prime che le circondano. Devo esaminarle ancora però. Siete anco-ra in ascolto?»

«Vorrei tanto poterle vedere!» disse Dvorak. «Oh, va bene!» disse Erika addolcendosi. Appoggiò i waldo sospenden-

do le analisi. «Adesso provo la procedura di riparazione d'emergenza nu-mero due.» Ostruendo la visuale della telecamera con la spalla, fece un reset della parità, dando così il via alla trasmissione. Poi fece una gran scena per far vedere che maneggiava il pannello di controllo con il palmo della mano. «Funziona adesso?»

«Abbiamo il video!» gridò Newellen dal veicolo lunare. «Bene, adesso lasciatemi lavorare.» Sfrecciando con le dita sul pannello, Erika immise un codice dinamico-

molecolare. Il codice inizializzò una serie di processori paralleli incorpora-ti nella matrice di un cubo allo stato solido; il programma avrebbe iniziato una decomposizione perturbativa delle orbite molecolari per ricostruire le

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macchine che aveva esaminato. «Sembra che ce ne siano cinque o sei specie diverse. Alcune assemblano

la regolite allo stato puro, altre lo elaborano, e altre ancora diverse che si agitano in mezzo. Coordinatori? Supervisori? Riprogrammatori? Non sa-prei dire. E poi ce n'è un altro tipo che sembra stare fermo senza far niente. Ha una forma completamente diversa. In mezzo a tutti questi esemplari, vedo delle isole più grandi, come se fossero delle città di nanobestiole. Stazioni di controllo centrali? Ragazzi, qui si possono fare un sacco di ipo-tesi.»

«Erika, hai capito quanto ci vorrà prima che queste cose finiscano di mangiarsi tutto il campione e inizino ad attaccare le pareti della camera blindata?» Era Big Daddy, che parlava ancora dai suoi dieci chilometri di distanza.

Dvorak si intromise prima ancora che Erika potesse aprire bocca. «Eri-ka, non affidare niente al caso. Dobbiamo distruggere il campione prima che anche una sola di quelle cose riesca ad uscire. Gli ordini che abbiamo ricevuto dalla direttrice sono di stare sul campione per un massimo di quat-tro ore, e di sterilizzarlo subito dopo.»

Erika guardò lo schermo. «Il tasso di riproduzione è sotto la soglia criti-ca. Forse la loro fase di autoreplicazione è finita. Oppure, più probabil-mente hanno bisogno di trovare degli elementi diversi per autoreplicarsi, e in quel pezzettino di suolo lunare non ce ne sono più. Forse è per questo che non hanno ancora distrutto il campione, per il momento non sanno an-cora dove andare.»

Dvorak diede voce a quello che lei stava pensando: «A meno che non decidano di cercare un terreno più fertile al di fuori del contenitore».

Erika deglutì. «In tal caso, non avrò molto tempo per uscire di qui.»

10.

Antartide: Laboratorio Isolato di Nanotecnologia

Solo nel Laboratorio Isolato di Nanotecnologia, Jordan Parvu si sentiva

come l'ultimo cliente in un negozio che stava per chiudere. Le luci erano basse, le porte chiuse ermeticamente.

Fuori il vento soffiava di nuovo, rimbombando contro la parete anche at-traverso diversi strati di isolamento. Le stanze di Erika Trace erano vuote. Aveva portato via tutto il suo armamentario dal cubicolo che fungeva da bagno, e Parvu sentì che le mancava il suo cumulo disordinato di oggetti.

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Aveva fatto pressione su di lei perché accettasse la missione sulla base lunare perché sapeva che Erika aveva bisogno di essere incoraggiata a co-struire il proprio percorso invece di seguire lui. Era troppo brava per conti-nuare a lavorare brillantemente nella sua ombra. Gli dispiaceva però di non poter discutere con lei la teoria degli automi, come avevano fatto per anni.

Erika era arrivata sulla Luna tre giorni prima. Parvu aveva ricevuto gli affrettati resoconti di dati che Erika aveva trasmesso ai ricercatori terrestri richiedendo aiuto e suggerimenti. Anche se non le aveva parlato diretta-mente, era affascinato dalle sue congetture, su come aveva classificato gli automi extraterrestri in Disassemblatori, Assemblatori, Programmatori, Controllori e Ignoti. Aveva fatto un mucchio di lavoro in pochissimo tem-po.

Ora, nella sua stanza, Parvu guardava dei video dei suoi nipotini che giocavano, lo salutavano con la mano e si imbrattavano di gelato al ciocco-lato a una festa di compleanno. Nel silenzio della stanza, il suo riflesso sul-lo specchio decorativo a parete sembrava in ansia.

Pensava a tutte le cose che sperava di portare a compimento, a come sta-vano progredendo i prototipi nel nanonucleo. Aveva fra la mani la possibi-lità di cambiare il mondo...

La ricerca sulla nanotecnologia andava avanti da quattro decenni. Tutto era partito dalle estrapolazioni fatte da K. Eric Drexler negli anni Ottanta. Drexler aveva scosso il mondo con le sue idee incredibili e spaventosa-mente plausibili. Scorrendo le pagine di quel vecchio libro Parvu si entu-siasmava ancora.

Drexler aveva ipotizzato degli automi abbastanza piccoli da lavorare dentro una cellula umana, sufficientemente versatili da assemblare struttu-re complesse, e abbastanza intelligenti da capire cosa stavano facendo. Ogni singola nanomacchina poteva usare qualsiasi materiale grezzo per replicarsi; le copie di seconda generazione si sarebbero poi autoreplicate e così via, in progressione geometrica. Con dei servitori così numerosi e ca-paci, programmati con istruzioni appropriate, la razza umana sarebbe stata in grado di intraprendere enormi imprese. Uno sciame di nanomacchine avrebbe potuto attaccare un mucchio di spazzatura, separare gli elementi desiderati atomo per atomo e distribuirli in contenitori appropriati, senza sprechi e disordini sgradevoli; o ammucchiare atomi di carbonio dal car-bone e assemblare diamanti perfetti.

Dentro il corpo umano, piccoli esploratori avrebbero potuto aiutare i globuli bianchi nella lotta alle malattie, ai batteri e ai virus. Dei nanomedi-

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ci avrebbero potuto ispezionare i filamenti di DNA all'interno delle singole cellule, trovare quelle che erano diventate cancerose, per sistemare poi tutti gli errori e le mutazioni ancor prima che il paziente si accorgesse che c'era qualcosa che non andava.

Quando Drexler aveva esposto le sue idee, alcuni lo avevano definito uno stravagante, altri si erano arrabattati per trovare dei fondi per la ricerca sulla nanotecnologia, per poi scoprire che la maggior parte del lavoro di fondo era ancora da fare.

Adesso, quaranta anni più tardi, con gli sviluppi nel campo della mi-croingegneria, dell'ingegneria delle proteine e dell'intelligenza artificiale, gli scienziati erano finalmente riusciti a creare i prototipi autoreplicanti che nuotavano nel nanonucleo di Parvu. Il LIN era stato costruito nell'Antarti-de dalla United Space Agency con severissime misure di sicurezza.

Drexler stesso aveva prontamente sottolineato i rischi inerenti alla nano-tecnologia. Se una macchina autoreplicante fosse sfuggita al controllo a-vrebbe potuto creare abbastanza discendenti da trasformare in pochi giorni la Terra in una palla di gelatina grigia. Negli anni dell'università, Parvu a-veva lavorato in un posto dove venivano allevati topi bianchi da laborato-rio; nonostante i controlli accurati, i topi riuscivano a scappare dalle loro gabbie. Una sola nanomacchina era cento milioni di volte più piccola di un topo.

Anche se tutti i controlli avessero ottenuto il loro scopo e la nanotecno-logia si fosse sviluppata senza incidenti, Parvu provava a immaginare lo sconvolgimento sociale che si sarebbe prodotto se la gente avesse improv-visamente trovate una risposta all'inquinamento, una cura per tutte le ma-lattie... forse persino la chiave dell'immortalità. Dato che i nanoassembla-tori potevano trasformare qualsiasi cumulo di spazzature in scintillanti co-se di valore, la ricchezza materiale non avrebbe significato nulla.

Conoscendo la natura umana, come avrebbe potuto sopravvivere l'uma-nità?

Ma gli alieni in qualche modo avevano superato quelle difficoltà... o no? Avevano forse spedito qui dei campioni come prova? Per fare il lavoro sporco su un pezzo di roccia molto lontana e provare la loro capacità di co-struzione su larga scala prima di metterli al lavoro più vicino a casa?

Il segnale delle teleconferenze lo scosse dai suoi pensieri facendogli sol-levare il capo. Parvu spense le immagini della sua famiglia e cercò a tento-ni lo schermo. Quando infine trovò il bottone di ricezione, lo schermo emi-se un bagliore ed Erika Trace guardò verso di lui.

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Il volto le si illuminò quando vide che Parvu aveva ricevuto la trasmis-sione. Poi riassunse un'espressione nervosa e smarrita. Indossava una tuta blu da astronauta; i capelli biondi erano raccolti a coda di cavallo. Gli oc-chi erano stanchi, e un po' della loro innocenza era scomparsa. Le aveva fatto attraversare dei momenti difficili nelle ultime settimane, ma non ave-va una brutta cera, era solo diversa, più forte.

«Erika! Sono molto contento di sentirti! Stai bene?» «Sì, grazie, Jordan. Scusa se non ti ho chiamato prima. È stato un incubo

con tutta la nanotecnologia di Dedalo... c'è così tanto da imparare. E tutti pensano che io abbia tutte le risposte!»

Parvu guardò verso lo schermo, incapace di trattenere un sorriso. Voleva chiederle come era andato l'addestramento, o il viaggio verso la Luna, o se poteva fare qualcosa per aiutarla. Gli era rimasto ancora un po' di caviale, anche se aveva dato i cracker ai tre topi durante un momento di solitudine.

Erika distolse lo sguardo, con il ritardo nella trasmissione non si riusciva mai a guardarsi negli occhi. «Ho chiamato solo per... per parlarne con qualcuno. Io non ho la distanza sufficiente. Ho tutti i dettagli, ma mi man-ca il quadro d'insieme. È una cosa senza senso. Ho bisogno di un'altra pro-spettiva per capire come interagiscono le nanobestiole.»

«Ah.» Parvu assentì, poi si sedette in una comoda poltrona di fronte allo schermo. «Cose di poco rilievo, allora. Pensavo si trattasse di un'emergen-za. Molto bene, iniziamo dai principi di base.» Parvu contò i pensieri sulla punta delle dita. «Se una razza aliena è in grado di mandare qualcosa su un altro sistema stellare, perché dovrebbero decidere di mandare degli automi microscopici? Se avessero semplicemente voluto mettersi in contatto con noi, avrebbero potuto mandare un segnale radio.»

Due secondi dopo Erika lo interruppe sollevando la mano. «Questo pre-suppone che loro pensino che ci sia qualcuno ad ascoltare e che possa ri-spondere. E se avessero mandato i loro automi solo come sonde? Come investigatori per vedere cosa avrebbero trovato?»

«Bisogna ancora rispondere a questa domanda: perché questi automi? Perché non una sonda vera e propria, dovendo percorrere una tale distan-za? E se sono solo sonde, perché stanno costruendo una struttura così im-ponente sulla Luna? A che serve?»

Erika scrollò le spalle, rispondendo solo alla prima parte dei suoi com-menti. «Be', forse la nanotecnologia rappresenta il loro modo di pensare. Immaginiamo che la loro società sia basata sulla nanotecnologia. Non prenderebbero in considerazione l'ipotesi di inviare degli oggetti gigante-

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schi, se fossero in grado di mandare delle piccole sonde programmate per costruire quello che vogliono una volta arrivati qui. Ma se vengono da un altro sistema stellare, perché hanno bisogno di erigere questa costruzione così in fretta?»

«Velocità!» Parvu si fermò, come se una lampadina si fosse messa a lampeggiare sopra la sua testa. «Ma certo, velocità! O si dice celerità? Continuo a confondere la terminologia precisa.»

«Che vuoi dire?» «Velocità di spostamento! Considera che per spedire una sonda da una

stella a un'altra ci vuole un'immensa scorta di carburante. Dovrebbe trasci-narsi dietro un'intera nave spaziale, e sarebbe difficilissimo raggiungere una velocità molto alta. Ma...» Sollevò l'indice e il pollice e li strinse uno contro l'altro. «Un dispositivo di solo un miliardesimo di metro di diametro è la misura di una particella! Una macchina del genere potrebbe ricevere un'accelerazione pari quasi alla velocità della luce. Ha una memoria com-puterizzata equivalente a quella di un vecchio supercomputer CRAY, e quando arriva si può autoriprodurre. Che macchina! Prova solo a pensar-ci!»

Parvu sentì l'eccitazione salirgli a fior di pelle, e si mise a sedere più dritto. «Prova a immaginare che gli alieni non abbiano intenzione di venire qui in particolare, ma che abbiano semplicemente mandato un fascio di au-tomi in tutte le direzioni. Lanciati quasi alla velocità della luce attraverso l'universo, prima o poi erano destinati a incappare in un sistema solare. At-traversare la Galassia è molto più facile senza l'ingombro di sistemi di pro-pulsione e di voluminose navi spaziali.»

Erika fece scorrere un dito sulle labbra. «Quello che si dice "andate e moltiplicatevi!" E così quando uno di questi esploratori è sbarcato sulla Luna, aveva una programmazione per iniziare a replicarsi e a costruire questa... struttura che non riusciamo a capire.»

«Ma certo! Forse delle navi aliene lo stanno seguendo, vascelli più lenti che seguono i loro automi, mentre questi arrivano qui e costruiscono un...» Parvu scrollò le spalle e allargò le braccia, come a indicare innumerevoli possibilità. «Una stazione trasmittente? Una base già pronta ad attenderli? Ma a quale scopo? Solo per studiare altri pianeti o come preludio a un'in-vasione?»

Erika lo guardò allarmata da questa possibilità. «Le nanobestiole hanno già ucciso tre persone e smantellato parte della matrice VLF.» Scosse la testa. «Ma se hanno sparato dei nanoesploratori attraverso le stelle, non

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avevano alcun modo di sapere in anticipo quale sarebbe atterrato da qual-che parte. Non posso credere che gli abbiano mandato dietro delle navi so-lo sperando semplicemente di andare a sbattere in un pianeta abitabile.»

Una cornice rossa apparve attorno all'immagine di Erika sullo schermo, con un indicatore nero che lo percorreva rapidamente come un orologio che contasse i secondi. «Il mio periodo di riposo è finito, Jordan. Devo tornare al laboratorio.» Gli sorrise e lo guardò con un'espressione da cui si capiva benissimo che avrebbe voluto dirgli mille altre cose.

«Grazie per lo scambio di idee. Ne parlerò a Jason Dvorak e lascerò de-cidere a lui se farlo sapere alla direttrice.» Erika si accigliò mentre lo dice-va; sembrava che avesse ancora del risentimento per Celeste McConnell per averla spedita sulla base lunare. L'indicatore nero aveva ormai quasi coperto la cornice. «Devo andare!»

«Grazie per la chiamata.» Parvu sollevò una mano, il palmo rivolto ver-so di lei, poi allargò le dita a V nel loro gesto di saluto scherzoso. «Lunga vita e prosperità!»

Lo schermo si spense prima che Erika potesse rispondere. Parvu si ran-nicchiò nuovamente sulla poltrona, guardando lo schermo vuoto per un lungo istante. Lavorando con i comandi del bracciolo, richiamò le imma-gini degli automi, e le diverse inquadrature delle varie "specie" che Erika aveva identificato. Poi ingrandì un'altra finestra con una veduta panorami-ca della costruzione trasparente che cresceva su Dedalo. L'immagine di un flusso inarrestabile di emissari di un miliardesimo di metro di diametro che si riversavano sul Sistema Solare provenienti dall'altra parte della Galassia gli fece correre dei brividi freddi lungo la schiena.

11.

Stazione di transito Collins, L-1

Il Veicolo di Trasferimento Lunare si portò contro il Portellone di Ag-

gancio B della stazione Collins. Entrò in contatto con le guarnizioni a te-nuta stagna e poi si afferrò saldamente; l'aria residua schizzò nello spazio.

Fluttuando al centro de! modulo operativo centrale, Bernard Chu si sen-tiva come un manager. La tecnologia di controllo telemetrica elaborò i da-ti, tenne i contatti con il pilota Bryan Zimmerman nel VTL e si accertò che tutti i punti di pressione risultassero saldamente ancorati al punto di ag-gancio. L'equipaggio aveva svolto le medesime operazioni di routine ogni mese per un anno, ma Chu li controllò come un falco. Per lui tutto questo

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era ancora una novità. Con un occhio al cronometro a parete, Chu aggrottò le ciglia, poi dal suo

pannello attivò l'intercom del punto di aggancio, sovrastando le chiacchie-re dei tecnici. La sua voce era calma, ma decisa. «Voglio che il cargo ven-ga staccato dal VTL e stivato entro un'ora. È un'operazione da svolgersi in modo molto veloce, quindi voglio che vengano effettuati due volte i soliti controlli di conversione rapida: niente errori, e niente ritardi!»

Questo era stato il motto di Chu quando dirigeva un piccolo laboratorio di biochimica, quando faceva ricerca a bordo della stazione Grissom e alla base lunare Columbus. Sapeva che l'equipaggio della Collins sarebbe stato infastidito. Effettivamente non c'era nessuna fretta: Columbus non era in difficoltà, e poche ore di ritardo nella consegna non avrebbero fatto diffe-renza per nessuno...

Ma Chu dirigeva la Collins da meno di un mese. Sembrava prendere il suo lavoro molto più seriamente degli altri abitanti della stazione. Ogni deviazione dal programma stabilito dall'Agenzia sembrava un affronto per-sonale, una macchia nera sulla sua reputazione. Mostrava nero su bianco che non era in grado di svolgere un compito semplice come far trasferire viveri alla base lunare o risorse da lì su L-1.

E il trasferimento fuori programma di Erika Trace aveva scombussolato tutto. Chu aveva parlato con Celeste McConnell, che gli aveva assicurato che non rientrava nelle sue aspettative che le cose procedessero normal-mente dopo tutto quello che era successo.

Ma Bernard Chu aveva fissato da solo i propri obiettivi, senza curarsi di quanto fossero rilassati gli altri. Era stato addestrato alla maniera dura, ed era diventato un uomo duro.

Un tecnico attivò il collegamento con lui. «Zimmerman è passato per il boccaporto. Tutto è in perfetto ordine. Le squadre stanno trasbordando i contenitori di risorse.»

Chu assentì e strinse le labbra. Contenitori di risorse. Se non fosse stato per i contenitori di cellule solari, di minerali rari e di campioni geologici, non ci sarebbe stato bisogno di esportare nulla dalla Luna. Nel giro di po-chi anni, se le operazioni di scavo della regolite avessero avuto successo, quei recipienti avrebbero contenuto il carburante di fusione elio-3, e allora tutta la maledetta colonia lunare avrebbe davvero iniziato a fruttare qual-cosa. Chu ricordava fin troppo bene come la gente sulla base aspettasse con ansia il giorno in cui avrebbero potuto iniziare a fare la loro parte.

«Vado dal capitano Zimmerman» disse Chu. «Avvertitemi se succedesse

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qualcosa.» «Sì» rispose il tecnico, poi ritornò al lavoro, registrando il contenitore di

metallo e agganciandolo all'autoscanner. Lo scanner avrebbe memorizzato ogni contenitore man mano che dal boccaporto del VTL passavano sulla Collins. Una volta disposti nella capsula di carico sarebbero stati aggancia-ti al Veicolo di Trasferimento Inter-Orbitale giapponese per essere inviati sulla Terra.

Bernard Chu era stato il comandante della base lunare Columbus per un anno e mezzo, più a lungo di tutti gli altri supervisori. Aveva fatto dei grandi passi avanti nel miglioramento delle condizioni di vita. Era a lui che era stato riconosciuto il merito di aver trasformato quel luogo da avampo-sto sperimentale a insediamento umano permanente.

Poi Jason Dvorak era arrivato per fare ancora di più, e Celeste McCon-nell stessa - che era una buona amica di Chu - gli aveva detto che lo avreb-be sostituito. A malincuore, chiedendosi cosa mai vedesse Celeste in quel giovane architetto, Chu aveva fatto del suo meglio per introdurre Dvorak alle difficoltà del comando e spiegargli il miliardo e più di cose che avreb-be dovuto osservare solamente per impedire che la normale vita di tutti i giorni li uccidesse tutti.

Dvorak. Chu non trovava nessun motivo per non farselo piacere. Era un uomo intelligente, dai modi cortesi, una persona entusiasta e ragionevol-mente competente. Ma era solo un architetto! Cosa c'entrava lui? Finché veniva in visita come responsabile del progetto, andava anche bene; ma promuoverlo a comandante della base?

Certo, Dvorak aveva dato prova di essere un abile manager sulla Terra, tirando su una società multimiliardaria, come quei geni del computer che avevano messo in piedi delle ditte di software e si erano ritrovati con molti più soldi di quelli che avrebbero mai potuto spendere. Dvorak era un ra-gazzo prodigio, su questo non c'era dubbio. Ma Chu non riusciva a spie-garsi perché mai la McConnell lo avesse voluto come comandante.

D'altra parte, Celeste McConnell aveva fatto carriera proprio grazie a queste decisioni imprevedibili e apparentemente casuali, a intuizioni che sembravano completamente insensate... ma che in qualche modo funzio-navano sempre. Chu non riusciva a capire. Ma cosa avrebbe potuto dirle dopo che l'aveva salvato dal disastro della Grissom? Chu increspò di nuo-vo le labbra, dirigendosi verso una delle camere di pressurizzazione che conducevano al Portellone di Aggancio B.

Bryan Z. lo aspettava nel corridoio. La sua uniforme era solo leggermen-

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te sgualcita, in qualche modo era riuscito a non stropicciarla nel viaggio dalla superficie lunare. Sbarbato di fresco, i capelli pettinati, lo sguardo se-reno, sembrava che avesse fatto toletta proprio prima dell'aggancio.

Chu si afferrò a una traversa, mentre tendeva l'altra mano per stringerla a quella di Zimmerman. «Bentornato, Bryan.»

Zimmerman era un enigma, una persona apparentemente senza persona-lità né senso dell'humour; pareva scolpito nella roccia. Aggiungeva "signo-re" o "signora" alla fine di ogni frase. Uno dei tecnici della Collins si era chiesto una volta se la moglie di Zimmerman, Gloria, che nessuno di loro aveva mai visto, fosse distante e robotica come lui. «Ehi, immaginateveli mentre fanno l'amore. Ti-è-piaciuto? Sì-mi-è-piaciuto» aveva detto, imi-tando la voce meccanica di un robot.

Mentre Zimmerman avanzava lungo le mura del corridoio, Chu disse: «Ti andrebbe di fare una pausa con me? Avrai voglia di riposarti un po'».

«Sì, signore» disse Zimmerman. Sembrava che alla fine di quelle parole ci fosse un implicito: «Se insiste».

Chu si fece strada verso il modulo di osservazione dove l'attrezzatura a-stronomica analizzava automaticamente le stelle, compensando la lenta ro-tazione della Collins. Dietro di loro, presso il portellone di aggancio, una squadra sgusciò attraverso la camera pressurizzata, trasbordando in fretta i contenitori di risorse da caricare sulle capsule.

Scivolando da un modulo all'altro, Chu ricordò l'ultima arrampicata che aveva fatto dopo che Celeste aveva fatto suonare l'allarme sulla Grissom, per arrivare nell'unico posto dell'intera stazione che sarebbe sopravvissuto alla collisione. Affrettandosi, senza sapere cosa sarebbe successo...

Quando era sulla base lunare, con una base stabile, per un po' se ne era dimenticato, e si era abituato ad avere una superficie solida sotto i piedi. Ma lassù, la Collins gli ricordava quanto infida potesse essere la vita in or-bita.

Di tutti i sopravvissuti della Grissom solo Chu era rimasto nello spazio, facendosi strada con promozioni praticamente regalate, incarichi di simpa-tia e posti di pubbliche relazioni. Celeste McConnell era ritornata sulla Terra, ma aveva fatto carriera nella United Space Agency, arrivando alla vetta. Tutti gli altri erano spariti.

Chu pensava che se le cose si fossero davvero messe male alla Collins, Celeste avrebbe nuovamente trovato il modo di avvertirlo.

Bryan Zimmerman non disse nulla mentre si introducevano nel modulo di osservazione. Chu si avvicinò a una sedia che fluttuava, si sedette e per

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comodità si legò a essa. Sotto di loro, la Luna si levò come una grossa massa di bronzo battuto

che rifletteva la luce solare sulla sua superficie gibbosa. Direttamente die-tro, nella parte all'ombra, si trovava l'edificio di Dedalo, la grande costru-zione aliena che continuava ad autoassemblarsi.

Pensò che Celeste gli aveva fatto un favore a toglierlo dalla base lunare prima che quella cosa venisse scoperta, prima che fosse lui a doversi pre-occupare di un'infestazione aliena. Non sembrava facile trovare una solu-zione. Ma non importava, adesso erano affari di Jason Dvorak. Nuota se non vuoi affogare, Dvorak!

Chu si accorse che stava sorridendo. Di fianco a lui Bryan Z. sedeva con un'espressione di pietra. Chu guardò in basso verso la Luna e pensò alle voraci nanomacchine extraterrestri. Era felice di essere su L-1, al sicuro.

12.

Base lunare Columbus

Anche dopo aver corso per tre ore, Jason Dvorak non si sentiva per nien-

te stanco. Il sudore che impregnava la sua tuta da ginnastica filtrò nello strato di carbonio del tessuto. Aveva fatto centotrentasei giri del percorso sotterraneo di otto chilometri, ma i piedi erano troppo leggeri, le gambe troppo potenti nella bassa gravità. Dopo undici mesi non riusciva ancora ad abituarsi.

Delle fibre ottiche spargevano la luce solare lungo il percorso, bagnando l'area per gli esercizi di un freddo colore bianco-giallo. Mentre correva in-torno al percorso di regolite compattata, pensò che doveva sembrare un ballerino di danza classica; ogni passo risultava delicato e aggraziato e lo teneva in aria fin troppo a lungo. Dvorak ansimava attraverso la mascheri-na, ascoltando il suo respiro soffocato. Si rischiava di prendere una bron-chite se si respirava troppa di quella onnipresente polvere lunare.

A Jason piaceva fare esercizio e distogliere la mente dalle altre preoccu-pazioni. Sulla Terra andava spesso a correre quando si bloccava su un pro-getto; gli serviva per rimescolare i pensieri. Era come se il suo cervello tentasse di tenere il passo con gli esercizi del suo corpo.

Tutti alla base sapevano dove trovarlo in momenti come quello, anche se pochi altri usavano la pista in quel periodo. Avrebbe dovuto far presente che non potevano schivare gli esercizi obbligatori solo perché erano affa-scinati dagli studi di Erika sulle "nanobestiole". Due uomini stavano fa-

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cendo i pesi, un sistema di tiranti controbilanciato dalle rocce lunari; una donna pedalava sulla cyclette canticchiando assieme al CD che stava ascol-tando in cuffia.

Jason uscì dalla pista e si diresse verso gli armadietti. Aveva bisogno di una doccia, ma per il momento decise di strofinarsi soltanto con un asciu-gamano. L'acqua carbonata per la pulizia personale era razionata, ma le cose sarebbero cambiate una volta che la macchina mineraria di Cyndi Sa-lito avesse raggiunto la piena potenza. Avrebbe avuto ancora più bisogno di una doccia fredda dopo la conversazione che lo attendeva.

Era arrivato nuovamente il momento del colloquio settimanale. Aveva corso per diciassette chilometri, ma non poteva scappare da tutto.

Jason era in piedi nella cabina di conversazione privata con la porta chiusa e le finestre opache. Ogni membro della squadra aveva diritto a una chiamata a casa alla settimana, secondo un ruolino stabilito rigidamente dalla United Space Agency. Erano scoppiate delle risse perché qualcuno aveva tentato di usufruire di chiamate già in programma, quindi le regole non permettevano nessuna flessibilità tranne casi di eccezionale emergen-za.

Sfortunatamente per Jason, l'agenzia disapprovava altrettanto che qual-cuno saltasse le chiamate in programma. I membri di una squadra doveva-no tenere alto il morale della gente sulla Terra, così come di quella che era lì sulla Luna.

Jason deglutì mentre guardava il segnalatore di chiamata sul fondo dello schermo. Lampeggiò cinque volte prima che Margaret si prendesse la bri-ga di rispondere al telefono.

Jason sapeva cosa aspettarsi, ma aveva sempre una ridicola e ingenua speranza che lei sarebbe apparsa felice di vederlo, e che avrebbe iniziato la conversazione con un sorriso e un "Ciao Jason!" Immaginava che così fos-sero la maggior parte delle conversazioni con la Terra, anche se sapeva che molte relazioni a distanza erano estremamente tese. Molti matrimoni erano già saltati, compreso il suo.

Margaret aveva un'espressione corrucciata quando il suo volto fu messo a fuoco sullo schermo. Conosceva gli orari di chiamata altrettanto bene quanto lui, ma non era ancora riuscita a trovare il coraggio di non rispon-dere. L'avrebbe trovato presto.

«Posso parlare solo per un minuto» disse. I figli di Jason non erano entro l'emisfero focale. Margaret avrebbe do-

vuto averli lì, pronti a salutare il padre. Ora probabilmente gli avrebbe fat-

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to perdere parte del tempo a disposizione per radunarli. «Non riesci pro-prio a cominciare con un saluto, eh?»

Margaret fece un saluto sforzato. Bene, stava rendendo il tutto difficile. Jason decise di non stare al gioco

e di non arrabbiarsi con lei. «Dove sono i bambini?» Pausa. «Fuori.» «Posso almeno vedere i miei figli?» Pausa. «Vado a prenderli.» Le discussioni fra la Terra e la Luna avevano un equilibrio tutto loro,

pieno di esitazioni e di pause obbligate in cui se non altro si poteva tirare il respiro o raffreddare esclamazioni troppo irritate. L'immagine di Margaret si allontanò dallo schermo, lasciando Jason a contemplare l'ampio salotto interrato che aveva progettato personalmente. Aveva trascorso anni a pro-gettare lentamente una perfetta architettura per la sua casa. Era stata una specie di santuario per lui, anche se Margaret aveva cambiato molte delle sue cose preferite.

Si chiese se avrebbe mai rimesso piede a casa sua. Margaret aveva fatto domanda di divorzio. Sarebbe stata definitiva il

giorno in cui lui sarebbe tornato sulla Terra. Il giudice le avrebbe proba-bilmente concesso la casa e gli alimenti, in quantità sufficiente a mantene-re un piccolo paese del Terzo Mondo. A volte la Luna non era proprio ab-bastanza lontana.

La prima volta che aveva incontrato Margaret era stato durante un'inau-gurazione molto chic di un nuovo palazzo a New York. Il successo e i sol-di costringevano Jason a passare molto tempo a occuparsi di occasioni mondane di cui spesso avrebbe volentieri fatto a meno. Margaret, che pro-veniva da una famiglia borghese e ricca della città, ammirava il suo lavoro e la sua posizione sociale. Lei era stata abbastanza fredda, ma ciò nondi-meno Jason si era innamorato di lei. Margaret aveva insistito per fare un matrimonio imponente, avrebbe dovuto essere "l'evento sociale dell'anno", e ci era riuscita. Jason non si era mai preoccupato del prezzo delle cose, e aveva pensato che l'avrebbe resa felice, che sarebbe iniziato tutto con il piede giusto.

Jason era sempre stato un lavoratore a oltranza, Margaret lo sapeva e lui aveva sperato che Margaret sapesse cosa l'attendeva. Dava così tanta im-portanza al suo stile di vita alto borghese che Jason non aveva mai pensato che gli avrebbe rimproverato il tempo che impiegava per guadagnare uno stipendio adeguato. Forse era stato stupido a ignorare quella possibilità.

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Margaret non sembrava mai soddisfatta, neanche con una bambinaia che accudiva i bambini. Le aveva offerto ogni possibilità di fare quello che vo-leva, andare dove voleva, fare del volontariato, trovarsi un lavoro, frequen-tare corsi e riunioni. Tutto quello che voleva. Ma Margaret non sapeva mai quello che voleva, l'unica cosa di cui forse era certa era che voleva a tutti costi che lui la deludesse.

Sentì le voci dei bambini che arrivavano, e Margaret li spinse nel campo visivo. Gli aveva fatto perdere due minuti dei cinque a sua disposizione. Bel lavoro, Peggy! Margaret odiava che la chiamassero Peggy quanto lui odiava che lo chiamassero Jase.

Lacy afferrò il braccio di sua madre, mentre Lawrence teneva il muso; il ragazzo aveva un'espressione dura e protettiva. I gemelli avevano solo una vaga idea di chi fosse quell'uomo che li chiamava ogni settimana. I bambi-ni dimenticano in fretta. Per loro non esisteva nessun papà.

«Dite ciao a papà» disse Margaret facendogli cenno col capo. «Ciao» disse Lacy, poi distolse lo sguardo. Jason si ricordava di quando erano neonati e in ospedale li teneva in

braccio, incredulo. Sono i miei bambini! Sono il loro papà! Li abbiamo fat-ti completamente da soli? Ma non era un padre particolarmente bravo, e lo sapeva. Sempre via, sempre indaffarato, e da più di un anno era a un quar-to di milione di miglia lontano da loro.

Lawrence tirò la manica di sua madre. «Viene oggi Perry?» «Sì, tesoro. Vi porterà al parco.» Jason provò un colpo al petto, non per la sorpresa, ma perché era così

palese. Una strana assenza di intonazione nella voce di Lawrence gli fece sospettare che Margaret avesse istruito il bambino a recitare esattamente quelle parole. Era il suo modo di rigirare il coltello nella piaga attraverso lo spazio.

«Perry, eh?» Jason si stupì della freddezza della sua voce. «Bene. Perry e Peggy, suona proprio bene. O è soltanto un passatempo per tenerti occu-pata durante queste giornate lunghe e noiose in cui non hai voglia di fare nient'altro?»

Margaret gli rivolse uno sguardo d'odio e spinse i bambini fuori dal suo sguardo. «Stai zitto, Jase! Come osi dare dei giudizi! Dopo quello che hai fatto alla mia vita, a me? Non sono una vedova, e sono dannatamente stufa di vivere come se lo fossi.»

Nel ritardo di trasmissione iniziò a parlare prima che lei finisse la frase. «Dopo quello che ti ho fatto? Di che diavolo stai parlando?» Ora davvero

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era sorpreso. A cosa mai stava pensando Margaret? Come poteva rigirare la frittata e fare apparire le proprie debolezze come se lui ne fosse la cau-sa? Non avrebbero dovuto dividere la buona e la cattiva sorte?

Fuori campo, Lacy iniziò a piangere. Jason avrebbe voluto protendersi attraverso lo spazio e stringere a sé la sua bambina. Ma il tempo lo separa-va ormai quanto la distanza.

Il campanello della porta di Margaret risuonò a distanza. Jason aveva progettato il sistema in modo che il suono fioco del campanello si potesse udire da qualsiasi parte della casa. Adesso gli si rivoltava contro. Prima che Margaret potesse dire qualsiasi cosa contro di lui, il riquadro rosso ini-ziò ad apparire nella finestra di trasmissione, mentre i secondi rimanenti del tempo di trasmissione personale assegnatigli scadevano.

«Devo andare» disse lei. Jason decise che evidentemente si era accordata con Perry in modo che

lui arrivasse proprio mentre lui chiamava, per punzecchiarlo ancora di più. Non poteva essere casuale una sincronia così perfetta.

Margaret si passò una mano sui capelli. «Su questo non c'è da discutere. Puoi riscrivere la storia nel tuo cervello quanto ti pare. Per me non fa alcu-na differenza.» Si girò verso Lacy e Lawrence. «Salutate.» Poi si protese in avanti per spegnere il ricevitore, prima che i bambini riuscissero a pro-nunciare qualsiasi parola. Rimasto solo nella cabina, Jason sentì che stava tremando.

Alexandre Gustave Eiffel scrutò Jason dall'alto in basso da una raffigu-

razione olografica del muro del suo ufficio. Jason aveva sempre ammirato l'architetto francese per i suoi progetti di ponti e viadotti mozzafiato in Portogallo e in Francia, la cupola da primato di ottantaquattro metri del-l'osservatorio di Nizza, la struttura di metallo interna della statua della li-bertà... e naturalmente la monumentale torre di Parigi che portava il suo nome.

I successi non convenzionali di Eiffel avevano sempre ispirato la carrie-ra di Jason, soprattutto il modo in cui Eiffel aveva spinto al limite la sua conoscenza dei materiali e dimostrato come un progetto ben fatto potesse superare praticamente qualsiasi ostacolo. Jason aveva sicuramente bisogno di quell'ispirazione ora, se voleva fare qualche progresso nel decifrare la struttura di Dedalo.

Immergendosi nel lavoro, studiando il pericolo nanotecnologico, riuscì a liberarsi dal pensiero di Margaret, dei suoi bambini perduti, delle scelte

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che aveva fatto. Richiamò una simulazione della costruzione di Dedalo al centro della

sua olopiattaforma grigia. Era un'apparecchiatura progettata per digitaliz-zare lo schema di una costruzione a partire dal quale si potevano costruire modelli tridimensionali. Permetteva agli architetti di avere una visione si-multanea del modello mentre modificavano vari parametri. Ora Jason stava facendo fare al computer una sintesi di tutte le immagini della costruzione aliena, facendogli comporre una pianta dell'intero edificio al meglio delle sue possibilità.

Osservando la forma che cambiava sotto di lui, gli archi, i fili sottilissimi e le strutture di supporto, sperava di riuscire a capire di cosa si trattasse. Cosa stavano costruendo le nanobestiole? Stava usando la sua esperienza al contrario: invece di studiare un problema e concettualizzare una struttu-ra per risolverlo, doveva ricavare la costruzione del Lato Oscuro da una configurazione di linee e poi dedurre a cosa poteva servire.

Quei progetti non erano il frutto di una mente terrestre: presupponevano una gravità planetaria, un clima e una temperatura assolutamente insoliti. Devo solo fare un cambiamento paradigmatico. Semplice.

Jason Dvorak si era fatto un nome come architetto che rompeva le regole e imponeva uno stile, sin da quando aveva guadagnato il suo primo milio-ne di dollari a un'età in cui la maggior parte dei suoi coetanei doveva anco-ra laurearsi. Il marchio di Jason era stato l'utilizzo al massimo delle pro-prietà materiali di nuove leghe extraforti e di materiali esotici sviluppati con un processo microgravitazionale. Si trattava di materiali che altri ar-chitetti non avevano mai utilizzato se non per esperimenti, anche se le loro proprietà erano state esaurientemente studiate. Perché quindi non usarli?

Se il cemento poteva essere rinforzato con delle fibre di vetroresina, a-veva pensato, sostituendo la vetroresina con fibre di diamante prodotte nei laboratori orbitali si sarebbe ottenuto un cemento ancor più resistente ed elastico. Il "supercemento" di Jason si era dimostrato di una forza e di una flessibilità mai raggiunte prima, e aveva permesso la costruzione di forme e curve di grandissime dimensioni che mai prima di allora erano state pos-sibili. I contorni delle città erano cambiati, i palazzi non erano più legati alle forme convenzionali. Per lui l'Arco di Saint Louis e il Golden Gate, il ponte di San Francisco, erano banali esercizi.

Dopo cinque anni di fama e di riconoscimenti, Jason aveva assistito al-l'imitazione delle sue idee da parte di altri architetti, che perfezionavano i suoi progetti e i suoi palazzi innovativi. Naturalmente ne fu lusingato. A-

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veva comunque più lavoro di quanto mai sarebbe riuscito a eseguire di persona.

Ma Jason era più felice quando poteva sviluppare concetti nuovi e gioca-re con le idee. Intraprese progetti grandi e piccoli che catturavano la sua immaginazione, ma divenne sempre più insoddisfatto. Voleva qualcosa di diverso, una nuova sfida. Ottenne quel che voleva quando si offrì volonta-rio per riprogettare la base lunare Columbus.

A questo punto il pensiero ritornò a Margaret e ai suoi gemelli di tre an-ni. Si gelò di nuovo.

La figura di Lon Newellen occupò il vano della porta del cubicolo di Ja-son. Jason si scosse dalle sue fantasticherie, ma Newellen fissò la sua at-tenzione sul modello olografico che stava componendosi sull'olopiattafor-ma.

«Stai ancora guardando quella cosa?» disse indicando l'immagine col capo. «Be', alla fine ho trovato qualcosa che potrebbe aiutarci a tenerla meglio d'occhio, almeno al nanolivello.»

Jason notò che Newellen aveva in mano un aggeggio che sembrava un proiettore per diapositive vecchio modello, del tipo che era andato fuori produzione quando lui era ancora all'asilo. «Cos'è, Big Daddy?»

Newellen fece un passo in avanti, girando l'aggeggio che aveva in mano e guardandolo. «Questa qui è un'incredibile macchina fotografica. Un Mi-croscopio a Scansione Ottica e una trasmittente. Ne facciamo alcune doz-zine, le carichiamo sulle s'onde perforatrici e le spariamo una alla volta a distanza di qualche giorno nel bel mezzo della costruzione.»

Puntò la lente della sonda verso Jason. «La sonda perforatrice si abbatte sulla regolite infestata dalle nanobestiole. Il microscopio a scansione ottica della macchina fotografica qui spedisce le immagini fino a quando le na-nobestiole non lo disassemblano. Possiamo ricevere un'immagine tutte le volte che spariamo una sonda, e ne abbiamo a centinaia di perforatrici. Più ci avviciniamo al monitoraggio in tempo reale, e...» Puntò il dito verso Ja-son. «Così non corriamo nessun rischio di riportarci indietro dei campioni attivi. Devo confessare, Jase, che quelli là vivi su Simul-Marte mi rendono nervoso.»

Jason prese in mano la sonda fotografica e la rigirò. Era un incredibile pezzo di ingegneria fai da te. «Perché ti preoccupi di quei campioni? La dottoressa Trace è estremamente prudente, e lavora con delle squadre ter-restri telepresenti che controllano ogni mossa che fa.»

«Per quanto Erika sia prudente, queste cose sono furbe.» Indicò l'olo-

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gramma della costruzione per confermare il suo ragionamento. «Se succe-desse qualcosa non ci vorrà troppo tempo per scoprirlo. Avremo solo il tempo per dire "Ooooops!"»

«Capisco cosa vuoi dire, ma non so che altro fare. Celeste McConnell ci sta addosso perché scopriamo tutto quello che possiamo. Forse con le tue macchine fotografiche possiamo fare qualche progresso.»

«Va bene. Ne sto facendo fare un altro paio di dozzine. Domani spedia-mo la prima.» Newellen recuperò la sua telesonda e se ne andò.

L'immagine di Alexandre Eiffel diede un'occhiata di traverso a Jason, come per tentare di farlo concentrare sul problema che aveva sottomano. Perlomeno aveva smesso di pensare a Margaret. E ai suoi bambini.

Non riusciva a ignorare le domande che continuavano a tormentarlo an-che se tentava di non pensarci. Aveva mai amato davvero sua moglie? Si era sempre fatto assorbire dal lavoro, dal desiderio di raggiungere successi sempre maggiori. Gli si richiedeva da parte della società di essere "felice-mente sposato", di avere una fedele compagna che lo aiutasse a sopportare quei tediosi doveri, che si facesse carico di tutti quegli affari personali a cui lui non aveva il tempo di pensare.

Ma non aveva mai provato un'autentica passione per Margaret. Forse che la sua passione non era tutta dedicata al lavoro? Jason si riconosceva nel modo in cui Erika Trace si seppelliva nel lavoro che stava svolgendo. Nel suo subconscio l'aveva criticata per aver ignorato tutti quelli che sta-vano sulla base, per non aver dedicato del tempo a farsi degli amici. Ma nella sua vita sulla Terra non si era comportato molto diversamente.

Di nuovo al lavoro! Sembrava dire Alexandre Eiffel. Lavoro, lavoro... Sull'olopiattaforma era proiettata la miglior ricostruzione di cui il com-

puter fosse capace. Il pozzo nella parete del cratere non mostrava nessun dettaglio, solo un buco nero che scendeva sotto terra. Fuori, in un cerchio chiaramente delineato dal calore residuo, i materiali grezzi erano stati as-similati una molecola alla volta. Tre delle antenne a dipolo della matrice VLF erano state disassemblate. Ragnatele a diamante si estendevano fino alla regolite in filamenti tesi.

Estendendosi dal pozzo fino ai confini della zona calda, archi trasparenti ed estremamente incurvati si allargavano come petali del più grande fiore del sistema solare. Gli archi non erano dritti, ma si reclinavano formando un angolo di quarantadue gradi, sostenuti da travi di supporto fatti dello stesso materiale scintillante. Altri puntelli attraversavano l'area principale dei "petali", riempiendo gradualmente gli interstizi tra loro con materiale

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trasparente. Schiuma diamantifera? Era la migliore ipotesi che gli venisse in mente.

La struttura era cambiata moltissimo nell'ultimo mese, da quando Waite, Lasserman e Becky Snow erano morti subito dopo averla scoperta. Ma an-cora non riusciva a capire lo scopo o il disegno complessivo di quell'ogget-to.

«Dissolvenza lenta» mormorò, immettendo le immagini iniziali spedite dal veicolo lunare di Waite, facendo poi ricostruire all'olopiattaforma l'area di Dedalo così come era stato ripreso a distanza, giorno dopo giorno, dalle sonde successivamente spedite. Il risultato fu una ripresa al rallentatore che mostrava i cambiamenti che avvenivano mentre miliardi di nanomac-chine aliene assemblavano la struttura secondo la programmazione ricevu-ta. I petali si estendevano, gli archi si formavano, la sovrastruttura che cir-condava il pozzo prendeva forma.

Jason provò a immaginare cosa potesse essere quella cosa, cosa potesse-ro voler rappresentare i componenti. Avrebbe potuto imparare molto sui costruttori extraterrestri se solo fosse riuscito a spiegare la natura di quel-l'oggetto. Avrebbe potuto ipotizzare quanto alta era la razza aliena, qualco-sa sulla gravità del loro pianeta, sulle risorse che vi erano presenti, per non parlare di un po' del loro punto di vista. Ma non aveva alcuna immagine definitiva, solo schizzi. E Alexandre Gustave Eiffel non gli offriva nessuno spunto.

Jason lasciò vagare la mente facendo delle libere associazioni per vedere se riusciva a ricavarne qualcosa. Era come se stesse cercando di identifica-re un oggetto visibile a malapena con la coda dell'occhio.

Aveva fatto eseguire al computer delle simulazioni CAD, chiedendogli di proiettare quella che sarebbe stata la struttura. Nessun risultato. Non a-veva immaginazione a sufficienza per capirlo da solo, e il computer ne a-veva ancora meno.

Jason sospirò, passando la mano attraverso l'immagine senza sostanza per disfarsene, poi spense l'olopiattaforma. Appoggiò i gomiti sul piano della piattaforma e fissò la parete.

Lo scenario immaginato da Parvu e Trace gli sembrava probabile, con gli alieni che spedivano un contingente di nanotecnologia quasi alla veloci-tà della luce per costruire una specie di avamposto, ma tutto ciò non gli era di molto aiuto. Anche se la spiegazione fosse stata valida, lo scopo di quel-la cosa rimaneva un mistero. Tutto quell'apparato, l'enorme struttura, tutte le risorse usate gli sembravano un po' troppo per un semplice viaggio di ri-

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cognizione. Una forza di invasione? Una specie di fortezza in attesa del-l'arrivò di macronavi spaziali? Jason non lo sapeva e aveva bisogno di sco-prirlo. Tutta la Terra aveva bisogno di scoprirlo.

13.

Simul-Marte

Mantenere per ore la concentrazione sulle nanomacchine era come guar-

dare un falò. Erika Trace era affascinata da quello che vedeva. Si strofinò gli occhi e aspirò profondamente l'aria di Simul-Marte, curvandosi sopra lo schermo. Le spalle erano irrigidite e le dolevano, ma il problema che stava affrontando teneva i pensieri estranei lontani dalla sua mente: doveva capi-re perché era avvenuto quel cambiamento.

Jordan sarebbe rimasto meravigliato se avesse potuto vedere di persona le nanobestiole aliene. Erika avrebbe voluto che fosse lì in quel momento. Erano alcuni giorni che non si metteva in contatto con la base lunare, ma aveva qualche idea e sapeva che a volte le idee dovevano rimanere in in-cubazione per settimane prima di manifestarsi con chiarezza.

Erika continuò a lavorare sui suoi studi. Non si sentiva più vicina di prima a capire che cosa stessero costruendo le nanomacchine, ma sul loro conto aveva scoperto molte cose.

Ingrandite sulle schermo oloscopico di Simul-Marte, gli automi dalle strane forme vibravano di energia interna. Le bestiole aliene erano versatili e adattabili, proprio come nelle congetture futuribili di Parvu. Cure per il cancro, immortalità, megacostruzioni, supermicrocomputer; tutto quello che la gente aveva ritenuto essere frutto dell'immaginazione più sfrenata quando si era iniziato a parlare di nanomacchine. Erika si chiedeva cosa avrebbero detto ora queste persone.

Le nanobestiole sfrecciavano nel suo campo visivo, cambiando casual-mente direzione. Ogni macchina era lunga, contorta e bitorzoluta. Non riu-sciva a cogliere le differenze più minute perché stava conducendo l'osser-vazione sulla scala di Heisenberg: i fotoni a raggi x che disperdevano gli automi causavano una distorsione della loro superficie.

Ogni macchina aveva su di sé un filo di molecole, come formiche che portassero pezzettini di terra per costruirsi la casa. Le nanobestiole non u-savano appendici; in qualche modo erano collegate al filo in modo da por-tarlo in giro. Altre della stessa fattezza, della stessa specie - la parola che meglio descriveva quello che Erika vedeva - collegavano i fili a una qual-

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che costruzione che solo loro capivano. Le inverosimilmente piccole e incredibilmente efficienti sottostazioni di

controllo contenevano la programmazione completa, il grandioso piano della missione sulla Luna. Piccoli Programmatori o Messaggeri andavano velocemente da Assemblatore ad Assemblatore, portando il pezzo succes-sivo di istruzioni. Squadre di congegni che sembravano avere la funzione di controllori della qualità si portavano sul luogo del lavoro per accertarsi che tutto fosse sistemato alla perfezione, molecola dopo molecola. Altre nanomacchine, identiche nella forma ma senza alcuno scopo percepibile, stavano ferme.

Big Daddy Newellen aveva fino a quel momento lanciato due delle sue supermacchine fotografiche sulla regolite che circondava la costruzione. Entrambe avevano trasmesso immagini incredibilmente dettagliate delle nanobestiole per tre minuti prima che i Disassemblatori smontassero tutti i componenti.

Ma ora, mentre continuava a studiare i campioni vivi che teneva nella camera blindata di isolamento di Simul-Marte, Erika stava notando una grossa differenza rispetto alle immagini inviate dalle supersonde.

All'interno di Simul-Marte tutti i Disassemblatori erano spariti. Ritrasse minimamente i microwaldo e provò a rimettere a fuoco il suo

campo di osservazione. La visione del microscopio a scansione ottica in-dietreggiò, dandole l'impressione che fosse lei a buttarsi indietro. Ancora nessuna traccia.

Che avessero esaurito tutte le molecole utilizzabili nel campione di rego-lite? Che una volta terminate le risorse disponibili i Disassemblatori si di-sattivassero? Che i Programmatori si tramutassero in un altro tipo? Erano tutte ipotesi assurde.

Erika scostò la testa dallo schermo e si strofinò gli occhi. Si era ricordata di mangiare uno snack qualche ora prima, ma non era stato sufficiente. Newellen continuava a offrirsi di venire a Simul-Marte a tenerle compa-gnia, ma Erika voleva solo lavorare. Focalizzò di nuovo l'attenzione sulle nanobestiole. Prima fosse riuscita a capire di che si trattasse e prima sareb-be riuscita ad andare a casa.

A dieci metri di distanza nel nanonucleo protetto si trovata il campione di regolite, ancora circondato da strati di uranio impoverito. Erika sapeva che era solo questione di tempo prima che le nanobestiole provassero a di-sassemblare il contenitore - se mai i Disassemblatori fossero riapparsi. An-che se non avevano abbastanza materiale per replicarsi, niente avrebbe im-

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pedito alle nanobestiole di scavare una galleria attraverso il contenitore... se avessero deciso di scappare. Nessuna delle loro misure protettive sareb-be riuscita a fermarle.

Erika gettò uno sguardo all'orologio a muro; non riusciva a concentrarsi molto facilmente. Ancora poche ore e avrebbe raggiunto il tempo limite di sterilizzazione. Dove erano finiti i Disassemblatori?

Sperava che Jason Dvorak fosse pronto a fornire un altro esemplare. Da-to che le cose cambiavano così in fretta, voleva trovare un po' di risposte prima che potessero cambiare le domande!

Cosa era successo a Simul-Marte che aveva fatto disattivare i Disassem-blatori? Nel campione ora si vedevano solo nanomacchine costruttrici, che utilizzavano i pezzi già smembrati dai Disassemblatori. Ma le immagini dalla supersonda mostravano che nel Lato Oscuro i Disassemblatori erano ancora attivamente al lavoro. Che avesse commesso un errore durante le procedure di analisi?

Strinse gli occhi. Due giorni senza mai dormire veramente. Era stata stupida, avrebbe dovuto prendersi più cura di se stessa. Sotto le sue palpe-bre socchiuse, le luci del laboratorio si confondevano in una danza di colo-ri. Il sonno la sopraffece come un'ondata riempiendole la mente di forme strane. Credette di intravedere la superficie di un Assemblatore...

Si riposò solamente per pochi minuti prima di costringersi a riaprire gli occhi. Malgrado la gravità ridotta era così sfinita che dovette fare uno sforzo per drizzarsi in piedi. Parvu l'avrebbe rimproverata se avesse saputo che lavorava in tali condizioni fisiche e mentali. Non poteva ottenere risul-tati affidabili lavorando in quel modo.

Giù al LIN, Parvu avrebbe preparato un po' del suo tè incredibilmente potente che li avrebbe tenuti svegli per ore. Lì aveva accesso solo a del cattivo simil-caffè liofilizzato. Be', forse se avesse messo due bustine inve-ce di una...

Non aveva il tempo per completare un'altra serie di test, ma abbastanza per dirigere la connessione ottica di Simul-Marte verso la Terra e fare una chiamata. Diede una rapida occhiata al pannello di controllo. Il lato positi-vo dell'essere sulla Luna era che poteva contattare la maggior parte dei po-sti sull'Antartide ventiquattro ore al giorno.

L'immagine di Parvu di fronte a lei si appoggiò allo schienale della sedia

e tamburellò con le dita sui denti. Anche se il LIN si trovava a più di quat-trocentomila chilometri di distanza, quasi sentiva l'odore del suo dopobar-

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ba, che aveva il nome di un qualche mare ventoso; non le era mai piaciuto, ma ora ci pensava con affetto. Tutta l'aria sulla Luna era artificiale e puz-zava di carbone a causa dell'onnipresente polvere lunare.

Parvu parlava così sottovoce che dovette sporgersi in avanti per sentire le sue parole. Sembrava molto contento di vederla. «Molto interessante, Erika» disse Parvu. «Quindi credi che tutti i Disassemblatori siano spari-ti?»

Erika si chiese se non le fosse sfuggito qualcosa che lui sicuramente a-vrebbe notato. «Ho usato tutte le tecniche di ricerca senza successo. Ho fatto la simulazione Monte Carlo fino a sette sigma. Ho scoperto un sacco di altri tipi di macchine, Assemblatori, Controllori, Programmatori, Con-trollori di qualità, qualsiasi cosa ti possa venire in mente. Jordan, è solo che non ha senso. I Disassemblatori sono molto particolari, e sembra come se si fossero nascosti.»

«Non potrebbero semplicemente aver modificato la loro forma? Che i Programmatori abbiano trasformato i Disassemblatori in Assemblatori?»

Erika scosse la testa. Ci aveva pensato fin troppe volte. «Ho identificato i ruoli delle specie di nanobestiole, e non hanno subito la minima devia-zione. Ogni macchina, una volta etichettata, non ha mai cambiato compor-tamento.»

Parvu sembrò perplesso, e fece una pausa più lunga dei due secondi ri-chiesti dal salto spazio-temporale. «Erika, tu sei senz'altro la persona mag-giormente qualificata per questo compito. Ho guardato i tuoi rapporti arri-vati nelle ultime quarantotto ore. Un lavoro straordinario.»

Erika non riuscì a fare a meno di sorridere. In tutti gli anni che aveva la-vorato con quell'uomo, era sempre riuscito a vedere un aspetto positivo in ogni situazione negativa. Le aveva sempre dato motivazione e incoraggia-mento in misura giusta al momento giusto.

«Ho fatto delle analisi dei dati che hai spedito, e mi sembra che tu abbia proprio ragione» proseguì Parvu. «Non c'è niente che ricordi neanche da lontano i Disassemblatori che abbiamo osservato prima. Sembrerebbe che qualcosa li abbia spenti, forse per essere smantellati a loro volta. Che il campione di regolite abbia finito le molecole utili, e che quindi i Disas-semblatori siano stati, per così dire, "scaricati"?»

Erika sospirò e lo guardò attraverso la profondità dello spazio. «Non ho più il tempo né gli strumenti per fare altro, Jordan. Devo sterilizzare il campione fra un'ora. E questo laboratorio non ha gli strumenti diagnostici per scoprire tutti i dettagli. È come se stessi tentando di riparare un super-

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computer con le parti di un meccano.» Parvu aspettò due secondi, poi sorrise. «Quindi come proponi di risolve-

re questa difficoltà?» Per lui qualsiasi difficoltà era un problema da risol-vere.

Erika rimase a lungo in silenzio. Era quello il nodo centrale, quello che aveva avuto paura di tirare fuori prima. Si era ormai lasciata alle spalle il timore di ammettere pubblicamente la sconfitta. Non le importava più quello che potevano pensare gli altri. Anche Parvu aveva sbattuto la testa contro il muro in passato; avrebbe capito la scelta di fare un passo indietro, per poi ripartire a mente fresca, meglio preparati, con aspettative più reali-stiche.

«Ho bisogno di attrezzature migliori. Altra gente. Alla fine tutto dipende dall'agenzia, se ha davvero intenzione di svelare questo mistero. Qualun-que cosa si riveli essere la nanotecnologia, non c'è modo di scoprire vera-mente a cosa serve se non riesco ad avere a disposizione degli strumenti diagnostici più sofisticati» disse Erika.

«Tipo?» Parvu stava ancora ascoltando attentamente; buon segno. Iniziò a contare sulla punta delle dita. «Raggi laser gamma per potere

avere un'olografia tridimensionale completa. Accesso a un gigaprocessore per ottenere una simulazione più realistica in tempo reale. E un'attrezzatura adeguata per riprodurre quello che abbiamo scoperto finora non sarebbe male, non credi? E se avessi un aiutante...»

Parvu sollevò una mano. «Sì, capisco cosa vuoi dire. So cosa vuol dire lavorare senza nessun assistente, specialmente ora, va bene?»

Con la mano Erika si tirò indietro i capelli. Le parole le uscirono in fret-ta, ma non voleva che suonasse come una supplica. «Puoi fare in modo di farmi tornare sulla Terra?» Le ragioni che gli aveva elencato prima sem-bravano ora delle futili scuse. «Se riesco a trovare un po' di gente e degli strumenti diagnostici più sofisticati da portarmi dietro, sono sicura che riu-scirò a fare un'analisi migliore.»

«Perché devi ritornare sulla Terra? Costa molto far viaggiare la gente avanti e indietro.»

«Non questa volta. Hanno integrato la navetta di rifornimento che va sulla Collins. Posso scroccare un passaggio come merce da uno dei veicoli di trasferimento giapponesi fino all'orbita inferiore della Terra. Ho già con-trollato. Una specie di ritorno gratis. Inoltre, sarebbe molto meglio se po-tessi scegliere di persona l'attrezzatura... e il personale.»

Parvu ci pensò sopra un po', poi sorrise. Sembrava che volesse sincera-

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mente che lei tornasse a casa, ma aveva delle remore. «Le tue richieste sembrano abbastanza ragionevoli. Io avrei chiesto le stesse cose. Ma prima che tutto sia pronto, spedito sulla Luna e sistemato su Simul-Marte sarà passato un mese. La costruzione aliena potrebbe essere quasi finita per al-lora, alla velocità con cui sta procedendo ora.»

Erika concordò. Ci aveva pensato anche lei. «Possiamo immaginare cosa potrebbe accadere a Dedalo, ma non abbiamo idea di cosa sia, quindi non possiamo prevedere quando sarà finito. Ma - e questo è importante - sem-bra che niente faccia supporre che le nanobestiole si stanno espandendo ol-tre un raggio di tre chilometri. Stanno diligentemente lavorando al loro piccolo progetto. Alla squadra esplorativa è solamente successo di essere nel posto sbagliato nel momento sbagliato.»

Parvu aspetto più a lungo dei due secondi consueti prima di rispondere. «Se è necessario tutto questo tempo, dovremo prendercelo. Provvederò af-finché la direttrice ti faccia ritornare a casa. Temporaneamente. Per prepa-rare tutto per il viaggio di ritorno con una squadra completa di ricercatori.»

«Grazie...» «Non prometto che la direttrice sarà d'accordo. Ma se il loro viaggio di

rifornimento coincide con il tuo ritorno, non vedo perché dovrebbero es-serci dei problemi.»

Erika annuì, e già sentiva l'eccitazione che la rianimava. «Mi piacerebbe andare a Stanford quando ritorno, e vedere la Compton-Reasor e gli altri che lavorano con lei. Mi aiuterà a prepararmi per tornare al LIN.» Esitò un attimo. «E passare anche dal MIT, naturalmente, passare un po' di tempo ai laboratori Drexler.» Si fermò un attimo a pensare. «Lo sai, sono stata sbat-tuta quassù così in fretta che non ho avuto veramente il tempo di prepa-rarmi, di passare un po' di tempo nei laboratori, di parlare con qualche ri-cercatore. Lo sai bene anche tu che una consultazione via olovideo non è la stessa cosa che incontrarsi faccia a faccia, interagire. E le sole persone con cui ho parlato sono stati dei responsabili della ricerca. Ho bisogno di parla-re un po' con le api operaie, e non solo a distanza.»

Parvu assentì. «Sì, lo so, Erika. Gli assistenti di ricerca sono quelli che di solito fanno dei passi avanti.» Sorrise di nuovo. «È questa la vera ragio-ne per cui ho mandato te sulla Luna invece di andarci io.»

Erika mosse la mano sopra il pannello luminoso. L'olovideo lampeggiò;

il ricevitore sul Winnebago di Newellen era già aperto. Vide la sua nuca, e sullo sfondo appena visibile un tavolino portatile ricoperto di confezioni di

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cibo aperte. Sembrava che Big Daddy fosse stato lì seduto per tutto il tem-po, a mangiare e aspettare una sua chiamata.

«Big Daddy?» disse Erika. Newellen ruotò la sedia. Aveva gli occhi gonfi, come se neanche lui a-

vesse dormito. Erika si chiese se fosse nervoso per il fatto di aspettare così vicino alle nanomacchine. Newellen diede uno sguardo a qualcosa che si trovava al di fuori del raggio visivo dell'olovideo. «Già finito?»

«No.» «Avevi un'altra mezzora prima che ti avvertissi...» «Lo so. Ho fatto quello che potevo con questo campione. L'ordine di ste-

rilizzazione, lo sai. Non c'è stato abbastanza tempo per fare i test più im-portanti.»

Newellen si raddrizzò sulla sedia. «Sembri stanca. Posso venire a prenderti subito. Puoi dormire un po'

mentre vanno a prendere un altro campione.» Erika scosse la testa. «Ti prego di avvertire il signor Dvorak che ritorno

a Columbus. Per ora non c'è alcun bisogno di prendere un altro campione.» «Ma devi continuare a lavorarci, signora mia. E se questi affari si stesse-

ro già aprendo la strada a morsi attraverso la Luna?» Erika inspirò profondamente e cercò di trattenersi dall'alzare la voce.

«C'è stato un cambiamento nei piani. Ti prego solo di venire a prendermi.» Newellen scrollò le spalle. «Va bene. Non sono affari miei.» Si mosse in

avanti per spegnere l'olovideo. Alcuni secondi dopo Erika stava guardando una massa di puntini grigioverdi che volteggiavano nell'interferenza.

Quando Celeste McConnell acconsentì alla richiesta - dopo averne di-

scusso a lungo con Jordan Parvu - Jason Dvorak non aveva sollevato obie-zioni. A Erika era davvero costato molto lasciarsi la base alle spalle, ma Dvorak si era prodotto in uno spettacolo abbastanza imbarazzante nel rin-graziarla per i suoi sforzi.

Tutto il resto delle attività sulla base sembrava ruotare attorno al suo la-voro, come se l'equipaggio si attendesse da lei una grazia o una sentenza di morte. In un certo senso capiva che non volevano che abbandonasse il campo, anche se provvisoriamente. Avevano il pericolo sotto casa; era come se la costruzione aliena fosse apparsa sui campi di polo di casa sua ad Aiken, nella Carolina del Sud.

Erika osservò la superficie lunare che si rimpiccioliva sullo schermo piatto. Le pareva che la trazione dell'accelerazione fosse maggiore di quel-

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la che ricordava nel viaggio di appena tre settimane prima. Che il mio cor-po si stia già abituando alla gravità più bassa? si chiese. L'avrebbero sot-toposta a una serie completa di test sulla Collins prima di lasciarla salire a bordo del Rising Sun per il viaggio di ritorno. Non si aspettava di sentire i cambiamenti all'interno del proprio corpo in modo così chiaro. Quanto tempo sarebbe dovuto passare prima che il suo corpo subisse una seria al-terazione?

La stazione medica sulla Collins avrebbe catalogato molto dettagliata-mente le sue caratteristiche metaboliche e le avrebbe incluse fra i dati sullo studio del corpo umano in bassa e microgravità. L'acclimatazione alla bas-sa gravità aveva effetti diversi su persone diverse; e alcune di loro avreb-bero potuto avere dei problemi perfino nel ritorno sulla Terra. Erika non voleva essere una di queste. Pensò a Big Daddy Newellen, alla difficoltà che avrebbe avuto a trasportare in giro il suo corpaccione in una gravità sei volte superiore a quella a cui si era abituato.

Anche se teneva la mente occupata con altre cose, il viaggio della navi-cella sembrava durare all'infinito. Bryan Z. era stato in silenzio durante il lancio; non molto era cambiato da quando l'aveva fatta atterrare alcune set-timane prima.

Le pareti all'interno del veicolo lunare erano coperte con un isolante ar-genteo. Una foto della moglie di Bryan era attaccata al quadro di comando centrale. A parte il pannello di controllo e i sedili di accelerazione, il vei-colo non offriva molto. Sembrava ancora più spartano del laboratorio di Simul-Marte, o degli alloggi lunari.

Poi l'accelerazione cessò. Zimmerman condusse una serie di controlli e li comunicò asciuttamente alla Collins con voce monotona e cadaverica. Non si voltò per controllare la sua passeggera. Passò dall'immagine sullo schermo piatto che riproduceva la superficie lunare che si allontanava a u-n'immagine ingrandita della stazione di L-1. Erika iniziò a slacciare le cin-ture e infine se ne liberò. Si avvicinò al pilota silenzioso inciampando nella parete di sostegno.

«Bella visuale. Quanto manca prima che lasciamo l'orbita?» Zimmerman grugnì. «Non facciamo un'orbita intorno alla Luna. Facendo

scalo su L-1 possiamo prendere una traiettoria diretta da qualunque punto della superficie.»

«Oh» disse Erika, sorpresa che Zimmerman avesse risposto con più di due sillabe.

Poi Erika lanciò una rapida occhiata alla stazione di rifornimento davanti

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a loro. La Collins era al centro dello schermo, immobile. Sembrava una matassa di cilindri tenuti saldamente insieme da un'impalcatura di metallo. Due navicelle affusolate erano agganciate all'estremità di uno dei cilindri; all'altra estremità c'erano tre rimorchiatori Hitachi, di ritorno dal loro viag-gio sull'orbita terrestre inferiore.

L'aggancio fu più dolce di quello che ricordava. A parte una leggera scossa e i grafici del computer che mostravano la loro traiettoria, capì che erano arrivati solamente quando Zimmerman iniziò a dettare il suo rappor-to finale al dittafono portatile.

Erika si alzò dal suo sedile. Con una leggera rotazione colpì con un pie-de la porta di pressurizzazione e aspettò che si aprisse. Zimmerman finì il suo rapporto, spense con un veloce colpo della mano gli interruttori delle poche luci rimaste a lampeggiare sul pannello e la raggiunse nella camera pressurizzata. Le diede un'altra veloce occhiata ma rimase silenzioso. Eri-ka non aveva idea di cosa stesse pensando; forse Bryan Z. durante i voli riusciva in qualche modo a eliminare tutti i pensieri irrilevanti, comprese le conversazioni con i passeggeri.

Erika sollevò distrattamente una mano per tirarsi indietro i capelli e rac-coglierli in una coda di cavallo; non voleva che le volassero in faccia. Mentre tirava indietro la mano, notò il suo riflesso in uno specchio posto vicino alla camera di pressurizzazione, per permettere al personale della stazione di guardare dentro il veicolo. La sua faccia era gonfia e piena; in mancanza di peso i fluidi corporei si erano ridistribuiti all'interno del cor-po. Sembrava ingrassata di dieci chili.

Una rapida occhiata al petto mostrò che anche i seni si erano gonfiati. A confronto del suo aspetto sulla Terra, perfino sulla Luna, in quel momento avrebbe probabilmente potuto indossare una quinta misura! Forse era per questo che Zimmerman continuava a lanciarle delle occhiate.

Mentre si apriva la porta della camera di pressurizzazione, Erika si chie-se da quanto tempo Zimmerman pilotasse la navicella, e se fosse davvero privo di emozioni come sembrava. Forse teneva tutta la sua passione sotto controllo e la liberava solo quando era a casa. O forse non ne aveva affatto.

Bernard Chu li aspettava dentro la stazione. Erika si slanciò in avanti per incontrarlo, e lui la prese per un braccio. Girarono lentamente intorno, co-me in una danza.

«Dottoressa Trace, bentornata. Peccato che le circostanze non siano mi-gliori. Devo scusarmi personalmente per non avere fornito di attrezzature adeguate il laboratorio di Simul-Marte. Quando ero comandante della base

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lunare, avevamo previsto che non lo avremmo utilizzato per altri due an-ni.»

«Sono stata fortunata ad avere l'attrezzatura che c'era» disse Erika. Spingendo i piedi contro la parete Chu si allontanò lungo il corridoio.

Fluttuarono fino a un cilindro di acciaio levigato. Cartelli posti a poca di-stanza l'uno dall'altro indicavano navette di salvataggio e calotte d'aria da utilizzare nel caso di decompressione improvvisa. Erika seguiva i movi-menti di Chu che continuava a tenerla per un braccio perché non perdesse l'equilibrio.

«Abbiamo saputo che non è riuscita a scoprire perché le nanomacchine hanno smesso di disassemblare, e nemmeno cosa stanno costruendo.»

Sentì che stava di nuovo mettendosi sulla difensiva. «Be', signor Chu, in realtà ho fatto qualche progresso. Non credo che si trattasse di scoprire tut-to quello che riguarda gli automi alieni. Dopo tutto, quanto ne sappiamo delle nostre nanomacchine sperimentali? Non proprio moltissimo.»

Chu si allontanò con una spinta dalla parete laterale, in modo che en-trambi si diressero verso un passaggio di collegamento. Poi sorrise. «Non intendevo mettere in dubbio la sua abilità, dottoressa Trace. E a proposito, ho fatto un dottorato anch'io. In microbiologia.»

«Mi dispiace, dottor Chu. Non mi importa molto dei titoli, e comunque nessuno crede che io abbia fatto un dottorato. Sembro troppo giovane e parlo come una contadinotta del Sud. Ma non si preoccupi, non mi ha offe-sa. È solo che... be', tutti sulla Terra si aspettavano che risolvessi tutti i mi-steri da sola in pochi giorni.»

Chu annuì e continuò a ondeggiare. «Ah, sì, sembra che la gente si a-spetti che la scienza possa fare dei miracoli senza lavorarci sopra! O senza ricevere alcun finanziamento!»

Chu allungò la mano e afferrò una maniglia per fermarsi. Poi le fece se-gno di entrare per prima nella stanza. «Penso che abbia ragione, ma quan-do si ha a che fare con qualcosa di così strano bisogna accelerare i tempi di scoperta.»

«Sto facendo il meglio che posso. Pensi alla ricerca sull'AIDS, a quanto tempo e soldi ci hanno buttato dentro, e a quanto tempo gli ci è voluto per trovare una risposta. Ci sono troppi film con scienziati brillanti che si grat-tano la testa e scribacchiano sulla lavagna prima di salvare il mondo per pranzo.»

Chu sollevò un sopracciglio. «E davvero crede che rischiare la vita di al-tra gente nel laboratorio di Simul-Marte possa servire a qualcosa?»

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Erika inspirò profondamente per evitare di arrabbiarsi. «Con l'attrezzatu-ra che c'è su Simul-Marte, un ricercatore era la soluzione ottimale. Adesso abbiamo capito che ci servono più attrezzatura e più personale. Spero di poter ritornare con una buona squadra.»

E Jordan Parvu sarà uno di loro, accidenti, pensò. Mi ci ha messo lui in questa storia,

«Faremo tutto quello che è necessario per assisterla» disse Chu. «E que-sto significa anche che faremo i muli da soma per sistemare la vostra at-trezzatura quando arriverà dalla Terra.»

Erika notò per la prima volta dove l'aveva portata Chu. Sembrava una piccola infermeria. Indumenti medici pendevano dalle reti; una cassetta at-taccata alla parete più lontana conteneva tre file di bisturi; altre scatole con su scritto SCORTA DI FARMACI erano agganciate lungo le pareti; un o-loscopio riempiva la parte destra della stanza, probabilmente per assistenza chirurgica in tempo reale. Un sedile di accelerazione riadattato, completo di cinghie, serviva da lettino operatorio.

Gli occhi di Erika si allargarono. «Pare che abbiate messo su un vero e proprio centro medico qui.»

«Celeste McConnell colpisce ancora» disse Chu con un sorriso. «È stato l'osso che mi hanno dato quando mi hanno trasferito qui dalla base.» Le fece segno di accomodarsi sul sedile di accelerazione. «Come le ho detto, il mio campo è la biochimica. Oltre a servire come stazione di trasferimen-to e deposito per i rifornimenti, la Collins dovrebbe funzionare come cen-tro di ricerca scientifica. Ricorda i test condotti su di lei prima che lascias-se Star City?»

Erika annuì. Era stata l'ultima cosa che avevano fatto prima che salisse a bordo del veicolo dell'Aeroflot per Mosca, e poi di nuovo per gli Stati Uni-ti.

«Ora che sta per rimettere piede sulla Terra, dobbiamo calibrare i suoi organi corporei prima che ritorni in gravità completa. Abbiamo sangue, fe-ci, urina, capelli, pelle e più o meno un campione di qualsiasi cosa riesca a immaginare di chiunque sia stato sulla Luna. Finché non avremo una ban-ca dati statistica significativa, non potremo mai prevedere accuratamente come un essere umano reagirà a una lunga esposizione alla bassa gravità e a un ambiente altamente radioattivo. Lei è stata sulla Luna solamente per poco, ma dobbiamo comunque verificare quale cambiamento questi pochi giorni hanno prodotto sul suo metabolismo.»

Erika vide che Chu tirava fuori un ago. Si arrotolò la manica della tuta

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da astronauta e guardò dall'altra parte. «Le è andata bene» disse Chu pre-levandole con noncuranza il campione di sangue. «Se fosse stata un uomo, avremmo dovuto farle alcuni test supplementari.»

Due ore prima dell'arrivo del Rising Sun, che doveva prelevare Erika e

altra merce per portarli sulla Terra, Bernard Chu la chiamò nell'infermeria, da sola. Erika fu turbata dal vedere quanto era invecchiato, l'aveva visto l'ultima volta due ore prima.

Chu chiuse ermeticamente la porta dietro di lei. «Dottor Chu?» Sembrò che passasse un minuto prima che Chu si girasse verso di lei.

«Erika... volevo che fosse la prima a vedere, io... spero solo di avere male interpretato una cosa. Ma non vedo come.»

Un brivido corse lungo la schiena di Erika. Non era questo il modo in cui i medici dicevano ai pazienti che stavano morendo di una malattia in-curabile? Confusa, scosse la testa. «Di cosa sta parlando?»

Chu sembrava rassegnato al fallimento. Le spalle erano e il volto sem-brava grigio cenere. Allungò debolmente il braccio verso lo stereomicro-scopio. «Là. Vada, dia un'occhiata. Per lei non dovrebbero essere necessa-rie spiegazioni.»

Erika aggrottò le sopracciglia. Fluttuò lentamente verso il microscopio binoculare. Era abituata a lavorare con i microwaldo, a vedere i campioni con l'aiuto di un'olocisterna, e sperava di riuscire a scorgere quello che vo-leva farle vedere Chu.

Diede una rapida occhiata nel microscopio. Immediatamente riconobbe le cellule bianche e rosse del sangue, che si urtavano le une con le altre nel video. Iniziò a ritrarsi quando qualcosa colpì la sua attenzione ai limiti del campo visivo. Ingrandì al massimo e guardò intensamente...

Nel campo visivo c'erano i segni inconfondibili di quello che aveva os-servato sulla Luna, quello che aveva guardato per ore e ore, finché non a-veva deciso di desistere e di ritornare sulla Terra in cerca di rinforzi...

Mischiate al campione di sangue c'erano migliaia e migliaia di nano-macchine, gli stessi automi alieni che stavano innalzando una gigantesca costruzione sul Lato Oscuro della Luna.

E stavano nuotando dentro del sangue umano. Si ritrasse inorridita. Chu scosse lentamente la testa. «Mi dispiace. Mi...

dispiace davvero. Non so che cosa fare.» Gli occhi di Erika si allargarono. «Questo... è il mio sangue?»

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Chu alzò il capo e sussurrò: «No. Per questo le ho chiesto di verificare quello che avevo trovato».

Si lasciò andare come se volesse buttarsi pesantemente a sedere, ma la microgravità continuò a farlo fluttuare. Erika notò che gli tremavano le mani. Chu la guardò e parlò.

«Vede, questo è il mio sangue. Un nuovo campione, prelevato alcuni minuti fa.» Deglutì con forza. «Il suo sangue ha lo stesso aspetto. E se ho ragione, tutti sulla Collins hanno queste cose aliene dentro le vene.»

14.

Washington D.C. Celeste McConnell si destò da un incubo allo squillo insistente del tele-

fono. Si scosse dal sonno e scivolò per metà fuori dal letto. Mentre cercava a tastoni l'apparecchio, si accorse che era lo Stu-5, il suo telefono riservato.

Riordinò i pensieri, cercando di concentrarsi e di scrollarsi di dosso il torpore. Dei brutti sogni l'avevano già avvertita di quanto fosse stata im-portante quella chiamata. Molto sarebbe dipeso da quanto sveglia e perspi-cace sarebbe riuscita a essere.

I suoi due cani, Chuck e Yeager - un labrador nero e un pastore tedesco - si alzarono dai piedi del letto, ringhiando, pronti a difenderla da qualsiasi intruso. Li zittì e accese il canale "solo video-ricezione"; niente immagini in uscita quella notte.

Era ansiosa e impaziente di vedere chi era, di scoprire quello che gli in-cubi le avevano preannunciato. Almeno avrebbe smesso di arrovellarsi, anche se non sapeva come affrontare la situazione.

Celeste si ravviò i capelli con le dita per allontanarli dagli occhi. «Pron-to?»

«Celeste?» Apparve la faccia di Bernard Chu. La chiamata veniva da un allacciamento provvisorio con la Collins.

«Bernard! Per quale ragione stai chiamando?» Si ricordò la scena di Chu che saliva freneticamente a carponi nella ca-

mera stagna del Modulo 4 della Grissom, sapendo che il tempo a loro di-sposizione si stava esaurendo e che la stazione sarebbe presto andata di-strutta. Celeste non aveva perso l'abitudine di mandare tutti gli anni al fi-glio di Chu, Shelby, una cartolina di buon compleanno.

«Celeste, abbiamo un problema grosso. Abbiamo solo cinque minuti prima che questa chiamata desti sospetti. Sto utilizzando temporaneamente

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una linea privata, ho requisito una delle chiamate di routine di uno dei membri del mio equipaggio così che nessuno pensi che ci sia qualcosa di strano. Dobbiamo fare qualcosa.»

Celeste si drizzò a sedere nuda sul letto, facendo cadere lontano le len-zuola. «Bene, Bernard. Spiegami. Ti ascolto.»

Bernard si bagnò le labbra. «Siamo... siamo stati contaminati. Dalle na-nomacchine aliene!» A Chu si strozzò la voce in gola, come se gli stesse venendo un attacco di panico, ma riuscì a dominarsi. La sua espressione si indurì. D'un tratto Celeste vide un uomo molto più vecchio di quello che aveva salvato sulla Grissom.

«Calmati, Bernard. Cos'è successo?» «Abbiamo riportato indietro da Columbus quella ricercatrice di nanotec-

nologia, Erika Trace. Le abbiamo fatto un esame del sangue, come faccia-mo sempre con chi passa di qui. Celeste... ha quelle nanomacchine nel sangue. Si è infettata... e le ho anch'io! Ormai probabilmente ce le abbiamo tutti qui.»

Celeste sentì dei blocchi di ghiaccio affondarle nello stomaco. I sogni avevano ragione. «Hai controllato qualcun altro?»

«L'abbiamo scoperto solo dieci minuti fa. Lo conferma anche Erika Tra-ce. Ho ordinato esami del sangue per tutti, compreso Bryan Zimmerman. Devo tenere sotto controllo quattordici persone qui. Il Rising Sun dovrebbe fare scalo qui tra mezz'ora, ma gli ho fatto sapere che abbiamo dei proble-mi e che dovremo rimandare.»

Chu strinse le mani l'una contro l'altra e chiuse gli occhi per un secondo, come se stesse radunando i suoi pensieri, il suo terrore, la sua rabbia.

Celeste, intanto, non si dava tregua. Come aveva fatto Erika a infettarsi? Lei stessa aveva stabilito un doppio controllo per le misure di isolamento e di sterilizzazione che doveva adottare Erika. Jordan Parvu, Maurice Taylor e Maia Compton-Reasor avevano tutti concordato sul fatto che erano più che adeguate. Ma in qualche modo le nanomacchine aliene erano riuscite ad aprirsi una breccia.

Celeste pensò alle immagini di Waite, Lasserman e Becky Snow che ve-nivano distrutti dalle nanomacchine di Dedalo. Ma perché non avevano di-sassemblato Erika Trace se erano dentro il suo corpo?

Celeste si rese conto con preoccupazione che a quel punto non poteva più fidarsi dei ricercatori. Come potevano essere così presuntuosi da pen-sare di poter erigere un sistema di difesa impenetrabile alla tecnologia a-liena, una tecnologia così sofisticata da fabbricare nanomacchine? Una ci-

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viltà del genere poteva facilmente aggirare qualsiasi barriera che scienziati come Erika Trace potessero frapporre.

Cosa sarebbe successo se il contagio avesse raggiunto la Terra? Se si fosse diffusa sulla Terra... come una peste?

«Cosa dobbiamo fare?» insisté Chu, interrompendo i suoi pensieri. Vor-rei poterti vedere in faccia e parlarti direttamente.»

Celeste gettò un'occhiata alle sue cosce e ai suoi seni nudi, ora imperlati di un leggero sudore. La luce che filtrava dalle veneziane li illuminava di un pallido colore grigio-blu. Sul pavimento erano sparsi degli indumenti: un paio di collant, un'uniforme stropicciata. «Non ora, Bernard.»

Continuò a pensare. Sullo schermo, Chu dava segni di impazienza. «Perché Dvorak non ha pensato di controllare Erika prima di lasciarla sali-re a bordo della navetta? Se fossi stato io a comando della base...»

Silenzio. Poi deglutì e raddrizzò la schiena. Celeste ammorbidì il tono. «Non so bene cosa fare. Dammi un'ora per pensarci. E fa in modo che nes-suno lasci la Collins. Di' al Rising Sun che il rinvio è indefinito e scopri quanto possono continuare a orbitare intorno a L-1 prima di far ritorno al-l'orbita inferiore della Terra.

«E finisci di fare gli esami del sangue. Devo sapere quanto è estesa la contaminazione, fin dove è arrivata. Ti richiamerò appena ho più informa-zioni. Preparati. Può darsi che dovremo ricorrere a misure drastiche.»

Sullo schermo, Chu annuì con riluttanza. Celeste aveva bisogno di un po' di tempo per riflettere da sola, per esaminare le possibilità senza nessu-no a portata di orecchio. «Grazie, Bernard. Tienimi informata se succedes-se qualcos'altro. Ti chiamerò presto.» Chiuse la comunicazione. I cani mu-golarono, richiedendo la sua attenzione.

Di fianco a lei, Simon Pritchard si drizzò a sedere senza far rumore. I pe-li sul suo petto sembravano fili metallici nella luce fioca della stanza. Sta-va scuotendo il capo incredulo. «Oh, mio Dio!»

Celeste si girò verso di lui. «Temevo che succedesse una cosa del gene-re.» Non poteva parlargli dei suoi sogni. Non poteva rischiare di perdere la sua fiducia proprio ora.

Il volto di Pritchard aveva un che di adolescenziale in quel momento. Quante ore erano passate da quando erano lì, abbracciati l'uno all'altra, lui con le braccia attorno a lei, lei con le gambe attorno a lui... ridendo, muo-vendosi assieme, scherzando, da quando i cani erano balzati sul letto, fa-cendo quasi rompere le molle? Celeste e Simon erano scivolati nel sonno, felici; ma poi gli incubi avevano iniziato a perseguitarla.

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Aveva fatto un mucchio di brutti sogni negli ultimi tempi; quello che la spaventava di più era il non sapere come interpretarli. Non questa volta. Non riusciva a capire con esattezza di che cosa la stessero avvertendo, ma sapeva che doveva succedere qualcosa di terribile.

Era sempre andata così... Aveva avuto la sua prima "premonizione" quando aveva otto anni e abi-

tava nel Quebec. Svegliandosi, si era sentita soffocare; tutto era buio e denso, e odorava di marcio. Stava annegando! Aveva i polmoni pieni di fango.

Il giorno dopo, quando suo fratello Christian, che allora aveva dieci an-ni, volle andare a fare il bagno in una cava vicina, Celeste era terrorizzata e si rifiutò di andare con lui. Quel pomeriggio, Christian annegò. L'avverti-mento del sogno non riguardava lei, ma suo fratello. Non si era preoccupa-ta di avvertirlo. Non aveva interpretato il sogno correttamente.

La volta successiva era capitata anni dopo quando era all'università. Un suo amico, Peter, era venuto a trovarla dal nord ed era rimasto fino a tardi. Aveva iniziato a piovigginare, era scesa la nebbia e si era fatto molto fred-do, rendendo pericoloso mettersi sulla strada. La notte prima, Celeste ave-va sognato del freddo, qualcuno che perdeva il controllo del volante, del vetro che si rompeva. Quando Peter fece per andarsene, si rese conto di colpo che il sogno doveva contenere un avvertimento per lui. Incerta, cer-cò di convincerlo a restare, ma lui rifiutò. Non riuscì a dargli nessuna buo-na ragione per non partire.

Quella notte Peter morì in un incidente stradale. Era sicura che avrebbe potuto salvarlo; ma ciò cozzava con la sua parte

razionale. Dopo tutto, aveva una formazione scientifica; credeva in causa ed effetto, non nella pseudoscienza e nelle esperienze extrasensoriali. Ma l'annegamento e l'incidente erano veramente solo delle coincidenze? Per qualche ragione non riusciva a crederci.

E la Grissom? Molte vite sulla Terra, sulla Luna, e ora sulla Collins dipendevano dalla

sua capacità di interpretare quegli incubi. E dopo la chiamata di Bernard Chu, sapeva esattamente a cosa essi avevano cercato di prepararla. Sfortu-natamente, non suggerivano soluzioni.

«Non possiamo lasciare che quegli automi alieni raggiungano la Terra» disse Pritchard. «Anche se questo significasse... neutralizzare la Collins. Hai visto cosa stanno facendo al cratere del Lato Oscuro. Cosa succede-rebbe se una cosa del genere facesse la sua comparsa nel centro di New

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York? Le tre persone che l'hanno scoperta per prime sono tutte morte. Quanto tempo ci vorrà ancora prima che le nanomacchine facciano a pezzi Trace e tutti gli altri che sono stati contaminati?»

Celeste tirò un sospiro. «Sono d'accordo, ma sarà dura per noi. Spare-ranno a zero contro di noi, ma sopravviveremo.» Sollevò le sopracciglia per incontrare il suo sguardo. «Presto sarà ora di rendere pubblico il tuo coinvolgimento. Ci vuole la durezza di un generale, non solo la compren-sività di una direttrice d'agenzia.»

Pritchard si alzò dal letto ed entrambi i cani gli balzarono addosso. Yea-ger gli mise le zampe sul petto; Pritchard lo mise giù con noncuranza e gli diede un colpetto affettuoso sulla testa.

Celeste sapeva cosa bisognava fare. Lo disse ad alta voce, per fare uscire i suoi pensieri allo scoperto. «Dovremo mettere in quarantena la Collins, e tutta la Luna - come primo passo.»

Pritchard annuì mentre cercava la sua uniforme e raccoglieva la camicia che aveva negligentemente abbandonato sulla sedia di Celeste la sera pri-ma. Il suo volto aveva un'espressione cupa e severa. «Nessuno di loro farà mai ritorno a casa.»

15.

Stazione di transito Collins, L-1

Allacciato alla sedia della camera di osservazione della Collins, Bernard

Chu cercava di controllare il proprio respiro. Visibile attraverso la spessa finestra sulla sinistra, la Terra occupava una buona parte del cielo stellato. Dalla parte opposta, la Luna se ne stava lì sospesa, brulla e immutabile, e sembrava quasi farsi beffe di lui per essere tornato a vivere nello spazio.

Si era creduto sicuro a L-1. Di fronte a lui, sullo schermo piatto, l'immagine di Celeste McConnell

sembrava congelata. Celeste non era stata in grado di offrirgli nessuna ri-posta utile, ma almeno adesso stava trasmettendo in video. Voleva guar-darla negli occhi mentre gli comunicava le brutte notizie.

«Bernard... sapevamo tutti che avremmo corso dei rischi» disse. «È per questo che abbiamo mandato solo un ricercatore su Simul-Marte e abbia-mo lasciato gli altri sulla Terra. Non volevo correre il rischio che qualcuno fosse contaminato.»

Chu cercò di mascherare la sua disapprovazione. «Be', qualcuno lo è sta-to. E adesso lo siamo tutti.»

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Celeste lo fissò, come se stesse aspettando il resto delle sue parole. I due secondi di sfasatura dell'immagine rendevano la conversazione esasperan-te. Tutte le volte che Chu interrompeva Celeste per farle una domanda, l'immagine continuava a parlare, per poi fermarsi all'improvviso e fissarlo stupidamente.

«In effetti, Bernard, non sappiamo cosa succederebbe se il contagio rag-giungesse la Terra. Ormai le nanomacchine avrebbero dovuto provocare delle reazioni nei vostri corpi, distruggendovi.»

«Non pensi che siamo tutti qui seduti ad aspettare che succeda?» Non poteva fare a meno di provare rabbia nei confronti di Celeste, anche se sa-peva che non era giusto. L'aveva salvato dal disastro della Grissom anni prima, e Chu aveva sempre contato sul fatto che li avrebbe avvertiti prima che si scatenasse un'altra tragedia. Stavolta lo aveva deluso.

L'ultima volta che c'era stata la paura di un virus extraterrestre era stato durante i primi allunaggi dell'Apollo. Anche in quell'occasione avevano preso precauzioni per modo di dire. Avevano lasciato che gli astronauti si esponessero all'atmosfera lunare per poi chiuderli in quarantena! pensava Chu. Sapeva che questa volta avevano fatto tutto per bene, e che era sua responsabilità far sì che la nanoinfestazione non si diffondesse ulterior-mente. Credeva di sapere cosa sarebbe successo, se quelle macchine si fos-sero scatenate sulla Terra.

«...e Erika Trace deve essersi infettata almeno ventiquattro ore prima di voi. Ma tu dici che non ha ancora mostrato segni di reazioni pericolose.» Celeste continuava con fatica a mandare avanti la conversazione, senza badare alle interruzioni di Chu. Se si fermava, il ritardo gli lasciava troppo tempo per pensare, e per commiserarsi.

«È solo questione di tempo prima che uno di noi venga disassemblato. Ci teniamo d'occhio l'uno con l'altro per vedere chi è il primo a trasformar-si in un grumo di... chissà cosa.»

«Bernard, ti darò tutto l'aiuto che posso da qui, ma non so bene cosa fa-re» ribatté gentilmente Celeste.

«È poco ma sicuro che non ho intenzione di stare qui seduto ad aspetta-re! Cosa ti è successo, Celeste? Non sei mai stata lì ad aspettare che avve-nisse la catastrofe! Cosa sarebbe successo se avessi fatto così sulla Gris-som? Da dove ti è spuntata fuori questa mentalità burocratica?»

Il volto impassibile di Celeste ebbe infine un cedimento. Continuò a fis-sarlo con un'espressione cupa. Chu la guardò contando fino a dieci prima di rendersi conto che non avrebbe aggiunto altro, e che stava aspettando

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che fosse lui a suggerire qualcosa di meglio. «Queste macchine nanotecnologiche aliene... potrebbero distruggerci in

dieci secondi se volessero. Almeno lasciaci fare qualcosa di utile, danna-zione. Cosa abbiamo da perdere?»

«Sii più preciso, Bernard. Cosa vuoi fare?» Chu si calmò e dominò le sue emozioni. Si sentiva come un uomo in

procinto di morire di cancro ai polmoni che si offriva volontario per fuma-re due pacchetti di sigarette al giorno.

«Tutta la base lunare è infettata, grazie alla nostra cara Erika. Dvorak lo ha confermato. Quindi non importa se veniamo in contatto con loro. Pro-pongo che noi abbandoniamo la Collins e andiamo giù a Columbus. Pos-siamo caricarci sul VTL e dirigerci sulla Luna prima che succeda qualco-sa.»

«Convincimi. Quali sono i vantaggi?» Chu scrollò le spalle. «Hanno più risorse laggiù. Hai fatto trasportare qui

tutta la strumentazione biostatistica quando mi hai trasferito. Sono un bio-chimico... forse potrei lavorare anche su questo.»

«Cos'è che proponi di fare diversamente?» Le domande di Celeste sem-bravano pure formalità, come se volesse vedere se le sue risposte corri-spondevano alle idee che aveva in mente lei.

«La prima cosa che vorrei fare una volta là, è prendermi cura di quello che Dvorak avrebbe dovuto fare molto tempo fa. Questo è il momento per-fetto per inviare una squadra in perlustrazione al cratere Dedalo per esplo-rare la costruzione. Dato che siamo tutti infettati, cosa dobbiamo temere ancora dalle nanomacchine?»

«Vi disassembleranno se lo fate» replicò freddamente Celeste. «Ci avrebbero potuto disassemblare già da un bel pezzo! Un qualcosa è

successo, una mutazione forse, e dobbiamo approfittarne! Siamo già con-dannati a morte.»

Celeste rifletté per alcuni attimi. Chu non riusciva a capire cosa stesse pensando, non riusciva a decifrare la sua espressione. La sua voce gli giun-se come un bisbiglìo ravvicinato, trasmesso attraverso lo spazio cislunare. «E il resto dell'equipaggio della Collins? Sono d'accordo? Sono disposti a collaborare tutti e quattordici?»

Chu pensò ai due astronomi e al tecnico imbottiti di sedativi e rinchiusi nello scompartimento staccabile dell'area di carico, dopo che, apprendendo di essere stati infettati, avevano iniziato a dare di matto.

Pensò anche a Bryan Zimmerman, anch'egli contaminato, ma ancora al-

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l'oscuro di tutto. Chu aveva deciso che, con tutto, quel viaggio da fare per trasportare la gente sulla Luna, era meglio non fargli sapere nulla.

«Sì, sono tutti d'accordo» mormorò Chu. «Dobbiamo lasciare la Collins al più presto.»

Celeste diede un'occhiata all'orologio. «Non possiamo fare aspettare il Rising Sun per più di sette ore, altrimenti dovranno rinunciare e ritornare nell'orbita terrestre. Siete in grado di lasciare la stazione prima di allora?»

«Certamente.» Almeno di quello Chu si sentiva sicuro. Aveva già con-trollato le specifiche del VTL; se tutti avessero preso con sé solo il minimo indispensabile, il Veicolo di Trasferimento Lunare avrebbe potuto traspor-tare il tutto fino alla superficie della Luna, anche se per Bryan Z. sarebbe stata dura pilotarlo, così pesante. E Chu voleva portare con sé tutta la strumentazione biostatistica che poteva.

«Molto bene, ora ascoltami attentamente» Celeste fece la voce dura. «Una volta che sono partiti tutti, avvieremo in telepresenza la sequenza di chiusura della stazione.»

Chu aggrottò la fronte. Sequenza di chiusura? «È la prima volta che ne sento parlare. Era previsto che venissi informato di tutto prima di assumere il comando qui...»

Celeste fece un gesto con la mano come per respingere le sue obiezioni. «Il generale Simon Pritchard sta lavorando con me per supervisionare un nuovo programma di istruzioni da trasmettere ai computer che avete voi a bordo. Stiamo scrivendo il codice mentre parliamo.»

«Ma per far cosa? Cosa succederà alla mia stazione?» «Una volta che sarete sulla Luna, le istruzioni trasmesse sterilizzeranno

la Collins. Nessuno - nemmeno quel rimorchiatore giapponese o quegli in-traprendenti artisti del riciclaggio - potrà più avere accesso alla zona di at-testamento di L-1. Qualsiasi contatto potrebbe portare l'infestazione sulla Terra. Non sei d'accordo?»

Bernard sentì un nodo crescergli in gola, ma non riusciva a mandarlo via. «Insomma cosa succederà esattamente?»

«Le istruzioni faranno aprire lo schermaggio della centrale; il reattore quindi inizierà ad andare al massimo, irradiando tutta la stazione di transito e uccidendo tutte le nanomacchine rimaste.» Fece una pausa. «O almeno così speriamo.»

Chu si lasciò andare contro lo schienale della sedia mentre le parole di Celeste penetravano lentamente nel suo cervello. La radioattività, primaria e indotta, avrebbe reso la L-1 inservibile per anni, per non parlare del dan-

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no provocato alle attrezzature diagnostiche. Senza la stazione di transito L-1, ritornare sulla Terra sarebbe stato più difficile - sempre che dalla Terra avessero tolto la quarantena.

Un pensiero si fece strada nella sua testa: Celeste sapeva già che a-vremmo evacuato la stazione... o aveva pianificato di chiuderla con noi ancora a bordo?

Si sforzò di sorridere. Forse la stazione sarebbe diventata un monumento orbitante in ricordo del loro sacrificio, proprio come il monumento com-memorativo della Grissom che aveva continuato a preoccupare Celeste per tutti quegli anni. Finalmente la Collins sarebbe stata all'altezza del suo nome, vegliando da sola in orbita mentre le cose succedevano sulla Luna.

Sempre che qualcuno di loro fosse sopravvissuto all'infestazione delle nanomacchine.

Era quello il loro primo grande problema. Mentre l'ultimo membro dell'equipaggio della Collins saliva a bordo del

Veicolo di Trasferimento Lunare, Bryan Zimmerman pensò fra sé e sé: Di-ciassette persone in uno spazio da dieci, senza contare tutta la strumenta-zione che Chu ha stipato nel vano merci. Nessuno aveva voluto spiegargli il motivo di quella "evacuazione temporanea di emergenza", ma l'avevano tenuto sulla Collins per un giorno e mezzo dopo che aveva scaricato Erika Trace. Aveva già accumulato del ritardo.

Il VTL era stato progettato con criteri di abbondanza: le specifiche per-mettevano di aumentare del cinquanta per cento il peso dei passeggeri, e Bryan aveva già trasportato rifornimenti per il doppio di quel peso senza fare una grinza.

Ma i rifornimenti non erano sull'orlo del panico, a differenza di quasi la metà dei passeggeri a bordo. Non aveva mai capito perché la gente non riuscisse a mantenere il sangue freddo. Lui ci riusciva sempre.

Zimmerman premette il comando della visione posteriore, e vide la Col-lins rimpicciolirsi sempre di più. Evacuare la stazione di transito per la Luna senza lasciare neanche uno scheletro di equipaggio pareva veramente una follia; ma gli ordini erano ordini. Aveva visto l'autorizzazione della di-rettrice McConnell con i suoi occhi.

Zimmerman non era un tipo che si faceva troppe domande. I dirigenti operavano con una logica completamente diversa dalle altre persone. Ave-va visto gente assolutamente normale che era stata promossa a posizioni di potere e che all'istante era divenuta incredibilmente stupida o terribilmente

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insensibile. Per fortuna lui non aspirava affatto a diventare un dirigente. L'astronauta era per lui il lavoro ideale nel posto ideale, aveva il control-

lo totale sulla sua navicella, e di solito nessuno gli rompeva le scatole. Gli lasciava tempo per pensare, per perdersi in quel mare di stelle. Gloria ca-piva.

Zimmerman sbirciò furtivamente Erika Trace che prendeva posto dietro di lui. Sembrava veramente spaventata, chiusa in se stessa, non così carina come era apparsa durante il suo primo viaggio verso la Luna. Ma l'assenza di peso le spingeva il seno in fuori più del dovuto. Zimmerman sospirò e azionò i razzi di trasferimento orbitale.

Erika guardò la Collins sparire in lontananza. La Collins... che avrebbe

dovuto essere la sua tappa di avvicinamento a casa. Nessuno sarebbe tor-nato mai più. Non fino a quando avessero trovato una cura infallibile per l'infestazione delle nanobestiole.

Presto probabilmente moriremo tutti, pensò. E tuttavia la maggior parte della gente la stava prendendo così freddamente... finché non si ricordò improvvisamente che quella era la base su cui gli astronauti erano stati scelti, e per questo avevano superato la rigorosa selezione iniziale e finale. Lei era l'unica a essere stata passata per una versione frettolosa e conden-sata dell'addestramento.

Bryan Zimmerman sembrava particolarmente calmo rispetto all'evacua-zione - del resto lui non si agitava mai per nulla. Era lì che scorreva la sua lista di controllo, imperturbabile. Un pezzo di ghiaccio o una faccia di bronzo? Non sapeva quale paragone gli si adattasse meglio.

Erika sollevò lo sguardo. Tutti i passeggeri si facevano i fatti propri, con la testa bassa o con un occhio allo schermo, osservando la Collins che sci-volava via dietro di loro mentre dall'altro lato appariva la superficie butte-rata della Luna.

Alzò la mano davanti a sé. Aprendo e chiudendo i pugni, si esaminò le dita. Non si sentiva affatto diversa, ma sapeva che dentro stava pullulando di nanomacchine. Quando... quando inizieranno a disassemblarmi? Per-ché non sono già morta? Il pensiero di un'invasione aliena dentro il suo corpo la faceva sentire violentata.

Una voce umana, trasmessa dalla Terra, giunse dalla radio. «Siete lonta-ni cinquecento chilometri.»

Si intromise una voce sintetizzata. «Le porte del reattore della Collins si stanno aprendo.»

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Erika guardò lo schermo e aggrottò la fronte. Passò qualche minuto, poi si udì nuovamente la voce sintetizzata. «La

stazione è stata irradiata per novanta secondi. Ci stiamo avvicinando alla temperatura critica.»

Poi una pausa. «Sequenza di detonazione iniziata.» «Detonazione?!» esclamò Bernard Chu, sporgendosi in avanti trattenuto

dalla cintura anti-accelerazione. «Quale detonazione? Come?» Il volto di Zimmerman aveva un'espressione di sorpresa, ma si limitò a

borbottare: «Vi preghiamo di confermare l'ultimo messaggio. Sequenza di detonazione?»

«Confermato.» «Non ho mai dato la mia approvazione!» gridò Chu. Erika era sbigottita, incapace di credere a quanto stava succedendo. Gli

altri membri della Collins cominciarono a parlottare fra loro. «Vi preghiamo di specificare la detonazione...» cominciò a dire il pilota,

ma improvvisamente sullo schermo la stazione si accese di una luce abba-gliante, sopraffacendo il controllo di luminosità dello stereochip. Il reattore surriscaldato ruppe il suo guscio e incendiò tutti i serbatoi di carburante. I colori dell'arcobaleno danzarono silenziosamente sullo schermo, mentre si consumava l'esplosione non-nucleare.

Un istante dopo Erika non vide altro che il manto nero dello spazio co-sparso di stelle e di frammenti luccicanti di detriti arroventati. Della Col-lins non restavano altro che milioni di schegge di metallo espulse a raggie-ra da L-1.

Erika pregò che l'esplosione del reattore nucleare avesse ucciso tutte le nanobestiole rimaste a bordo, e non le avesse invece scaraventate nello spazio verso altre mete.

16.

Base lunare Columbus

Jason Dvorak osservò l'ultimo evacuato della Collins che con difficoltà

attraversava la camera di pressurizzazione della base lunare. Sebbene la gravità lunare fosse solo un sedicesimo di quella terrestre, risultava oppri-mente per i membri dell'equipaggio, che avevano trascorso i quattro mesi precedenti in gravità zero. Normalmente il personale veniva riabituato gra-dualmente alla condizione di gravità, ma l'infestazione nanotecnologica non lo aveva reso possibile.

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Nell'area di ricezione di Columbus, i diciassette evacuati stavano pas-sando attraverso l'unità elettrostatica di soppressione del pulviscolo, prima di fare il loro ingresso nella base. C'era un mucchio di pulviscolo lunare sospeso nell'aria, e il sistema di filtraggio non riusciva a pulire l'ambiente abbastanza in fretta. Non appena furono senza casco, tutti quanti iniziarono a tossire. Fra i primi a subire il trattamento, Bernard Chu si ritrovò di fron-te a Jason come un eroe vittorioso ritornato per reclamare la terra che gli spettava di diritto.

Ma era soprattutto la questione di Erika Trace che riempiva Jason di rancore. La giovane donna dai capelli biondo cenere aveva ravvivato Co-lumbus quando vi era sbarcata la prima volta... quando, due settimane pri-ma? Era apparsa così inesperta, così nervosa, così fuori posto tra gli altri membri dell'equipaggio. La sua giovinezza e la sua ingenuità avevano ri-cordato a tutti la vita normale sulla Terra. Qualcosa di Erika faceva pensa-re ai turisti e agli avventurieri che sarebbero arrivati sulla base quando questa fosse diventata una postazione spaziale a pieno titolo. Il suo atteg-giamento aveva rappresentato una piacevole novità rispetto all'arida pro-fessionalità che permeava Columbus. Ma questa donna dalla faccia pulita aveva portato la terribile infestazione nanotecnologica direttamente a casa loro. Con la sua incompetenza aveva precluso loro qualsiasi possibilità di fare ritorno sulla Terra.

A causa del suo errore sarebbero probabilmente morti tutti nel giro di pochi giorni. Jason non avrebbe mai più rivisto i suoi bambini. Non avreb-be mai saputo cosa significasse la costruzione di Dedalo. Si sentiva come una lepre su una strada di notte, impietrita dai fari di una macchina.

Quanti secoli ci avevano messo gli esseri umani per arrivare sulla Luna? Per creare un appoggio precario su un pezzo di roccia lunare, che ancora esigeva una combinazione delle tecnologie più avanzate per garantire la sopravvivenza minima? E tutti questi sforzi - miliardi di dollari, trilioni di rubli e di yen - erano ora andati sprecati per un'infezione aliena provocata sicuramente da un momento di disattenzione di quella donna.

Osservando Erika che lottava per uscire dalla sua tuta spaziale, Jason si sentì riempire di rabbia. Gli piaceva moltissimo, ma ora la sua vista gli fa-ceva istintivamente contrarre le mascelle. Era stata lei a rovinargli tutto.

Ma poi... cosa avevano da guadagnare linciando Erika Trace? Nel profondo del suo cuore, Jason sapeva che non era colpa sua. Non

aveva fatto niente che non le fosse stato chiesto da Celeste McConnell. E-rika si era trovata nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Non voleva

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nemmeno venirci, tanto per dirne una. Ma Jason non riusciva ancora a di-scolparla interamente. Aveva bisogno di un capro espiatorio, di qualcuno su cui puntare il dito, vero o no? Per una catastrofe del genere...

Anche tutti gli altri si sentivano così, dai mugugni che aveva orecchiato in giro. Si chiese chi per primo avrebbe avuto il sopravvento su Erika, se le nanomacchine aliene o gli irati abitanti della base.

L'ultima evacuata entrò vacillando nella camera pressurizzata. Dopo es-sersi tolta il casco, la donna si piegò in avanti e cominciò a tossire per il pulviscolo. Newellen si intrufolò dietro di lei. Con lo scudo anti-pulviscolo attorno alla bocca, Newellen sembrava un enorme clown, ma almeno non tossiva come gli altri. La voce gli uscì attutita dal filtro. «Hai sentito le vo-ci dalla Terra? Non abbiamo sentito le ultime notizie sulle sommosse.»

«Sommosse?» chiese Jason alzando un sopracciglio. Con quello che sta-va succedendo, a chi sarebbe venuto in mente di sintonizzarsi sui canali terrestri? «Ci siamo tenuti in contatto solo con l'agenzia negli ultimi gior-ni, e non hanno menzionato niente del genere.»

Newellen alzò gli occhi al cielo esclamando: «C'è poco da stupirsi!» «Cos'è successo, Big Daddy?» chiese Chu. Jason si chiese se Celeste

McConnell avrebbe ridato il comando della base a Chu... e se gliene fre-gasse veramente qualcosa.

Newellen si stropicciò le mani sulla tuta da lavoro, sbuffando per la pol-vere che non se ne andava. Guardò Jason, e poi Chu. «Be', visto che non c'è rimasto più niente della Collins, ho spostato l'antenna direzionale sulla Terra, e ho captato i programmi delle newsnets trasmesse ai satelliti geo-sincronici. Il segnale era un po' debole, ma sono sicuro che potremmo riu-scire a ricevere i lobi laterali...»

«Le notizie, Big Daddy» lo interruppe Jason esasperato. «Cos'è succes-so?»

«Vuoi dire le sommosse?» «Sì, Lon.» «Potevi dirlo subito. Sembra che la Terra sia un casino totale; manifesta-

zioni, sommosse, proteste, e via dicendo.» Jason si rivolse a Chu. «Hai sentito niente del genere prima di abbando-

nare la Collins?» Chu scrollò le spalle. «Avevamo una linea aperta con l'Agenzia Spazia-

le, ma non ci hanno riferito niente di preoccupante. Del resto non si sono nemmeno preoccupati di consultarmi prima di fare esplodere la mia sta-zione. "Non possiamo permetterci che qualcuno rimetta piede alla Collins"

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ha detto. E così si è tolta il problema, quella stronza.» Jason si guardò attorno. Gli evacuati erano stati spediti in infermeria per

i controlli. Non sapeva come avrebbero fatto a far stare altre diciassette persone in quello spazio limitato; l'affollamento avrebbe acuito ancor più la tensione, ma sicuramente sarebbero nate delle grandi amicizie prima che tutto fosse finito. Sempre che fossero sopravvissuti.

Chu ammiccò in direzione del centro di controllo. Il volto era teso, e la pelle degli zigomi tirata come quella di un tamburo. «Cerchiamo di scopri-re cosa sta succedendo. Se Celeste è sottoposta a un mucchio di pressioni, potrebbe essere tentata di prendere decisioni... drastiche.»

Si avviarono verso il centro di controllo. All'inizio Chu dovette sorreg-gersi al muro per non cadere, ma poi sembrò recuperare il passo. Si inol-trarono nei moduli sotterranei passando attraverso due camere pressurizza-te e una serie di tunnel comunicanti, fatti di una lamina gonfiabile di me-tallo, resa rigida da un rivestimento stabilizzante.

Giunti nella cupola del centro di controllo, Jason interpellò Cyndi Salito, seduta alla sua stazione di servizio. «Niente di insolito nel collegamento con l'Agenzia?»

«No, tutto normale» rispose lei. Il programma di rotazione dei membri dell'equipaggio prevedeva che Cyndi fosse fra i prossimi a far ritorno sulla Terra; ora era confinata a Columbus come tutti gli altri.

«Nessuna notizia flash su turbamenti dell'ordine pubblico?» «Dovrebbero essercene?» Chu si avvicinò. «Ha controllato nient'altro oltre ai canali dell'agenzia?» «Ho guardato solo il Select.» Il Select era un canale semi-ufficiale che

trasmetteva notizie, storie di vita vissuta, e alcuni dei programmi più popo-lari sulle imprese della United Space Agency. Jason sapeva che i membri dell'equipaggio non avevano né tempo né voglia di guardare i canali a pa-gamento, e quelli del Select erano solitamente bravissimi a distillare il me-glio dalle centinaia di sciocchezze che circolavano sulle newsnets. E co-munque, le reti commerciali si captavano con risoluzione troppo bassa perché valesse la pena guardarle.

«Proviamo qualche altra frequenza. Si sintonizzi su uno dei canali com-merciali» le suggerì Chu.

Jason era imbarazzato di essere stato colto così alla sprovvista di fronte al suo predecessore. Non aveva mai pensato che il Select potesse essere un veicolo di propaganda.

Qualche attimo dopo nell'oloscopio apparve un cubo con il mezzobusto

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di una delle reti commerciali, percorso dai lampi grigi e color porpora del-le scariche elettrostatiche. «Preso!» esclamò Newellen. In piedi accanto al-la stazione di Cyndi Salito, Newellen stava sbocconcellando un panino, probabilmente recuperato da un nascondiglio del centro di controllo.

«... Dalle sconvolgenti riprese degli astronauti dissoltisi sul Lato Oscuro della Luna e della scoperta sul luogo di un'enorme struttura aliena in co-struzione. La United Space Agency nega ancora con forza che il fenomeno si sia diffuso oltre la superficie lunare.»

L'immagine tridimensionale dell'annunciatore svanì per mostrare le ri-prese dall'alto della costruzione di Dedalo, simile a una ninfea gigante gal-leggiante sul fondo del cratere.

«Sentiamo ora Julia Falbring, la nostra corrispondente scientifica, che si trova con la dottoressa Maia Compton-Reasor, famosa ricercatrice di nano-tecnologia della Stanford University in California. Julia?»

«Grazie Tom.» Era una bionda tutta curve. A parte l'abbigliamento ridot-to al minimo, la pelle, i capelli, e perfino la voce di Julia Falbring erano di una perfezione tale che Jason pensò fosse una simul-persona generata al computer, esistente solo in qualche cybermondo.

«Qui a Stanford, la dottoressa Compton-Reasor guida un gruppo di ri-cercatori impegnati in uno dei campi più avanzati della tecnologia.» Una donna nera tarchiata apparve dietro di lei; aveva un paio di occhiali dalla montatura rossa abbassati sul naso.

Jason si sorprese a vagare con la mente mentre nell'oloscopio appariva una rappresentazione fantasiosa di una piccola struttura molecolare. Si guardò in giro. Nonostante la maggior parte dell'equipaggio della Collins fosse ancora in infermeria per sottoporsi ai controlli, il centro di controllo era affollato più del normale.

Erika non poteva risentire troppo del cambiamento di gravità, eppure non era fra quelli affluiti al centro di controllo. Si domandò se si sarebbe ancora confinata nel laboratorio di Simul-Marte, per continuare a lavorare sugli esemplari di nanomacchine. Jason pensò di chiamarla ma poi cambiò idea. Se fosse stata sua la responsabilità di avere infettato l'equipaggio, an-che lui si sarebbe voluto nascondere. Jason tornò a guardare il giornalista.

«... E con questo, Tom, credo che abbiamo tutti qualcosa su cui riflette-re.»

«Grazie, Julia.» Il giornalista roteò sulla sedia mentre la telecamera lo riprendeva da un'altra angolazione. «E infine, abbiamo qui in diretta dal nostro studio il generale Simon Pritchard, assistente speciale della direttri-

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ce della United Space Agency. Generale?» «La ringrazio.» La telecamera arretrò per inquadrare anche il generale.

Era seduto con la schiena appoggiata allo schienale, rilassato, con le gam-be accavallate. La sua uniforme da aviatore era immacolata, semplice, blu, non sovraccarica di medaglie e di emblemi come le uniformi degli altri corpi. Jason si ricordava di Pritchard come dell'uomo che si trovava con Celeste McConnell quando Columbus aveva fatto la prima esplorazione te-lecomandata di Dedalo.

«Generale, ci dica: non è che la United Space Agency stia sottovalutando la pericolosità della tecnologia aliena? Abbiamo appena visto grazie ai no-stri effetti speciali come un intero pianeta possa venire completamente di-vorato se si lascia che la nanotecnologia dilaghi incontrollata. Cos'è che si può fare?»

«Be', innanzitutto non siamo sicuri che si tratti di nanotecnologia aliena. Ci stiamo ancora muovendo a livello di ipotesi, anche se è vero che sono macchine microscopiche quelle che stanno costruendo l'artefatto di Deda-lo. Non abbiamo ancora idea di cosa diventerà questa costruzione o di quando sarà finita. L'ambiente che circonda il sito è estremamente perico-loso e quindi non possiamo nemmeno inviare veicoli telecomandati per e-splorarlo direttamente. Stiamo lavorando disponendo di pochissimi dati.» Pritchard incrociò le mani in grembo. «Stiamo cercando di proteggere tutte le nostre basi. Un'équipe di eminenti specialisti delle scienze organiche stanziati alla stazione di transito Collins sono stati inviati sulla Luna per collaborare allo studio del fenomeno. Hanno anche raccomandato di di-struggere la Collins per escludere ogni possibilità di infestazione...»

«Cosa?» esclamò Newellen. Si guardò attorno nella stanza. Chu era ri-masto in silenzio; Jason guardava torvo lo schermo.

«... Se si trattasse effettivamente di nanotecnologia sfuggita al controllo, tutti gli esperti concordano che la Luna intera sarebbe stata disassemblata già da diversi giorni. Quindi il pericolo è sicuramente stato gonfiato. Si è parlato molto dello sfortunato incidente capitato a Trevor Waite e ai suoi due compagni, ma ci sono elementi che suggeriscono che tutti e tre sono stati vittima di una massiccia micropuntura, causata probabilmente da una pioggia anomala di meteoriti. E, sì, la distruzione della Collins è costata cara... ma mostra fino a che punto siano disposti ad arrivare i nostri astro-nauti per garantire la sicurezza della Terra.»

«Non ci posso credere!» Il centro di controllo di Columbus si levò in un uragano di proteste.

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«Zitti!» urlò Jason. «Sta cercando di confezionare qualcosa per i media. Aspettiamo di vedere dove diavolo va a parare.»

Newellen brontolò e alzò il volume. Il giornalista annuì con aria saggia. «Ma supponiamo che si tratti di

qualcosa di fantascientifico... se la stirpe di Andromeda esistesse veramen-te, se ci fosse veramente un virus robotico alieno in grado di spazzare via il nostro mondo? Cosa faremmo in quel caso?»

La faccia di Pritchard si raggelò. Jason credette addirittura di sentire un abbassamento della temperatura. «Be', è per questo che la United Space Agency mi ha nominato suo delegato militare. Se mai si verificasse qualco-sa che potesse danneggiare i paesi firmatari della United Space Agency, siamo pronti a farvi fronte con assoluta rapidità e fermezza. Il vecchio ri-corso alle procedure convenzionali non funzionerebbe affatto contro un pericolo di tale gravità. Siamo quindi pronti a fare tutto quello che è in no-stro potere, se si rivelasse necessario.»

Il video mostrò un primo piano del generale. Jason vide i muscoli che gli fremevano nella mascella.

«Assoluta rapidità e fermezza?» chiese il giornalista. «Cos'è precisamen-te che possiamo fare per impedire che questa cosa raggiunga la Terra? Do-po tutto, sulla Luna abbiamo solo un equipaggio di una trentina di persone, comprese quelle provenienti dalla Collins...»

Pritchard attese un secondo prima di rispondere. «Mi consenta di fare assoluta chiarezza su questo punto. L'esercito può ricorrere a diverse misu-re per impedire la contaminazione della Terra. Speriamo di non dover prendere quelle più dure.»

«A cosa si riferisce esattamente, generale?» «Speriamo di non arrivare mai a questo punto» rispose Pritchard in ma-

niera tagliente. «Deve tenere presente che tutti sulla base lunare Columbus sono consapevoli delle conseguenze e dei rischi che hanno accettato di correre quando sono andati lassù. Non possiamo rischiare di contaminare la Terra. È questo il nostro obiettivo prioritario.»

Newellen gridò al di sopra del brusio che aveva cominciato a sollevarsi nel centro di controllo. «Di che diavolo sta parlando? Sta decretando la no-stra fine, o cosa?»

«Rimetti su Select» disse Jason con calma. «Cosa?» «Ho detto di ritornare su Select.» Pochi protestarono quando nel cubo si

inserì un'altra immagine, che si andò ad affiancare a quella dell'intervista a

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Pritchard. Era un vecchio video su una navetta spaziale. La voce sommes-sa di un narratore raccontava quanto fosse terribile rimanere nello spazio per lunghi periodi di tempo.

«Non stanno nemmeno parlando della conferenza stampa.» Chu sbuffò. «Stanno intervistando il delegato di Celeste McConnell che

parla di lasciarsi crepare sulla base, e Select fa vedere delle repliche.» Jason rifletté un attimo prima di parlare. «Questo vi dice niente su quan-

to gliene importi alla McConnell di quello che ci succede quassù?» Nella sua mente Jason vide un'immagine della Collins abbandonata che

si autodistruggeva in una meteora infuocata. «Cos'è che ci sta preparan-do?»

17.

Simul-Marte

Tornata al modulo di Simul-Marte, Erika si sentiva come se fosse l'unica

persona sana di mente rimasta sulla Luna. Non c'era in realtà nessun biso-gno che continuasse le sue indagini in isolamento; Columbus aveva spazi, attrezzature biochimiche, esperti di scienze organiche - compreso Bernard Chu - e molti altri tecnici in grado di aiutarla.

Ma Erika non voleva il loro aiuto, non più di quanto desiderasse essere sola. Doveva allontanarsi da tutti quegli sguardi pieni di rancore. La gente la incolpava di aver fatto uscire i campioni, e di avere infettato tutti su Co-lumbus, come se fosse un'untrice.

Controllò innumerevoli volte le sue procedure, cercando di scoprire do-ve si era distratta, dove aveva infranto il proprio rigido protocollo speri-mentale. Nemmeno Parvu riusciva a capire dove avesse sbagliato. Ma le nanobestiole erano così piene di risorse che avrebbero potuto infrangere tutte le barriere che lei aveva cercato di erigere. Era stata stupida a creder-ci.

Ma allora, cosa stavano aspettando le nanobestiole? Qualcosa dentro di loro doveva essere mutato. Aveva a che fare con i Disassemblatori spariti dai campioni di regolite? Come avevano fatto le nanobestiole a modificare la loro programmazione per sapere come non disassemblare le persone?

Nanobestiole. Persino il soprannome un po' stravagante che aveva dato ai microscopici robot non le sembrava più tanto buffo. Non ora che miliar-di di loro le stavano scorrendo nelle vene, aspettando un qualche segnale per distruggerla. Se veramente era questo che stavano aspettando.

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Il gruppo di Compton-Reasor da Stanford, quello di Taylor dal MIT, Sommerveld dal Belgio, e persino Parvu, tutti avevano offerto il loro aiuto. Alcuni stavano esaminando il problema con modelli computerizzati, altri stavano mettendo a punto esperimenti simulati. Ma i semplici suggerimenti contavano fino a un certo punto, e lavorare a duecentoquarantamila miglia di distanza con un collegamento telepresente era troppo complicato, persi-no con procedure sperimentali lente.

Erika si allontanò dall'oloscopio e guardò le nanomacchine che nuotava-no nel campione del suo sangue. Abbastanza piccole da potere assemblare i virus, le nanobestiole non venivano nemmeno notate dal sistema immuni-tario.

Si stropicciò gli occhi e si concentrò sull'oloscopio. Doveva trovare delle risposte. Passò velocemente le dita sui controlli, programmando lo scanner per eseguire un'altra analisi del suo sangue, questa volta per identificare tutte le nanomacchine che non corrispondevano alle configurazioni già no-te degli Assemblatori, dei Controllori Qualità, dei Riprogrammatori, o dei Controllori.

La scomparsa dei Disassemblatori era il nocciolo del problema, lo senti-va. Erano svaniti dai campioni di regolite contenuti nelle camere di Simul-Marte, e non erano stati trovati in nessuno dei campioni di sangue infetto, sebbene tutti gli altri tipi di nanobestiole fossero presenti.

Per quanto ne sapeva lei, i Disassemblatori potevano benissimo essersi nascosti da qualche parte, per concentrarsi in preparazione di un attacco. E in quel caso non ci sarebbe stato nessun preavviso. Tutti erano infestati di nanomacchine dalla testa ai piedi. Tutti quelli che erano sulla Luna si sa-rebbero dissolti in un istante. Non riusciva a immaginarsi la sensazione. Forse era simile a essere mangiata viva da miliardi di formiche affamate?

Erika attivò lo scanner, che per mezzo di un algoritmo avrebbe identifi-cato le forme delle nanomacchine presenti nel sangue di Erika, confron-tandole con le sagome in memoria. I microwaldo e i loro sensori visivi at-traversarono la goccia di sangue come un gigantesco transatlantico che solcasse uno stagno. Le nanobestiole, trascinate dalla scia dei microwaldo, turbinavano vorticosamente nell'oloscopio.

Erika gettò un'occhiata alle unità telepresenti di backup lì vicino a lei. Identiche alla camera infetta e sigillata sulla quale stava lavorando, le tre unità mostravano sui loro pannelli a schermo piatto delle statistiche simili. Ciascuna delle équipe terrestri stava conducendo indagini separate e indi-pendenti, ma nessuna era stata in grado di suggerire cosa fare contro l'infe-

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stazione. A causa del ritardo della luce nel ciclo di retroazione i microwal-do telepresenti sembravano muoversi attraverso i loro campioni in maniera incerta.

Milioni e milioni di nanobestiole venivano esaminate, catalogate e scar-tate, ma Erika sapeva che ci sarebbero volute ore per analizzare completa-mente il campione. Si allontanò dalla stazione per sgranchirsi un po'.

Si diresse con passi felpati alla macchina del caffè sul retro del laborato-rio, si riempì una tazza, e ritornò ai cubi dell'oloscopio. Si mise comoda-mente a sedere a gambe incrociate, e fece un cenno sulla camera delle olo-comunicazioni. «Jordan Parvu, per favore.»

Lo schermo lampeggiò, attendendo il segnale di risposta dal LIN, poi il volto di Parvu riempì l'olovideo. Aveva un'espressione addormentata, che sparì non appena riconobbe Erika. «Speravo che fossi tu, Erika! Mi do-mandavo se avevi fatto progressi.»

«No» rispose scuotendo il capo. «Ancora nessuna fortuna.» Il ritardo di luce dava l'impressione che il volto di Parvu fosse congelato.

Erika sorseggiò il suo caffè. «Come vanno le cose lì? Non ho avuto mo-do di sentire come il resto del mondo sta prendendo tutta questa storia. Il canale Select dell'agenzia è inesistente in quanto a informazioni critiche.»

«Temo di non saperne molto più di te. Tieni conto che sono isolatissimo anch'io. Ma da quello che ho capito, parlando con mia moglie e con mio figlio, la gente non la sta prendendo molto bene. Ho sentito che c'è stato un revival di tutti quei vecchi film della serie il pericolo che viene dallo spa-zio, come La guerra dei mondi, Alien, L'invasione dei dischi volanti, ecce-tera. Ma sono stato troppo occupato a cercare un modo per aiutarti. Come ti senti?»

Erika rispose soppesando le parole. «Sono stanca e spaventata, e mi sen-to un po' debole, ma è normale. Non c'è bisogno di invocare cause esterne. Per quanto ne so, nessuno di quelli che sono stati infettati ha notato... dei cambiamenti.»

«Forse gli automi stanno lavorando su una parte del tuo corpo di cui non sei consapevole. Come faresti ad accorgerti, per esempio, se ti avessero di-sassemblato l'appendice?»

«Me l'hanno tolta quando avevo dieci anni.» «Allora come faresti a sapere se te l'avessero ricostruita...» replicò Parvu

sorridendo. «A ogni modo, era solo un esempio.» «Faccio mandare su a Dedalo un'altra di quelle microcamere oggi. An-

cora nessun indizio sulla scomparsa dei Disassemblatori dai nostri cam-

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pioni. È quella la chiave di tutto, credo. Può darsi che i Disassemblatori abbiano smesso di distruggere per finire la costruzione...»

Parvu tamburellò con le dita. «Ho un'idea diversa. Non credi che potreb-be avere a che fare con la presenza di materia organica?»

«Vuoi dire che le nanobestiole riescono a capire se sono dentro un orga-nismo vivente?»

«Al momento, il mio sospetto è che sì, questi automi possono determina-re la differenza fra materia organica e inorganica. E hanno istruzioni di non disassemblare sostanze viventi.»

Erika scosse il capo. «Ammesso che fosse vero, dovrebbero però aver disassemblato il rivestimento di questo laboratorio, la mia tuta spaziale, e tutte le nostre attrezzature di supporto...»

La risposta di Parvu giunse calma dopo i due secondi di ritardo. «Forse sanno come autodisattivarsi, o perlomeno sanno come raccogliere dati e come replicarsi dentro un organismo vivente senza causare danni.»

Erika corrugò la fronte riflettendo sulle implicazioni. Anche solo il pro-blema di come miliardi di nanobestiole riuscissero a comunicare fra loro sembrava insuperabile. Ma una possibilità era chiara. Forse stava solo usu-fruendo di una tregua che le menti aliene avevano inserito nella program-mazione dei loro esploratori.

18.

Simul-Marte

Erika si svegliò di soprassalto. Aprì gli occhi e si sentì come se stesse

cadendo. Cercò di tenersi stretta, e scoprì che stava scivolando dalla sedia, lentamente, come in un sogno, per via della bassa gravità. Con un sobbalzo allo stomaco si rese improvvisamente conto che il disorientamento, il ron-zio alla testa, il senso di vertigine che provava erano causati dalle nanobe-stiole che aveva in corpo. Alla fine avevano deciso di distruggerla. Si stava dissolvendo! Lottò per liberarsi dai rimasugli di sonno che ancora le otte-nebravano la mente.

Poi si ricordò. Era sulla Luna, nel modulo del laboratorio di Simul-Marte. Doveva essersi assopita mentre sorvegliava quegli interminabili e-sperimenti. Avevano bisogno di un'azione drastica per liberarsi dell'infe-zione, e spettava a lei trovarla. Ma lei non aveva il coraggio, o l'immagina-zione, per riuscire a capire cosa fare.

Erika percorse il laboratorio con lo sguardo, sbattendo le palpebre per

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schiarirsi gli occhi appannati dalla stanchezza. Nel centro del modulo, dal pavimento fino al soffitto, c'era la colonna di acciaio contenente l'apparec-chiatura per la sterilizzazione; l'oloscopio era inglobato nella colonna per risparmiare spazio. Quattro camere isolate di varie dimensioni erano di-sposte simmetricamente ai lati della stanza. In due di esse erano in corso dei test; nelle altre due venivano eseguiti in tandem test telepresenti di ve-rifica.

In condizioni normali avrebbe sterilizzato il laboratorio e avrebbe fatto prelevare dal cratere un nuovo campione. Ma non aveva senso sprecare un campione importante. Le nanomacchine si erano già diffuse nell'ambiente, contaminando tutto e tutti su Columbus, dove altro avrebbero potuto pene-trare? Tanto valeva rischiare.

Soprattutto se quello che aveva suggerito Parvu era vero. Esisteva vera-mente un dispositivo di sicurezza intrinseca che bloccava i Disassemblato-ri non appena venivano a contatto con un organismo vivente? O forse ave-vano subito una mutazione, e sarebbero rimasti in letargo... fino a quando qualcosa non li avesse risvegliati. Cosa? Un successivo segnale provenien-te dagli alieni senza volto? E di quali prove disponeva Parvu, aveva forse dei dati che non voleva dividere con lei?

Nel frattempo, su Columbus, Jason Dvorak continuava a studiare la struttura in costruzione, cercando di prevedere cosa sarebbe diventata, spe-rando di trovare degli indizi che gli permettessero di scoprire le intenzioni degli alieni. Se ci fosse riuscito, sarebbe stato possibile estrapolare degli elementi che aiutassero Erika a scoprire come sconfiggere l'infestazione al-l'interno dei loro corpi. Ma finora i suoi tentativi non avevano avuto suc-cesso.

Lottando contro l'indolenzimento provocatole dal sonno, Erika prese dal pannello di controllo la tazza di caffè ormai freddo e la gettò nel ricettaco-lo di recupero. Se ne preparò un'altra dalle scorte che ormai scarseggiava-no e controllò gli esperimenti in corso nelle camere isolate. Ancora niente di nuovo, niente di utile.

Nel corpo di Erika, la vita era sospesa a un filo, in balìa di quelle mac-chine microscopiche. Anche se gli alieni avessero preso enormi precauzio-ni, data la quantità di automi presenti, sicuramente prima o poi una delle loro memorie sarebbe stata investita da un raggio cosmico Vagante. E se fosse stato sufficiente un bit impazzito, l'equivalente elettrico di un sin-ghiozzo, per disinnescare il dispositivo di sicurezza?

Doveva capirlo prima di considerare qualsiasi soluzione. Doveva sapere

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cosa stessero combinando i Disassemblatori nel suo sangue, a parte il fatto di moltiplicarsi. Stavano forse immagazzinando dati per utilizzarli in un secondo momento? Erano i Controllori a fare i registi della situazione, a dare ordini ai servi Assemblatori?

Di colpo le venne un'idea. Se i Controllori possono riprogrammare le nanobestiole... se un raggio cosmico può scombussolare le loro memorie... perché non posso farlo io? L'unica ragione era che non aveva la più pallida idea da dove dovesse cominciare.

Soppesò il problema. Ogni nanobestiola aveva una memoria simile a quella di un vecchio supercomputer. Nel complesso, erano molto intelli-genti, molto sofisticate. Ma avevano anche la flessibilità, l'intelligenza per capire? E se ci fosse stato un modo per riprogrammare gli Assemblatori e-sistenti, per dar loro istruzioni per non replicarsi? La popolazione delle na-nobestiole si sarebbe stabilizzata. E se avesse continuato per quella strada? Avrebbe potuto programmare degli Assemblatori per cercare altri Assem-blatori, distruggerli, e autodisattivarli quando avessero esaurito le prede? Un nuovo Assemblatore, in versione migliorata e multiuso! Sì, sarebbe sta-to fantastico. Ma a quel punto sarebbe stato in realtà un Distruttore... Le avrebbe purificato il sangue, e liberato dall'infestazione nanotecnologica l'intera base lunare.

Alla prospettiva, Erika si riempì di entusiasmo. L'unico problema era come fare a riprogrammare le nanobestiole. Non era riuscita a capire nulla del sistema operativo insito nella memoria submicroscopica degli Assem-blatori, né di quello usato nelle loro stazioni di controllo. Erika non era un esperta di linguaggi macchina, benché conoscesse un po' gli elementi basi-lari della programmazione.

I computer terrestri erano diventati così intuitivi e facili da usare che nessuno aveva bisogno di sapere i particolari specifici dei codici. Era pos-sibile far fare al computer quello che si voleva, e solitamente questo ese-guiva il compito; non era necessario analizzarne i circuiti per aggiungere un nuovo programma. E quelle nanobestiole erano molto più complicate e sofisticate.

Rossa dall'eccitazione, Erika cercò di frenare il flusso dei propri pensie-ri. Si ricompose, sentendosi come se fosse ancora all'università e si fosse finalmente imbattuta nella soluzione del problema della sua tesi. Tranne che ora la posta in gioco era molto più alta.

Ce l'aveva quasi fatta. Aveva i crampi, a forza di stare curva sull'olosco-

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pio, manovrando i microwaldo. Aveva paura di muoversi, di fare qualcosa che potesse rompere l'incantesimo.

Riprogrammare gli Assemblatori. Invece di provare a produrre un mutamento elettronico, o un ancor più

difficoltoso mutamento chimico, nelle nanobestiole, perché non approfitta-re della loro programmazione euristica? Se gli Assemblatori "imparavano" ad adattarsi all'ambiente, perché non provare a modificare quell'ambiente per ottenere i risultati che voleva?

Prima aveva dovuto metterle in disordine, "resettare" la loro rigida pro-grammazione in qualcosa che fosse suscettibile di modifiche. Aveva preso un vasto campione di nanobestiole e le aveva bombardate di radiazioni - neutroni, particelle cariche - sufficienti a distruggerne una buona parte e ad alterare quelle rimanenti, in modo da prepararle ad accogliere suggerimen-ti.

Avrebbe cercato di... addestrarle. Di modificare il loro comportamento. Di insegnare loro cosa dovevano fare. Non riusciva a descrivere la cosa in altro modo.

Aveva quantità enormi di nanobestiole su cui lavorare. Sicuramente al-cune di esse sarebbero saltate fuori come voleva lei. Se lei forniva lo sti-molo giusto, alcune avrebbero raccolto lo spunto.

Erika diede una scorsa veloce ai suoi archivi on line, per vedere come molti anni prima, a Harvard, B.F. Skinner avesse dato avvio al behaviori-smo. Come parte del loro comportamento euristico, gli Assemblatori ave-vano dimostrato una spiccata tendenza all'apprendimento. Doveva solo modellare il loro ambiente in modo da ottenere la risposta voluta, spingere il loro comportamento nella direzione desiderata.

La risposta voluta era far sì che gli Assemblatori si tramutassero in "Di-struttori". Ma il "come" le sfuggiva. Cosa poteva fare per incoraggiarli a uccidersi l'un l'altro?

Una voce la strappò ai suoi pensieri. «Dottoressa Trace?» La finestra di un messaggio apparve sull'oloscopio, sovrapponendosi alle altre immagini. «Erika? Sono Jason Dvorak.»

«Cosa?» Si stupì di aver risposto così bruscamente, ma non aveva potuto contenere la sua irritazione. Ce l'avevo quasi fatta! Si voltò verso l'olosco-pio ravviandosi i capelli. Si rese conto che doveva avere un aspetto stra-volto. «Sì, cosa c'è?»

Dvorak era in tuta spaziale, senza casco. L'immagine sobbalzava come se fosse alla guida di un veicolo. Aveva un'espressione dispiaciuta. «Scusa

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se ti disturbo...» «Nessun disturbo» mentì. «Di cosa hai bisogno?» «Sono a dieci minuti circa da Simul-Marte. Ho deciso di venire ad aiu-

tarti.» Dieci minuti? Non lo voleva fra i piedi proprio in quel momento, pensò

istintivamente. Combatté contro l'impulso di chiudere la comunicazione. Non aveva bisogno di distrazioni. Proprio allora che si sentiva vicina alla soluzione, Dvorak pensava che fosse tempo di vacanze. Ma se le stava of-frendo il suo aiuto, bene, allora l'avrebbe messo al lavoro.

«Grazie per avermi avvertita. Fra dieci minuti» rispose dolcemente con un sorriso, sfoggiando quel suo fascino del sud che faceva credere a tutti che fosse una tipa facile. Bene. «Hai bisogno di aiuto per entrare?»

Lui accennò un sorriso. «No. So la strada.» Dopo che Dvorak ebbe spento, Erika scorse il proprio riflesso sulla su-

perficie metallica della colonna di sterilizzazione. Non serve a niente com-portarsi da incivili, pensò. Mossa da pura cortesia, si diresse nel cubicolo del bagno. E dopo essersi lavata la faccia, decise di spazzolarsi i capelli.

«Passami quel milli, per favore» gli disse senza guardarlo. Dvorak non

rispose. «Il guanto del milliwaldo, là» gli ripeté Erika accennando alla fila di guanti appesi vicino al banco degli esperimenti.

«Subito.» I guanti erano allineati in ordine decrescente, distinti dal colo-re e da una scritta in rilievo: DECA, MILLI, MICRO. Collegato a distanza ai waldo, ciascun guanto controllava ogni movimento delle piccolissime attrezzature. Dvorak staccò un guanto giallo e lo porse a Erika.

«Grazie» borbottò lei. Sembrava sinceramente disposto ad aiutarla, a so-stenerla e a offrire qualsiasi assistenza fosse in grado di offrire.

Erika usò il guanto per guidare una fila di milliwaldo l'uno contro l'altro, sovrapponendo le loro dita piatte in modo da formare uno spazio chiuso. Li manovrò uno a uno finché non ebbe ottenuto una sorta di gabbia non più grande di un millimetro. Le chele dei milliwaldo formarono una barrie-ra così fitta da non far passare nemmeno una nanobestiola. Una carica elet-trostatica ad alto voltaggio disposta sulla superficie impediva che le nano-macchine disassemblassero l'attrezzatura stessa. Assicuratasi che la sua trappola fosse sigillata e a prova di evasione, Erika dilatò l'immagine olo-grafica di tre ordini di grandezza. La minuscola gabbia sembrava ora un muro impenetrabile.

Tenendo ferma la gabbia con il guanto dei milliwaldo, Erika indossò sul-

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l'altra mano quello dei microwaldo per radunare gli Assemblatori che ave-va precedentemente bombardato con radiazioni ad alta energia. Sembrava-no uno sciame di zanzare impazzite. Li spinse dentro la gabbia, dopo in-trodusse un granello di regolite, e sigillò il tutto con un altro milliwaldo. Rimise a posto i sensori, e si scostò dall'apparecchiatura con un sospiro.

Dvorak era lì di fianco a lei, irrequieto. «E adesso?» le chiese con impa-zienza dopo qualche minuto.

Erika sollevò lo sguardo. Dvorak aspettava, senza insistere oltre. Erika non gli aveva spiegato la sua idea, pensando che vedendola agire avrebbe capito tutto. Ma poi si ricordò che Jason era un architetto, non un microin-gegnere. Una persona non esperta di metodi di ricerca avrebbe potuto pen-sare di assistere a un rito stregonesco.

«Non riusciamo a trovare un modo veloce per purgarci da tutte quelle nanobestiole che hanno invaso i nostri corpi. Almeno io non ci riesco. Dobbiamo affrontare il problema in un altro modo. Dobbiamo inventarci una nuova arma» disse Erika indicando sull'oloscopio l'immensa distesa di milliwaldo.

Dvorak rifletté, aggrottando la fronte. «Allora perché chiudere quelle cose in una gabbia?»

Erika sorrise. «Queste macchine nanotecnologiche non sono stupide. Ma non sono nemmeno così sveglie. Non hanno intuizione. Hanno un'intelli-genza, se vogliamo chiamarla così, limitata, e una programmazione com-plessa e sofisticata. Pensa alla costruzione su Dedalo: ogni substazione dei Controllori contiene un piano completo dell'intera struttura! Quindi, spero che siano abbastanza sveglie da raccogliere un suggerimento, se riesco a darglielo in modo chiaro.»

«E quale sarebbe il suggerimento?» «Le ho incasinate bombardandole di particelle ad alta energia. Forse

questo metterà fuori uso alcuni dei loro vecchi programmi e le renderà a-perte a quello che gli suggeriamo. Sto cercando di insegnargli un compor-tamento diverso.»

Erika inserì un dito nella gabbia dei milliwaldo. «Il mio ragionamento è questo: sappiamo che gli Assemblatori si caricano con l'energia dei legami chimici che spezzano, ma sembra che abbiano il divieto di usare molecole organiche. Perlomeno finora. È per questo che non ci hanno fatto fuori. Ma se non possono spezzare un certo numero di molecole al minuto, vanno in letargo.»

Dvorak annuì e sorrise. Ma era evidente che non aveva afferrato.

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«Così ho intrappolato un bel po' di quei rompiscatole in questa gabbia qua. Non possono scappare perché ho creato una barriera elettrostatica.

Ho aggiunto un granello di regolite per tenerli calmi per un po'. Ma una volta che l'hanno finito, non essendoci materiale organico che li faccia di-sattivare, inizieranno ad avere fame.»

«E adesso che facciamo?» «Ci sediamo e aspettiamo.» «Aspettiamo cosa?» Vedendo che Dvorak ancora non capiva Erika aggiunse esasperata:

«Immagina di chiudere un campione di topi in una scatola con un pezzo di formaggio. Se non c'è abbastanza formaggio, i topi impareranno un nuovo schema comportamentale: quando la fame raggiungerà un certo livello, i-nizieranno a divorarsi l'un l'altro».

Dvorak cominciò a camminare in su e in giù, come se stesse digerendo l'informazione. Ora che aveva mostrato un genuino interesse nel suo lavo-ro, Erika lo vedeva in una luce diversa. Prima, Dvorak si era comportato da sapientone, insistendo perché gli fornisse delle risposte. Ma date le cir-costanze - le pressioni improvvise e la relativa novità del suo incarico, più lei che era giunta alla base richiedendo un trattamento speciale - era facile capire la sua reazione.

Sembrava anche più giovane di quello che le era parso all'inizio. A parte i capelli radi in cima alla testa, i riccioli scuri e il viso magro gli davano un aspetto da ragazzo. Le labbra perennemente girate all'insù davano l'im-pressione che fosse sempre sul punto di sorridere. Persino le rughe sottili attorno ai suoi occhi scuri non le incutevano più timore...

Jason disse piano «Così stai cercando di addestrarli a uccidersi l'un l'al-tro?»

«Be', possiamo usarli per attaccare gli Assemblatori che abbiamo dentro di noi. Se la teoria della sicurezza intrinseca proposta da Parvu è corretta, non potranno fare nulla alla materia organica presente nel nostro corpo, e come unica fonte di energia avranno gli altri Assemblatori.»

Jason sbuffò. «Non avevo mai pensato che sarei stato salvato da dei cannibali.»

Erika non menzionò l'altra possibilità, la paura incombente che le aveva fatto quasi bloccare completamente l'esperimento: era possibile che le na-nobestiole imparassero proprio a divorare materiale organico. Non le re-stava che sperare che questa restrizione fosse una parte fondamentale della loro programmazione e che non potesse essere superata così facilmente. In

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caso contrario, per la base lunare sarebbe stata inevitabilmente la fine. Erika tremava dalla tensione mentre azionava il milliwaldo. A causa del-

l'ingrandimento prodotto dai microscopi a scansione ottica, la porta della gabbia sembrava un muro gigantesco che si stava lentamente sbriciolando.

Qualche attimo dopo, uno sciame di corpuscoli scuri uscì fuggendo oltre il suo campo visivo, colpendo la soluzione come una scarica di proiettili. Il resto della gabbia rimase vuota.

Alle sue spalle, udì la voce di Jason. «Allora, ha funzionato?» Erika regolò il contatore e gli fece rivedere al rallentatore la sequenza in

uno dei cubi dell'oloscopio. «Guarda.» Gli Assemblatori liberati fuggivano dalla scatola, molto più lentamente

di quanto aveva appena osservato. Le sembravano un branco di lupi su-bmicroscopici. Ne contò solo undici - di tutte le migliaia che aveva rin-chiuso.

«Ha funzionato?» ripeté Jason preoccupato. Erika si lasciò andare bruscamente sulla sedia e si ravviò i capelli. La

mano le stava ancora tremando, ma ora rideva. «Sì, penso di sì. Anzi, ne sono sicura.»

Jason non era ancora convinto. «Non sembri entusiasta.» Erika sorrise. All'improvviso, le venne in mente Parvu che tirava fuori il

suo caviale per festeggiare la riuscita dell'esperimento con i prototipi del LIN. «Certo che sono entusiasta. Cosa dovrei fare, alzarmi e mettermi a ballare?»

Si drizzò in piedi d'impulso. Era rimasta seduta per ore, e nonostante la gravità relativamente bassa il sangue le defluì dalla testa, facendole venire le vertigini. «Se proprio insisti.» Afferrò Jason, gli sollevò le braccia, e i-niziò a volteggiare goffamente per il laboratorio.

Jason sembrava sopraffatto dallo stupore, ma dopo qualche passo riuscì a mimare una specie di valzer e a guidare Erika verso la parte vuota della stanza, schivando miracolosamente le attrezzature. Quando si fermarono, Erika scoppiò a ridere, coprendosi la bocca con la mano. Jason appariva sconcertato.

Erica si scostò i capelli dal viso, cercando di riacquistare l'equilibrio. Notò che stava riprendendo l'accento del sud e cercò di controllarlo. «Da quando sono arrivata qui mi avete sempre considerata come una specie di maga che doveva salvare il mondo. E adesso penso di esserci riuscita!» Poi tacque, non sapendo cosa aggiungere.

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Jason assentì con uno sguardo divertito. «Credo di capire. Anch'io ho passato una fase del genere quando sono arrivato qui. Non avevo mai pen-sato di diventare comandante della base. Ero solo l'architetto. E ora Chu è tornato.»

Erika ebbe uno scatto quando Jason le mise la mano sul gomito. Le ruo-tò la sedia verso l'oloscopio. «Ma non siamo ancora guariti. Cosa dobbia-mo fare adesso?»

Erika ignorò la domanda. «Perché sei venuto qui su Simul-Marte, co-munque? Tutti gli altri...»

«...hanno il terrore di morire.» La interruppe Jason finendo la frase per lei. La guardò negli occhi senza parlare. Fece per continuare, esitò, e infine disse: «Ho pensato che potessi avere bisogno di aiuto, tutto qui. Come hai detto tu, è tutto sulle tue spalle, e ho immaginato che ti facesse piacere a-vere qualcuno con cui dividere il peso».

«Ma sei sempre il comandante della base. Hai delle responsabilità...» Jason sorrise debolmente. «Bernard Chu se la sta cavando molto bene.

Ma questo non ha importanza in questo momento. Ci devi salvare» disse trascinando la sedia vicino a quella di Erika.

Erika si scosse. «Bene, allora fammi prelevare un campione di sangue. Ci inietterò i... hm, i "nanocannibali". Lo useremo come primo test.»

Jason iniziò ad arrotolarsi la manica della tuta blu polvere. «Spero che tu faccia i prelievi meglio di come balli!»

Fece andare il test per un'ora in più di quello che aveva originariamente

previsto. Più tempo significava più possibilità che si creassero complica-zioni, e la possibilità di stilare un rapporto completo dei procedimenti che aveva seguito per creare i Distruttori modificati.

Le piaceva il soprannome "nanocannibali", ma vicino a quello di "nano-bestiole" i suoi colleghi terrestri avrebbero pensato che faceva troppo la spiritosa di fronte a un problema così grave. Era meglio evitare questi at-teggiamenti poco professionali.

Jason l'osservò attentamente da dietro mentre lei preparava la soluzione di nanocannibali e visualizzava i risultati. «Allora?»

«Guarda tu stesso. Ha funzionato. Questi scemi sono spariti tutti.» «Vuoi dire le nanomacchine nel mio sangue?» «Quelle nel tuo campione. E non sembrano aver danneggiato neanche un

globulo.» Jason si illuminò in volto per il sollievo, poi fu colto da un dubbio. «E

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l'ultimo nanocannibale? Si sono mangiati a vicenda, giusto? Così il re della giungla deve essere ancora lì.»

Erika rifletté per un momento. «È morto di fame. Non c'era più niente da mangiare, e aveva il divieto di spezzare la materia organica. Almeno spe-riamo.»

Jason accennò col capo alle pareti del laboratorio. «Ancora non capisco perché non abbiano attaccato tutto il materiale non organico qui attorno.»

«E perché avrebbero dovuto? Avevamo modificato il loro comportamen-to così che dessero la caccia ad altri Distruttori, l'unico altro "cibo" che a-vevano. Abbiamo eliminato tutti gli altri. Quello che conta è che ha fun-zionato. Ora devo provarlo su qualcosa di decisivo. Dobbiamo vedere se funziona nel corpo umano.»

«Non è il caso di fare qualche altra analisi? Di vedere se ci sono effetti collaterali, di fare un controllo incrociato della procedura...»

Erika scrollò i capelli all'indietro e corrugò la fronte. «Ascolta, dentro ciascuno di noi c'è una bomba a orologeria. E se i Controllori decidessero di aggirare il divieto sul materiale organico? Gli Assemblatori sono ancora lì... potrebbero decidere di alterare il nostro DNA. Non ho intenzione di stare lì ad aspettare che succeda, soprattutto adesso che ho trovato qualco-sa che potrebbe funzionare.»

«Obiezione accolta.» Jason fece per arrotolarsi di nuovo la manica. «Non ho niente da perdere. Diamoci una mossa.»

Erika scosse il capo tenendo d'occhio la siringa ipodermica, contenente la seconda generazione di nanocannibali. A occhio nudo, la soluzione ap-pariva assolutamente limpida, ma pullulava di Distruttori riprogrammati, che si stavano già divorando a vicenda. «Tu sei troppo importante, Jason. Sei il comandante della base. Io ho già fatto tutto quello che posso.»

«Non fare la stupida. Puoi sempre provare con qualcos'altro. Nessuno ha la tua esperienza. Non puoi arrenderti.»

«Non mi sto arrendendo. Voglio solamente essere pratica.» Vedendo Jason che veniva verso di lei, Erika pensò per un attimo di di-

fendersi con la siringa, ma il pensiero la fece ridere. Pensò a tutte le scene in quei vecchi film sulle epidemie, dove il medico brillante scopre un vac-cino rischioso contro la malattia e decide di provarlo prima su se stesso.

Erika aveva sempre trovato ridicole quelle scene. Ma quando Jason le porse la mano, lei si afferrò velocemente il braccio e vi conficcò la siringa. «Ahi!»

Non importava se aveva colpito un'arteria o solo il muscolo. Le nanobe-

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stiole erano già dentro di lei. Avrebbe potuto anche spalmarsi la soluzione sulla pelle.

Sentì il braccio di Jason che le circondava le spalle. «Siediti, idiota.» L'aiutò a sedersi.

«Almeno sono un'idiota con un'istruzione universitaria» replicò. Seduta, si sentì improvvisamente intontita. «Qualunque cosa stia succedendo, è molto più veloce di quel che dovrebbe.»

«Come ti senti?» A intervalli, il volto di Jason le appariva sfocato. Le mise una mano sulla fronte. «Sei fredda, ma stai sudando.»

«Fantastico. È come se fossero appena stati liberati per andarsi ad abbuf-fare gratis. Dio mio, cosa sta succedendo?»

Erika lottò per non svenire. Si sentiva girare la testa. Il suo campo visivo sembrava restringersi sempre più, come se stesse precipitando in un tunnel scuro. La voce di Jason svanì in un brusio sempre più assordante, coperta dallo stridore dei milioni di nanocannibali che si facevano voracemente strada nel suo corpo.

Incubi caotici e psichedelici svanirono in un brulichio di luci e di scari-

che elettriche. Quando Erika aprì gli occhi, le parve di essere sul punto di cadere, di dissolversi... Cercò di tenersi stretta e scoprì che stava scivolan-do giù da un divano imbottito. Era di nuovo... alla base lunare Columbus?

Vide la faccia di Jason che sorrideva buffamente. «È viva, Igor!» «Cosa?» Si sentiva la bocca secca, impastata, con un sapore terribile.

«Chi è Igor?» «Era ora che ti svegliassi. Sei rimasta svenuta cinque ore.» Erika si sforzò di alzarsi dal divano, ma Jason la fece ridistendere con

fermezza. «Cosa mi è successo?» «Be', ha funzionato. O almeno così pensano tutti. Dopo che ti ho steso

sul divano, sono riuscito a mettermi in contatto con la Compton-Reasor sulla Terra e con Bernard Chu qui. Mi hanno spiegato come controllare i tuoi organi vitali, e pare che tu ti sia liberata completamente dai nanocan-nibali nel giro di quindici minuti. Ti ho riportato su Columbus per tenerti sotto controllo.»

«E Jordan? Il dottor Parvu? Lo sa cosa ho fatto?» Jason scosse il capo. «Non siamo riusciti a collegarci, ma gli osservatori

meteorologici indicavano una grande tempesta su McMurdo Sound. Non preoccuparti. Ci rimetteremo in contatto con lui» disse stringendole la spalla.

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«Non ti ho ancora dato le notizie migliori. Ti ricordi come hanno fatto originariamente gli Assemblatori a trasmettersi a noi, per contatto? Be', i tuoi nanocannibali hanno fatto la stessa cosa. Bernard Chu mi ha fatto u-n'analisi del sangue, e non ha trovato traccia degli Assemblatori nemmeno lì. Attraverso la pelle, i nanocannibali sono ormai penetrati nel corpo di tutti.»

Erika lo interruppe con un debole cenno della mano. «Hai detto che sono rimasta priva di sensi per cinque ore. E tu? Non sei svenuto?»

«Mi ha girato la testa, mi sono sentito febbricitante per qualche minuto, ma mi è passato subito. Chu dice che sei svenuta più per la fatica che per i Distruttori.»

Erika si passò la lingua sui denti. Se li sentiva come se fossero coperti di pelo. «Posso avere un po' d'acqua?» Dopo aver bevuto, affermò: «Sai, non so nemmeno come ho fatto a creare quei cosi».

«Il gruppo di Taylor sta cercando di mettere a punto un po' di teorie. Probabilmente ne ricaveranno dozzine di articoli.»

Erika sospirò. «Mi sembra che sia stato troppo facile.» Jason si fece più serio. «Non è ancora finita. Anche quelli dell'agenzia la

pensano così. Non prenderanno nemmeno in considerazione di farci torna-re, finché non è passato un bel po' di tempo.»

«E perché? Se risultiamo tutti guariti, di che cosa si preoccupano?» «La costruzione di Dedalo» rispose. «Ancora non sanno cos'è, e sono

terrorizzati. Sembra quasi finita e temono che siamo stati tutti... hm, pos-seduti dagli alieni. Non sanno che effetti abbia avuto sul nostro corpo l'in-festazione delle nanomacchine. E non lo sappiamo neanche noi.»

19.

Base lunare Columbus

Seduto di fianco a Newellen sul veicolo adibito al trasporto di superficie,

Bernard Chu stava osservando la navetta autopilotata dei rifornimenti che si avvicinava bassa sull'orizzonte costellato di crateri. Il finestrino anterio-re del veicolo era leggermente inclinato ed entrambi allungarono il collo per vedere meglio.

All'inizio c'era solo un puntino luminoso che sfrecciava veloce come un satellite nell'oscurità del cielo. Poi il puntino si allargò, finché Chu poté di-stinguere una sagoma irregolare, piena di angoli strani e non aerodinamici, dotata di antenne e di dispositivi d'atterraggio.

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L'agenzia non li aveva ancora dati per persi. La presenza stessa della na-vetta mostrava che avevano ancora un minimo di compassione per loro, re-legati in quarantena sulla Luna; almeno Celeste continuava a inviare i vi-veri.

Mentre la navetta si avvicinava alla superficie lunare, Chu immaginò il rombo che avrebbe prodotto se ci fosse stata un'atmosfera. Poi, in lonta-nanza, la vide scendere velocemente sull'area di atterraggio sollevando una gran nuvola di polvere.

«L'atterraggio robotico ha funzionato a meraviglia» disse Newellen. «Meglio non immischiare Zimmerman. Odia i piloti automatici.»

«Diamoci una mossa» disse Chu indicando i comandi del veicolo. Era bello lavorare nuovamente all'esterno. Dalla radio fissata alla tuta poteva udire il respiro di Newellen, mentre questi dirigeva il veicolo verso l'area di atterraggio.

Si mise a pensare alla navetta e a tutto quello che implicava. Sebbene il sistema di pilotaggio automatico fosse stato installato da

tempo, per essere utilizzato in caso di atterraggi di emergenza, normalmen-te le navette erano guidate da piloti in carne e ossa. Così voleva la politica dell'agenzia, anche se sarebbe stato molto più economico inviare navicelle essenziali prive di tutti quei fronzoli necessari alla presenza umana. Ma ora Celeste non voleva inviare più nessuno nel luogo dove si era scatenata l'e-pidemia.

Eppure erano guariti tutti. Guariti, accidenti! Dalle analisi non risultava nemmeno una nanomacchina. Celeste avrebbe dovuto dare l'autorizzazione immediata per farli rientrare tutti sulla Terra, al sicuro. Che cosa stava a-spettando?

Era tutta colpa di quella costruzione da incubo. Dvorak aveva trascorso un'infinità di tempo a esaminare i dati delle analisi, cercando di interpreta-re le intenzioni dei costruttori, ma senza risultato. Dai voli di ricognizione sapevano che l'opera stava procedendo inesorabilmente, ma non avevano ancora la più pallida idea circa la sua utilità. Celeste voleva tenerli là come cavie, come esploratori che avrebbe potuto sacrificare in caso di necessità. Chu aveva la tentazione di mandare qualcuno su Dedalo per un sopralluo-go.

Naturalmente, avrebbe dovuto ottenere l'approvazione di Dvorak prima di farlo. O forse no. Dvorak non sembrava troppo interessato a mantenere il comando, ora che lui era tornato. Dvorak non gli era mai sembrato uno che ci tenesse molto a essere in una posizione di potere o di responsabilità;

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dava più l'impressione di essere preso dai propri interessi. «Ehi, sta' attento a quella buca» disse Chu a Newellen indicando un pun-

to più avanti. «L'ho vista, non ci siamo ancora» replicò seccamente Newellen dentro il

casco. «Farei prima ad arrivarci in bicicletta che su questo coso.» Ora che la polvere si era posata, leggera come neve, sull'area di atterrag-

gio, la navetta appariva nella luce cruda del sole. Chu si domandò quanto ci sarebbe voluto per rimetterla a nuovo. Che

cosa impediva loro di aggiungere del carburante, sostituire il pilota tele-presente con Bryan Zimmerman e ritornare tutti sulla Terra? La navetta L-1 di Zimmerman andava a idrogeno liquido volatile, impossibile da pro-durre sulla Luna in quel momento. Quelle navette invece andavano a me-tano, e di quello ne avevano in abbondanza.

Qualcuno avrebbe potuto calcolare un'orbita approssimativa, anche in mancanza della stazione di transito Collins. Sarebbero sopravvissuti al viaggio - praticamente l'unica cosa di cui avrebbero dovuto preoccuparsi era di non farsi abbattere dalle basi di difesa terrestri. Dopo tutto, fino a che punto Celeste faceva sul serio?

Mentre si avvicinavano alla navetta, Chu temette che l'atterraggio l'aves-se danneggiata, ma appariva abbastanza stabile. Accese il microfono sul mento e chiese a Newellen se riusciva a collegarsi con la base.

Newellen si sporse in avanti e armeggiò con i comandi delle comunica-zioni. Da quando la Collins era stata distrutta, non potevano più usare il ri-petitore di L-1; quello di L-2 era dall'altro lato della Luna, e si dovevano così limitare a trasmissioni in linea retta. Avevano dovuto collocare dei ri-petitori di supporto a bande K attorno alle pareti del cratere per comunica-re anche a breve distanza.

«Collegamento stabilito.» Chu si schiarì la voce. «La navetta ce l'ha fatta, Columbus. Avremo le

dispense piene per un po'.» «Si accerti che quei bastardi non ci abbiano nascosto una bomba» lo av-

vertì amaramente Cyndi Salito. Chu borbottò ma non fece commenti. Scesero dal veicolo e si diressero faticosamente verso la navetta, tenen-

dosi lontani dai motori ancora caldi. Quando Newellen premette l'interrut-tore, venne giù una scala di alluminio. L'anta del portellone si aprì e sem-brò invitarli a entrare. L'interno non era pressurizzato.

Newellen fece per cedere il passo a Chu. «Te l'avevo detto che avremmo dovuto portare un ponte di sollevamento. Non sapevamo quale modello

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avrebbero spedito.» Esaminò la scala. «Accidenti, mi chiedo dove siano andati a pescarlo, questo relitto.»

«È un vecchio aggeggio sovietico, probabilmente già in lista per essere demolito» rispose Chu. «Buono solo per il trasporto merci. Sacrificabile.» Alla parola "sacrificabile" tacquero entrambi per qualche secondo, poi Chu pose il piede sul primo piolo.

«È tutto tuo» disse Newellen, senza accennare al fatto che avrebbe fatto fatica a passare dal portellone, grosso com'era.

Chu arrancò su per la scala, disorientato, stando attento a fissare salda-mente il piede su ciascun piolo prima di spostarsi col peso. La scala era un affare antidiluviano, assurdo anche per la sua epoca - dopo aver speso un paio di miliardi di dollari per andare sulla Luna, all'ultimo momento ave-vano pensato bene di aggiungere un po' di pioli e di barre verticali costate al massimo qualche spicciolo.

Giunse in cima che era senza fiato. Non pesava molto sulla Luna ma, ri-spetto al periodo trascorso nella gravità zero a bordo della Collins, gli sembrava di pesare una tonnellata. Non sapeva se sarebbe mai riuscito a riabituarsi alla gravità terrestre ma, da come si erano messe le cose, pareva che non avrebbe nemmeno avuto la possibilità di provarci.

«Tutto bene lassù?» «Sì» rispose Chu. Il portellone della navetta dei rifornimenti si apriva direttamente sulla

cabina di controllo; non c'era nessuna camera di pressurizzazione, proprio come nei vecchi moduli di allunaggio. Serviva a risparmiare e a semplifi-care la progettazione. L'interno della navicella non era bello, ma era molto ben attrezzato. I russi avevano fatto un buon lavoro. Dei LED a bassa e-nergia erano stati inseriti sopra ai vecchi interruttori meccanici; il pannello di controllo era sbilenco, fatto non di componenti integrati ma di parti sal-date fra loro. I comandi ausiliari erano incastrati accanto a quelli principa-li, facendo assegnamento sulla ridondanza anziché sui sistemi computeriz-zati ed euristici di ricerca dei guasti.

Chu si avvicinò. Fissato sul pannello, proprio di fronte al posto del pilo-ta, c'era una busta di plastica trasparente, con un foglio di carta all'interno. L'aprì e lesse:

LE SCORTE DI CIBO E DI MEDICINALI SONO SITUATE NELLA

STIVA. ABBIAMO CALCOLATO SOLO IL 5% IN PIÙ DI CARBURANTE PER L'ALLUNAGGIO - IL CARBURANTE NON È,

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RIPETO, NON È SUFFICIENTE PER IL DECOLLO. INOLTRE, DUE (2) MINUTI ESATTI DOPO L'ARRESTO DELLA

POMPA, NEL CARBURANTE RIMANENTE È STATO LIBERATO UN AGENTE BIOLOGICO - QUANDO LEGGERETE QUESTO MESSAGGIO, IL SERBATOIO E IL TUBO DEL CARBURANTE SARANNO GIÀ STATI COMPLETAMENTE CORROSI. NON PREOCCUPATEVI, TROVEREMO IL MODO DI RIPORTARVI A CASA. IL VOSTRO BENESSERE È LA NOSTRA PREOCCUPAZIONE PRINCIPALE.

- CELESTE MCCONNELL Non aveva nemmeno firmato di suo pugno. Sul fondo del biglietto era

scribacchiato un "Ci dispiace. Resistete ragazzi!", ovviamente aggiunto dall'equipaggio che aveva sigillato la navicella.

Chu si sporse in avanti e, dopo aver cercato per un po', azionò ripetuta-mente l'interruttore della pompa. Il LED passò dall'ambra al verde, poi mandò un guizzo rosso vivo. Subito sopra l'indicatore della pompa, un'al-tra fila di LED segnavano rosso.

«Stronza.» Chu sbatté con forza la mano sul pannello. Quasi non lo sentì attraverso lo spessore del guanto.

Che bella fregatura. Naturalmente Celeste McConnell non aveva voluto rischiare di mandare una navetta che potesse far ritorno sulla Terra: era troppo alta la probabilità che qualcuno di quelli di Columbus sfidasse i suoi ordini e cercasse di tornare. Proprio come Chu stava meditando di fa-re. E senza carburante per la navetta di L-1 rimanevano solo le lente caval-lette a metano, che avevano a malapena la spinta sufficiente per raggiunge-re l'orbita lunare, per non parlare della velocità delta richiesta per raggiun-gere la Terra.

Dal punto di vista di chi era sulla Terra era stata la cosa più logica. Ma il fatto che Celeste dimostrasse di non fidarsi di loro - proprio di lui, Bernard Chu, che l'aveva sempre appoggiata! - lo faceva ribollire dentro.

Si ricordò delle precauzioni prese prima del lancio dell'Apollo 10. Tom Stafford, uno di quegli astronauti impulsivi degli anni Sessanta, era stato incaricato di pilotare un modulo lunare fino a nove chilometri dalla super-ficie della Luna. Viaggiare nello spazio dalla Terra alla Luna per doversi fermare solo nove chilometri prima poteva far venire strane tentazioni, o almeno così pensavano i dirigenti. Come potevano essere sicuri che Staf-ford non incontrasse "difficoltà di trasmissione", e non allunasse "per ca-

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so", divenendo così il primo essere umano a mettere piede sulla Luna? Così, prima del lancio, sapendo che faccia tosta avessero alcuni astro-

nauti, gli ufficiali della NASA avevano portato Stafford presso la ditta ap-paltatrice che aveva costruito il modulo. Là gli avevano mostrato quanto pesava il modulo, e quanto carburante poteva contenere. Gli avevano illu-strato passo per passo tutti i calcoli che dimostravano come il modulo pe-sasse mezza tonnellata di troppo per riuscire a decollare dalla superficie lunare nel caso che egli infrangesse gli ordini e facesse allunare la navicel-la. Per quanto forte fosse la sua voglia di arrivare sulla Luna, Stafford ave-va ben chiaro in testa che se lo avesse fatto ci sarebbe anche rimasto.

Chu si sentiva allo stesso modo. Accarezzò l'idea di provare a estrarre il serbatoio, rappezzarlo e far rotta sulla Terra, alla faccia dell'agenzia, ma nemmeno lui era uno stupido.

Chu strappò il biglietto dal pannello di controllo. La gente confinata sul-la Luna era già amareggiata, e questo sarebbe stato un altro schiaffo. Vede-te cosa pensano adesso sulla Terra di voi? Si ficcò il biglietto in tasca prima di aprire le porte che davano sulla stiva.

Almeno avevano viveri in abbondanza. Gli abitanti di Columbus salutarono il veicolo che trasportava le scorte

con scarso entusiasmo, ma diedero una mano a portare dentro i pacchi di cibo e di medicinali. Nell'area di ingresso, Cyndi Salito si mise a frugare in un mucchio di alimenti disidratati e urlò «Cosa, niente latticini? Cosa si aspettano da noi, che viviamo a pillole di calcio?»

Porse un sacchetto a Bryan Zimmerman, che era lì vicino a lei. Lungo il corridoio interno c'era tutta una fila di persone che aiutavano a immagaz-zinare i pacchetti nei cubicoli e nelle reti sospese in alto.

Zimmerman le rispose con voce impassibile. «Vogliono che teniamo sotto controllo il colesterolo. Fa male alle arterie. Non si sa mai che ci venga un infarto.»

Cyndi lo guardò perplessa, e Bernard Chu trattenne una risata. Era la prima cosa spiritosa che avesse sentito uscire dalla bocca di Zimmerman. Sempre che l'avesse detta per scherzo.

Quando ebbero finito di sistemare le scorte, Chu camminò fra la gente, distribuendo parole di incoraggiamento, sentendosi di nuovo il comandan-te della base. Jason Dvorak non si era scomodato, ed era rimasto al labora-torio di Simul-Marte. Cos'era che stava facendo ancora Erika Trace? Non erano già guariti tutti?

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Diede una pacca sulla spalla a Cyndi, ma lei gli rispose con uno sguardo torvo. La maggior parte dei membri dell'equipaggio, se parlava, lo faceva a voce bassa. La depressione era scesa nuovamente su di loro. Una bella dif-ferenza rispetto a solo qualche giorno prima, quando Erika Trace aveva annunciato la sua "cura" contro l'infestazione aliena. Avrebbero dovuto es-ser tutti là a ballare sulla regolite, ma, come lui anche gli altri non crede-vano che l'agenzia avrebbe sospeso presto la quarantena, e i più volevano andarsene a casa subito.

Spettava a Chu dare il buon esempio, fare il leader forte. Forse avrebbe dovuto persino riprendere il comando ufficiale della base. Per qualche mo-tivo, dubitava che a Dvorak gliene importasse qualcosa.

Chu era stato obbligato a obbedire agli ordini e ad andare alla Collins, così come Dvorak era stato sbattuto al suo posto. Ora Dvorak doveva ren-dersi conto che l'unica cosa giusta da fare era dare le dimissioni e lasciare il comando a qualcuno più esperto. Era meglio che si sbrigasse a far pres-sioni su Celeste, pensò Chu; la loro amicizia stava svanendo rapidamente.

Si fece largo nel tunnel fra Newellen e gli altri, e si diresse in fretta ver-so il centro di controllo. «Qualcuno mi chiami il quartier generale dell'a-genzia. Ho bisogno di parlare con la direttrice.»

Il tecnico - qualcuno che Chu non conosceva, probabilmente uno di quelli arrivati con l'ultima rotazione - si voltò, guardandolo con espressio-ne interrogativa.

«Be'?» disse Chu. Il tecnico cercò le parole. «Sono le otto di sera là...» «Be', allora cercala a casa sua. Hai il codice d'accesso, no? Se no te lo do

io.» Passarono cinque minuti prima che il tecnico riuscisse a trovarla. Celeste

indossava una tuta da ginnastica fluorescente, e aveva ciocche di capelli sudati appiccicati alla fronte. Sullo sfondo, i suoi cani giocavano e abbaia-vano. Aveva un'espressione affabile ma le labbra tirate. Annuì nello stere-ochip. «Ciao, Bernard. Va tutto bene?»

«Abbiamo appena scaricato le scorte, Celeste.» «Aspettavamo la vostra conferma. Non dovevi chiamare il centro locale

di Controllo Missioni con la linea ufficiale? Presumo che sia tutto arrivato in buone condizioni.»

«A eccezione dei serbatoi del carburante.» Fece in modo che la sua voce suonasse sconcertata e sarcastica allo stesso tempo. «Qualcuno ci ha tirato un brutto tiro usando il tuo nome. Hanno scritto una lettera, aggiungendo a

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macchina il tuo nome, dicendo che avevano sabotato i serbatoi in modo da rendere inservibile la navetta. So che non c'entri niente con questa sto-ria...»

Celeste si irrigidì, dando segni di impazienza. «Sai perché l'abbiamo fat-to, Bernard. Stessa storia della Collins. Non possiamo correre rischi, per quanto le analisi mostrino che non siete più infetti. Dacci un po' di tempo per ottenere conferma. Il dottor Taylor del MIT ha dichiarato pubblica-mente che esiste una piccola probabilità che l'infestazione sia solo diventa-ta latente, come un retrovirus. Nessuno sa cosa potrebbe stimolare le na-nomacchine. E basta che una sola raggiunga la Terra, portata magari da un hot dog proveniente dalla base. Non voglio correre quel rischio.»

«Se non ti fidi della persone che tu hai mandato qui, di chi ti puoi fidare, Celeste? Ci hai selezionato tu accuratamente uno per uno.»

«Tu sai che mi dispiace. Ma finché non scopriamo esattamente cosa sta succedendo, e che cos'è quella dannata cosa su Columbus, noi...» Si inter-ruppe a metà frase e si raddrizzò. «Ho già detto abbastanza. C'è nient'altro che posso fare per te?»

«Nessun compromesso rispetto alla quarantena...» «Nessuno. La discussione è chiusa. Per ora. Se la situazione cambia, ne

riparleremo.» «Se la situazione cambia! Come può cambiare? Siamo tutti guariti.» «Piantala, Bernard.» La fissò. «C'è nient'altro che possiamo fare allora?» Celeste apparve momentaneamente sorpresa. Era la prima volta che no-

tava una crepa nella sua corazza da un po' di tempo a quella parte. «Gli or-dini restano immutati: intraprendi qualsiasi azione che ritieni necessaria per assicurare la sopravvivenza del tuo equipaggio. Senza mettere in peri-colo la Terra, naturalmente.»

Chu la studiò a lungo. Il ritardo della luce la faceva apparire ancora più immobile. La sua fronte era più sudata di prima.

Vide davanti a lui la donna che gli aveva salvato la vita a bordo della Grissom. Di qualunque natura fosse il suo sesto senso, lui le doveva la vi-ta. Avrebbe fatto meglio a non litigarci.

«Bene allora. Ridammi il comando di Columbus.» Celeste si morse le labbra. «Bernard...» «Mi hai sentito, Celeste. Già adesso sono praticamente in carica. Devi

solo renderla ufficiale.» Attese a lungo prima di rispondere, poi abbassò gli occhi. «Va bene, ci

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stavo già pensando comunque. Informerò Dvorak.» Chu annuì. Celeste l'aveva tolto dal, suo lavoro per mandarlo a fare il

custode di una stazione, ma anche quello aveva avuto un senso. Chi altro avrebbe scoperto che Erika Trace era infetta, se lui non avesse fatto studi biomedici sulla Collins? Aveva portato la ricerca sulla microgravità lassù, e aveva iniziato a raccogliere dati. Se non si fosse accorto dell'infezione, fra il genere umano sarebbe divampata un'epidemia tale che al suo con-fronto l'AIDS sarebbe parso una semplice influenza.

Pensando a tutto quello che Celeste aveva fatto, e alla sua provata intui-zione, Chu sapeva che non avrebbe dovuto essere così adirato con lei. Po-teva essere la persona da cui dipendeva la salvezza di tutta l'umanità.

Ma mentre chiudeva il contatto, Chu la maledì ancora per averli abban-donati.

20.

Base lunare Columbus

Intraprendi qualsiasi azione necessaria per assicurare la sopravvivenza

del tuo equipaggio. Le parole di Celeste McConnell risuonavano ancora nelle orecchie di

Bernard. Non aveva speso tutto quel tempo alla scuola per astronauti e ai periodici corsi di aggiornamento per imparare ad arrendersi e morire. Sa-peva come fare delle scelte, come trovare delle soluzioni, come combatte-re. E ora era giunto il momento di dimostrarlo.

L'esperienza terribile della Grissom, sette anni prima, gli aveva insegna-to che non sempre si ha una seconda possibilità. E Celeste non gliene ave-va date. Aveva scaricato tutto sulle sue spalle. Bene, d'ora in poi non a-vrebbe avuto il diritto di lamentarsi se non fosse stata d'accordo con la tat-tica che lui avrebbe scelto. Aveva intenzione di costringerla a affrontare il loro caso. Doveva convincerla a lasciarli ritornare sulla Terra.

Stropicciandosi la mascella, Chu entrò nello spaccio della base, che ve-niva tenuto sempre aperto a causa dei diversi orari di lavoro dell'equipag-gio. Dato che sulla Luna i giorni e le notti duravano due settimane, i ritmi di lavoro terrestri avevano ben poco significato.

Il locale era arredato con tavoli e sedie fatti di pezzi di metallo recupera-to dai primi cargo che erano sbarcati sulla Luna. C'era un cilindro lungo cinquanta metri, ma per mangiare ne utilizzavano solo un terzo. La cambu-sa era nascosta da una tenda divisoria formata da teli di plastica. Sulle pa-

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reti, alcuni membri dell'equipaggio avevano scribacchiato dei graffiti dal tono sarcastico ma generalmente bonario.

Dentro c'erano solo Lon Newellen e Bryan Zimmerman. Vedendolo en-trare, Newellen lo salutò indicandogli quello che sembrava un pezzo di pizza. «Vieni qua, Chu. Ne vuoi un po'?»

Chu guardò incredulo il piatto. «Ah, è così?» La loro dieta era sempre stata rigidamente controllata dall'Agenzia. «Cos'è successo a tutta quella roba priva di grassi e ad alto contenuto proteico che hanno sempre richie-sto i dietologi?»

«Tieni qua» disse Newellen spingendo verso di lui il piatto con l'ultimo pezzo di pizza. «Assaggia.»

Chu si mise a sedere di fronte agli altri due, ancora indeciso se mostrarsi socievole o seccato. I suoi occhi si illuminarono non appena ebbe dato il primo morso. «È buona... buonissima! Come cavolo avete fatto?»

Newellen diede una pacca sulla spalla a Zimmerman. Il pilota sorrise debolmente, poi riprese la sua solita espressione assente. «È il nostro ami-co Zimmerman la nostra arma segreta.» Seduti uno di fianco all'altro, il corpulento Newellen e il compassato Zimmerman sembravano Stanlio e Ollio. «Origano, basilico e pepe... spezie, insomma. Proprio come Marco Polo! Le ha portate l'amico Zimmerman! Tutta quella roba che l'agenzia dice che fa male al metabolismo.»

«Effetti personali» spiegò Zimmerman. «Posso portarne cinque chili o-gni volo.»

«Da quando hanno deciso che ci avrebbero usato come base di dati per le ricerche biomediche, l'amico Zimmerman ha iniziato ad accumulare questa roba e a portarla su» aggiunse Newellen. «Si stupirebbe se sentisse che affari si possono fare con i giapponesi.»

Chu assaporò la pizza. Prima tutti quegli anni su Columbus, poi quei mesi alla Collins... era tantissimo che non mangiava qualcosa che non fos-se insipido e dietetico. «E tutto questo è andato avanti sotto il mio naso per tutto questo tempo?» chiese. Avrebbe dovuto immaginarsi che ci fossero dei traffici nascosti, ma quel bonaccione di Bryan Z. come contrabbandie-re? Il pensiero di questi presunti irreprensibili che aggiravano i brutali pia-ni dietetici dell'agenzia lo faceva quasi ridere. Lo scopo principale degli esperimenti a lungo termine di biomedicina era quello di controllare l'ali-mentazione dell'intera colonia, e di riuscire finalmente a comprendere, at-traverso un rigido calcolo delle calorie assunte e consumate, le caratteristi-che reali del metabolismo umano. Non solo i risultati sarebbero serviti per

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la futura missione su Marte, ma sarebbero tornate utili anche alla comunità medica in generale. Ma adesso tutti i dati dovevano essere messi in discus-sione.

Zimmerman scrollò le spalle. «La vita deve continuare.» Newellen fece una smorfia. «Ora che l'agenzia ci ha messo in lista d'at-

tesa permanente, perché dovremmo continuare a soffrire per quegli stupidi esperimenti nutrizionali? Forse una delle ragioni per cui ci siamo infettati è proprio la dieta che facciamo. Un po' di peperoncino potrebbe essere l'an-tidoto perfetto.»

Bryan Z. sorrise con fare innocente. «Personalmente, mi piace l'idea di giocare un piccolo tiro all'agenzia dopo quello che ci ha fatto.»

Il volto di Chu si contrasse. Quella lettera insulsa che Celeste aveva messo nella navetta dei rifornimenti lo aveva fatto sentire tradito, abban-donato proprio da quella persona su cui aveva pensato di poter sempre contare. Chu non poteva più fare affidamento su di lei; doveva trovare una soluzione lui, prima che morissero tutti, prima che quella costruzione si scatenasse.

E pensò che a quel punto, nemmeno a lui dispiaceva fare un dispetto a Celeste.

Di colpo si alzò in piedi, rovesciando la sedia sul pavimento. Newellen e Zimmerman lo guardarono sbigottiti. «Cosa possiamo recuperare dalla na-vetta dei rifornimenti per arrivare al Lato Oscuro? Possiamo rappezzare i serbatoi in modo che tengano fin là?»

Newellen appariva sconcertato. «I motori della navetta vanno con una mistura di idrogeno e ossigeno liquido, come quella di Bryan. Le cavallette utilizzate alla base vanno invece a metano. Possiamo produrre il metano, ma non c'è verso di riuscire a fare dell'idrogeno liquido qui sulla Luna.»

Chu scosse il capo. «Non è questo che volevo dire. Mi chiedevo se com-binando le due navette e una delle cavallette potremmo riuscire a... portare una bomba su Dedalo.»

Zimmerman alzò le sopracciglia, poi scrollò le spalle. «Tanto la mia na-vetta così non può andare da nessuna parte... Demoliamola, e interveniamo su quella costruzione prima che sia troppo tardi.»

«Vuole fare cosa?» Jason respinse gentilmente Erika sulla sedia. Erano soli nel laboratorio

di Simul-Marte. «Sforzati di capire la sua situazione prima di gridare allo scandalo.»

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«Certo che la capisco. È tornato dalla Collins e ti ha portato via il lavo-ro.»

«È molto più capace di me a comandare.» Jason sembrava troppo sulla difensiva.

«Ti ha portato via il lavoro e adesso si sente di dover dimostrare qualco-sa.»

Jason si passò una mano fra i capelli. L'accento di Erika diventava molto più marcato quando era sconvolta. «Erika, è una buona idea. Non c'è nes-sun motivo per non provare. Se dobbiamo affondare, almeno facciamolo in allegria.»

«Ma cosa ne ricaveremo? Nemmeno tu sei stato capace di capire cos'è, quella costruzione. Non crederai anche tu alla teoria della latenza che sta sbandierando Taylor, spero. Credi proprio che le nanobestiole siano ancora nascoste nei nostri muscoli, pronte a svegliarsi quando ricevono un segna-le?»

«So solo che Chu pensa di poter utilizzare una delle cavallette per far cadere una bomba sulla costruzione. Forse riusciremo ad annientarli. O almeno faremo saltare in aria quella cosa che hanno costruito. Hai visto le immagini delle sonde? Non sta cambiando molto. Devono avere quasi fini-to, e ancora non sappiamo di cosa diavolo si tratti. Forse in questo modo riusciremo a liberarcene.»

«E come?» ribatté Erika scrollando indietro i capelli. «Mio Dio, Jase, ci sono miliardi e miliardi di nanobestiole su Dedalo! Cosa facciamo se la bomba le scaraventa su tutta la superficie?»

Jason scosse il capo. Non gli dava fastidio quando Erika lo chiamava "Jase". Non reagiva affatto come con Margaret. «Non lo so» rispose.

Erika balzò in piedi. «Bene, allora dobbiamo fare qualcosa. Dobbiamo pensare a come proteggerci nel caso che il piano di Chu fallisca.»

La cavalletta si trovava a cinque chilometri buoni dalla piattaforma di at-

terraggio. Se qualcosa fosse andato storto e la cavalletta o la carcassa della navetta fossero saltate in aria, non ci sarebbero stati altri danni. Solo un'al-tra cavalletta era rimasta alla base.

Bernard Chu osservò il distributore modificato di carburante che riempi-va il serbatoio recuperato dalla navetta di Bryan Z. montato ora all'interno della cavalletta. Cyndi Salito era riuscita a farcelo entrare per un pelo, to-gliendo tutte le attrezzature concepite per l'uso umano. Bryan Z. aveva as-sistito all'operazione con la sua solita faccia impassibile.

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Attraverso la cuffia a Chu giunse la voce di Cyndi Salito, «Il flusso è abbastanza stabile adesso, e non voglio aumentarlo. Non ho esperienza con questa roba.»

«Nessuno ce l'ha» disse Chu. E per fortuna siamo riusciti a ottenere in-formazioni dalla Terra, pensò Chu.

Aveva contattato Celeste e, cercando di sfruttare al massimo il suo senso di colpa, le aveva strappato un mucchio di promesse. C'erano volute solo un paio d'ore per scovare gli esperti di esplosivi che facevano al caso loro, che sapevano cioè come ottenere idrogeno e azoto modificando legger-mente l'attrezzatura di rigenerazione. I magazzini chimici avevano fornito glicerina, acido solforico e acido nitrico ad alta concentrazione. Celeste aveva persino inviato per scherzo una copia on line dell'Anarchist's Coo-kbook, ma la trovata non aveva fatto ridere nessuno.

Cyndi Salito si era messa all'opera, mescolando gli acidi alla glicerina. Poi aveva tolto lo strato superiore e aveva lavato il miscuglio con acqua e carbonato di sodio, ricavando così diversi bidoni di nitroglicerina, a cui avevano aggiunto tutto il carburante esplosivo che erano riusciti a recupe-rare dalla navetta di Bryan Z. e da quella, ormai inservibile, adibita al tra-sporto dei rifornimenti.

«La raderemo al suolo» disse Cyndi parlando nel microfono fissato alla tuta. «Credo proprio che andrà tutto bene.»

Mentre osservava le operazioni, Chu si chiese come mai un'idea relati-vamente così semplice non fosse venuta prima a qualcun altro. Perché, se avevano così paura della costruzione delle nanomacchine, non ci avevano pensato prima, sulla Terra, al fatto di portare una bomba su Dedalo?

Ma non aveva importanza. Quello che contava ora era che stavano pom-pando nel serbatoio della navetta di Zimmerman una tonnellata e mezzo di nitroglicerina e quasi ventimila litri di carburante.

«Il serbatoio è pieno per tre quarti, dottor Chu.» Dal lato della visiera vide una sagoma in tuta spaziale che si avvicinava rimbalzando. Era Cyndi Salito. «Non lo riempio fino all'orlo, però. Non vorrei che ci esplodesse tutto in faccia.»

«Sicura che riuscirà a partire?» Cyndi avrebbe probabilmente scrollato le spalle se la pesante tuta a vo-

lume costante glielo avesse permesso. «Insisto perché leviamo le tende prima del lancio. Le partenze vanno un po' a scossoni, lo sa - persino con i piccoli motori a metano. Questa distanza di sicurezza di cinque chilometri non conterà un bel nulla una volta che la cavalletta si è sollevata dal terre-

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no. Se esplode allora, voleranno pezzi dappertutto.» Nel centro di controllo, Cyndi sollevò lo sguardo dalla batteria degli

strumenti diagnostici. La sua stazione era lontana dall'oloscopio principale; non poteva visualizzare ologrammi e dipendeva da letture prodotte da componenti allo stato solido. Nella stanza oscurata si erano stipati quasi tutti i membri dell'equipaggio. «Quando vuole sono pronta, Chu» annun-ciò.

Newellen si guardò intorno. «Ehi, qualcuno ha pensato ad avvertire Ja-son su Simul-Marte?»

Chu corrugò la fronte. Non voleva pensare all'ex comandante in capo, nascosto nel laboratorio come se non ci fosse stato niente di più importante da fare.

«L'abbiamo collegato attraverso il ripetitore secondario» disse Cyndi. «Dovrebbe ricevere le informazioni contemporaneamente a noi.»

«Andiamo, allora» disse Chu. «Non ha senso aspettare che diano l'OK dalla Terra. Siamo noi in prima linea, e la regia la faremo noi.»

Manovrando i joystick virtuali con le sue grosse mani, Newellen ebbe un attimo di esitazione. «Mm, Chu, non vuole un conto alla rovescia o qual-cosa del genere, giusto?»

Bryan Zimmerman era lì dietro di lui che osservava la sequenza degli eventi; a fianco c'era Cyndi Salito, che sembrava stesse per esplodere. «Muoviti! Più fai aspettare quella nitroglicerina e più è facile che qualcosa vada storto!»

«Va bene, va bene. Non essere così nervosa.» Chu fece un cenno col capo. «Ha sentito, Newellen.» Newellen afferrò i comandi virtuali. Un istante dopo l'immagine della

cavalletta tremò. Si sprigionarono nuvoloni di polvere e l'immagine si of-fuscò. Sembrava che l'oloscopio vibrasse. Poi, all'improvviso, la cavalletta si sollevò e sparì dalla vista.

«È partita senza esplodere!» gridò Cyndi. Sul suo volto si riflettevano le luci verdi delle proiezioni di controllo. «La traiettoria sembra buona, e la cavalletta tiene. Quelli che hanno saldato le toppe del serbatoio hanno fatto un buon lavoro.»

«Vuoi dire che ce la farà?» domandò Newellen. Salito si irrigidì. «Lo sapremo fra mezz'ora. Il carico gravitazionale mas-

simo era al momento del decollo. Se la nitroglicerina è sopravvissuta a quello, non c'è motivo di preoccuparsi.»

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«Quando bombarderà la costruzione, allora sì che inizierò a preoccu-parmi!» replicò Newellen. «Bisognerà vedere cosa faranno gli alieni. E se si incazzassero?»

«Tre... due... uno» disse Cyndi. «Ora!» Nella sala di controllo si fece il silenzio più totale. Gli strumenti diagno-

stici sul pannello di Cyndi Salito non davano alcun segnale. Chu deglutì prima di parlare. «Ha funzionato?»

«Ci lasci aspettare che arrivi l'onda S, capo» disse Newellen. «Dallo shock sismico capiremo se è stato solamente l'impatto o se la nitroglicerina è scoppiata.»

Dimenandosi sulla sedia con la sua grossa corporatura, iniziò a control-lare i sismografi che vibravano sotto la loro gabbia di vetro. «Mi stanno ar-rivando i dati di due stazioni. L'ordine di grandezza sembra buono. Un bel botto. Quando arriva l'onda S le saprò dire la posizione esatta.»

Chu si limitò ad annuire. Se solo il satellite di L-2 avesse avuto capacità di monitoraggio... ma possedeva appena la strumentazione necessaria a un ripetitore.

«L'ho trovata, l'ho trovata!» annunciò Newellen entusiasta. «Un centro perfetto, proprio nel mezzo della costruzione! E ha fatto un bel macello.»

Cyndi incrociò le braccia con un'espressione compiaciuta. «Tutta quella nitroglicerina dovrebbe aver fatto saltare molto più di quella struttura! Probabilmente ha fatto un cratere dentro il cratere.»

Chu parlò rapidamente, facendo schioccare le dita. «Lanciate la sonda perforatrice. Voglio darci un'occhiata subito. Appena si raffredda, dobbia-mo verificare con i raggi IR che non ci sia più traccia di attività nanotecno-logiche.»

Fece un passo indietro, osservando l'equipaggio che si metteva al lavoro. Anche se non erano ancora giunte conferme, il morale della base si era de-cisamente sollevato. Almeno adesso avevano qualcosa in cui sperare. A-vevano sferrato un colpo; avevano agito, invece di stare lì a fare le vittime.

Chu pregò fra sé di non avere peggiorato le cose. E se le nanobestiole a-liene avessero deciso di contrattaccare?

Nella sala di controllo l'equipaggio era ridotto al minimo. Newellen si

avvicinò a Chu con una manciata di nuovi risultati. «Da' un'occhiata qua.» Newellen impostò un cubo per il playback e richiamò i suoi file. Quando

apparve l'immagine, Chu provò un improvviso senso di vertigine. «Mo-

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stramelo lentamente, per favore.» Newellen mise l'immagine al rallentatore e introdusse un dito nell'olo-

scopio. «La sonda sta uscendo dalla sua traiettoria balistica, qui, e ha ruo-tato, quindi la superficie si trova in basso.» L'immagine ruotò, spostandosi da uno sfondo di stelle a una superficie grigio-nera di regolite lunare. Lo spettro infrarosso rendeva tutto un po' spettrale: la maggior parte della su-perficie del Lato Oscuro appariva fredda, senza nessuna traccia di emana-zioni di calore. «Da un momento all'altro dovremmo vederla passare esat-tamente sulla costruzione.»

Chu rimase in attesa, combattuto fra il timore di trovarla immutata, e la speranza che si fosse disintegrata sul fondo del cratere. Trattenne il respiro mentre la sonda si avvicinava.

Parti del complesso di Dedalo erano state abbattute, frantumate. Ma le resistentissime fibre di diamante che formavano la struttura apparivano in-denni. Il buco perfettamente simmetrico da cui era sorta la costruzione mo-strava ora, nei punti in cui la superficie si era sgretolata, delle linee irrego-lari, rivelando una rete insospettata di gallerie sotterranee collocate sotto il fondo del cratere.

Ma quello che colpì Chu fu soprattutto il bagliore bianco che emanava dalla zona, più luminoso che mai. Segno che, dopo l'esplosione, l'attività nanotecnologica era aumentata di più di un ordine di grandezza.

«Non è semplicemente il calore residuo dell'esplosione, vero?» chiese Chu, sospettando già la risposta.

«Decisamente no. Hanno permeato tutto. Stanno sciamando come for-miche dopo un temporale.»

Chu continuò a fissare le immagini finché la sonda non urtò contro la regolite, interrompendo la trasmissione. «Non abbiamo ottenuto nulla, eh? L'unica cosa che abbiamo ricavato è stato di farle ricominciare da capo. E di sparpagliarle su un'area ancora più vasta» sussurrò.

«Sì» rispose Newellen. «Di sicuro le abbiamo risvegliate ben bene.» E dopo un attimo aggiunse: «E ora sembrano avere ancora più fretta».

21.

Washington D.C.

In confronto a questo, una guerra sarebbe stata uno scherzo, pensò Pri-

tchard. Con la faccia tirata, Pritchard guardò al di là della finestra del suo ufficio

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verso il Museo dell'Aeronautica Spaziale. In momenti come quelli, Pri-tchard invidiava i suoi colleghi dell'esercito, ancora in servizio attivo al Pentagono a nemmeno tre miglia di distanza. I tipi del Pentagono doveva-no preoccuparsi solo di stroncare tutti quelli che il Presidente ordinava di stroncare - un lavoro rapido e pulito. Ed erano anni che un Presidente non dava un ordine del genere.

Pritchard, invece, doveva combattere un nemico senza avere nemmeno una certezza. Niente che riguardasse la costruzione aliena poteva esser da-to per certo. Ma si trattava veramente di un nemico?

Nell'ufficio c'era un vecchio televisore a schermo piatto, con il volume abbassato. Seguendo con la coda dell'occhio la Cable NewsNet, Pritchard era intento a osservare il complesso dello Smithsonian Institute dall'altra parte della strada. Il Museo dell'Aeronautica Spaziale conteneva testimo-nianze di come l'uomo nel passato avesse trovato soluzioni a problemi ap-parentemente insormontabili. Forse un giorno avrebbe ospitato anche un modellino della costruzione di Dedalo. Sempre che il genere umano fosse sopravvissuto.

L'anno precedente, usando Pritchard come intermediario, il Museo del-l'Aeronautica Spaziale aveva condotto trattative con la United Space A-gency per ottenere nuovo materiale da esposizione: cavallette lunari fuori servizio, prototipi a forma di stegosauro che erano serviti per scavare l'e-lio-3, gli schizzi fatti da Jason Dvorak per la ristrutturazione di Columbus. Entro sei mesi era prevista l'apertura di una nuova ala del museo, dedicata interamente al progetto Luna-Marte.

Per quella data, pensò Pritchard, non era nemmeno detto che ci fosse an-cora una colonia lunare! La costruzione sul Lato Oscuro aveva messo tutto in discussione. Come poteva l'agenzia correre il rischio di portare avanti i suoi progetti senza conoscere la natura precisa della razza aliena che stava dietro alle nanomacchine?

Mente indugiava con lo sguardo sugli edifici di marmo bianco, Pritchard udì alla tv il rumore di una folla che cantava. Ruotò con la sedia in dire-zione dell'apparecchio. La telecamera stava facendo una panoramica su migliaia di persone. Alcuni reggevano cartelli, altri agitavano i pugni tesi. Tutti stavano cantando qualcosa che Pritchard non riuscì a distinguere.

«Dove sono?» esclamò. Sullo schermo apparve una scritta: STANFORD UNIVERSITY. La voce del giornalista si sovrappose al rumore. «Le stime della polizia

parlano di più di trentamila persone, quelle degli organizzatori di centomi-

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la. La gente è molto preoccupata dalla minaccia nanotecnologica, sia che provenga dal Lato Oscuro della Luna, sia che si trovi molto più vicino a casa, qui in California. I ricercatori di Stanford si sono rifiutati di uscire a parlare con i dimostranti...»

La scena fu sostituita da un'immagine della costruzione di Dedalo, u-n'immagine vecchia di due settimane, notò Pritchard. Le newsnets avevano trasmesso storie simili due o tre volte per sera durante tutto il mese prece-dente. Dopo la distruzione della Collins, fra la gente la preoccupazione e il panico erano saliti alle stelle.

Improvvisamente la loro vita era stata sconvolta da un pericolo scono-sciuto. La sicurezza di cui avevano goduto in tutti quegli anni di pace va-cillava, si tingeva di paranoia. INVASIONE ALIENA! strillavano i gior-nali.

Osservando la folla che protestava, Pritchard pensò che il pericolo nano-tecnologico appariva ancora più minaccioso di quello "radioattivo", che per generazioni aveva generato un irragionevole panico fra la gente ostina-ta e poco istruita. Almeno la radioattività poteva essere spiegata, contro di essa si potevano prendere precauzioni. Ma il pericolo delle macchine auto-replicanti era qualcosa che nessuno sapeva come controllare.

Il giorno precedente, alcuni avevano accolto con entusiasmo il tentativo di Bernard Chu di far saltare in aria la costruzione, mentre altri avevano gridato al massacro, lo avevano visto come una provocazione nei confronti della presenza aliena, come un messaggio sbagliato inviato a un'altra civil-tà tecnologica. Pritchard sapeva che si era trattato di un atto da sbruffone da parte di Chu, dettato più dalla voglia di indispettire Celeste che dal de-siderio di proteggere la base, e non approvava questi colpi di testa. Tutta-via, il fatto che la costruzione di Dedalo avesse subito una battuta d'arresto avrebbe dovuto calmare un po' gli animi. Ora gli abitanti della Terra pote-vano riprendere un po' di respiro.

Ma l'opinione pubblica non si rassicurava così facilmente. Pritchard distolse lo sguardo dalle immagini di folle manifestanti tra-

smesse dalla CNN, e vagò con lo sguardo sul centro di Washington. Tutto pareva così tranquillo, l'aria umida, i turisti, gli zampilli delle fontane. Il quartier generale dell'agenzia non era stato ancora al centro di molte prote-ste, ma i laboratori di nanotecnologia sarebbero stati il primo luogo a esse-re colpito.

Le manifestazioni contro la guerra avevano scaricato la loro rabbia sulle ditte di appalti militari, sui laboratori che producevano le armi, perfino sui

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soldati stessi. Ma dopo un po' si erano scagliate contro i responsabili poli-tici. Era solo questione di tempo.

Se fosse riuscito a trovare il modo di rassicurarli fino a quando l'agenzia avesse trovato la soluzione vera e propria... Se fosse riuscito a dimostrare all'opinione pubblica che il problema veniva affrontato con decisione, a cullarli in un senso illusorio di sicurezza...

Pritchard si sporse sulla scrivania e premette il citofono. «Jeff?» Il suo aiutante gli rispose dopo pochi secondi. «Sì, signore?» «Ho bisogno che mi procuri al più presto delle informazioni. La com-

missione di sorveglianza dell'International Verification Initiative, cosa rie-sce a trovarmi al proposito? Di quali armamenti dispongono, e come posso avervi accesso? Rientra nelle mie facoltà?»

Ci fu una pausa, poi Jeff rispose: «Ho spedito il servo elettronico attra-verso le nostre banche dati combinate. Dovrebbero arrivarle tutte le infor-mazioni sul terminale fra pochi minuti. Ha la facoltà di contattare diretta-mente la International Verification Initiative a livello del Sottosegretario. Per ragioni di protocollo diplomatico, nemmeno la direttrice può interpel-lare i livelli superiori. Devo prendere io i contatti per lei?»

Pritchard rifletté rapidamente. Avere a che fare con un'agenzia esterna al governo degli Stati Uniti era una cosa delicata. In teoria, la United Space Agency poteva aggirare le barriere, essendo essa stessa un'agenzia "inter-nazionale". Ma dato che la sede, il personale e gran parte dei finanziamenti erano americani, le sue credenziali diplomatiche erano solo nominali. La Verification Initiative, invece, era una commissione internazionale vera e propria, ed era da lì che Pritchard doveva passare per realizzare quello che aveva in mente.

«Prima ho bisogno di parlare con la Direttrice. C'è in questo momento?» Jeff controllò, poi riferì: «È in Campidoglio. Vuole che mi metta in con-

tatto con lei?» Pritchard considerò brevemente la situazione. Non era più un bambino, e

le cose stavano evolvendosi troppo in fretta per pensare ogni volta a come pararsi il culo. Nessuno fino a quel momento aveva avuto un'idea migliore. Respirò a fondo, e decise di andare avanti con la sua decisione.

«No, ma voglio indire una conferenza stampa. Aspetti... facciamo invece una dichiarazione televisiva. La distribuiremo alle newsnets e rispondere-mo alle domande dei giornalisti un'altra volta.» Buttò un occhio alle im-magini di Stanford che mostravano la folla in tumulto, poi guardò l'orolo-gio. «Controlli che lo studio sia aperto. Voglio andare in onda fra un'ora.»

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«Benissimo, generale. Sarò pronto fra tre quarti d'ora.» Dopo che il suo aiutante ebbe chiuso la comunicazione, Pritchard pensò:

Spero solo di sapere bene cosa sto facendo. Il tecnico guardò Pritchard. «Tre, due, uno... stiamo registrando, genera-

le.» Una luce rossa si accese sulle telecamere tridimensionali disposte nel-lo studio a intervalli di centoventi gradi. Simon Pritchard si sforzò di non guardare le telecamere e di fissare invece lo stereochip che mostrava la sua immagine sullo schermo a parete.

Alcuni minuti prima aveva finito di pettinarsi, e aveva controllato che la giacca dell'uniforme fosse immacolata. Non aveva tante medaglie, distinti-vi o insegne come i suoi colleghi, ma era il prezzo che pagava per fare l'in-tellettuale ih un mondo di guerrieri.

Pritchard iniziò a parlare. «Buon pomeriggio. Come ho detto preceden-temente, la United Space Agency vi terrà aggiornati sull'andamento della crisi. Dopo il tentativo di ieri di utilizzare degli esplosivi contro la costru-zione aliena sulla Luna, sappiamo che non possiamo sradicare il fenomeno nanotecnologico con i metodi convenzionali. Nonostante l'esplosione abbia temporaneamente arrestato l'attività delle macchine, pare che esse si stiano riprendendo rapidamente. Non sappiamo ancora cosa stiano costruendo, né sembriamo in grado di fermarle, anche se lo volessimo. La United Space Agency ritiene che sia di importanza fondamentale tenere a bada questa tecnologia aliena, finché non siamo certi che non rappresenta un pericolo. Abbiamo bisogno di un asso nella manica, di un apparato di difesa su cui contare nel caso che - e ripeto, nel caso che - la costruzione di Dedalo si riveli qualcosa che dobbiamo temere.»

Si concentrò per riuscire a mantenere un'espressione grave. «Esattamen-te mezz'ora fa, la United Space Agency ha presentato una richiesta formale alla International Verification Initiative, l'organizzazione internazionale che ha il compito di controllare l'utilizzo delle armi nucleari. Il suo quartier generale è qui, a Washington, e ci attendiamo quindi di ottenere una rispo-sta tra breve. Il benestare dell'organizzazione permetterebbe alla United Space Agency di prelevare dalle scorte nazionali fino a sei armi nucleari.»

Fece una pausa in modo che l'ultima frase facesse la dovuta impressione. Si chiese quanti telespettatori avrebbero festeggiato la notizia, e quanti in-vece avrebbero gridato allo scandalo, quando la dichiarazione fosse andata in onda.

«Intendiamo trasportare queste armi al cratere Dedalo, sul lato oscuro

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della Luna, a bordo di un'astronave guidata da un robot, prendendo tutte le precauzioni possibili. Una volta che il carico è giunto a destinazione, il personale di stanza alla base Columbus installerà queste sei testate nucleari attorno al bordo del cratere come semplice misura di sicurezza. Dobbiamo far capire agli alieni che facciamo sul serio. Dobbiamo essere preparati in caso che la costruzione si riveli un'arma diretta contro la Terra. Installere-mo in totale l'equivalente di oltre venti milioni di tonnellate di TNT; ogni testata è in grado di produrre un cratere di oltre un miglio di diametro. In caso di emergenza, faremo detonare le testate e la struttura aliena verrà completamente distrutta.»

Per un attimo si rallegrò al pensiero che non aveva dato il permesso di ammettere nello studio i rappresentanti delle newsnets. Non sarebbe stato in grado di rispondere alle loro domande in quel momento. Pritchard guar-dò nella telecamera e concluse dicendo: «Vi terremo informati. Grazie».

Continuò a fissare lo stereochip fino a quando si spense la luce rossa. Ri-lassò finalmente la schiena; gli sembrava di essere stato di fronte alle tele-camere per ore. I tecnici si aggiravano indaffarati per lo studio. Qualcuno aveva già passato il nastro ai funzionari che classificavano le informazioni, anche se Pritchard avrebbe potuto bloccare qualsiasi cosa su cui avessero avuto da lamentarsi. Lo preoccupava di più quello che avrebbe detto Cele-ste. Ma in fin dei conti era certo che avrebbe approvato.

Presto l'agenzia sarebbe stata sommersa di proteste provenienti da tutte le parti. Che gli estremisti anti-nanotecnologici avrebbero protestato era già in conto. Ma adesso sarebbero risaltati fuori anche i vecchi anti-nuclearisti.

Sarebbe stato tanto più facile combattere una guerra, pensò di nuovo Pritchard.

22.

Simul-Marte

Per la seconda volta nella sua vita, Jason Dvorak capì cosa volesse dire

essere travolti da un camion in corsa. La prima volta era stato quando Margaret aveva chiesto il divorzio. Ora

provava la stessa sensazione di impotenza. Lo avevano deposto da una po-sizione di comando che non desiderava, eppure la ferita gli bruciava; a-vrebbe voluto fare qualcosa invece di lasciare che la burocrazia e le circo-stanze avessero la meglio su di lui.

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Jason non se ne era particolarmente avuto a male quando Celeste McConnell aveva restituito il comando a Bernard Chu - quell'uomo era si-curamente più adatto al compito sotto tutti i punti di vista. Ma stare a guardare il bombardamento idiota di Chu alla costruzione di Dedalo gli aveva fatto venire voglia di sbattere la testa contro le pareti curve di Si-mul-Marte. Era stata un'idea assurda.

Chu era un biochimico, non un architetto. Non si era preoccupato di scoprire il modo migliore di ottenere il maggior danno possibile con gli armamenti convenzionali. Per Dio, le rilevazioni avevano mostrato che quell'affare era fatto di fibra e schiuma diamantifera, che non era una ca-panna di paglia che si potesse buttare giù con un soffio.

Sì, l'esplosione aveva abbattuto la maggior parte delle fondamenta, ave-va distrutto e sbriciolato delle poderose gallerie sotterranee - cunicoli di lava forse? - rendendo instabile la costruzione aliena. Ma nessuno prima aveva mai sospettato l'esistenza delle gallerie. Che esistessero altri scavi nanotecnologia? Quanto della costruzione aliena rimaneva invisibile, na-scosto nel sottosuolo? Tanto più che l'esplosione voluta da Chu aveva dis-seminato le nanobestiole su un'area vastissima.

Guardando in seguito la registrazione a raggi infrarossi, Jason aveva a-vuto la dolorosa certezza che per riparare il danno le nanobestiole avevano triplicato l'attività. L'area surriscaldata si era visibilmente ristretta nel giro di un'ora, indicando che le nanobestiole si erano concentrate di nuovo nel cantiere.

Jason si sentiva al sicuro nel modulo di laboratorio di Simul-Marte con Erika, ma non si fidava del suo umore con il nuovo comandante in giro. Girò la schiena all'oloscopio principale. Erika sedeva sullo sgabello accan-to al suo, e aveva un'espressione esausta. Jason sbottò. «Bene, ne ho abba-stanza. Adesso che facciamo?»

«Cosa?» chiese Erika sollevando lo sguardo. Sembrava distrutta, come se niente le importasse più.

Jason lasciò cadere la mani lungo i fianchi. «Voglio dire, cos'altro pos-sono aspettarsi da noi?»

I capelli color sabbia di Erika si appiccicarono alla sua fronte sudata. «Adesso che qualcuno ha deciso che la cosa migliore da fare è distruggere quella costruzione, Chu stava appunto tentando di sbarazzarsene...»

«Nessuno l'ha deciso! Chu voleva solamente far vedere quanto è bravo. Poteva anche lasciare perdere quel maledetto coso! Guarda solo qual è sta-to il risultato dell'esplosione!» Gesticolò in direzione dell'immagine a in-

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frarossi di Dedalo, sullo schermo olografico alle sue spalle. Anche se la struttura aliena era in rovina, si vedevano chiaramente dei punti caldi di at-tività, con la struttura che si stava ricostruendo fra le macerie.

«E se avessimo fatto incazzare il capocantiere che comanda le tue nano-bestiole? Cosa faranno adesso? Magari torneranno qui alla base e la di-struggeranno fino all'ultimo pezzettino di metallo...»

Erika scosse il capo. «Queste sono macchine che operano in modo pro-grammato, in base a uno schema già impostato. Sono macchine program-mate, Jase. Non serbano rancori, non cercano la vendetta. L'esplosione po-trebbe essere stata causata dall'impatto di un meteorite, per quel che ne sanno loro. Sono macchine, non pensano a lavare l'onta col sangue...»

«L'onda?» «L'onta... non importa.» Si alzò e andò verso l'oloscopio. «Sono ritornate

a una fase precedente del loro programma di costruzione, e assemblano come previsto tranne che vanno a ritmo accelerato per recuperare il tempo perduto. Tra un po' della nostra bomba fatta in casa non resterà nemmeno un graffio.» Erika sospirò. «Non so cosa fare.»

«Uniamo i nostri cervelli, allora» disse Jason facendole un sorriso sfor-zato. «Una nuova sfida! Già hai trovato il modo di curarci. Adesso che ci penso, non potremmo mandare là un po' dei tuoi nanocannibali per arresta-re il processo di ricostruzione?»

Erika spalancò gli occhi raggiante. «Jase - Dio mio, avevamo la soluzio-ne pronta! Perché non ci abbiamo pensato prima?»

«Pensavo che funzionasse solo con il corpo umano.» «Se funziona con quello, perché non dovrebbe funzionare sul Lato O-

scuro! Sarà come vaccinare tutta la zona della costruzione!» Erika era già lì che parlava con il sistema di controllo dell'oloscopio.

«Computer, mettimi immediatamente in contatto con Bernard Chu alla ba-se lunare Columbus! Priorità uno, o come cavolo si chiama la categoria urgente...»

«Priorità A» le suggerì Jason. «Priorità A!» Jason le venne più vicino. Erika si era già messa al lavoro al banco degli

esperimenti, e stava preparando il crogiolo in cui rinchiudere i nuovi cam-pioni di nanobestiole. Afferrò Jason per le orecchie per attirare il suo viso vicino al suo e dargli un bacetto frettoloso sulle labbra.

«Dovrò fare una nuova covata di Distruttori» disse. «Quando avremo fermato il pericolo immediato rappresentato da quella costruzione - sempre

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che si tratti di un pericolo - avremo tutto il tempo che vogliamo per scopri-re cosa fa andare queste nanobestiole.»

Chu apparve sullo schermo con gli occhi appannati. Erika rise. Quello che gli stava per dire l'avrebbe svegliato di sicuro.

Le immagini della prima esplorazione agli infrarossi erano esattamente

come Erika si aspettava. Cinque ore prima, Columbus aveva lanciato sulla costruzione un altro

proiettile contenente un campione elettrostaticamente isolato dei Distrutto-ri fabbricati da Erika. Paragonandolo a un vaccino, Erika aveva convinto Chu che i Distruttori si sarebbero autoreplicati e avrebbero sconfitto il re-sto delle nanomacchine. Nello spazio di ventiquattr'ore l'attività nanotec-nologica sarebbe dovuta diminuire di circa il novantacinque per cento, e i pochi nanocannibali rimasti avrebbero spazzato via il resto.

Erika era tornata alla sala di controllo della base. Si sentiva immensa-mente sollevata: la mappa agli infrarossi inviata dalla sonda di ricognizio-ne mostrava sacche di intensa attività, ma la concentrazione complessiva delle nanomacchine aliene era drasticamente diminuita. Alcuni dei presenti applaudirono. Il canale Select dell'agenzia stava trasmettendo tutto in diret-ta. Celeste McConnell le inviò le sue congratulazioni.

Tutto faceva pensare che i suoi Distruttori stessero massacrando le na-nobestiole. I nanocannibali non avrebbero distrutto la costruzione, l'avreb-bero semplicemente "disinfettata". Sarebbe stato come se un entomologo avesse ripulito un nido di vespe per poterne poi studiare la struttura. Qual-cuno - magari Erika stessa -avrebbe potuto recarsi senza rischi sul sito per dare un'occhiata da vicino al progetto voluto dagli extraterrestri. Chissà cosa c'era, sotto quelle catacombe scoperchiate da Chu.

Vedendo che l'attività IR era diminuita, Chu trasmise immediatamente alla Terra un altro videoloop.

Con le gambe che le tremavano malgrado la bassa gravità lunare, Erika tornò nella camera situata nei sotterranei della base che divideva con Cyndi Salito. Sparsi per i vari settori del modulo, altri esiliati della Collins formavano capannelli con il personale della base. Poiché Erika era confi-nata la maggior parte del tempo a Simul-Marte e la Salito faceva gli orari più strani, si erano incrociate solo un paio di volte. Questa volta Erika tro-vò la camera vuota. Con un sospiro si lasciò andare sul letto di polimeri flessibili per farsi un sonnellino. La seconda sonda sarebbe arrivata dopo cinque ore. Per allora i nanocannibali avrebbero dovuto essere a metà della

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loro opera di pulizia... Erika si precipitò verso il centro di controllo. Era quasi in ritardo per

l'arrivo della seconda sonda. Aveva fatto dei sogni sgradevoli e si era sve-gliata appena in tempo per passarsi un asciugamano bagnato sulla faccia. Jason, che era venuto a chiamarla, l'aveva incontrata nel corridoio.

Quando entrarono nella sala, tutti erano indaffarati e Newellen aveva ri-chiamato numerosi cubi che mostravano la sonda in arrivo da diverse pro-spettive. Chu, seduto nel fuoco principale delle olocamere. aveva già ripre-so la trasmissione in diretta. Sul lato, Cyndi richiamò un'immagine agli in-frarossi dell'estensione precedente della zona calda, poi la mappa molto più buia di cinque ore prima. I punti luminosi indicavano le aree dove l'at-tività nanotecnologica era ancora intensa.

«Prevediamo che ci sia stata una riduzione simile nella popolazione» stava dicendo Chu a un pubblico invisibile. «E ve ne daremo conferma tra pochi secondi.»

L'immagine agli infrarossi apparve punteggiata, poi si definì su colori più granulosi. Utilizzando le morfologie determinate da Erika sulla base dei suoi primi studi, Newellen aveva sviluppato tecniche di ingrandimento che permettevano di determinare in maniera approssimativa le caratteristi-che di vaste congregazioni di nanobestiole; "branchi", le chiamava lui. Il giallo indicava gli Assemblatori standard raggruppati sopra la struttura del-la costruzione stessa; il verde rappresentava i branchi di Disassemblatori che rastrellavano la regolite per racimolare i materiali grezzi che avrebbero trasportato, molecola per molecola, agli Assemblatori in attesa. Invisibili, ma sparsi in mezzo a tutti gli altri, c'erano i Controllori, di dimensioni maggiori, che fungevano da substazioni informative da cui venivano diret-te le operazioni; e i Programmatori, che trasportavano a mo' di corrieri i messaggi e le istruzioni all'intera popolazione.

I nanocannibali di Erika erano codificati in rosso. L'immagine processata dalla prima sonda aveva mostrato una chiazza rosso brillante che si rove-sciava sul sito come una marea, consumando tutte le nanomacchine che in-contrava. Erika aveva pensato che nel giro di dieci ore il rosso avrebbe in-vaso quasi tutto il resto della zona.

La sonda si librava sulla superficie lunare quando il cratere di Dedalo apparve alla vista. «Ci siamo» disse Chu. «Le immagini stanno arrivando. Le stiamo processando in tempo reale.»

L'immagine sull'oloscopio ruotò e si ingrandì fino a occupare tutto il vo-

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lume. Assunse i colori sgargianti dei segnali infrarossi. Ma i colori non e-rano quelli giusti. Per niente.

«Oh no» fece Erika, non riuscendo a trovare altre parole. L'immagine si stagliava con impressionante profondità. Era un mosaico

di colori luccicanti. La regolite, la costruzione, l'intero fondo del cratere, erano coperti di chiazze nere che avevano inghiottito quasi tutto il rosso. Macchie brillanti di giallo e di verde erano riaffiorate, colmando aree che solo cinque ore prima erano dominate dal rosso.

Jason si avvicinò a Cyndi. «Il contrasto è regolato bene?» «Questa immagine è pazzesca» esclamò lei, sbigottita. Le guglie di filo di diamante che sostenevano la struttura erano incande-

scenti, brulicanti di nanomacchine. Il complesso alieno spiccava nei mini-mi dettagli: le curve paraboliche dei segmenti a forma di petalo, le struttu-re simili a montagne russe che svanivano nel nulla, crepe luminose da cui si intravedevano gli immensi tunnel che si dipartivano dal pozzo centrale.

Chu sembrava essersi dimenticato che era in diretta. «Che sono tutte quelle chiazze nere?»

«Nel nostro codice il nero rappresenta un tipo sconosciuto di nanobestio-la» rispose Newellen. «Quello che vediamo è qualcosa di nuovo. Total-mente nuovo.»

«Non può essere vero» sussurrò Erika. Sentì Jason che le si avvicinava. Il centro di controllo si era fatto troppo silenzioso. «Cosa vuoi dire?» le domandò. «Cosa sta succedendo qui?»

«Una specie sconosciuta di nanobestiole.» Guardò Jason con gli occhi sbarrati. Il Select stava sicuramente registrando le sue parole e le avrebbe trasmesse ovunque. «Non possono replicarsi così in fretta. Credo che siano i miei nanocannibali. Sono stati riprogrammati. O forse sono state le altre nanobestiole a venire riprogrammate. Dedalo ha elaborato una classica re-azione immunitaria - hanno emesso una nuova forma di nanomacchine, come se fossero globuli bianchi.»

Fissò l'immagine della costruzione di Dedalo. «È una forma molto più aggressiva, e non credo che tollereranno altri attacchi da noi. Stanno impa-rando a proteggersi.»

23.

Base Alfa,

Base dell'Aeronautica di Wendover,

Utah

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«Ha trovato la nostra posizione, generale?» «Non sento nulla.» Simon Pritchard portò la mano all'orecchio e si chinò

per sentire meglio il giovane maggiore seduto a suo fianco. Nell'elicottero, il vento rendeva difficile ogni discorso. La pilota, davanti, non disse nulla mentre l'elicottero volteggiava nello spazio aereo ad accesso limitato.

«Le ho chiesto se sapeva dove eravamo, signore» gridò il maggiore Fe-lowmate.

«Non so di preciso. È la prima volta che vengo alla base Alfa.» Il maggiore indicò fuori con il braccio. «Stiamo andando in direzione

ovest; il confine dello Stato di Nevada è a davanti a noi a quattro chilome-tri di distanza. La statale I-80 è quaranta chilometri a nord, e Wendover è alle nostre spalle. In questo preciso momento stiamo sorvolando la base Alfa.»

«Il viaggio è stato un lampo!» gridò Pritchard. Guardando verso il basso, vide la bocca del cratere su cui si trovava la base. Si vedevano i bunker che sbucavano da terra, sparsi lungo la pareti del cratere come capanne disse-minate sopra una cava. «Perché non atterriamo?»

«Dobbiamo attendere l'autorizzazione, signore. Siamo in uno spazio ae-reo ad accesso limitato, priorità uno. Se a bordo non avessimo il trasmetti-tore elettronico che ci identifica come "velivolo amico", questi ci avrebbe-ro già abbattuti.»

Pritchard sbuffò e si sistemò sul sedile a espulsione. Essendo uno scien-ziato, aveva avuto poco a che fare con i militari operativi.

La pilota indicò qualcosa al di là del vetro della cabina e Felowmate si girò verso di lei. Si rivolse di nuovo a Pritchard. «Abbiamo ricevuto l'auto-rizzazione per l'atterraggio.»

Pritchard annuì e di nuovo guardò verso il basso. Il deserto si estendeva a entrambe i lati, interrotto solo dai tre recinti a filo spinato che circonda-vano la base. A ovest si vedevano le catene montuose del Nevada. Sulla sinistra c'era la base aeronautica di Wendover; si vedeva ancora la lunga pista sulla quale, venti minuti prima, era atterrato l'aereo dell'agenzia che l'aveva trasportato fin qui.

La base Alfa era stata costruita quarant'anni prima come deposito per armi nucleari e ospitava la maggior quantità delle testate nucleari ancora in mano agli Stati Uniti. La maggior parte era stata smantellata, ma alcuni dei dispositivi "più sicuri" erano rimasti lì, protetti da un nutrito gruppo di o-peratori che facevano capo alla International Verification Initiative.

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Mentre l'elicottero atterrava, il maggiore Felowmate chinò la testa e sal-tò giù dall'elicottero, facendo segno a Pritchard di fare altrettanto. La pilota rimase ai controlli e salutò Pritchard mentre quest'ultimo scendeva.

L'aria lo investì, calda e secca come se uscisse da un altoforno, e la pol-vere sollevata dalle eliche gli fece lacrimare gli occhi mentre si allontana-vano dall'elicottero Blackhawk dirigendosi verso un convoglio di auto-mezzi in attesa.

Le guardie in divisa di fianco al primo veicolo si misero sull'attenti con movimento brusco. Erano armate di fucili automatici. Dal veicolo scese una donna con un vestito bianco. Con i capelli biondi raccolti a chignon e le calze bianche, in quella terra deserta e incolta, la donna, con una mano sulla crocchia di capelli mentre con l'altra si proteggeva gli occhi, sembra-va il prodotto di un'allucinazione bizzarra.

Pritchard udì il rombo dell'elicottero che ripartiva per tornare alla base di Wendover. Dopo qualche secondo, per la prima volta dopo il suo arrivo in Utah, i rumori assordanti si erano attenuati sufficientemente per permetter-gli di sentire e di pensare con un minimo di chiarezza e di lucidità.

Il maggiore Felowmate fece le presentazioni mentre si avvicinavano al convoglio. «Generale, le presento Francine Helschmidt. È l'ufficiale di col-legamento dell'IVI a Salt Lake City.»

«Generale.» La stretta di mano era decisa e gli occhi duri come pietra vulcanica. «Sono a sua completa disposizione.»

«Grazie.» Pritchard esaminò il resto del convoglio. Ora che la polvere sollevata dall'elicottero si era dispersa, vide che le jeep avevano il colore blu dell'Aeronautica. Ciascuno dei mezzi aveva il proprio conducente e ospitava molti passeggeri civili, in più ospitava quella che sembrava una guardia armata. «Osservatori dell'IVI, immagino» disse Pritchard. La voce gli rimbombava in testa dopo il viaggio in elicottero.

«Sì, generale.» Francine Helschmidt gli allungò un elenco di nomi. «Le loro identità sono state controllate attraverso i canali consueti. Hanno avu-to la nostra parola che una volta rotti i sigilli dei bunker potranno seguirla ovunque e controllare ogni suo movimento e ogni suo gesto. Dobbiamo garantire che lei riceva solo le testate autorizzate.»

A Pritchard non piaceva il tono freddo che aveva assunto la Helschmidt. Le lanciò un'occhiata interrogativa. «Lei si riferisce ai dispositivi nucleari, è così? Non ho intenzione di utilizzarli come testate. Questa non è una guerra. Si tratta solo di una misura di difesa contro un pericolo extraterre-stre.»

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«Parliamoci chiaro, generale» replicò la Helschmidt, ritta a piedi larghi e con le mani sui fianchi. «Questi congegni sono stati prodotti esclusivamen-te per uso bellico.»

«Ah sì?» Pritchard serrò le labbra. Aveva già incontrato persone come lei, e a volte si divertiva a provocarle scoprendone i punti deboli. Ih quel momento però non aveva tempo per giochi del genere.

«Sì, generale» rispose la Helschmidt. «Ma sembrano esserci dubbi al ri-guardo, vero? Che si tratti di testate o meno, lei ha ottenuto l'autorizzazio-ne e noi abbiamo ricevuto istruzioni secondo le quali non devono uscire dai bunker più di sei "congegni". Ho già studiato il vostro piano di sicurez-za per il trasporto, e credo che potrebbe essere efficace, a patto che non si verifichino degli imprevisti.»

Pritchard decise di non reagire a questi commenti. Aveva discusso il piano con esperti provenienti dalle task force antisabotaggio e aveva lan-ciato una sfida a tutti i partecipanti affinché questi formulassero un piano d'attacco in base al quale sarebbe stato possibile intercettare le armi prima che venissero consegnate nel luogo convenuto. Ora aveva capito con chi aveva a che fare. La Helschmidt non sapeva di che cavolo stesse parlando, e voleva solo dare l'impressione di essere una persona importante. Pri-tchard si chiese come avesse fatto a raggiungere l'incarico che ricopriva.

«La ringrazio per la premura, signora Helschmidt. Ma ora vorrei prende-re in consegna il materiale.» Pritchard si rivolse al maggiore Felowmate che indicò con un cenno della testa l'automezzo in testa al convoglio. Pri-tchard aprì lo sportello e invitò la Helschmidt a salire. «Si accomodi.»

«Salgo dietro, generale.» «No, la prego.» La Helschmidt salì. Pritchard chiuse lo sportello anteriore e salì dietro

prendendo posto a fianco di Felowmate. Non appena Pritchard ebbe allacciato la cintura di sicurezza, il convo-

glio di automezzi partì con movimento incerto per la strada sterrata, co-sparsa di buche, ramoscelli e sterpaglie.

La Helschmidt si rivolse a Felowmate: «Maggiore, lei ha la chiave olo-grafica secondaria, immagino».

«Certo» rispose il maggiore portandosi la mano sul petto. Spiegò la pro-cedura a Pritchard. «Per aprire i bunker, servono due chiavi olografiche. Assieme producono la corretta configurazione di interferenza. Una delle chiavi è sotto la responsabilità dell'IVI, e l'altra è custodita qui alla base. Sono necessarie tutte e due per aprire i bunker.»

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Pritchard aveva sentito parlare di queste chiavi. Con i laser era possibile produrre un numero quasi infinito di configurazioni di interferenza. Senza l'esatta sequenza di frequenze spaziali era impossibile decifrare il codice necessario per aprire i bunker.

Il veicolo procedette sobbalzando, mentre l'autista cercava di mantenerlo sulla parte meno accidentata della strada. Pritchard esaminò il paesaggio per qualche istante prima di parlare. «Da quanto tempo lavora per l'IVI, si-gnora Helschmidt?»

Lei si aggiustò i capelli. «Questo è il mio secondo anno. L'amministra-zione mi offrì questo incarico dopo le elezioni.»

«Immagino che si sia occupata di disarmo prima...» «Veramente no. Avevo una piccola società di pubbliche relazioni a Wa-

shington. Ho lavorato per la campagna elettorale. Per un anno e mezzo so-no stata quasi sempre in giro a preparare il terreno per le visite del presi-dente.»

Pritchard si trattenne dal fare commenti. Durante la sua rapida carriera nell'Aeronautica aveva imparato a sopportare le interferenze dei politici e la loro maledetta capacità di complicare sempre le cose. Ma la maggior parte dei suoi incarichi, Pritchard se li era guadagnati trovandosi nel posto giusto al momento giusto. Pensò alla carriera di Celeste McConnell. Sì, era stata davvero fortunata, pensò - sopravvissuta alla distruzione della Gris-som fino a diventare direttrice dell'agenzia.

Il maggior Felowmate indicò all'autista una serie di bunker di cemento verniciati di bianco. «Eccoli, sono questi.»

Dietro di loro, il convoglio formò un semicerchio. I tre bunker erano uno di fronte all'altro, distanziati di centoventi gradi; erano alti circa sette me-tri, larghi circa una ventina e lunghi trenta, ed erano ricoperti da una ban-china di terra. Nel cratere c'erano almeno cinquecento bunker, tutti dotati di fari metallici sul tetto, con il simbolo internazionale a tre eliche, rosso e giallo, della radioattività.

Felowmate indicò il bunker più vicino. «Eccoci qua, generale.» Pritchard raggiunse Francine Helschmidt sul cortile di cemento davanti

al bunker più vicino. Cercava di tenere a bada la gonna, ma il vento conti-nuava a tirarla all'altezza del ginocchio. Pritchard alzò lo sguardo e vide che sopra la base si aggiravano, a varie altezze, sei elicotteri, modello Si-korsky modificato. Cani da guardia. Si rivolse a Felowmate: «Ci pensano loro a difenderci?»

«E anche a difendere noi da voi» ribatté Francine Helschmidt. «Nel caso

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dovessero verificarsi degli imprevisti.» Felowmate rispose a Pritchard. «Tre sono per la sicurezza e gli altri tre

atterreranno per trasportare sia lei che i congegni fino a Wendover, dove li potrà caricare sull'aereo da trasporto.»

«Perché tre elicotteri per portare solo sei congegni? Ho richiesto dei missili nucleari tattici. Non ci vogliono delle gru.»

«Gli altri due elicotteri fanno da esca» spiegò il maggiore. «Non vo-gliamo che nessuno sappia qual è l'elicottero col carico se non all'ultimis-simo momento. Per i terroristi, capisce.»

Scortati da un gruppo di guardie di sicurezza, tre uomini gli si avvicina-vano staccandosi dagli altri veicoli. In testa camminava un uomo in so-vrappeso che portava la giacca su un braccio; si asciugò il viso con un faz-zoletto e sotto le ascelle si notarono macchie scure di sudore. Accanto a lui c'era un uomo piccolo che sudava anche lui, ma sembrava intento a non farlo vedere più del dovuto. Il suo completo sembrava che fosse di due ta-glie più grande di lui. Il terzo uomo indossava una camicia larga a maniche corte. Era scuro di carnagione, di corporatura normale, e appariva a suo a-gio nel deserto. Solo lui sorrise a Pritchard. Gli tese la mano e gli parlò con accento britannico. «Generale Pritchard, lieto di conoscerla. Francine ci ha informato della procedura. Sarò lieto di portare a termine l'operazione.»

«Grazie» disse Pritchard e guardò gli altri due, che si limitarono a fare un cenno con la testa.

«Generale» disse la Helschmidt. «Ecco i colleghi dell'équipe locale della IVI. Siamo pronti?»

«Muoviamoci.» Il maggiore Felowmate si avvicinò al portone del bunker, sbottonò il

colletto della camicia color cachi ed estrasse dalla catena che portava al collo un cilindro corto simile a una piccola torcia elettrica, con la base punteggiata di piccole protuberanze. «Signora Helschmidt?» La Hel-schmidt fece altrettanto con la sua catena, estraendo un cilindro apparen-temente identico.

Il maggiore fece segno alle guardie di scostarsi. Le guardie si erano di-sposte a semicerchio attorno al bunker, con le armi pronte e puntate verso l'esterno. Pritchard percorse il deserto con lo sguardo, cercando un qualche segno di pericolo.

Quelle precauzioni gli parevano assurde lì nel cuore della base, in una zona protetta da quattro recinti di filo spinato e da decine di altre misure di sicurezza che impedivano l'ingresso agli estranei. Forse volevano fare im-

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pressione su di lui o sull'équipe dell'IVI. Il maggiore Felowmate accompagnò Francine Helschmidt e Pritchard

sul lato del bunker. All'altezza delle spalle, sporgeva un pannello grande come una scatola da scarpe. Felowmate indicò a Pritchard di indietreggia-re. «Stia al di qua della linea rossa, signore. Qui si aprono gli sportelli del bunker.» Il semicerchio rosso era poco visibile sul pavimento di cemento coperto di sabbia.

Felowmate spolverò il quadro e controllò il numero inciso sulla superfi-cie. «SK-3452» disse. Controllò il numero su un biglietto che aveva in ta-sca. «Tutto a posto. Controllato due volte.» Sia lui che la Helschmidt co-minciarono ad armeggiare con le chiavi.

Pritchard stava sulle spine lì sotto il sole del deserto. Avrebbe dovuto delegare questo compito noioso a qualcun altro, ma voleva seguire l'opera-zione passo per passo.

«Ho registrato il numero del bunker» disse la Helschmidt. «Ha mai fatto quest'operazione?» le chiese Felowmate. La Helschmidt esitò. «No.» Sembrava imbarazzata ma Felowmate non

volle farci caso. «Vado io per primo. Avrà dieci secondi per inserire la sua chiave. Se no, ogni allarme sulla base scatterà. Pronti? Via.»

Felowmate inserì il cilindro nella scatola. Accanto a lui la Helschmidt inserì la propria chiave olografica in un contenitore vicino. All'interno del-la scatola blindata, i laser registrarono le configurazioni di frequenza. Una luce verde si accese sulla parte inferiore della scatola.

«Bisogna aspettare finché le porte non si aprono del tutto» disse Felo-wmate mentre lentamente gli enormi sportelli si spalancavano; sembrava l'entrata di un'antica tomba.

«Ciascuno di questi sportelli di acciaio pesa circa venti tonnellate» spie-gò Felowmate. «Hanno uno spessore di dodici centimetri e sono costruiti in modo da poter resistere a una bomba da diecimila chili che scoppia nelle immediate vicinanze.»

Quando le porte si furono fermate, sembrarono le mascelle di un animale enorme pronto a ingoiare qualsiasi cosa che si avvicinasse. «Generale... si-gnora Helschmidt...» Felowmate fece loro cenno di entrare, poi si rivolse alle guardie di sicurezza. «Smitty, tu, Witz e Dardanelle seguiteci. Cono-scete la procedura.»

«Sissignore» risposero immediatamente puntando le armi verso di loro. «Hanno l'ordine di sparare, generale» aggiunse Felowmate. «Se succe-

desse qualcosa di irregolare.»

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Pritchard sorrise tra sé e sé. «Non si preoccupi per quanto mi riguarda, maggiore.»

«Siamo in attesa» disse la Helschmidt rimanendo vicina all'entrata in-sieme agli altri tre membri dell'équipe di verifica.

Entrando nel buio del bunker si avvertiva un'aria lievemente fredda e stantia. L'uomo piccolo dal completo troppo grande tirò fuori un'agenda elettronica e vi scrisse qualcosa. La luce delle plafoniere creava sul pavi-mento ombre taglienti. Sulle superficie grezza di cemento erano state di-pinte delle righe gialle.

Felowmate ne indicò una. «Seguitela e non allontanatevi dal tracciato.» «I congegni sono disposti a una certa distanza l'uno dall'altro» continuò

rivolgendosi a Pritchard. «Una concentrazione troppo alta farebbe aumen-tare le probabilità di fissione spontanea. Ci sono troppi neutroni vaganti nell'aria.»

Quando gli occhi di Pritchard si furono abituati alla luce, vide diversi corridoi che si dipartivano in varie direzioni. Dopo aver superato due bivi, Felowmate si fermò e tese il braccio verso destra. «Questa è la camera che ci serve. Signora Helschmidt?»

Si avvicinarono a un altro portone di acciaio. Nel muro era stato fissato un pannello delle stesse dimensioni di quello precedente. Felowmate e-strasse la chiave olografica. «Stessa procedura.»

Dopo avere inserito le chiavi sia lui che Francine Helschmidt fecero un passo indietro e il portone si spalancò. «Eccoci, generale. I suoi congegni sono qui.»

Se la costruzione aliena sulla Luna fosse stata veramente un pericolo imminente e Pritchard fosse dovuto passare attraverso tutti quei controlli e tutte quelle porte prima di arrivare ai mezzi di difesa, tanto valeva rinun-ciare a qualsiasi piano di difesa. Doveva parlare con Celeste perché snel-lissero le procedure.

Pritchard attese che il maggiore entrasse nella camera. Quando nessuno si mosse per accompagnarlo, anche Pritchard entrò. Vide dieci barattoli metallici grandi come barili di petrolio, ciascuno collocato all'interno del proprio cerchio giallo.

«I contenitori di stoccaggio, signore» disse Felowmate. «Sono dotati di un dispositivo in grado di disattivare i congegni in caso di furto. C'è tutta un'altra serie di elementi piuttosto antipatici in questi contenitori, pronti a scattare nel caso qualcuno volesse manometterli, ma di questi non posso parlare.»

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La Helschmidt, insieme ai colleghi dell'équipe, entrò nella camera. Dopo aver controllato che le testate fossero collocate in maniera regolare, ne in-dicò sei. «Sono suoi, generale.»

Pritchard annuì. «Se le nanomacchine degli alieni si rivelassero un peri-colo, queste armi potrebbero rappresentare la nostra ultima speranza. Se devo lottare con la burocrazia per creare un cordone sanitario attorno alle testate, lo farò.»

«Buona fortuna, generale» disse Felowmate. «Quelli che stanno sulla Luna in questo momento ne hanno bisogno più

di me.» Felowmate fece un cenno con la testa alle guardie di sicurezza appostate

ancora all'entrata. «Smitty, chiama gli uomini per trasferire il materiale. Il generale Pritchard vi darà le istruzioni necessarie.»

Francine Helschmidt si chinò verso Pritchard e gli disse a voce bassa: «Non ci faccia pentire di quello che stiamo facendo, generale».

24.

Cratere Dedalo, Lato Oscuro della Luna

Bryan Z. starebbe proprio bene con un filo d'erba in bocca, pensò Jason.

Anche in tuta spaziale, il pilota aveva l'aria di un ragazzo di campagna, persino quando si avventurava da solo in missione sul desolato Lato Oscu-ro della Luna. Non era un tipo grezzo, ma era talmente onesto e schietto da rasentare il ridicolo.

Dopo che Zimmerman si fu sdraiato sul fondo del veicolo lunare per non farsi vedere, questo si avviò velocemente. Il Controllo Missioni dell'agen-zia e tutti gli spettatori delle newsnets credevano che si trattasse di un vei-colo telepresente di ispezione requisito da Newellen. Ma Zimmerman si era offerto volontario per mettere in atto un'idea che era solo sua. Era un tentativo disperato, naturalmente, ma quelli di Columbus non avevano al-tre idee. E non avevano niente da perdere.

Jason si trovava con Big Daddy Newellen e Cyndi Salito in cima a una collinetta a dieci chilometri di distanza da Dedalo. Da lì Jason poteva an-cora scorgere alcuni particolari della costruzione, simile a una tela di ra-gno, a una scultura di vetro filato all'estremità della stazione VLF. La strut-tura centrale a forma di fiore - un'antenna parabolica? - scintillava sotto la luce tagliente del sole assieme alle forme convesse delle strutture di sup-porto. Il complesso ora appariva opaco e con una forma solida e ben defi-

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nita. «La cosa ormai sembra quasi finita» disse Newellen nella trasmittente

della tuta. «E pensare che l'abbiamo scoperta solo sei settimane fa.» Da quella posizione potevano anche vedere agevolmente dove sarebbe

atterrata la navetta dell'agenzia, con a bordo le sei testate nucleari che a-vrebbero dovuto collocare attorno alla costruzione aliena. E che avrebbero dovuto far esplodere, se le cose fossero si fossero messe male.

Non era per questo che sono venuto sulla Luna, pensò Jason. Diede uno sguardo al cronometro proiettato sulla visiera. «Mancano cinque minuti» annunciò.

«Perfettamente in orario, spero solamente che atterrino nel posto giu-sto.»

Newellen sbuffò dentro la sua trasmittente. «Non voglio nemmeno pen-sare a cosa farebbero sei testate nucleari se mancassero il bersaglio e ci ca-dessero in testa.»

«Peggio per voi. Io me la caverei» rispose Zimmerman dal veicolo luna-re. Jason si chiese se c'era una traccia di umorismo nel messaggio.

«Non sono innestate» disse Cyndi. «Tocca a noi attivare una procedura di azione concordata quando seppelliamo le testate.»

«Zitti tutti» disse Jason. «Stiamo per andare in diretta. Non vogliamo che sentano la voce di Cyndi.» La Salito indossava la tuta di Zimmerman nel caso una telecamera avesse captato la targhetta.

Jason sentì un clic nella cuffia e poi la voce filtrata di Bernard Chu. «Ja-son, qui Columbus. Mostriamo che il collegamento con L-2 è stato stabili-to. Abbiamo un nuovo vettore sulla navetta. Dovrebbero atterrare all'ora prevista.»

Chu sembrava ancora nervoso sulla questione della collocazione delle testate. Dopo che la sua bomba rudimentale non aveva provocato il danno sperato e che il piano di Erika era fallito, Chu aveva cambiato completa-mente atteggiamento. Jason lo capiva: e se le nanomacchine avessero sca-tenato una rappresaglia? Avevano subito già abbastanza provocazioni. O forse Chu ce l'aveva con Celeste, che dava ordini del genere standosene comodamente sulla Terra, al riparo da ogni pericolo.

Jason si accese il microfono posto sul mento. La sua voce, per raggiun-gere il satellite ripetitore L-2, arrivare da lì alla Terra e tornare a Colum-bus, impiegava tre secondi. «Qui siamo pronti, Columbus. Se l'atterraggio fallisce lo saprete voi prima di noi. Per voi lo spettacolo durerà più a lun-go.»

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Jason si ricordava di aver letto di catastrofi verificatesi nel trasporto di testate nucleari durante la Guerra Fredda: bombardieri che si schiantavano durante il decollo, testate sganciate per errore, scontri in volo dopo i quali si veniva a sapere che alcune testate erano andate perse...

Jason sapeva benissimo che la frequenza di tali incidenti era ben supe-riore a quanto potessero prevedere le leggi statistiche, e mentre aspettava l'astronave telepilotata che trasportava più di venti milioni di tonnellate di esplosivo e che doveva atterrare un chilometro più in là, aveva il cuore in gola.

Né lo confortava che il pericolo nanotecnologico fosse lì a dieci chilo-metri di distanza.

Non capiva come Zimmerman avesse trovato il coraggio di stare là dove sarebbe atterrata la navetta, proprio lui che non si fidava dei sistemi auto-pilotati.

«Manca un minuto» disse Chu. Jason voltò le spalle a Dedalo e guardò in alto. Scrutò il cielo avaro di

stelle. Il sole era ancora alto e illuminava il paesaggio anche se c'era buio per l'assenza di atmosfera che diffondesse la luce. Mancavano tre giorni prima che il sole tramontasse per due settimane. La voce Cyndi Salito in-terruppe il silenzio. «Eccola» disse per radio. Poi si fermò ricordandosi che non avrebbe dovuto dire nulla. Tese il braccio in direzione di Dedalo, ver-so nord, a trenta gradi dall'orizzonte.

Jason vide un gruppo di stelle che combattevano il bagliore del sole. Captò un movimento con la coda dell'occhio. Là, appena al di sotto della Corona Boreale c'era una luce che diveniva sempre più intensa con il pas-sare dei secondi. La nave aveva già superato il punto L-1 e discendeva per mezzo di una rapida orbita polare attorno alla Luna. Nel silenzio più totale, l'enorme costruzione aliena si ergeva immobile al di sopra del fondo del cratere.

Sul canale Select dell'agenzia e sugli altri canali a cui la base lunare Co-lumbus aveva accesso si stava svolgendo il drammatico dibattito sullo sco-po della struttura. Era una specie di antenna per la comunicazione? Un a-nalizzatore dei raggi cosmici? Un'opera d'arte come la torre di Alexandre Eiffel sulla Terra?

Queste domande infastidivano Jason ora più che mai. Lui stesso stava contribuendo alla distruzione della struttura a prescindere dalle ragioni del-la sua esistenza. Come architetto, la sua sensibilità era offesa dall'idea di abbattere un oggetto così spettacolare solo a causa di paranoie. Ma come

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residente della base lunare Columbus, la cosa lo terrorizzava. La macchia di luce della navetta stava aumentando e ora Jason era in

grado di distinguere qualche dettaglio. Cosa succede se va oltre il luogo di atterraggio e colpisce la stessa struttura? E cosa succede se le nanomac-chine raggiungono le testate prima ancora che qualcuno possa farle detona-re? Sicuramente, per i Disassemblatori disinnescare le testate sarebbe stato un lavoro di pochi minuti. Forse Celeste McConnell aveva innescato le te-state in modo che fossero pronte per la detonazione immediata a distanza in modo da evitare che ciò avvenisse.

Si ricordò dello scetticismo della McConnell riguardo la totale elimina-zione delle nanobestiole dai corpi dei residenti della base lunare. Forse vo-leva far detonare le testate già da principio; distruggere la struttura, e la maggior parte dei suoi problemi, e far credere che si trattasse di un errore?

Jason cominciò a sudare forte e i meccanismi compensativi della tuta spaziale si attivarono. La prospettiva gli sembrava così ragionevole che non aveva modo di togliersela dalla testa. Jason cominciò a formulare in parole i propri dubbi, poi decise di non esprimerli apertamente. Ebbe a ma-lapena il tempo di scorgere le gambe lunghe e sottili della navicella che at-terrava nel luogo stabilito in perfetto orario.

Jason chiuse gli occhi e sollevato sospirò silenziosamente. «Un altro atterraggio perfetto» disse Newellen alzando il braccio. «Sia

lodato il pilota automatico.» Il movimento della tuta a volume costante spinse indietro l'altro braccio.

Per radio si sentì un verso, probabilmente proveniente da Zimmerman. Jason attivò il microfono sul mento. «Contatto visivo dell'atterraggio,

Columbus. Presto il veicolo lunare sarà là per lo scarico delle testate.» Proprio in quel momento, vide il veicolo avanzare sobbalzante verso il sito dell'atterraggio.

Dovevano ancora scaricare le testate e collocarle attorno a Dedalo, ap-pena al di fuori della zona calda. Sei testate, ciascuna equivalente a più di tre milioni di tonnellate di TNT. Se con questo non era in grado di venire a capo della "gigaminaccia nanotecnologica" nient'altro lo sarebbe stato.

Una volta posizionato l'anello difensivo, la mossa successiva spettava al-la struttura aliena.

Lon Newellen era seduto e piegato sopra i controlli del veicolo lunare te-

lerobotico. «Con calma» mormorò Cyndi alle sue spalle. Sul viso paffuto di Newellen si era formato uno strato sottile e lucente di

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sudore. Non spostò gli occhi dai controlli. «Scherzi?» Jason li raggiunse nel retro della cavalletta che li aveva trasportati fino

all'altro lato della Luna. Tutti e tre avevano le visiere sollevate per respira-re liberamente all'interno della cabina sigillata.

«Scusa.» Cyndi fece un passo indietro e lanciò a Jason un sorriso nervo-so. Jason annuì e non disse nulla. Newellen stava facendo un ottimo lavo-ro.

Newellen usava le braccia robotiche del veicolo lunare per penetrare nel-la navetta. Zimmerman non era nel campo visivo ristretto del veicolo, il che era conforme al piano.

Lo sportello della navetta si aprì. È possibile che l'agenzia abbia instal-lato una trappola esplosiva? Jason pensava alla lettera modello "A chi di competenza" che Chu aveva trovata nell'ultima navetta di rifornimento. Avrebbero fatto la stessa cosa anche questa volta?

Le sei testate erano nei contenitori bianchi di Base Alfa. Tutti avevano visto il nastro in cui il generale Pritchard dirigeva le operazioni di carico delle testate nucleari sul razzo di trasferimento da Cape Canaveral. Tutti sapevano che le testate dovevano rimanere innocue finché non fossero sta-te innescate da una PAC, ma Jason era ancora nervoso. Non poteva imma-ginare che sentimenti provasse Zimmerman mentre cercava di tenersi fuori visuale.

Newellen operò con le braccia robotiche. Una volta sistemato il primo contenitore sul pianale basso del veicolo lunare, passò subito al secondo. Stava imparando come funzionava.

Con la coda dell'occhio, a un certo punto scorse il riflesso di una tuta bianca: Bryan Z. che cercava di tenersi in disparte. Ma Newellen manovrò rapidamente la telecamera del robot e si concentrò al trasferimento dalla carlinga delle testate rimanenti.

Newellen ritirò le mani dal controlli virtuali e si asciugò la fronte. «Cyndi, portami un sacchetto di mele liofilizzate dalla cassetta di riserva e poi sarò pronto per la consegna.»

Masticando, riprese il controllo. Davanti a lui sulla mappa dell'area vide-ro il segnale del veicolo lunare che si allontanava dal punto di atterraggio della navetta. In colori brillanti, la mappa segnava i confini della zona cal-da di Dedalo con punti più luminosi dove dovevano essere collocate le te-state. «Ci vorrà un'ora prima che vengano scaricati tutti e sei.»

«Zimmerman avrà tutto il tempo che gli serve» disse Jason. Newellen seguiva la rotta predeterminata attorno a Dedalo, fermandosi

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nei punti designati. Sembrava molto meno nervoso ora e si fermava solo per pochi attimi depositando i contenitori bianchi sul terreno lunare con il braccio robotico. Non c'era bisogno di grande precisione nei movimenti. Dato che l'esplosione dell'anello nucleare sarebbe stata comandata dalla Terra, pochi metri di regolite polverosa sparsi più in qua o più in là non avevano alcuna importanza. Jason rimase teso per tutta la durata dell'ope-razione. Non avevano sentito nulla da Zimmerman e non si aspettava alcu-na notizia per altri quindici minuti.

Una alla volta, Newellen scaricò tutte e sei le testate. «Mi sono meritato una pizza per quando rientriamo alla base» disse.

L'operazione era finalmente terminata; aveva fatto l'intero giro della zo-na di pericolo di Dedalo, larga tre chilometri, ed era tornato alla navetta. Zittì la Salito con un gesto e si rivolse all'intercom. «Columbus, missione compiuta, e siamo pronti per tornare con il veicolo lunare.»

«Ricevuto. Avete sistemato tutto?» chiese Bernard Chu. Sapevano tutti a che cosa si riferiva veramente.

«Quasi. Stacchiamo il collegamento con L-2 mentre ripariamo a distanza il veicolo lunare. Presto saremo di ritorno.»

«Buona fortuna.» Nello stesso istante in cui tacque la voce di Chu, Newellen staccò il col-

legamento. Lanciò un'occhiata a Cyndi. «Tutto bene?» Maneggiava gli attrezzi in maniera nervosa. «Ora sto cercando una vi-

suale diretta.» Jason si piegò in avanti verso i controlli. Newellen tamburellava con le

dita sul pannello. «Sbrigati» borbottò. Diede un'occhiata all'orologio. «Cominceranno a sospettare qualcosa se stiamo fuori contatto per più di qualche minuto.»

La Salito alzò la testa. «Eccolo.» Passò la mano sopra un assortimento di luci. La voce di Bryan arrivò attraverso il nuovo collegamento radiofonico. «Lasciamo stare. I bastardi ci hanno fregato ancora una volta.»

Jason si avvicinò all'intercom. «Hanno sabotato il serbatoio del carbu-rante?»

«Sì, ma anche di peggio. Hanno sistemato un casino di esplosivo ai co-mandi. Potrei disinnescarlo in non molte ore, ma chissà quando si decide-ranno a farlo saltare. Immagino che abbiano pensato che se avessimo tro-vato un modo di rimediare al sabotaggio del serbatoio tanto vale far saltare l'intera baracca.»

Jason si sentì mancare e inspirò. «Va bene Bryan. Torna qui. Sali sul ve-

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livolo e vieni a bordo prima che si insospettiscano da Terra.» «Ricevuto» rispose Bryan. Jason si lasciò andare contro lo schienale della sedia. Volevano andarse-

ne con la navetta dopo avere scaricato le testate. Una volta a Columbus, e con un po' di tempo a disposizione avrebbero trovato il modo di tornare sulla Terra. Almeno avrebbero potuto tentare.

Ma chi poteva immaginare che ancora Celeste McConnell non si fidava di loro?

25.

Base lunare Columbus «Abbiamo lasciato lo stereochip proprio lì in modo da poter seguire ogni

mossa» disse Newellen, senza fare caso a dove andava con il veicolo luna-re. «Ma se qualcuno decide di far detonare quelle testate nucleari, noi non vedremo un accidente. I raggi gamma arrivano veloci e friggeranno i cir-cuiti dei chip prima ancora che cominci lo spettacolo vero e proprio.»

«Quelli della Terra non devono premere il bottone così» protestò Cyndi Salito. «Siamo noi quelli che ci andranno di mezzo.»

«Giusto» osservò Bryan. Il tono della sua voce non tradiva emozioni. Il veicolo lunare proseguì lungo la pista buia illuminata solo dalle stelle che portava dalla pista di atterraggio fino a Columbus.

«Alt!» disse Jason. «Ricordatevi che questa è una misura da adoperare come ultimissima risorsa se quella cosa a Dedalo dovesse attaccarci. Non si tratta di farla saltare in aria e basta.»

«Giusto» ripeté Bryan. «Jase, secondo te, chi è che decide veramente se bisogna attivare le te-

state o no?» chiese Newellen. «Il Presidente, e probabilmente anche Cele-ste McConnell. Dopo tutto è lei che comanda qui. Chissà, forse anche il generale Pritchard. Ma mi spiegate una cosa? Com'è che noi che siamo qui in prima linea non decidiamo nulla?»

Jase non sapeva cosa rispondere. Sapeva solo che Celeste McConnell aveva deciso di sabotare la navetta che aveva trasportato le testate, e non poteva nemmeno protestare perché così lei avrebbe capito che l'avevano ingannata e che volevano riprendersi il veicolo spaziale.

«Stai attento alla guida, Big Daddy» disse Jason. «È troppo buio per ca-pire dove stiamo andando.» Era notte a Columbus e Newellen aveva già sfiorato un buon numero di macigni di dimensioni sufficienti a distruggere

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il veicolo. Non avevano parlato per quasi l'intero viaggio di ritorno, da quando con

la cavalletta erano decollati dal Lato Oscuro per tornare alla zona di atter-raggio a venti chilometri di distanza dalla base lunare. Era l'ultima caval-letta di Columbus e Jason si sentiva un po' a disagio per la frequenza con la quale la utilizzavano.

Il silenzio dell'equipaggio era causato dal cappio nucleare appeso al col-lo di Dedalo. O forse era stata l'ultima immagine della navetta che giaceva come una balena metallica arenata su un banco di sabbia, disattivata deli-beratamente in modo da togliere all'equipaggio della base qualsiasi via di fuga.

Le luci di Columbus brillavano dai moduli e dalla cupola blindata del centro di controllo. Jason vide una figura in tuta che usciva da una camera pressurizzata posta sotto un monticello di regolite. «A quanto pare, ci mandano la comitiva per il benvenuto.»

«O un messaggero di cattive notizie.» «Va bene. Non appena segnala, spegni le comunicazioni in linea retta e

interrompi il silenzio radiofonico. Cyndi, non dire nulla perché non dovre-sti essere con noi.» Jason si stava stancando delle trasmissioni in linea retta che costringevano ognuno di loro a piazzarsi davanti all'apparecchio radio ricevente per ogni minima conversazione.

Newellen rallentò per parcheggiare il veicolo lunare sotto il tendone vi-cino alla camera di pressurizzazione che si stava aprendo. «Eccoci di nuo-vo, tornati dopo aver salvato il mondo. Sono graditi premi in denaro, vino, donne. Scegliete voi!» disse.

«Chiudi il becco, Big Daddy» disse la Salito mentre scendeva dal veico-lo lunare e spazzava via del pulviscolo. «Cominci a darmi sui nervi.»

Newellen fece un verso. «Siamo qui che rischiamo la vita per l'umanità intera, e guarda come ci trattano!»

Come se avessero già fatto delle prove, le sagome più piccole di Bryan e Cyndi sollevarono la grande massa di Newellen nella bassa gravità e lo portarono a fatica dentro la camera di pressurizzazione. Jason osservò la loro uscita improvvisa, mentre l'altra figura in tuta chiudeva il portellone.

«Ciao, Jase.» Jason si voltò. La figura al suo fianco lo stava aiutando a ripulire i com-

ponenti più delicati del veicolo dalla nera polvere lunare. Riconobbe il viso di Erika attraverso la visiera. Era contento. Era contento che fosse uscita per venirgli incontro.

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«Ciao.» Erika rise. «Sono contenta di rivederti.» Esitò, e poi si guardò attorno.

«È un po' difficile chiacchierare con queste tute.» «Specialmente quando tutti ti sentono.» Jason se la immaginò che arros-

siva, anche dietro le visiera illuminata dall'interno. La comunicazione in linea retta poteva essere privata, ma...

Spense la radio e le si avvicinò. Toccò il suo casco col proprio e ad altis-sima voce le urlò di spegnere la radio. Mimò il gesto con la mano.

Erika sembrava non capire, poi premette il mento contro la parte inferio-re del casco. Jason fece un passo indietro e diede un'occhiata alle luci; la luce della radio era rossa. «Ora nessuno ci sente.»

«Sembra che parli dal fondo di una piscina, ma ti sento. Evviva la bassa tecnologia.»

Jason attese che Erika dicesse qualcosa ma lei rimase in silenzio. «C'è qualcosa che non va? Perché sei venuta di persona? Per salutarmi?»

Rimase silenziosa per qualche secondo. «Credo che avessi bisogno di qualcuno con cui parlare.»

Jason sorrise dentro di sé. «Grazie.» Col guanto le toccò il braccio della tuta spaziale. La stoffa argentea gli

sembrava dura, anche attraverso il guanto. Gli faceva piacere che, con l'e-norme stress a cui erano sottoposti, Erika voleva stargli vicino e che a-vrebbe potuto parlare con lui. A Simul-Marte avevano passato molto tem-po insieme. Perché ora voleva sempre stare da sola? Era così intelligente e attraente ma anche dura. Il suo accento della Carolina del Sud e il suo at-teggiamento pudico la faceva sembrare sommessa e indifesa, ma Jason sa-peva che non era così. Stare nelle vicinanze di Erika lo lasciava senza fia-to.

Al suo confronto Margaret era una vera strega. Si chiedeva che cosa sua moglie, la sua futura ex-moglie, stesse raccontando ai giovani Lacy e La-wrence. Dal momento che Jason non poteva essere là per dimostrare il suo amore, i bambini non avevano scelta e dovevano ascoltare la sua rabbia e la sua amarezza. Margaret aveva ottenuto una separazione legale inutile. Non potevano certo essere più separati di così, con lei sulla Terra e lui im-prigionato sulla Luna. O forse voleva sistemare gli aspetti legali in modo da non complicarsi la vita quando si trovava con l'amico, "Perry".

Erika spostò indietro il casco interrompendo il contatto audio. Alzò la mano come se volesse sistemarsi i capelli ma si fermò quando il guanto colpì il casco. Ora, Jason non sentiva altro che il proprio respiro. La tirò

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verso di lui fino a che i caschi non furono uno contro l'altro. «Vieni. Entriamo. Stanno per analizzare di nuovo il cratere con i raggi

infrarossi.» Erano soli nello spazio di attesa della camera di pressurizzazione mentre

appendevano le tute, seguendo meticolosamente tutte le procedure per staccare i collegamenti tra le varie parti della tuta. L'aria sfrecciò attorno a loro ripulendoli dal pulviscolo lunare che poteva sfuggire all'unità elettro-statica di soppressione. Mentre si dirigevano verso il corridoio principale, Jason diede una rapida occhiata all'insegna illuminata appesa sopra il por-tello ermetico gonfiabile. "SAFETY FIRST", prima di tutto la sicurezza. Scrollò la testa, pensando che quel cartello sembrava ironico dati gli avve-nimenti che erano appena trascorsi.

Mentre procedevano verso il centro di controllo, Jason sentiva addosso l'umidità dell'aria condizionata della base. La tuta da ginnastica color co-balto che portava era impregnata di sudore. Mentre entravano nella cupola centrale, Chu fece un cenno di saluto con la testa. Non disse nulla sul sabo-taggio della navetta. Tornò a scrutare l'oloscopio e disse: «L'arrivo della prossima sonda perforatrice è stimato a 3,6 minuti».

La conferma impiegò ben due secondi per arrivare dalla Terra. «Con-fermato, Columbus. Questa ricognizione servirà a controllare nuovamente se è successo qualcosa dopo il posizionamento delle testate. Avete iniziato la procedura diagnostica?»

Chu alzò la testa per ispezionare il centro di controllo. Due degli opera-tori del sismografo, del rivelatore delle radiazioni e degli altri strumenti di controllo risposero affermativamente alzando il pollice. «Sembra tutto a posto» disse Chu.

Passarono alcuni secondi. Albert Fukumitsu, il supervisore del Controllo Missioni dalla Terra, rispose sul canale audio. «Bene, Columbus. Vi rile-viamo a due minuti. Passate sulla visuale a raggi infrarossi della sonda.»

Chu si irrigidì. Jason capiva quanto risentiva del fatto di essere coman-dato dalla Terra. Che fine ha fatto il tanto osannato principio di decentra-mento del comando così caro all'agenzia? pensò. Ecco cosa succede quando i burocrati prendono il comando.

L'oloscopio emise un segnale e poi trasmise l'immagine della superficie lunare mentre scorreva a gran velocità sotto la traiettoria della sonda perfo-ratrice. Il grosso proiettile, composto di fibre lunghe, era ancora relativa-mente alto rispetto alla superficie lunare e stava trasmettendo messaggi al

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satellite ripetitore L-2 e da lì alla Terra. Presto avrebbero ricevuto le im-magini IR ad altissima definizione e avrebbero potuto rivedere dettaglia-tamente le immagini trasmesse dalla sonda mentre passava sopra la struttu-ra aliena.

Chu si avvicinò a Jason e Erika all'esterno del locale di trasmissione per il centro di controllo dell'agenzia. «Siete qui per i fuochi d'artificio, imma-gino. Benvenuti.»

«Grazie.» Chu si rivolse a Erika. «Sarà interessante vedere quanto attive sono state

le sue piccole macchine nanotecnologiche, dottoressa Trace. Sarebbe un gioco da ragazzi per loro smantellare quelle testate.»

Alla menzione delle sue nanomacchine Jason vide la sorpresa negli oc-chi di lei; come se la costruzione Dedalo fosse in qualche modo là per col-pa sua. Disse: «Sono appena stato lì, Bernard. Da quello che ho visto la costruzione sembra quasi finita».

Chu diede un'occhiata all'oloscopio, poi abbassò la voce. «Se è così, Ce-leste non aspetterà molto prima di far detonare quelle testate.»

Mentre parlava Erika fissava le trasmissioni della sonda. «Se non sap-piamo nemmeno cos'è, non possiamo dire con certezza se la costruzione sia terminata o no.»

«Trenta secondi» pronunciò la voce dall'oloscopio. Chu girò dall'altra parte e si concentrò nuovamente sull'attività. «Mas-

simo ingrandimento.» Strinse le mani l'una contro l'altra. «Intensificare il contrasto delle temperature sulla superficie. Impiegare immagini a colori artificiali.»

Nell'oloscopio, il terreno sotto la sonda scorreva rapidamente: una massa di uno strano colore grigio scuro con macchie di luce appena percepibili. Ogni tanto si vedevano dei lampi di colori primari che indicavano sottili differenze nella regolite lavata dal sole.

Superarono in un istante l'orlo del cratere e si trovarono davanti all'e-norme costruzione aliena che scintillava nella luce solare, macchiata da deboli cambiamenti cromatici indicanti le fluttuazioni di temperatura. A parte questo, per il resto la struttura era della stessa temperatura dell'am-biente. La zona calda che prima pulsava di colori intensi prodotti dalla di-spersione di calore determinata dall'attività delle nanobestiole era ora dor-miente ed era dello stesso grigio, calibrato sulla temperatura media del lato diurno della Luna.

Le antenne a dipolo della matrice VLF apparvero sul fondo del cratere

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mentre la sonda proseguiva. Ci vollero quindici secondi prima che l'olo-scopio si trasformasse in una massa bianca informe che si imponeva sul grigio mentre il segnale si spegneva. «Finita» disse Newellen.

Dal Centro Controllo Missioni sulla Terra arrivò la voce di Fukumitsu. «Non siamo riusciti ad avere dei dati buoni questa volta, Columbus. Mal-funzionamento della strumentazione a infrarossi?»

Chu aggrottò le ciglia e chiese agli operatori nella parte posteriore del centro di controllo. «In che condizioni è la sonda?»

«La strumentazione a infrarossi funziona normalmente.» «Va bene.» Chu rimase in silenzio, poi girò per la stanza. «Newellen, vai

al controllo e prova la strumentazione backup. Ripassiamo quegli ultimi quindici secondi, prova ad abbassarla il più possibile oltre la soglia di visi-bilità.»

«Va bene.» Newellen si diresse verso il lato e si piazzò dietro il pannel-lo. «Credo di riuscire a escludere i quasi-infrarossi con quel filtro.»

Un minuto più tardi guardavano l'immagine spettrale della struttura De-dalo con i contorni vaghi per la bassa definizione degli infrarossi prodotta dalla forte luce solare. La struttura non mostrava alcuna differenza di tem-peratura rispetto alla regolite che la circondava.

«Incredibile.» Newellen si girò nella sedia. «Temperatura ambiente. Se non sapessi che non è così direi che quella cosa è morta stecchita.»

«Che succede?» chiese Jason. «Come è possibile che quelle nanomac-chine non irradino calore? Ha a che fare con l'anello difensivo che abbia-mo allestito?»

«No» disse Erika. I suoi occhi, color verde-marrone, si allargarono. Ag-giunse con voce bassa e timorosa: «Significa che si sono fermate. Tutte le nanobestiole. Si sono spente».

«Cosa?» «Nessuna attività. Si sono spente.» Si mise a guardare l'immagine nell'o-

loscopio di Newellen. «Ciò significa che devono aver finito il loro compi-to! La struttura è completa. Qualunque cosa sia.»

Dalla Terra la voce di Albert Fukumitsu la interruppe; era agitato. «Co-lumbus, cosa sta succedendo lassù? Devo contattare la direttrice McCon-nell?»

Chu fece un segno con una mano dietro la schiena. «Spegnimi quegli i-dioti. Voglio pensare.»

Newellen fece un sorriso e parlò dentro il trasmettitore. «Aspettate, c'è qualche problema. Dobbiamo riaccendere il trasmettitore e ricominciare da

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capo.» Disattivò i canali di trasmissione con la Terra. Chu si avvicinò all'oloscopio. Fissò a lungo l'immagine. «Lanciate una

delle supermacchine fotografiche di Newellen. Voglio vedere la regolite da vicino. Se le nanomacchine si sono spente, allora la macchina continuerà a trasmettere immagini.» Si grattò i capelli scuri. «Così possiamo capire e-sattamente che cosa stanno combinando quegli alieni.»

Tre cubi mostravano immagini di configurazioni standard di prova pro-

venienti dalla supermacchina fotografica trasmittente; appariva una dicitu-ra luminosa sotto ciascuno dei cubi: IR, VISIBLE, UV. Dopo una breve scarica di elettricità statica le immagini si rielaborarono e cominciarono a mostrare micrografici ad alta definizione di granuli di regolite. Nient'altro.

L'estremità sensore della macchina fotografica aveva penetrato la regoli-te per molti metri. Avrebbe dovuto essere pieno delle nanomacchine che avevano smembrato Waite, i suoi compagni e la loro cavalletta. Invece non videro altro che regolite.

L'immagine ottenuta dagli stereo-chip superiori del sensore prendeva vi-sione del cratere da un angolo inclinato. La scintillante struttura aliena era in attesa.

«Ma perché ora?» Chu si girò nella sedia. «Non ha senso.» Newellen si raddrizzò nella sedia. «Crede che avrebbero potuto accor-

gersi che volevamo farli saltare in aria? Forse stanno trattenendo il respiro per vedere cosa faremo. Forse stanno raccogliendo le proprie forze per di-struggere le testate.»

Cyndi Salito sbuffò. «Qualcosa si sarebbe visto nell'immagine a infra-rossi.»

«Doveva succedere» osservò Erika. «Quando hanno terminato il lavoro preprogrammato della costruzione dovevano spegnersi.»

Di nuovo, il silenzio. Le immagini dell'oloscopio non cambiavano. Semmai, il cubo a infrarossi si era oscurato.

«È già passato un minuto» annunciò Newellen. Erika si discostò da Jason e si avvicinò all'oloscopio, accanto a Chu. Fe-

ce passare il dito lungo il contorno della struttura a distanza nell'oloscopio. Jason la seguì con gli occhi per un momento e disse: «Va bene? Che si

fa?» «Presto» disse Chu. «Dobbiamo decidere in fretta, altrimenti l'agenzia

deciderà per noi. Si spaventeranno e premeranno il bottone.» La voce di Erika sovrastò il mormorio del centro di controllo. «C'è qual-

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cosa che dobbiamo fare. Qualcosa che finalmente possiamo fare. Era im-possibile prima.»

Jason notò che tutti gli occhi dei presenti erano puntati su di lei. Persino Bernard Chu la guardava con le sopracciglia alzate, in attesa.

«Dobbiamo andare là di persona. Finalmente potremo vedere cosa è davvero quella cosa» disse Erika come se fosse la cosa più ovvia a cui pensare.

26.

Washington D.C. Celeste si svegliò urlando. Non riusciva a respirare. Le lenzuola bagnate di sudore erano intrecciate

attorno al suo corpo come se qualcuno l'avesse assalita per violentarla. Chuck e Yeager saltarono giù dal letto e abbaiarono per proteggerla da

qualche minaccia invisibile. Il letto dondolava e i cani cercavano l'odore del nemico e tastavano il materasso con le zampe. Si guardavano attorno, cercando il nemico che in qualche maniera era riuscito a entrare in casa senza che loro se ne accorgessero.

Accanto a Celeste, Simon Pritchard si svegliò di scatto. Non riusciva a trovare parole dopo quel risveglio brusco. Allora prese Celeste tra le brac-cia, la strinse a sé e le sussurrò: «Shhh».

Celeste tremava e combatteva le visioni provenienti dal suo subconscio. Si rannicchiò contro il petto di Pritchard e sentì il caldo del suo corpo e la pelle delle sue braccia mentre lui la stringeva a sé.

L'incubo era come l'ombra di una terribile cosa che si era scatenata in tutta la Terra, così grande che avrebbe potuto inghiottire persino le stelle. Un altro aspetto del sogno, luce intensa e tanto gelo. Qualcuno aveva aper-to la bottiglia ed era scappato il demone. Celeste si sentiva piccola e debo-le, soffocata dal terribile presentimento.

Non riusciva a concepire come fermare una cosa così immensa. «Non temere» le sussurrò Pritchard premendole le labbra contro la

schiena. Non riusciva a fugare dalla mente quel nero terrore. Aveva il cuore in

gola e cercava di riaversi dallo spavento. Sapeva che, mentre sognava, a-veva smesso di respirare, aveva rischiato di soccombere al terribile incubo.

Malvolentieri si liberò dalle braccia di Pritchard; doveva bere qualcosa, come per affogare le grida che le salivano in gola. Tremando, prese il bic-

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chiere di acqua tiepida sul comodino e bevve. Accanto al letto il labrador nero e il pastore tedesco guaivano e la guar-

davano ansiosamente per controllare che tutto andasse bene. Celeste chiuse gli occhi e cercò di reprimere un'altra ondata di panico. No, le cose non andavano per niente bene e niente sarebbe stato come prima.

A meno che non fosse riuscita a fare qualcosa per porvi rimedio. Molto spesso non riusciva a interpretare bene i sogni che faceva, ma con la Gris-som ci era riuscita. Questa volta doveva riuscirci.

Sempre voltando le spalle a Pritchard, Celeste cercò di ricacciare indie-tro le lacrime brucianti che le salivano agli occhi. Il generale rimaneva se-duto sul letto, confuso, senza sapere bene cosa fare per lei.

Allungò il braccio e lasciò che i cani le leccassero le dita rassicurandola. Il suo istinto le diceva di fuggire via. Ma Celeste McConnell, direttrice della United Space Agency, non poteva soccombere senza combattere. I ra-ri attimi di pace si frantumavano così rapidamente, così facilmente.

Lei e Simon Pritchard avevano deciso di passare qualche ora tranquilli, di prendersi un po' di tempo da dedicare solo a loro stessi dopo diverse set-timane di intenso lavoro e troppo poco sonno. Avevano fatto una cena a lume di candela, carne alla brace con verdure, che avevano consumato nel vano dalle pareti di vetro ricavato dalla veranda della casa di lei. Celeste si era assentata per qualche istante ed era tornata vestita solo con un négligé di seta rilucente. Pritchard aveva riso prima di alzarsi per abbracciarla e baciarla sulle labbra.

Quando avevano fatto l'amore per terra ascoltando il rumore delle mi-gliaia di insetti nel giardino, Celeste aveva sentito il sapore della salsa pic-cante da barbecue sulle labbra di lui. Poi, sopraffatta dal sonno, aveva chiuso ogni contatto tra la casa e il mondo esterno, avevo preso Pritchard per mano e lo aveva portato in camera da letto. Desiderava semplicemente un po' di tranquillità e di sonno, di cui aveva tanto bisogno. Entrambi meri-tavano almeno questo. Si baciarono e si strinsero per un po' prima di ad-dormentarsi, i loro corpi erano velati dal sudore nell'aria umida.

Poi gli incubi. Mille volte peggio del sogno della Grissom, peggio di quel presentimento terribile che la invadeva quando stava per accadere qualche disgrazia. Qualunque cosa stesse per succedere, avrebbe scosso il mondo intero.

Pritchard cercava di confortarla di nuovo. Le strinse le spalle e le mas-saggiò il collo e la schiena. Normalmente ne sarebbe stata felice ma ora le sembrava che i muscoli invece di sciogliersi si stessero spezzando. Era

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ormai un minuto che non si girava a guardarlo. «È solo un incubo» disse lui. «No» rispose con voce fragile e nervosa. Pritchard non capiva e non a-

vrebbe mai capito. «No, non è "solo" un incubo, Simon. Non è mai "solo" un incubo.»

Senza attendere la sua risposta, Celeste si alzò e si diresse al salotto. Il caminetto era nero e freddo. Sulla tavola dove avevano cenato giacevano i tovaglioli abbandonati dopo la cena.

Sullo schermo nello studio il riquadro rosso lampeggiava: messaggio in arrivo. Anche se non la sorprendeva, la vista di quella luce rossa e lam-peggiante la riempì di terrore. Ecco, ci siamo. L'ultima volta era Bernard Chu che la informava del contagio sulla Collins. Questa volta il suo incubo era stato infinitamente peggiore.

Sentì il fruscio del tessuto della vestaglia di Pritchard che si avvicinava, ancora perplesso. Con lui accanto, parlò rivolta al terminale: «Riferire messaggio». Sentiva l'ansia salire mentre l'immagine appariva sullo schermo.

Albert Fukumitsu, il direttore del Controllo Missioni locale, la fissava; sembrava esausto e irritato, con i capelli neri persino più disordinati del so-lito. Sospirò con un'espressione cupa e strinse le labbra prima di parlare. «Direttrice McConnell, la sto cercando urgentemente. Ho provato nel suo ufficio, con il telefono della macchina, e ora a casa.» Sospirò di nuovo. «Spero che riceva il mio messaggio.» Dietro le sue spalle molti tecnici del centro nevralgico erano al lavoro ed erano più agitati di quanto non avreb-bero dovuto essere a un'ora normalmente non molto impegnativa. Celeste McConnell vide le figure in tuta spaziale sugli oloschermi sul fondo ma non si ricordava affatto di attività esterne programmate per quel momento.

«Le macchine aliene su Dedalo hanno interrotto ogni attività: si sono spente. Tutte quante, simultaneamente. Anche se non sappiamo che cos'è quella struttura pare che sia stata completata e che sia pronta per l'uso. Ja-son Dvorak e Erika Trace hanno preso l'ultima cavalletta di Columbus e si stanno dirigendo verso Dedalo. Credo che lei dovrebbe essere qui. Il mon-do intero ci sta guardando.» Finendo la trasmissione, disse: «Per favore, si metta in contatto con me non appena possibile».

Nel buio della stanza, Celeste stette lì nuda e tremolante. Sentiva un gran freddo dentro il corpo. Fuori, nelle dense foreste attorno al fiume Potomac, sentiva il ronzio degli insetti, e aveva l'impressione che stessero discutendo l'imminente fine del mondo.

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I due cani camminavano su e giù per lo studio; le si avvicinarono strofi-nandosi contro le gambe per farsi accarezzare. Celeste sentì che la paura le stava facendo venire la nausea. Le cose stavano iniziando a prendere for-ma.

La costruzione su Dedalo era stata terminata. In qualsiasi momento il suo scopo sarebbe divenuto evidente, o Dvorak e la Trace avrebbero potu-to provocare qualcosa. In ogni caso, l'umanità intera era minacciata.

«Incredibile!» esclamò Pritchard. Sorpresa, Celeste lo squadrò e vide sul viso di lui un'espressione di meraviglia infantile. «Ora possiamo vedere fi-nalmente di che si tratta.»

Celeste ebbe l'impulso di urlargli qualcosa. Come poteva provare piace-re, esprimere curiosità quando quella cosa poteva essere un'arma capace di spaccare la sfera terrestre in due? Si controllò e cercò di riorganizzare i propri pensieri. Se esisteva qualche possibilità che lei potesse contribuire a salvare il mondo, doveva utilizzare ogni risorsa a sua disposizione.

«Simon» gli disse. «Qui siamo di fronte a una crisi. Ho bisogno di te come mai prima d'ora. Vestiti. Metti l'uniforme. Tutto il mondo ci starà a guardare, come diceva Albert. Dobbiamo essere all'altezza della situazio-ne.» Celeste controllò l'ora del messaggio di Fukumitsu e diede un'occhiata al cronometro appeso al muro. «Merda! Mi serve più tempo, più tempo!»

Guardò Pritchard ancora in vestaglia. «Simon!» Lo spinse verso la ca-mera da letto. «Vestiti! Dobbiamo fermarli prima che ci distruggano tutti!»

27.

Cratere Dedalo

«Non avrete problemi voi due lì nella cavalletta?» Jason controllò le

funzioni del pannello di controllo della parte anteriore della tuta spaziale. Fece qualche movimento con la mano, come per provare la tenuta dei guanti, prima di rivolgere lo sguardo a Bryan Zimmerman e Cyndi Salito all'interno dello spazio ristretto del veicolo.

«Scherzi?» gli sorrise Cyndi. «Tutto a posto, eh Bryan?» Zimmerman grugnì. Era assorto nell'intento di smontare le frequenze

codificate di collegamento tra l'agenzia e le testate collocate attorno al cra-tere; stava cercando di inserirsi con un programma che avrebbe alterato la sequenza di detonazione.

Mentre guardavano le sovrastrutture aliene che torreggiavano su di loro, Jason si stava pentendo di aver permesso la disposizione ad anello delle te-

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state. Sembrava la cosa più sicura, una difesa rassicurante contro l'ignoto. Ora, sia lui che gli altri due potevano perdere la vita in un attimo se qual-cuno sulla Terra si fosse fatto prendere dal panico. Per non parlare delle nanobestiole, apparentemente in stato letargico.

Dovevano farlo attraverso un tratto di regolite, lo stesso sul quale Waite, Becky Snow e Lasserman avevano perso la vita. I sensori a infrarossi della cavalletta erano collegati a una serie di suonerie che sarebbero scattate alla prima traccia di calore residuale che indicasse un ritorno all'attività da par-te delle nanomacchine. Nei caschi, avrebbero sentito la stridula voce di Cyndi che ordinava di allontanarsi più in fretta possibile.

Jason guardò Erika. «Siamo pronti?» Erika riaggiustò la cuffia che teneva lontani dagli occhi i suoi capelli co-

lor sabbia. «Sbrighiamoci.» Si diresse verso l'entrata della cavalletta. «Se voglio questo Premio Nobel devo pure guadagnarmelo, non ti pare?»

Jason prese in mano il casco. «Ci risentiamo, Cyndi. Bryan, come va con le frequenze?»

«Niente ancora» rispose Zimmerman. «Sono protette molto bene.» Jason cercò di reprimere la sensazione di panico che stava per assalirlo.

«Provaci ancora. Se riuscissi in qualche modo a bloccare quelle frequen-ze...»

«Sta facendo quello che può» disse Cyndi. «Abbiamo tutti lo stesso inte-resse a non farle esplodere.» Si avvicinò a Jason e gli diede un bacio sulla guancia. «Attenzione là fuori, mi raccomando.» Parlava a bassa voce e poi lanciò uno sguardo a Erika. «E stai attento anche a lei. Vi vedo bene in-sieme.»

«Grazie.» Era così evidente ciò che provava nei confronti di Erika? Evi-dentemente sì.

Dopo aver sigillato il casco si infilò dentro il boccaporto con Erika. Quando scese la pressione, la tuta si irrigidì mentre l'aria intrappolata si ri-distribuiva spingendosi nel vuoto come sospinta da migliaia di minuscole mani.

Uscirono dalla cavalletta e scesero dalla scala a pioli. Le stelle brillava-no nel cielo lunare nonostante fosse giorno sull'altro lato della Luna. Non appena toccarono il terreno friabile si sollevò una nuvoletta di polvere fi-nissima. Sulla parete del cratere c'erano sporgenze di lava pietrificata e si vedeva il percorso fatto da Waite con il veicolo lunare prima ancora della scoperta della struttura aliena. In lontananza, sul fondo piatto del cratere, simile alla scultura vitrea di un pazzo, la struttura di Dedalo si stagliava

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contro lo sfondo vuoto dello spazio. Toc toc. C'è qualcuno in casa? Jason attivò il microfono col mento e parlò a Erika. «Fai più fotografie

che puoi con gli stereochip aggiuntivi. Dobbiamo distrarre la gente sulla Terra. Dobbiamo dargli qualcosa di interessante da guardare.»

Erika scattò una panoramica del cratere e della porzione smantellata del-la matrice VLF. Il pozzo che si spalancava sotto gli enormi pali di suppor-to simili a ragnatele sembrava senza fondo.

Accanto alla cavalletta, il veicolo lunare si dispiegò raggiungendo le sue dimensioni normali. Jason esaminò i controlli del veicolo e sentì il proprio respiro che saliva e scendeva dentro il casco. Gli ricordò di quando faceva pesca subacquea sui banchi di coralli alle Hawaii. Ma qui non c'erano pe-sci colorati, ma solo Disassemblatori addormentati pronti a ridestarsi e a obbedire a nuovi programmi ancora più distruttivi.

Tre schermi occupavano quasi tutto lo spazio del pannello di controllo. Attivando tutti i sistemi, Jason accese il sensore anteriore e il radar a scan-daglio di superficie in modo da cogliere l'eventuale presenza di ostacoli non percepibili sotto il riverbero del sole.

Sull'altro schermo apparve una mappa digitalizzata della costruzione. Grazie alle osservazioni eseguite quasi quotidianamente man mano che il complesso alieno cresceva, la mappa del cratere era ormai completa in tutti i particolari. All'interno della zona calda c'era un pozzo profondo dal quale salivano le arcate principali della struttura. Oggetti trasversali, che sem-bravano palazzi, era disposti sui bordi. Nove strade rialzate collegavano i palazzi alla zona esterna al pozzo.

Con gli occhi sulla mappa, Jason tracciò un percorso verso il pozzo, poi una via di accesso che avrebbe potuto farli entrare nel complesso. Il testo che appariva sullo schermo dava una stima in tempo reale della resistenza della costruzione. Le nanomacchine che legavano insieme le molecole era-no in grado di creare sostanze dotate di una flessibilità e di una forza di gran lunga superiore perfino ai migliori materiali fabbricati in assenza di gravità che Jason aveva impiegato nei propri progetti architettonici sulla Terra.

«Allora? Ci muoviamo?» chiese Erika. Jason alzò gli occhi dalla mappa. «Subito.» Accelerò il veicolo lunare fino a raggiungere la massima velo-

cità. Si avvicinarono alla struttura di Dedalo. Per radio arrivò la voce di Cyndi. «Entrerete nella zona calda tra settanta

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secondi.» «L'ex-zona calda» le ricordò Jason. «Ancora nessuna attività?» chiese Erika. «Sarete voi a saperlo per primi» rispose Cyndi. «Grazie tante» disse Jason. Dietro la visiera trasparente il viso di Erika

tradì la paura, ma anche la meraviglia di trovarsi in procinto di mettere piede sul luogo che aveva studiato per così tanto tempo.

L'attenzione di Jason era tutta rivolta al terreno devastato davanti a lui. La superficie del fondo del cratere era liscia e le vibrazioni erano ridotte, nonostante la velocità con cui viaggiava il veicolo. Davanti a loro, fino a poche ore prima un'innumerevole quantità di nanobestiole pullulavano piene di vita. Jason sperò ardentemente che il loro sonno continuasse. Gli si affacciava di continuo alla mente il ricordo di Trevor Waite che soc-combeva all'attacco dei Disassemblatori.

Diede un'occhiata al monitor IR davanti a lui e non vide alcun segno di attività. La supermacchina fotografica di Newellen continuava a mandare immagini e a funzionare alla perfezione. Mentre viaggiavano lungo la strada di accesso, lo scandaglio radar non indicava alcun ostacolo più alto di cinque centimetri, tranne la costruzione.

«Dieci secondi.» Jason guardò Erika. Lei guardò in avanti, fissando la struttura aliena che

si avvicinava. Cyndi disse: «Complimenti. Desidero essere la prima a darvi il benvenu-

to a Nanotecnolandia. Si pregano i signori viaggiatori di tenere allacciate le cinture di sicurezza fino a quando la Luna non sarà completamente fer-ma».

«Dottoressa Salito, la prego. Questo non è il momento di scherzare.» La voce di Bernard Chu giunse alle radio delle tute, ricordando che non solo alla base lunare ma anche al Controllo Missioni sulla Terra tutti gli occhi erano puntati su di loro.

«Ricevuto» rispose Cyndi. D'altra parte non siamo qui per divertirci, pensò Jason. Tempo un altro

minuto e sarebbero stati sul bordo del pozzo. Jason si aggrappò ai controlli senza badare ai guanti che gli bruciavano le dita.

Arrivò la voce di Cyndi. «Attenzione, non correre troppo. Non ci sono barriere di sicurezza attorno al pozzo.» Jason rallentò e controllò di nuovo le immagini radar che apparivano sullo schermo. Il veicolo lunare si asse-stò a una velocità più ragionevole di quindici klicks. Jason voleva vedere il

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più possibile. Era una delle occasioni più grosse della storia dell'umanità. Sull'orlo del pozzo scavato dalle nanobestiole, l'immagine radar si oscu-

rò. Jason guardò oltre l'orizzonte e improvvisamente l'enorme buco si pre-sentò ai loro occhi.

«Ci siamo. Così presto!» disse Erika. «Mi dimentico sempre quanto è vicino l'orizzonte qui sulla Luna. Dio! È

proprio un bel buco!» Jason diede un'occhiata alle mappe computerizzate, poi rivolse lo sguardo alla pianura di Dedalo. «Ci conviene usare quei pon-ti, se ci reggono. Arriveremo sulle strade di accesso più velocemente che non percorrendo il perimetro del buco.»

«Vai» disse Erika. «Sto cercando di fotografare tutto quello che posso.» Erika continuava a scandagliare la struttura. «Fermati quando raggiungi la via d'accesso. Voglio scaricare una serie di strumenti per Big Daddy e una parabolica portatile.»

Jason si concentrò su come far arrivare il veicolo fino alla via di accesso senza inconvenienti, regolandosi con la mappa computerizzata, il radar, e quel che poteva vedere a occhio nudo. Attorno a loro si profilavano archi sottili ma più forti dell'acciaio. I puntoni di supporto e le pareti principali della struttura emergevano dalla regolite senza impronte o tracce alcune del lavoro di costruzione. Benché ormai sapesse come era stata creata, la vista dell'enorme, eterea struttura lo faceva ancora rabbrividire.

Gli giunse la voce di Bernard Chu. «Dottoressa Trace, signor Dvorak, se volete commentare quello che vedete... non riusciamo ad avere tutti i det-tagli dalle immagini che ci mandate.»

Erika si raschiò la gola. «Jason ci sta portando vicino al bordo del pozzo, nelle immediate vicinanze di una delle nove strade rialzate che conducono a un complesso di strutture secondarie situate attorno alla struttura centra-le.»

Jason bloccò il veicolo lunare col freno d'emergenza e si rivolse a Erika. «Vogliamo scendere a dare un'occhiata?»

Scesero dal veicolo e cautamente si avvicinarono al bordo del precipizio. Le impronte che lasciavano sulla regolite erano ancora più distinguibili es-sendo gli unici segni di vita sul fondo altrimenti intatto del cratere.

L'enorme struttura a forma di ciotola era a un chilometro di distanza e sembrava una ninfea di vetro alta centinaia di metri. Gli archi di fili di diamante salivano dalla profondità dell'abisso per congiungersi all'altezza della base dei petali. A ciascun lato della strada che portava all'antenna c'e-ra il vuoto.

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«È assolutamente incredibile» esclamò Jason, dirigendo i raggi della lampada verso l'abisso. «Abbiamo trovato una rete di gallerie. Non abbia-mo idea di quanto siano profonde o fin dove arrivino. Queste nanobestiole fanno le cose in grande. Per quanto ne sappiamo noi, a questo punto la Lu-na potrebbe già essere ridotta come un gruviera. Questo buco potrebbe e-stendersi fino al cuore del pianeta.» Si girò verso Erika. «Stai riprendendo tutto?»

Erika lasciò un'altra serie di strumenti accanto al veicolo. «L'ingrandi-mento è al massimo, ma forse non ci sarà contrasto sufficiente. Difficile mettere a fuoco in queste condizioni.»

Jason fece un passo avanti per toccare una delle colonne che sembrava fatta di vetro color latte. Poco tempo prima non c'era molecola che non fosse stata assemblata dalle nanomacchine. Esitò per un momento prima di accarezzare la superficie liscia. «Columbus, sembra che tutto il complesso sia fatto di fibre lunghe e prive di cesure. Gli elementi primari strutturali sono intrecciati l'uno all'altro. Ogni intreccio fa parte di un ulteriore intrec-cio, crescendo via via in grandezza. Sembra che ci sia una logica di tipo gerarchico dietro la disposizione di questi materiali.» Scosse la testa. «Da lontano appare come una superficie liscia, ma da vicino è diversa.»

Dopo qualche secondo, arrivò un messaggio dalla Terra. Jason riconob-be la voce di Albert Fukumitsu. «Abbiamo aperto tutti i canali. Stiamo re-gistrando tutto. Non vogliamo perderci nulla. Oh, a proposito, abbiamo appena calcolato il diametro del buco grazie alla sonda di Erika: 2,99944 chilometri.» L'eccitazione che si sentiva nella voce di Fukumitsu era rassi-curante. Almeno per il momento, nessuno avrebbe schiacciato il bottone.

Jason sentì una pressione sul braccio. Erika gli stava chiedendo di pro-cedere. Risalirono sul veicolo lunare. Jason lo diresse verso la pista che si inarcava sopra il pozzo apparentemente senza fondo. Trattenne il respiro. «Columbus, stiamo per imboccare la strada rialzata. Ci avviciniamo con estrema cautela. Sembra che regga.»

«Ricevuto.» Sotto il cielo stellato e nero Jason non riusciva a vedere le altre tre strade

simmetriche che si ricordava di aver visto sulla mappa. La strada, senza sostegni di alcun tipo, era larga cinque metri abbondanti e saliva con una pendenza di quindici gradi, fino a un punto a metà percorso dove iniziava a scendere verso il complesso centrale. L'effetto di scorcio dava l'impressio-ne che si trattasse solo di poche centinaia di metri tra un lato e l'altro, ma man mano che Jason avanzava la distanza sembrava crescere.

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Si concentrò sulla guida mentre Erika trasmetteva informazioni. «Sem-bra che la strada, un ponte a dire il vero, sia stato costruito con gli stessi materiali degli archi. Vedo un fascio di questi fili, alcuni dei quali sono fi-nissimi, sempre più fini e si stendono a perdita d'occhio.»

La salita dava a Jason l'impressione che il veicolo dovesse scivolare di lato e precipitare nel buio, ma le gomme tenevano la strada con un metro di spazio da ciascun lato.

Jason diede un'occhiata verso il basso. Sembrava infinito. «Come fare-mo a sapere quanto è profondo?» Le profondità del pozzo non avevano ri-mandato indietro nessuno dei segnali elettromagnetici inviati dalle sonde.

Erika si girò nel sedile. «La mia sonda elettromagnetica non dà alcun segnale. Mi sa che bisognerà scendere per verificare di persona.»

Arrivarono alla cima della curvatura e si fermarono brevemente per guardare la scena vertiginosa prima di scendere verso l'altro lato del pozzo. Nel giro di pochi minuti avrebbero raggiunto il complesso. Jason sentì una goccia di sudore che lentamente gli scendeva giù per la schiena bagnando lo strato più interno della tuta. Davanti al veicolo lunare, la struttura Deda-lo sembrava enorme. La strada vitrea scendeva verso una delle strutture secondarie. Jason rallentò per poi fermarsi. Il "tetto" era piatto e di forma più o meno quadrata. Non riusciva a calcolare bene la distanza ma ogni la-to era lungo circa cento metri. E quella era una delle strutture più piccole!

I petali luminosi della parabolica larga un chilometro nascondevano le stelle e gettavano vaghe ombre sul fondo del cratere. Jason fermò il veico-lo sul tetto della struttura.

Erika tirò fuori un'altra serie di strumenti dal retro del veicolo e scese. Pose il piede sulla superficie. Appoggiò gli strumenti e si chinò per toccar-la con la mano. «Non si capisce di che cosa sia fatta ma resiste bene.»

Cedendo a un impulso improvviso, Jason frugò dentro la scatola degli attrezzi e prese in mano una lunga sbarra che doveva servire da leva. «Eri-ka, sei pronta con la macchina fotografica?» Mise un piede sul fabbricato, prese la rincorsa e colpì il materiale alieno con la sbarra. L'inerzia lo solle-vò facendolo ricadere pancia all'aria. La sbarra rimbalzò violentemente a terra, facendogli male alle mani.

«È veramente solido questo materiale. La vibrazione è incredibile.» La voce di Newellen li raggiunse da L-2 accompagnata da una leggera

scarica statica. «Speriamo che non esca nessuno ora che hai bussato alla porta.»

Erika controllò gli strumenti che aveva sistemato sul tetto. «Non ho al-

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cun segnale che possa indicare la presenza di grandi congegni meccanici all'interno della struttura. Ma la vibrazione della sbarra si è fatta sentire.»

«Andiamo avanti» disse Jason. «Con tutte queste strade di accesso ci deve essere un modo di entrare.»

Si avvicinarono alla base dell'antenna e lasciarono la struttura seconda-ria. Come architetto, Jason era stupefatto da quello che vedeva. Cercava di immaginare che cosa ne avrebbe pensato il suo vecchio eroe Eiffel.

«Se non sbaglio, non abbiamo visto alcun sostegno poggiante sul terre-no, vero?»

«Ma quelle arcate che sembrano fatte di diamanti non reggono i petali?» «Sì, ma le arcate come fanno a stare in piedi? E questa struttura su cui

siamo ora? L'unico sostegno visibile è dato dalle strade che attraversano il buco.»

Jason guardò in avanti, con le mani sul volante. «Siamo davanti a un fe-nomeno veramente alieno, progettato da menti che non hanno sviluppato l'architettura nella stessa maniera di noi umani. Cioè, anche sul nostro pia-neta culture diverse hanno sviluppato tecniche diverse per fare le stesse cose. Basti pensare alle piramidi d'Egitto e a quelle dell'America centrale. I Maya non avevano mai sviluppato l'arco. Usavano trapezoidi, non quadra-ti. Chissà che cosa avrebbe potuto fare un cervello totalmente alieno su un pianeta totalmente alieno!»

Si fermò per pensare. «Se questa cosa è sorretta solamente da quelle strade... mio dio, forse allora l'intera struttura sta "galleggiando", sospesa su quell'abisso profondo chissà quanto... forse chilometri!»

La base del gigantesco fiore distava un centinaio di metri. Gli archi che sembravano fatti di diamante si univano a un punto vicino alla base dello stesso fiore e sollevavano la forma parabolica separandola dalla superficie del fabbricato.

Erika indicò un punto appena sotto gli archi. «Vedo una protuberanza sulla superficie nel punto in cui converge tutto. Può darsi che sia una porta d'accesso, una specie di entrata.»

Jason si girò ed esaminò la base. L'intera struttura appariva assurdamen-te delicata, troppo elegante per essere stata costruita sulla Terra. Era in-concepibile per la mente umana.

«E se questa intera costruzione non fosse fatta per restare qui?» sussurrò. «Se galleggia, potrebbe essere un'astronave di qualche tipo... forse non era stata progettata per rimanere qui, ma per proseguire verso la Terra.»

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28.

Washington D.C.,

Centro Controllo Missioni

Simon Pritchard si aggrappò al cruscotto mentre Celeste si avviava ad

altissima velocità verso Washington. Scesero le stradine sotto la casa di Celeste, presso il fiume Potomac, con gli pneumatici che scivolavano sul tappeto di foglie umidicce che le ricopriva, fino a raggiungere l'autostrada George Washington.

Pritchard non osava aprire bocca e continuava a premere col piede freni immaginari. I lampioni si riflettevano sui loro visi come luci stroboscopi-che, mischiandosi ai fari abbaglianti dei ritardatari che procedevano in senso opposto. Celeste accelerava, procedendo di sorpasso in sorpasso, su-perando senza notarle decine di uscite. Conoscevano entrambi la strada a memoria.

Quando raggiunsero il Centro Controllo Missioni, al quartier generale dell'agenzia, Pritchard era stordito dalla tensione. Qualcosa aveva terroriz-zato Celeste e non era riuscito a convincerla a spiegargli di cosa si trattas-se. Ma vedeva che era molto turbata. Celeste parcheggiò e Pritchard le strinse il braccio per farle capire che era solidale e disponibile. Ormai sa-peva che era meglio non farle domande.

Lei gli fece un cenno distratto di ringraziamento e scese dalla macchina invitandolo a fare altrettanto. Corse su per la scalinata di granito sintetico e Pritchard la seguì. Si sentiva a disagio nella camicia inamidata dell'uni-forme.

Celeste aprì il portone di vetro e superò le guardie, tessera in mano, sen-za dar loro il tempo di controllare la sua identità. Le guardie alzarono gli occhi dai videoschermi da dove seguivano gli avvenimenti - sembrava che stesse accadendo qualcosa di grosso - e scattarono in piedi.

Celeste sfrecciava lungo il corridoio mentre Pritchard la seguiva a breve distanza camminando velocemente. Celeste aspettò di essere raggiunta al-l'ingresso del Centro Controllo Missioni poi aprì infilando la sua tessera magnetica nel lettore elettronico ed entrò insieme a lui. Non appena si chiuse la porta esterna si aprì quella interna, e uscirono entrambi dalla zo-na di transito per entrare nell'animato centro di controllo.

Celeste era così a corto di respiro che non riusciva a parlare. Pritchard sentiva il cuore che gli martellava il petto e si appoggiò al muro. L'adrena-lina gli corse per le vene e cercò in qualche maniera di rendersi utile anche

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se non sapeva cosa fare. Alcuni dei tecnici girarono la testa per vedere chi erano i nuovi arrivati

ma gli altri erano incollati al videoschermo, e tra questi persino le due guardie armate di servizio all'entrata: due giapponesi, un uomo e una don-na. Il direttore del centro Albert Fukumitsu era completamente assorto nei propri compiti e li salutò appena. Sull'intera sala regnava il silenzio.

Sugli oloschermi si vedevano Jason e Erika mentre esploravano la strut-tura aliena.

Celeste cercò faticosamente di riprendere il fiato e finalmente riuscì a pronunciare qualche parola. «Spegnete le immagini verso l'esterno.»

Albert Fukumitsu si rivolse a lei: «Perché?» «Eseguite l'ordine. Motivi di sicurezza.» Celeste era arrabbiatissima. Pritchard era molto turbato. Non l'aveva mai vista così. Celeste era diventata un'altra persona, trasformata dal terrore.

I tecnici la guardavano stupefatti. Fin troppe cose erano successe in un periodo così breve. Molti, disorientati, con lo sguardo cercarono Fukumi-tsu. Uno dei tecnici pose la mano su una tastiera non utilizzata in quel momento e inserì una serie di comandi. Le minuscole spie sovrastanti le videocamere si spensero.

«Le videocamere sono state disattivate.» Fukumitsu si avvicinò a Celeste. Portava dei pantaloni attillati a zampa

d'elefante, un abbigliamento già fuori moda per la seconda volta. Aveva un'aria stanca e preoccupata. «Ha ricevuto i miei messaggi, signora McConnell? È mezz'ora che si trovano su Dedalo. Desidera un resoconto completo?»

«Fateli allontanare dalla struttura. È rimasto pochissimo tempo.» Gli occhi di Pritchard si socchiusero. Fukumitsu la osservò attentamente,

come per ricontrollare la sua identità. «Sembrava che il pericolo fosse pas-sato. Loro si sono offerti volontariamente. Credevo che lei avrebbe voluto che qualcuno andasse a controllare la situazione.»

«Devono uscire di lì! Non capisce che cosa potrebbero combinare! Il pe-ricolo è gravissimo!» Gli occhi neri di Celeste scintillavano.

Pritchard si fece avanti per darle il. suo sostegno come si era mental-mente ripromesso. «Ha sentito la direttrice, signor Fukumitsu? Per piacere, trasmetta l'ordine di ritornare immediatamente a Columbus.»

Fukumitsu si immobilizzò per un istante, e Pritchard riusciva quasi a sentire il rumore dei suoi pensieri. Il direttore del Centro Controllo Mis-sioni scelse un atteggiamento passivo. Scrollò le spalle. «Le immagini che

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abbiamo qui sono riprese a distanza dal tetto della cavalletta della dotto-ressa Salito. Non possiamo entrare in contatto direttamente né con Dvorak né con la dottoressa Trace. Il dottor Chu ha il pieno controllo operativo da Columbus. Non è possibile contattare la Trace e Dvorak da qui.» Scrollò le spalle una seconda volta.

«Allora voglio parlare con Chu.» Fukumitsu parlò molto lentamente. «Non c'è rete giornalistica che non

riprenda le trasmissioni. Non è possibile escluderle dall'ascolto, come ab-biamo fatto qui.»

Celeste diede uno sguardo a Pritchard poi mise le mani alle tempie. Sembrava molto più anziana di quanto non fosse mai apparsa in passato. Gli occhi neri di lei sembravano profondi quanto il pozzo di Dedalo. La sensazione di disperazione di lei penetrava l'anima di Pritchard.

«Allora la situazione richiederà delle misure d'emergenza.» La sua voce era gelida. «E immediatamente. Abbiamo solo pochissimi minuti.»

Pritchard ebbe la sensazione che la situazione stesse per precipitare. Esi-tò per un momento e decise di rafforzare la loro posizione. Si avvicinò con decisione verso le guardie armate.

Scelse la guardia più vicina, quella che sembrava più disorientata. Se e-rano fatte della stessa stoffa delle guardie all'entrata, non doveva essere difficile. «Sergente, mi dia la pistola, ora.»

Confuso, l'uomo esitò. Intervenne una donna. «Mi dispiace, generale. Ma non possiamo cedere

le armi senza regolare autorizzazione.» Pritchard alzò la voce, sapendo che ogni occhio era puntato su di lui.

Ringraziò il cielo che Celeste aveva fatto spegnere le telecamere. «Vedete queste?» Indicò le due stelle sulla spalla destra. «Sono io il comandante qui! Di quale altra autorizzazione avete bisogno?»

Abbassò la voce. «Sergente, questa è una situazione d'emergenza. Il vo-stro compito è di eseguire gli ordini, e in particolare ora. Non comprendete la gravità della situazione?» Si rivolse alla donna. «Lei può tenere la sua arma, ma mi dovrà assecondare.»

«Sergente! Mi dia la pistola, ora!» Esitante, l'uomo gliela diede, Pritchard prese in mano l'arma e cercò di

dissimulare la tensione che provava. L'importante era dare l'impressione di avere il pieno controllo della situazione.

«Allora? Cosa dobbiamo fare adesso?» chiese uno dei tecnici. Albert Fukumitsu, in piedi, fissò il pavimento. Mormorò qualcosa, come se stesse

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reprimendo degli scatti verbali di diversa natura. Celeste guardò la pistola nella mano di Pritchard e provò una sensazione

di sollievo. Pritchard vide che deglutiva con forza. Sullo schermo, le immagini dell'esplorazione di Jason Dvorak e Erika

Trace sembravano provenire da un sogno. Stavano scendendo nell'abisso alieno.

Pritchard pregava Dio che Celeste sapesse ciò che stava facendo.

29.

La costruzione di Dedalo

«È una via d'accesso.» Jason seguì con l'occhio la rampa che scendeva verso la struttura secon-

daria. Gli angoli dell'arco erano di fattura delicata, arrotondati, di forma e-stremamente affusolata. Ogni dettaglio contribuiva a formare l'immagine nella mente sull'aspetto dei "costruttori" alieni. «E quanto è grande?»

Dentro l'ingombrante tuta spaziale, Erika si muoveva avanti e indietro sul pendio mentre misurava con la sonda quella che sembrava una bocca spalancata. «Circa tre metri di diametro. Ci può entrare il veicolo lunare. Che ne dici di farci una gita?»

Jason si guardò attorno. La rampa era situata nella parte superiore del fabbricato, appena al di sotto del punto in cui le arcate di fibre di diamanti si congiungevano alla base della ninfea gigantesca. Portò il veicolo all'ini-zio della discesa che penetrava la superficie lunare. Il buio inghiottì i fari del veicolo. Quel maledetto materiale rende difficile capire quale profondi-tà raggiunge.»

Accese i sensori radar e IR. Il sensore IR indicava una fonte di calore al-l'interno dell'abisso, ma non a sufficienza per poter captarne i dettagli, e non a sufficienza da far temere un possibile risveglio delle nanobestiole. La fonte di quel calore sembrava qualcos'altro. «Credo che l'unica cosa da fare sia scendere laggiù e verificare di persona di che si tratta.»

«Non stai diventando un po' imprudente, Jase? Non credi sia meglio in-viare il veicolo guidato teleroboticamente?»

«Potevamo farlo anche dalla cavalletta.» Erika sembrava scettica, ma Ja-son era tutto preso dalla grandezza della costruzione. Aveva la sensazione, chissà perché, che i "costruttori" non avrebbero voluto fargli del male in-tenzionalmente. «Dov'è il tuo spirito di avventura?»

Erika cercò un'antenna parabolica portatile e cercò di attaccarla alla su-

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perficie della struttura con la puntatrice pneumatica, ma il materiale alieno era troppo duro. La poggiò su un treppiedi e la allineò con L-2.

«Voglio che tutti sappiano quello che stiamo facendo.» Estrasse un lun-go filo a fibre ottiche, l'attaccò alla parabola e avanzò verso la rampa svol-gendo il rotolo via via che si allontanava dallo strumento. «Ne ho qualche chilometro. Potrebbe servire se dovessimo perderci.»

«Hansel e Gretel sulla Luna?» «Sì. Sei pronto?» «Solo un attimo. Cyndi? Ci stai seguendo allora!» «State attenti laggiù, mi raccomando» rispose Cyndi. Un altro brivido gelido scosse Jason. Era una sensazione strana quella di

essere circondati da un complesso alieno grande quanto una città ma senza abitanti. Alzò la testa. A cento metri sopra di loro la base della parabolica larga un chilometro si fondeva con le arcate ricoperte di fili di diamante. Questo particolare punto sembrava essere il nesso entrale dell'intero com-plesso. E la via d'accesso conduceva al suo interno.

Jason deglutì e tornò indietro verso il veicolo lunare. Mentre guardava Erika che sfilava la fibra ottica, parlò nel microfono: «Va bene, Columbus, stiamo per entrare».

Il pendio era erto, con un'inclinazione di circa quindici gradi. Jason do-

vette chinarsi all'indietro per non cadere a causa dell'enorme carico di sen-sori che potava con sé. Più sopra, vicino all'entrata, avevano dovuto ab-bandonare il veicolo alla prima curva stretta delle catacombe.

Peggio ancora, Jason aveva scoperto che potevano trasmettere segnali attraverso il filo di fibre ottiche ma non potevano riceverli. Quando torna-rono in superficie discussero il problema con la base Columbus.

«La cavità deve essere una membrana unidirezionale per le onde radio-foniche» speculò Newellen. Dopo una breve discussione, Chu gli diede l'ordine di continuare a trasmettere il viaggio attraverso il collegamento su fibre ottiche.

Erika accese un gruppo di fari per illuminare il corridoio. La galleria era inclinata, alta e stretta, e dava una sensazione di claustrofobia.

«Sembrano le rampe di un garage pubblico» disse Erika, dirigendo la vi-deocamera di fronte a lei. Il segnale correva lungo le fibre ottiche fino alla piccola parabolica, e Erika sperava che Columbus potesse ancora riceverli.

Jason rise. «Scommetto che la Disney Corporation sta progettando un nuovo veicolo lunare fornito di fibre ottiche in modo che la gente possa

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venire qui per esplorare questa struttura. Vedrai quanto costerà il bigliet-to.»

«E la pubblicità.» Erika illuminò le pareti del corridoio che scendeva a spirale. Le pareti

erano cosparse di piccoli punti neri ed emanavano una debolissima lumi-nosità color blu. I fili della materia di costruzione, anche qui, si intreccia-vano l'uno coll'altro. A parte questo gioco d'intreccio non c'era alcuna indi-cazione, nessun segnale di pericolo e nemmeno indicazioni.

«Le tue nanobestiole pare non abbiano una gran fantasia per quando ri-guarda la decorazione d'interni» disse Jason mentre seguiva Erika.

Erika esitò. «Forse non gliene frega niente. Non dobbiamo pensare che abbiano una mentalità simile alla nostra.»

Presto, Jason perse il conteggio del numero dei giri che avevano fatto nella discesa. Aveva abbandonato ogni pretesa di sapere in quale direzione fossero diretti; il suo senso d'orientamento era ormai inservibile. Davanti a lui vedeva solo la luce di Erika che si rifletteva sulle strane configurazioni della superficie della parete.

Erika registrava tutto sugli stereochip. I raggi foravano il buio. Si vede-vano alcuni corridoi più larghi che da questo punto si irradiavano in varie direzioni. Erika guardò verso destra, dove la spirale si interrompeva e si congiungeva al pavimento. «Sembra che la discesa sia finita.»

«Finalmente» disse Jason, e lentamente pose il pacco di sensori sul pa-vimento piegando le ginocchia. «Mi sembra che il pacco si sia appesanti-to.»

Erika lottò con la tuta ingombrante e, piegandosi, accese i sensori ese-guendo le operazioni di autocalibrazione. «Non respirare così forte, Jason. Stai disturbando i sensori sismografici.»

Jason spostò la luce lasciando Erika al buio e si guardò attorno. La mag-gior parte dei raggi venivano assorbiti o dispersi dalla materia aliena e il ri-flesso era quasi insufficiente per vedere le pareti del vano grande in cui si trovavano.

Sembrava che tutto avesse un'indistinta luminosità bluastra, e che si sa-rebbero viste meglio le pareti senza l'illuminazione di Jason. Restituì la torcia a Erika, ancora inginocchiata davanti ai sensori diagnostici.

«L'hai fatto urtare contro qualcosa mentre scendevamo?» «No. Perché?» Jason guardò la scatola sul pavimento. Il pannello esterno era composto

quasi interamente da LED, comandi a pressione tattile e alcuni interruttori.

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Erika si alzò. «Alcuni dei dati che provengono dalla strumentazione so-no anomali. Più che anomali. I fotoni UV sono a cento watt per metro qua-dro. Senza la tuta, già ci saremmo abbronzati un bel po'. Il secondo dato numerico riguarda il flusso dei neutrini. È veramente troppo alto.»

Jason era perplesso. Neutrini? Era difficilissimo captarli con gli stru-menti. Ci voleva qualcosa come cento anni luce di cavo per captarne uno. I nuovi sensori superconduttivi erano molto meglio ma ancora non comple-tamente affidabili. «Le misurazioni di neutrini non sono mai precise» os-servò.

«Non si tratta di essere precisi in termini di punti decimali. Guarda quel-l'esponente! Cinque ordini di grandezza superiore alla misurazione raccolta prima di entrare qui. Il sensore non può fare un errore di questa portata.»

Erika stette un attimo a pensare, poi lentamente, a causa dei guanti che le impacciavano i movimenti, digitò una richiesta. «È un flusso di neutrini che assomiglia a quello che si troverebbe in un reattore nucleare.»

Jason scrutò la parete cercando una qualsiasi indicazione della presenza di macchinari.

«Ma non ci sono neutroni» aggiunse Erika. «Nessuna particella carica. Solo un flusso UV.» Si alzò di nuovo. «Non chiedermi cosa significa. Dobbiamo andare avanti?»

«Non sappiamo ancora nulla di questo posto» disse Jason. Si ricordava quando si trovava davanti all'oloscopio mentre Eiffel lo guardava. Aveva meditato sulla struttura delle arcate, le strutture secondarie. Cercava una qualche idea sui costruttori alieni, un'indicazione riguardante la loro forma mentis, il loro scopo, il loro mondo.

«Senti. Forse quel flusso UV ci dà un'indicazione sia pure vaga. Può darsi che questo sia il modo in cui illuminano il proprio ambiente. Questo potrebbe essere la loro versione di luce visibile, la frequenza che adopera-no per vedere. Se la loro stella irradia raggi a UV, allora i conti tornerebbe-ro.»

Jason puntò i fari nella direzione in cui il complesso si apriva, ancora più profondamente sotto la superficie lunare. Restituì le luci a Erika. Sollevò con fatica l'enorme unità di sensori. «Mi sembra di essere un mulo da so-ma.» Con cautela, nel buio, seguì i passi di Erika, senza sapere di preciso dove stavano andando.

«Segui il tuo naso» disse Erika. «Non c'è nient'altro qui che si possa seguire.» Passo dopo passo, il buio sembrava allargarsi per formare un cerchio che

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si espandeva. Erika faceva luce in tutte le direzioni. Jason, lo sguardo ri-volto in basso, non vedeva altro che le spie dei sensori. Sembrava che le pareti, il pavimento, il soffitto stessero assorbendo i fotoni e che altro non doveva rimanere che lo scuro color porpora della debole luminosità ema-nata da quello strano intreccio di fili di cui era costituito il materiale di co-struzione del complesso.

Proseguirono in silenzio, ma sempre più tesi, come se si aspettassero di essere attaccati da un momento all'altro. A Jason sembrava di essere più leggero a ogni passo, anche se la cosa non aveva molto senso.

«È come uno dei giochi al luna park, dove i sensi si confondono con le illusioni ottiche.»

Erika puntò il faro sul soffitto. «Anche il soffitto si sta allontanando. Ogni cosa sembra andare nella direzione del punto da dove inizia la spira-le.»

Il vuoto attorno a loro si allargava progressivamente. La pendenza si ac-centuava di nuovo. Jason passò davanti a Erika. Si sentiva come uno che avanza verso la bocca di qualcosa di terribile.

«Accidenti!» Jason sentì che stava iniziando a scivolare. Non trovava più niente sotto i piedi. Non c'era più il pavimento; era sparito improvvi-samente. La gravità lo trascinava verso il basso. «Sto cadendo!»

Agitò le braccia e cercò di mantenere l'equilibrio; si liberò del pacco di strumenti. Ogni secondo sembrava un'eternità. Mentre precipitava verso il basso Jason cercò di girarsi su se stesso e di proteggere il casco dall'impat-to contro il duro pavimento. Continuava a muovere le braccia. Una luce indefinibile lo circondava mentre cadeva. Proveniva da un faro che si era allentato e che ora oscillava violentemente, creando attorno a lui un caos vorticoso di strane configurazioni.

Sentiva le grida di Erika ma non riusciva a capire cosa dicesse a causa delle sue stesse grida.

Anche attraverso la tuta imbottita e anche se la gravità non era fortissi-ma, l'impatto gli tolse il fiato. L'urto fu tamponato dall'unità di riscalda-mento e dell'ossigeno che aveva sulla schiena. Un dolore intenso lo per-cosse e cercò di riprendere fiato. Sentì una voce nella radio. Era una voce distante. Lo chiamava...

Il cuore gli batteva forte. Cercava di rallentare il respiro per evitare l'i-perventilazione. Non sentiva il fischio di una fuga d'aria. Controllò i para-metri dei sistemi di mantenimento e capì che la pressione all'interno della tuta era stabile.

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Sentì un forte gemito. Cercava di reggersi su un gomito. La parte poste-riore della tuta gli impediva di piegarsi in avanti. Spinse con la mano sul pavimento finché non riuscì a raddrizzarsi. Pensò, certo le tute spaziali non sono state costruite per cadere avendole addosso. «Erika?»

«Sì, sono qui.» La voce era debole. La luce era da un lato. Jason procedeva a tentoni per raggiungerla, al-

lungando le braccia per non andare a sbattere contro qualcosa. «Stai be-ne?»

«Sì. Non mi sono mossa ma ti ho seguito lo stesso nella caduta.» Prese fiato e aggiunse: «Cos'è successo?»

«A parte la caduta? Non lo so.» Jason si chinò per riprendere la torcia che era caduta. Erika giaceva ancora sul pavimento non lontano da dove era caduto lui. «Controlla la pressione all'interno della tuta.»

Dopo qualche istante Erika rispose: «A posto. Stabile». Allungò la mano dietro la schiena. «E la fibra ottica è ancora attaccata. Credi che stiamo an-cora trasmettendo?»

«Non lo sapevamo neanche prima.» Si avvicinò a lei lentamente. Le pareti della materia aliena li racchiude-

vano e ancora emanavano quella luce bluastra ma quasi invisibile. Non riusciva a vedere di quanto erano caduti, o cosa era successo al buco che avevano attraversato.

«Jase» disse Erika. Si era alzata a fatica. «Laggiù. Forse è solo la mia immaginazione, ma mi sembra di vedere un corridoio là in fondo.»

All'inizio Jason non riusciva a vedere altro che quella materia aliena, poi intravide una macchia più scura. «Hai ragione.» Girò la luce verso di lei. «Come hai fatto a vederlo?»

«Non c'era il riflesso bluastro. Tu eri abbagliato dalla torcia.» Jason si fermò per pensare. «Voglio provare qualcosa. Non ti muovere.»

Spense la luce. Il buio era pressoché totale. Ci volle un minuto, ma presto Jason riuscì a distinguere i vaghi contorni

di alcune entrate di forma quadrata. I quadrati erano neri e si distinguevano dalla luce blu che emanava dalle pareti e dal pavimento intorno. Sentì che gli occhi si abituavano al buio man mano che si avvicinava all'estremità dello spettro visivo. Forse ad altri occhi il luogo sarebbe potuto sembrare risplendente di luce.

«Questo posto sembra una stazione ferroviaria. Vedo sette, no, otto gal-lerie.»

«Nove» osservò Erika. «Pensa, nove arcate fuori, nove sentieri, ora nove

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gallerie.» Jason guardò mentre Erika misurava le entrate a tutte le gallerie e la camera in cui si trovavano.

«Sembra che abbiano una predilezione per i nove, o per i tre.» Jason re-spirò forte e sentì il cuore riprendere il suo normale ritmo. «Allora. Pro-viamo a uscire da qui? Saranno tutti preoccupati. O proseguiamo?»

«Proseguiamo, naturalmente.» Non l'aveva mai sentita così decisa. «For-se non avremo mai modo di tornarci, se qualcuno decide di far saltare tutto in aria. Finora, non abbiamo visto altro che gallerie. Ci deve essere qualco-s'altro.»

Jason deglutì di nuovo. Sapeva che aveva ragione. «Allora troviamolo.» Riaccese la luce brillante e ruppe l'incanto. «Quale scegliamo?»

«Fai tu» disse Erika. «Scegli una galleria, non importa quale.» Esitò per un momento e poi si diresse verso il primo corridoio. Sollevò il

pesante pacco degli strumenti diagnostici sperando che ancora potesse es-sere utile. Avanzarono silenziosamente lungo il pavimento.

Dopo molti minuti si fermarono. La luce di Erika colpì qualcosa davanti a loro. Era grande. Jason riusciva appena a intravedere i contorni di un fabbricato composto da pannelli disposti ad angolo l'uno contro l'altro. Sembrava uscito dall'incubo di un architetto. La struttura era di un colore diverso dal pavimento e dalle pareti. Sembrava fatta di un altro materiale. Alcuni dei pannelli erano decorati con cerchi concentrici paralleli disposti ordinatamente in direzione della galleria.

«A che stai pensando?» chiese Erika. Jason si bagnò le labbra con la lingua. L'aria riciclata gli sembrava più

secca del normale. «Non so.» Non riusciva a comunicare le proprie idee. La struttura era troppo bizzarra anche per il suo intuito in campo architet-tonico. Sembrava che un bambino autistico avesse cercato di costruire qualcosa e che qualche pezzo gli fosse avanzato. Sottili pannelli, cunei a ogni angolo: una fotografia che riusciva a fermare un castello di carte men-tre cadeva. La struttura non sembrava in grado di reggersi da sola.

Erika si avvicinò al fabbricato esotico. Teneva la luce puntata sui pan-nelli decorati di cerchi concentrici. Era tutto in prospettiva, come se stesse-ro entrando in un dipinto. Da qualunque angolo guardassero, i cerchi sem-bravano indicare la galleria.

Era come se la struttura volesse dirgli qualcosa.

30.

Base lunare Columbus

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Big Daddy Newellen si mise al pannello virtuale del centro di controllo

della base lunare. Ci volle un po' prima che riuscisse a mettere insieme ab-bastanza parole per parlare. Era un'idea piuttosto bizzarra ma i dati comba-ciavano. Tutti.

Bernard Chu e gli altri membri dell'equipaggio stavano guardando le immagini trasmesse da Jason e Erika da Dedalo. Ogni tanto le immagini provenienti dal cavo di fibre ottiche posato da Erika erano disturbate da scariche di energia statica, ma non si perdeva molto.

Una veduta dell'esterno veniva mandata da Cyndi Salito e Bryan Z. che attendevano nella cavalletta. Almeno con loro era possibile parlare e rice-vere messaggi ed erano ansiosi di far qualcosa. Tre volte Cyndi aveva ri-chiesto l'autorizzazione di andare a cercare Jason e Erika, ma Bernard Chu gliel'aveva fermamente negata.

Zimmerman non era riuscito a disinnescare le testate. Newellen era del-l'idea che Celeste McConnell non avrebbe mai dato l'ordine di far detonare le testate ora che c'era della gente all'interno della struttura, ma dalla Terra, misteriosamente, non proveniva alcun messaggio. Non ricevevano più nemmeno le insistenti domande di Fukumitsu. Chu ne era contento: qual-che distrazione in meno. Ma il fatto turbava Newellen.

Questa sua nuova idea lo agitava ancora di più. «Bernard, ho qualcosa da farti vedere.» Sorpreso, Chu si girò verso di lui; «Cosa?» Newellen fece un cenno con la mano. «Vieni qui. Non mi crederai se

non vedi anche tu i calcoli.» Chu sospirò e si diresse verso la workstation di Newellen, ma con gli

occhi sempre puntati sulle immagini bidimensionali dello schermo ologra-fico trasmesse da Jason e Erika. «Buone o cattive notizie?»

«Dipende. Buone, nel senso che forse sono riuscito a dare una spiega-zione per la maggiore parte della struttura. Cattive, nel senso che tutti e quattro i nostri a Dedalo sono nella cacca fino al collo.»

«Dimmi tutto» disse Chu. Newellen notò la sua faccia sofferta. «Bene. Poniamo che la struttura che assomiglia a un fiore sia una specie

di antenna parabolica. Deve avere qualche funzione, e questa sembra la più probabile. Se serve per trasmettere delle onde elettromagnetiche allora de-ve esserci un modo in cui le onde elettromagnetiche arrivano all'antenna. Questa è una banalità.»

«Va bene» rispose Chu. «Ma io sono un biochimico.»

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«In breve, ho fatto qualche calcolo per la progettazione di antenne e cre-do che la galleria dove stavano Erika e Jason sia una specie di gigantesco convertitore di modalità.»

Newellen si aspettava una qualche reazione di incredulità ma Chu era solo perplesso «Un che?»

Newellen sospirò. «I convertitori di modalità prendono l'energia elet-tromagnetica in una data forma spaziale e la convertono in un'altra. Nor-malmente è meglio produrre le onde elettromagnetiche in un'unica modali-tà ma per trasmettere il segnale è necessario convertirle in un'altra modali-tà, o configurazione. Sono abbastanza convinto che le catacombe che ab-biamo visto servano per la conversione di modalità.»

«Ma per quale motivo?» «Potrebbe essere un modo di poter eseguire una modulazione fasica del-

le onde di frequenza, se sono coerenti.» Si fermò. «Forse Jason e Erika so-no all'interno di un enorme amplificatore radiofonico. Se ci pensi, quella membrana unidirezionale per le onde radiofoniche ha una sua ragione d'es-sere: le frequenze radiofoniche possono uscire, ma non entrare. Dal mo-mento che non ci sono frequenze in entrata le perdite all'interno della cavi-tà vengono ridotte. È un vero amplificatore a diffrazione limitata.»

Chu ascoltava attento. Ancora non capiva, ma era preoccupato. «E se l'accendono mentre sono ancora lì?»

Ora stava capendo finalmente! «Dipende dall'intensità. C'è una buona probabilità che finirebbero arrostiti. Le tute offrono un certo grado di pro-tezione ma le frequenze radiofoniche comunque si legano con il corpo u-mano. Non è certo un luogo molto sicuro.»

Chu respirò a fondo. Si diede un'occhiata attorno, come se cercasse qualche idea.

Newellen continuava a illustrare la sua teoria. Improvvisamente Chu cominciò a sentire la fame. «Da quello che sono riuscito a capire in base alle ultime immagini, quei cerchi costituiscono una sorta di congegno allo stato solido, probabilmente utilizzato per creare le onde elettromagnetiche. Si tratta solo di coniugare le fasi, e le misurazioni confermano l'ipotesi.» Scrollò le spalle. «Ma è solo una teoria, naturalmente.»

«Naturalmente» disse Chu, aggrottando le ciglia pensando che era una teoria di cui informare il Centro Controllo Missioni sulla Terra - che però li aveva tagliati fuori senza alcuna spiegazione. «C'è qualcosa d'altro che dovrei sapere?»

Newellen pigiò sulla tastiera con le dita grosse e apparve un altro insie-

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me di calcoli. «Be', non riuscivo a capire da dove veniva l'energia per quel-l'affare. Prima di tutto pensavo che, dato che il flusso neutrinico era così alto, doveva esserci una specie di reattore a fusione all'interno. I sensori neutrinici sono strumenti piuttosto balordi ma non fino a questo punto. I dati registrati da Erika erano mille volte superiori al livello normale per un reattore a fusione, oltre ogni margine di errore.»

Chu diede un'occhiata alle file di numeri ma, naturalmente, non avevano alcun significato per lui. «E allora?»

«L'unica fonte di energia di cui ho conoscenza che potrebbe produrre un flusso neutrinico di queste proporzioni è un reattore materia-antimateria.»

Qualcuno del centro di controllo fece un fischio. «Ma non è impossibi-le?» chiese Chu.

«Anche la nanotecnologia sulla Luna è una cosa impossibile» rispose Newellen.

Chu cercava di mantenere un atteggiamento di calma. «Quindi, proba-bilmente, il congegno che abbiamo trovato sarebbe un reattore materia-antimateria?»

In quel momento, Newellen ebbe un nuovo pensiero. «Se ciascuno delle gallerie dovrebbe essere una guida per le frequenze, allora ci saranno altri otto reattori come questo. Il segnale darà una botta come non se ne sono mai sentite.»

Bernard Chu assunse l'espressione di qualcuno che deve ingoiare qual-cosa di estremamente sgradevole. «Quindi Dvorak e la dottoressa Trace si trovano nel bel mezzo di un enorme forno a microonde alieno?»

«Più o meno» rispose Newellen. «E non lo sanno nemmeno. E la cosa peggiore è che le nanobestiole hanno terminato il loro lavoro e il trasmetti-tore potrebbe accendersi da un momento all'altro.»

31.

Washington D.C. - Centro Controllo Missioni Il generale Simon Pritchard sentì il sudore sulla mano che reggeva la pi-

stola d'ordinanza. Tutto era fermo e la tensione si tagliava col coltello. Nel Centro Controllo Missioni l'attenzione dei presenti si alternava tra

lui, le immagini di Dvorak e di Erika Trace che esploravano le catacombe di Dedalo e Celeste che riusciva a malapena a dissimulare il panico.

Celeste girò le spalle ad Albert Fukumitsu e si diresse verso uno dei terminali a schermo piatto del Centro. Il tecnico che sedeva lì sembrava

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pronto a scappare via. «Iniziare la procedura per la detonazione dell'anello di testate» ordinò

Celeste. «Ho i codici di accesso. Non abbiamo alternative. Dobbiamo far detonare le testate e finirla con quella cosa, una volta per sempre.»

Pritchard sentì un formicolio invadergli il corpo. Era stato stupido a non capire che cosa aveva intenzione di fare e ora non sapeva come comportar-si. Come poteva permetterle di fare una cosa del genere? La sua fiducia in Celeste era implicita, o non era così?

Molti dei tecnici scattarono in piedi per protesta. «Aspettate un momen-to» gridò Fukumitsu. Faceva fatica a trovare le parole. «Può dirci perché? Sono qui dall'inizio della missione e fino a questo momento non è successo nulla che si potrebbe definire una minaccia! Anzi, tutt'altro. Gli alieni a-vrebbero potuto uccidere l'intero equipaggio a Columbus se avessero volu-to farlo, con la loro infezione. Avrebbero potuto reagire quando Chu man-dò la bomba improvvisata che aveva messo insieme. Ma non hanno fatto alcuna mossa che si possa definire aggressiva. Nessuna.»

«Invece, ecco cos'hanno fatto.» Indicò lo schermo dove la Trace e Dvo-rak stavano esaminando il reattore materia-antimateria. «Non abbiamo an-cora la minima idea di che cosa si tratti e lei vuole schiacciare il bottone.»

Celeste gli gridò: «Perché lo so! Ho sempre saputo. Sapevo che fine a-vrebbe fatto la Grissom, così come sapevo che ci sarebbe stato l'incidente sulla Collins». Celeste si fermò prima di andare oltre. Pritchard la guardò perplesso cercando di capire cosa volesse dire.

Celeste abbassò la voce. «Sta sbagliando, signor Fukumitsu. Non fa par-te del suo lavoro mettere in dubbio i miei ordini. A partire da ora lei non è più in servizio.»

Fukumitsu si alterò come se l'avesse colpito uno schiaffo, ma rifiutò di muoversi. Celeste rivolse la propria rabbia contro il tecnico davanti a lei. «Inserire la sequenza di comando, ho detto!» Lo cacciò dal posto e si se-dette al pannello lavorando con l'interfaccia per chiamare una serie di me-nù.

Pritchard si passò la pistola d'ordinanza da una mano all'altra e cercò di rimanere immobile nonostante il conflitto che sentiva dentro di sé. Cosa sta facendo? Ora che capiva un po' di più gli sembrava un'impresa insensa-ta.

Si ricordò la notte della comunicazione di Bernard Chu dalla Collins, e di come Celeste si fosse svegliata da una serie di incubi. Poi si ricordò la strana storia di come lei da sola era riuscita a salvare l'equipaggio della

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Collins perché, per qualche motivo, sapeva come portare tutti all'unico po-sto sicuro nell'intera stazione. Una volta gli aveva detto che le sarebbe pia-ciuto molto che lui le raccontasse i suoi sogni. Che intendesse "sogni" in senso letterale?

Pritchard ebbe improvvisamente la spiacevole impressione che Celeste McConnell, la potente direttrice della United Space Agency, prendesse le più importanti, e spesso dubbie, decisioni in base ai propri sogni.

Pritchard si ricordò di quando avevano fatto l'amore quella stessa notte. Celeste sembrava così disperata mentre si stringeva a lui. Era così piena di energia erotica, come se fosse animata da fili carichi di elettricità. Ora vo-leva usare sei testate per distruggere Dedalo ed eliminare ogni traccia della struttura aliena.

Forse era intenzionata a farlo già dall'inizio. Dato che si trattava di testa-te di antiquata concezione provenienti da riserve di sicurezza, non erano stati adottati tutti i controlli e le pratiche burocratiche che avrebbero rallen-tato la procedura. Ora non era più impossibile che qualcuno le facesse de-tonare con una procedura d'emergenza nel caso che dalla costruzione alie-na provenissero segnali che qualcosa di veramente disastroso stava per ac-cadere.

Dato che le bombe sarebbero esplose non sulla Terra ma sul lato della Luna opposto a quello dove si trovava la base Columbus, erano riusciti a far approvare uno snellimento delle operazioni. Pritchard stesso vi aveva contribuito.

Gli unici a possedere i codici d'accesso erano il Presidente degli Stati Uniti e la direttrice della United Space Agency. Celeste aveva il diritto di farle detonare, ma solo in caso di emergenza.

Ma era davvero un'emergenza? La fronte di Pritchard era ricoperta di sudore. Non aveva capito l'enorme

portata della situazione. Era stato lusingato dalla gloria che improvvisa-mente l'aveva investito, le conferenze stampa, le decisioni prese a livello mondiale, l'improvviso prestigio dopo una vita dedicata alla carriera mili-tare, un settore che in quell'epoca aveva poca importanza. Però, questo momento non sembrava veramente l'apice di una carriera sfolgorante: di-struggere il primo legame tra l'umanità e una razza aliena... a causa di un brutto sogno.

Sullo schermo Dvorak e la Trace avanzavano all'interno della cavità me-ravigliosa al di sotto della superficie lunare. Non avrebbe dovuto esserci nessuno al momento dell'esplosione, pensò Pritchard. Ma ora due persone

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erano là a esplorare la struttura; avevano osato fare quello che nessun altro era disposto a fare. Bastava vedere quello che avevano già scoperto...

Come poteva permettere a Celeste di eliminarli a causa di un incubo? Una macchia di senape, un frammento di patata non cotta a dovere: così si sarebbe espresso Charles Dickens. E se Celeste aveva solo un vago presen-timento di un disastro imminente, come poteva sapere che non sarebbe sta-ta lei stessa a causarlo? E se gli incubi la stavano avvertendo di un pericolo che con le testate non aveva niente a che fare? Forse Celeste non stava in-terpretandoli nel modo giusto, ammesso che quei sogni significassero qualcosa.

Poi Pritchard si ricordò di come Celeste si era svegliata urlando nel cuo-re della notte, terrorizzata e bagnata di sudore. Sembrava veramente che sapesse qualcosa. E sulla Grissom aveva avuto pienamente ragione...

Chinata sullo schermo, Celeste digitò la sequenza di detonazione. Il tec-nico la guardava, il viso color cenere. Nessuno aveva voglia di contraddire la direttrice, specialmente con il generale là con la pistola in mano.

«È l'unico modo. Ci salveremo» ripeteva Celeste sottovoce. «Credete-mi.»

La seconda guardia tirò fuori la pistola e con tono formale ma intransi-gente disse: «Mi dispiace, ma non posso permetterle di continuare, signora McConnell. La prego di allontanarsi dal pannello. Immediatamente». Ce-leste si girò verso la guardia lanciando uno sguardo gelido, con una smor-fia di odio. Pritchard immaginò per un momento che Celeste si sarebbe lanciata contro quella donna per disarmarla.

Sullo schermo davanti a Celeste, si vedeva un disegno schematico di Dedalo con cerchi rossi che segnalavano le posizioni delle testate. Lam-peggiavano delle lettere: era la richiesta di inserimento del codice di acces-so. Il conto alla rovescia era stato fissato per un tempo di trenta secondi.

Pritchard puntò la pistola contro la guardia. Teneva gli occhi puntati su di lei. «Sergente, le ordino di deporre la pistola. Ora.»

La guardia restò immobile. I suoi occhi incontrarono quelli di Pritchard ma il generale non riuscì a decifrare nulla dallo sguardo di lei. Avrebbe aperto il fuoco? Era convinta di quello che stava facendo? E lui?

Pritchard armò la pistola. «Sergente.» Dopo una pausa agghiacciante, la guardia depose la pistola. Celeste si rimise al lavoro e cominciò a inserire il complesso codice

d'accesso che avrebbe fatto detonare l'anello di testate. Nell'oloschermo, Dvorak ed Erika erano fermi davanti a una struttura al-

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ta e cristallina che emanava pulsazioni di luce colore blu scuro. Erika indi-cava qualcosa con la mano.

Senza tradire alcuna emozione, Simon Pritchard si avvicinò al pannello di Celeste e premette il grilletto, mirando ai controlli. Sparò tre volte.

Lo schermo scoppiò e frammenti di plastica, metallo e vetro volarono in ogni direzione. Celeste barcollò indietro, con il viso e le braccia insangui-nate.

«No!» gridò disperata. «Non capite!?» Gli occhi di Celeste incontrarono quelli di Pritchard, colmi di rabbia incredula.

Poi, si udì un ronzio proveniente dagli altoparlanti di cui, tra gli echi de-gli spari, nessuno si era accorto. Dopo qualche secondo divenne un rombo assordante che spezzava i timpani.

«Sta arrivando su tutti i ricevitori!» gridò Fukumitsu. Il segnale continuava a crescere di intensità come un temporale dentro

una bottiglia. Qualcosa di immensamente potente era stato trasmesso dai grandi petali della costruzione di Dedalo.

«Tutti i canali bloccati» gridò un tecnico. Pritchard esitò. Su uno degli oloschermi affissi sulla parete vide l'imma-

gine della struttura completa dell'antenna parabolica di Dedalo. Era un tra-smettitore. L'enorme costruzione aveva il compito di mandare un messag-gio attraverso l'intera Galassia, un messaggio indirizzato ai propri creatori per informarli che i lavori erano stati ultimati. Era tutto pronto.

Ma per che cosa? «È come un segnale di cessato allarme» disse Pritchard a se stesso. «Ora

dobbiamo aspettare la risposta.» Tutti erano muti nel Centro Controllo Missioni. Pritchard trovò una se-

dia e si sedette. Poggiò la pistola su uno scaffale e chiuse gli occhi. Non voleva guardare Celeste, non ora. Non l'avrebbe retto.

L'odore della polvere da sparo aleggiava nell'aria. Pritchard si chiese se la storia l'avrebbe ricordato come un eroe o come un traditore. Tutto di-pendeva dalla risposta che avrebbero dato gli alieni.

Celeste lo ignorava. Era caduta in ginocchio e perdeva sangue dalle lievi ferite. Guardava il rosso del sangue che le copriva le mani ripetendo tra sé e sé «Ora è troppo tardi, troppo tardi.»

32.

Base lunare Columbus

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Bernard Chu aveva bloccato il canale di comunicazione con la Terra mentre l'assordante rumore passava per gli altoparlanti del centro di con-trollo. I tecnici rimasero al loro posto.

«Mettetemi in contatto con la cavalletta di Cyndi Salito sul Lato Oscuro! Ora! Voglio una conferma che Cyndi e Zimmerman stanno bene.» Aveva alzato la voce per sovrastare il mormorio del centro di controllo.

«Ah, Bernard» disse Newellen, cercando di interromperlo. «Ho una risposta dalla Salito!» disse uno dei tecnici. «Sentiamo! Voglio sapere che cosa è successo su Dedalo!» «Bernard» disse di nuovo Newellen «Quel rumore non proviene dall'al-

tro lato. Il ripetitore L-2 l'ha preso come l'hanno preso anche i nostri stru-menti, ma non viene da Dedalo.»

«Cosa vorresti dire, Lon?» Si sentì la voce di Cyndi Salito. «Cosa diavolo è stato?» «State bene?» chiese Chu. In quel momento, sembrava che tutti avessero

qualcosa da chiedergli e non sapeva rispondere a tutti. «Qui tutto a posto. Non è successo niente. A parte quella trasmissione.» «Bernard.» Era Newellen. «Ho localizzato la fonte. Quel segnale non

proviene da qui. Viene da Marte! È stato trasmesso da Marte!» Chu non sapeva cosa dire, ma già si aprivano una serie di prospettive per

niente rassicuranti. Già, come si poteva pensare che il fenomeno fosse li-mitato alla Luna? Se, come avevano suggerito Erika Trace e Jordan Parvu, i costruttori alieni inviavano indiscriminatamente i loro automi attraverso la Galassia alla ricerca di posti su cui atterrare e iniziare a costruire, non era possibile che arrivassero solo sulla Luna. Perché non la stessa Terra? La costruzione a Dedalo poteva benissimo essere solo un esemplare dei monumenti in costruzione all'interno del Sistema solare né si poteva im-maginare che fosse l'unica a essere completata.

Le nanomacchine di Dedalo avevano raddoppiato il ritmo per riparare il danno causato dalla sua bomba di nitroglicerina e carburante per razzi. Ben presto anche il trasmettitore di Dedalo avrebbe inviato il suo messaggio. Pensò al paragone che Newellen aveva fatto con un enorme forno a micro-onde. E poi si chiese se ora Celeste avrebbe schiacciato il bottone.

Chu batté le mani. «Bene, ora ascoltatemi. Dottoressa Salito, Zimmer-man, portate quella cavalletta via da lì. Lasciate il cratere. Ora! Allontana-tevi. Tenetevi a una distanza sicura.»

Arrivò improvvisamente la voce della Salito. «Ehi! Il sensore sismico. Sta succedendo qualcosa qui.»

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«Un Luna-moto?» chiese Bryan Zimmerman. «Se non sbaglio, è l'antenna che si muove.» Chu era impaziente. «Cyndi, Bryan, mi avete sentito? Muovetevi! Tene-

tevi a distanza di sicurezza.» Gli operatori al centro di controllo si erano raggruppati attorno a Chu.

Alla fine, dopo una pausa che era durata anche troppo, sentirono la voce di Cyndi.

«Non ci piace l'idea di lasciare Jason e Erika lì dentro. Sappiamo che so-no ancora vivi.»

Chu incrociò le braccia magre sul petto. «Dottoressa Salito, se si trovas-sero all'interno della cavità radiofonica quando inizieranno queste trasmis-sioni rimarranno uccisi dall'energia irradiata. E farete la stessa fine anche voi, se non sarete schermati. Bene che vada, tutta la strumentazione sulla cavalletta sarà cortocircuitata dall'interferenza elettromagnetica. Non ab-biamo un'altra cavalletta per venire a prendervi. Avete capito?»

La voce di Bryan Z. non lasciò trapelare alcuna emozione. «Signore, non crede che dovremmo andare a prenderli?» Maledizione, Chu era stanco di questo esasperato protagonismo. «No!

Quattro perdite insensate sono peggio di due. Andatevene da lì. È un ordi-ne!»

«D'accordo» rispose infine Zimmerman. Dopo qualche istante, la cavalletta decollò e quando puntò le telecamere

panoramiche sul complesso alieno nel cratere Dedalo, tutti videro che gli enormi pannelli vitrei della parabolica stavano lentamente girando su se stessi.

33.

Costruzione di Dedalo

Jason stava guardando le gallerie buie e la struttura scintillante ed esoti-

ca abbellita dalla matrice dei cerchi. Poi iniziarono i fuochi d'artificio. La strana macchina emanava ondate di luce azzurra che scorrevano lun-

go le pareti della galleria come enormi zampilli anulari di energia. A un lampo di maggiore intensità ne seguì un altro, e poi rapidamente un altro ancora.

«Cosa succede?» chiese Erika. Jason guardò lo spettacolo. Il primo pensiero che gli attraversò la mente

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riguardava la cosa più probabile ma anche la più temibile. «Si sta carican-do, credo.»

Nelle gallerie alle loro spalle non c'era nulla, solo condutture che porta-vano alla superficie, verso i ponti di ragnatela che collegavano le profonde catacombe all'enorme antenna di Dedalo. Gli ci sarebbe voluto molto tem-po per ritornare alla cavalletta seguendo il filo di fibre ottiche di Erika. Se mai fossero riusciti a uscire da dove erano caduti. Jason non si sentiva troppo sicuro che ne avrebbero avuto il tempo.

Un altro lampo si propagò lungo le pareti traslucide. «Qualunque cosa debba succedere, non mi sembra che ci troviamo nel posto migliore» disse.

«Non abbiamo scelta» rispose Erika. «Possiamo solo scendere.» «Va bene» Jason si precipitò in avanti. «Sbrigati! Dobbiamo allontanarci

da qui al più presto!» Poggiò per terra la pesante strumentazione diagno-stica. Se doveva correre, non aveva nessuna intenzione di trascinarsi dietro quel peso inutilmente.

Sapeva che Cyndi Salito e Bryan Zimmerman erano ancora in superfi-cie, ma non c'era modo di avvertirli. Dovevano difendersi da soli.

Superarono i pannelli dietro la strana costruzione e passarono attraverso una intersezione alla galleria retrostante. I raggi dei fari di Erika danzava-no sulle pareti delle scure catacombe. Snidò con i fari una serie di aperture nella parete. «In che direzione vogliamo andare?»

«Chi lo sa?» rispose Jason. «Forse non ha importanza.» Dietro di lui ve-deva solo il buio. Si voltò verso Erika e poi istintivamente scelse l'apertura di mezzo. «C'è solo un modo per scoprirlo.»

Erika entrò con lui e poi si fermò. «Aspetta!» Con la mano dietro la schiena, staccò il filo di fibre ottiche dalla tuta. L'estremità cadde per terra. «Mi dispiace, ma se c'è un'ondata di energia, non voglio essere attaccata a un'antenna.»

Jason esitò. Ora sarebbero stati totalmente isolati da tutti e non avrebbe-ro più potuto trasmettere. Non sarebbero più nemmeno potuti risalire in superficie seguendo il filo. La prospettiva di trovarsi laggiù persi nel buio lo inquietò.

«Be', nemmeno a Hansel e Gretel è andata liscia.» Abbandonarono le attrezzature e corsero in avanti. L'apertura successiva sembrava un arco alto e stretto. Mentre passarono

sotto l'arco Jason sentì un rumore di energia statica nella radio della tuta e poi, improvvisamente, la tuta si allentò, era meno rigida. «Che succede?» Controllò il monitor interno del casco.

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«È come l'unità elettrostatica di soppressione pulviscolo alla base Co-lumbus» disse Erika.

Jason esaminò i dati sul visore interno. I suoi sospetti furono confermati. «È incredibile! Siamo entrati dentro un'atmosfera. Credo che quello fosse uno schermo per contenere un gas.»

Erika attese un attimo prima di rispondere. «È un peccato che non ab-biamo preso con noi l'unità diagnostica. Ora potremmo sapere in che tipo di atmosfera ci troviamo.»

Jason diede un'occhiata al contatore dell'aria. «Non ho la minima voglia di togliermi il casco per scoprirlo. La riserva è ancora buona.» Sospirò per farsi coraggio.

Entrarono in un enorme stanzone, l'ambiente più grande che avessero vi-sto fino a quel momento sotto Dedalo. La luce di Erika era appena in grado di illuminare gli oggetti ma ciò che videro li lasciò stupefatti. Jason non riuscì a determinarne la grandezza. Il soffitto e le pareti erano troppo di-stanti da lui perché fosse in grado di giudicare.

Cercava di decifrare le immagini incomprensibili. Edifici enormi che si contorcevano in strane eliche, strutture scintillanti e cristalline si ergevano come in una incisione di Escher, lastre rettangolari che interrompevano il pavimento ad angoli scelti a caso, archi asimmetrici.

Cercarono di capire dove erano, e il faro di Erika non era di grande aiu-to. Infine, Jason sussurrò nel microfono: «Questo è troppo». Spostò un braccio, che ora si muoveva con una certa libertà nell'ambiente pressuriz-zato. «C'è più roba di quanto il mio cervello possa comprendere.»

Erika spense il faro. Lo scuro bagliore UV era diventato sufficientemen-te intenso per scorgere delle forme indefinite. «C'è più luce qui. Riesco quasi a vedere.»

«Che significa allora?» chiese lui. «Con l'atmosfera? Scommetto che gli alieni abitano qui.» La prima reazione di Jason fu quella di girarsi e andarsene. Ma l'Unica

via di uscita portava indietro verso i corridoi non pressurizzati, e là qualco-sa stava per succedere. Lo sentiva. Non che l'ambiente qui gli sembrasse più rassicurante.

Ci vollero alcuni secondi prima che il cuore smettesse di battergli vio-lentemente, ma quando vide che il posto non si riempiva di mostruose cre-ature aliene si calmò. Cercò di dissimulare la paura mentre parlava con E-rika. «Dove pensi che saranno, questi alieni? Forse è solo una base per

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l'approdo di un'astronave colonizzatrice.» «Come è possibile che ci siano degli alieni? Hanno appena finito di co-

struire questo posto con le nanobestiole.» «E l'atmosfera? Per quale altro motivo le nanocreature dovrebbero riem-

pire il posto di gas che si presume gli alieni possano respirare e tenerlo al-l'interno di una barriera se devono arrivare solo da qui a qualche decen-nio?»

«Non lo so» rispose Erika, pensierosa mentre gli occhi si abituavano al buio. «Jase, guarda quell'edificio là in fondo.»

Jason lo cercò con gli occhi; non vedeva bene come Erika. «Vedo solo qualcosa che sembra un edificio, basso, con un tetto piatto. È quello?»

«Sì.» Erika riaccese i fari, ricacciando indietro lo scuro bagliore bluastro. Il

raggio di luce bianca non contribuiva a rendere il luogo più ospitale. Mos-se lentamente la luce a illuminare la metropoli sotterranea.

A Jason vennero in mente quei vecchi film di fantascienza in cui enormi tentacoli uscivano dagli UFO mentre raggi mortali bruciavano il terreno sottostante e donne vestite succintamente urlavano terrorizzate mentre ve-nivano rapite e portate via dalla Terra. Jason scacciò via quelle visioni pa-ranoiche e afferrò il braccio di Erika. «Andiamo, diamo un'occhiata anche lì.»

Si avvicinarono al basso edificio superando gli altri oggetti strani che ri-cordavano a Jason quelle sculture concettuali nelle gallerie di arte moderna che avevano qualche significato per l'artista ma per nessun altro. Per quan-to ne sapeva Jason avrebbero potuto essere qualsiasi cosa, da segnali stra-dali a bidè. La luce di Erika si rifrangeva contro quegli oggetti rendendo le curve e le ombre ancora più esotiche.

Superarono una torre contorta che sorgeva dal pavimento come un vec-chio olivo e si trovarono davanti all'edificio.

«Va bene» disse Erika «Come si fa a entrare?» Le pareti sembravano es-sere un intreccio continuo di fili neri. Guardando più da vicino, i bordi in-feriori dell'edificio sembravano smussati come se l'edificio fosse uscito dal pavimento.

Jason si avvicinò alla struttura. «Se la loro tecnologia è veramente avan-zata, sarà dotato di una porta automatica che si aprirà quando ci avvici-niamo. Più facile così, no? Almeno, è così che io lo progetterei.» Ma l'edi-ficio rimase immobile. Toccò il muro con il casco. Non apparve nessuna apertura.

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Seguì il muro dell'edificio. «Può darsi che la porta abbia un sensore che impedisce l'accesso a chiunque tranne che ai costruttori. Per escludere cani e gatti alieni.»

«Forse non è nemmeno un edificio» aggiunse Erika. «Un serbatoio per l'acqua? Oppure un immenso poggiapiedi? Chi può saperlo.»

Quando Jason arrivò alla fine della costruzione, si formò un'apertura nel-la parete, come plastica che si scioglieva. «Vedi, lo sapevo che l'avrei tro-vata.»

Erika si guardò attorno. «Credi sia una buona idea entrare?» «Cosa abbiamo da perdere ormai?» Entrando, notarono che la luce azzurra si era intensificata come se fosse-

ro entrati in una specie di serra. L'area era occupata da numerose file di contenitori ricoperti da bolle presumibilmente costruite in loco dalle nano-bestiole. I contenitori traslucidi, uno accanto all'altro, giacevano sotto la luce UV.

Jason si avvicinò al primo contenitore e allungò una mano. Sentiva dalla radio il respiro nervoso di Erika. «Attenzione, Jase.»

Facendosi più vicino alla bolla Jason disse: «Cosa ci sarà qui dentro, piante? Un bagno minerale?» Fece per chinarsi sopra e si bloccò, ricordan-dosi improvvisamente di quegli orrendi parassiti alieni dei film hollywoo-diani nascosti dentro delle uova in attesa di agganciarsi alla visiera dello sfortunato astronauta.

«Vedi qualcosa?» Erika non si offrì di guardare lei stessa. Con il guanto Jason toccò la bolla e ne oltrepassò la superficie. Ritirò la mano all'istante. «Cosa diavolo?»

«Guarda!» Il raggio di luce di Erika colpì le bolle nella stanza e queste reagirono mandando una luce più intensa e diventando più trasparenti. «La nostra luce è molto più bassa nello spettro ed è invisibile per gli alieni quindi questo potrebbe essere l'equivalente per loro dell'infrarosso.

Senza toccare la bolla Jason si chinò per meglio esaminare il contenitore che si trovava al suo interno. «Fammi un po' più di luce.»

Erika si avvicinò. «Mio Dio...» All'interno del contenitore giaceva una cosa grigia di pochi centimetri di

lunghezza e larga un centimetro. Inizialmente sembrava una pianta, una mutazione di un asparago, ma con orrore Jason vide che si contorceva sul fondo del contenitore.

«È un'incubatrice» disse Erika. «Sono vive.»

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Jason era ammutolito. Dopo qualche secondo scorse dei segni che quelle creature erano nutrite. Dei sottilissimi fili neri erano adagiati sul fondo del contenitore ed erano collegati alle membrane esterne delle creature. Un fluido nero scorreva attraverso un minuscolo tubo connesso a una delle e-stremità di quegli esseri. Il contenitore vibrava in modo da tenere le creatu-re in uno stato di moto costante.

Erika fece un passo indietro. Il raggio di luce colpì le file di incubatrici attorno a lei. Jason inspirò profondamente, ricordandosi di quanti altri edi-fici simili avevano visto dentro l'enorme caverna. Quanti erano gli embrio-ni?

Poi si chiese se da qualche parte lì intorno potessero esserci i genitori pronti a saltare fuori e a divorarli per aver disturbato... la nidiata. Si guardò attorno. Tutto era immobile. Niente era cambiato da quando erano entrati.

«Cosa stanno facendo? Crescono? Si alimentano? O che altro?» La voce di Erika all'interno del casco di Jason aveva un tono acuto. «E se abbiamo fatto scattare qualche allarme? Se sanno che noi siamo qui?»

Jason cercò di confortarsi. «Se ci sono degli alieni nei dintorni sarebbero già qui da un pezzo.»

Erika si avvicinò all'uscita. «Andiamocene.» Uscirono dall'edificio la-sciando le incubatrici. «Cerchiamo di tornare in superficie, vediamo se Co-lumbus ha ricevuto qualcosa.»

Mentre entravano nella prima stanza, Jason si sentiva sempre più nervo-so. Erano ancora circondati dal silenzio e dall'oscurità degli ultravioletti. Aveva la netta impressione di avere violato un luogo sacro.

Erika illuminò l'area distribuendo intorno la luce dei fari. Sembrava che non fosse cambiato nulla. Il silenzio regnava. «Non mi piace» disse Erika. «Ho un brutto presentimento.» Jason sentiva che cominciava a respirare forte.

«Non peggiorare le cose» rispose Jason. «Andiamocene da qui.» Le sue parole gelarono Jason come un rasoio af-

filato che gli tagliava la pelle. Sapeva che si stavano facendo prendere dal nervosismo, che si era innescato un meccanismo per cui entrambi contri-buivano a far crescere la tensione nervosa.

Dopo tutto quello che avevano passato, era possibile che ci fosse qual-cuno in agguato pronto a saltargli addosso? Non sarebbe saltato fuori pri-ma? A meno che non avessero qualche sistema robotizzato di vigilanza...

Dentro il casco, Jason sentì un crac violento seguito da una pulsazione rapida, forte e insistente come se qualcosa si fosse attaccato al casco. Il

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rumore continuava, un rumore bianco che sembrava investire l'intera tuta spaziale. I monitor interni erano impazziti in una girandola di colori e di numeri insensati.

Sentì, via radio, l'urlo di Erika annegato in una intensa scarica elettrosta-tica. Sembrava che il buio si stesse intensificando attorno a lui, bloccando-gli il pensiero stesso.

Era iniziata la trasmissione di Dedalo, una trasmissione che doveva at-traversare l'intera Galassia per raggiungere il pianeta d'origine dei costrut-tori.

34.

Costruzione di Dedalo

Jason quasi non riusciva a sentire la propria voce. «Erika?» Il suono era

attutito, come se provenisse da lontano, come se il casco fosse pieno di vecchi calzini. La radio non trasmetteva altro che scariche elettrostatiche.

Nessuna risposta. «Erika? Mi senti?» Pensò per un momento che il trasmettitore della tuta

si fosse rotto. Il monitor interno gli confermava che erano saltati due fusi-bili ma che, risolto il problema, l'apparecchio avrebbe funzionato nuova-mente. Ce n'era un altro di riserva, se occorreva. Perlomeno il sistema di alimentazione non era stato compromesso dall'intensità del segnale alieno. Ma Erika?

«Cos'è successo?» La voce di Erika sembrava filtrata da uno spesso stra-to di cotone.

«Un segnale» rispose mentre cercava di stabilire il nuovo circuito, che ora passava per i fusibili di riserva. «Una nuova base aliena che annuncia che è completata. Pronta per l'uso.» Era l'unica tesi credibile.

«Mio Dio, che sarebbe successo se fossimo rimasti nella camera? Qui almeno eravamo schermati...»

Jason mosse la mascella nel tentativo di schiudere le orecchie. «Il ripeti-tore che abbiamo lasciato lassù ora sarà in orbita.»

«Chissà se Cyndi e Bryan stanno bene. Se erano là fuori ad aspettarci...» Jason sentì salire l'angoscia. «Speriamo abbiano avuto qualche preavviso

e abbiano trovato riparo da qualche parte. Forse si staranno chiedendo la stessa cosa di noi.»

Erika si guardò attorno puntando il faro sulla costruzione aliena. Esami-nò l'edificio dal quale erano usciti. Nessuno dei due sapeva cosa dire.

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Jason vide strane forme architettoniche che si innalzavano dal pavimen-to. Nell'ombra, alcune sembravano grottesche. Altre sembravano fragili, affusolate, come se fossero state progettate per un pianeta con una gravita-zione ben più debole di quella terrestre.

«Non ci capisco ancora nulla» disse Jason finalmente. «Qui c'è un'intera città e niente... adulti. Dove sono i costruttori? E da dove sono venuti que-sti embrioni? Che ci sia un qualche tipo di astronave o di razzo che non abbiamo ancora trovato?»

Dietro la visiera, Erika scosse la testa. «No, Jase. Nessun razzo di grandi dimensioni. Se la teoria regge, i costruttori hanno sparato questi automi at-traverso il cosmo come le pallottole di un fucile da caccia. Stormi di na-nomacchine che possono essere accelerate fino alla velocità della luce. Nessun razzo potrebbe raggiungere una tale velocità senza rimanere dan-neggiato e senza portarsi dietro tonnellate di carburante. Non sembra il modo di pensare dei costruttori alieni. Le nanobestiole hanno fatto tutto il lavoro da qui.»

«E come hanno fatto gli embrioni ad arrivare sulla Luna?» chiese Jason. «Da qualche parte sono pur dovuti arrivare. O pensi che le nanobestiole abbiano creato anche loro?» Si fermò sorpreso dai suoi stessi pensieri. «Mi sembra magia nera, Erika; nanotecnologia che costruisce delle cose a livel-lo molecolare. Una cosa sono i ponti, i dischi parabolici, i generatori. Dammi i materiali e gli strumenti e te lo faccio pure io. Ma organismi vi-venti, che respirano, con cellule funzionanti? L'informazione nel DNA è miliardi di volte più complicata.»

Jason vide Erika che agitava la luce attorno a sé. Da dietro non riusciva a comprendere i gesti di lei dentro la tuta. Erika si allontanò dall'incubatri-ce di qualche passo e si diresse verso una serie di torri.

Il pavimento del grande vano era cosparso di oggetti che non sembrava-no avere né un ordine né una funzione particolare. Giardini con piante che assomigliavano a ciuffi, alberi meccanici, arcate che invece di finire la pa-rabola galleggiavano nel vuoto.

Camminarono intorno alle forme che sorgevano dal terreno. Triangoli solidi inclinati di lato, grandi sfere in cima a sottili pali e pannelli che e-mergevano dalle strutture principali ad angoli apparentemente casuali.

Erika si fermò infine davanti a un arco trapezoidale che risplendeva di archi color porpora. Portava a un'altra galleria che sembrava infinita. Dopo un momento di esitazione oltrepassò l'arco.

All'interno della galleria passarono a lato di un colonnato, fatto dello

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stesso materiale duro come il diamante, che terminava oltre la portata dei raggi di luce di Erika. Jason pensò all'antico Partenone.

Erika indicò le protuberanze sulla superficie di ogni colonna che sem-bravano cubi-dati plurisfaccettati. Jason toccò uno degli oggetti delle di-mensioni di un pugno chiuso. Lo staccò facilmente dalla colonna e lo girò sopra il guantone. «Credo che sia "Buckminster Fullerene", un'enorme mo-lecola di carbone. Le più grandi che siamo riusciti a produrre noi sono a malapena visibili sotto ingrandimento. Questo affare è incredibile.» Jason lo mise nella tasca per campioni della tuta. «Che serva per immagazzinare informazioni? Mi chiedo se questo posto sia una biblioteca.»

Jason non sentiva più la paura che avevano provato appena prima della trasmissione. C'era una specie di serenità ora... Sapeva che qualunque cosa fosse successa non sarebbero stati sopraffatti dagli avvenimenti. Non dopo tutto quello che avevano visto.

Esplorarono gli altri edifici, trovando sempre la stessa porta che si apriva dilatandosi su una parete. In una struttura scoprirono una serie di oggetti che sembravano attrezzi da palestra. Una sala per riunioni? Una scuola?

Alla fine Erika osservò: «Penso che non siamo in grado nemmeno di provare a indovinare a che cosa dovrebbe servire ma ho l'impressione che, quando crescono questi embrioni avranno già tutto pronto per affrontare la vita».

Dietro il bordo del cratere Cyndi Salito sospirò mentre Bryan Z. sosti-

tuiva un altro fusibile. Stava litigando con Bernard Chu quando anche l'ul-timo fusibile era saltato, ma ora sarebbe stato possibile rimettersi in contat-to.

«Dottoressa Salito, mi sente?» La voce di Chu era disturbata. Zimmer-man non aveva ancora ripristinato i circuiti del contatto video.

«Chu, mi ascolti. Ora andiamo a prenderli, e non importa quello che dice lei. Giusto, Bryan?»

«Giusto.» «Forse le conviene darci la sua benedizione. Se dobbiamo disubbidirle

davanti a tutti sarà lei che farà la figura del fesso, non le pare?» Cyndi tamburellò le dita sul pannello di controllo. Quando Chu rispose

era come se vedesse davanti a lei il suo viso irato. «Un'ora al massimo. Tenetevi costantemente in contatto. Uno di voi ri-

mane sulla cavalletta mentre l'altro scende. Seguite il cavo di fibre ottiche fino a dove potete e fate attenzione che l'antenna non trasmetta una secon-

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da volta.» Poi la voce si calmò. «Speriamo tutti che li troviate.» «Va bene.» Cyndi si rivolse a Zimmerman «Allora chi va? Facciamo te-

sta o croce?» Zimmerman grugnì. Cyndi sorrise. Qualsiasi altra risposta le avrebbe

fatto capire che c'era qualcosa che non andava. Jason fu sorpreso di sentire la voce di Cyndi Salito dopo che questa fu

scesa abbastanza in profondità nelle catacombe. Le frequenze dovevano essere riflesse lungo la galleria fino alla città aliena. Insieme, lui e Erika tornarono al campo di forza che intrappolava l'atmosfera all'interno del grande vano. Cyndi aveva seguito il filo lungo le catacombe principali e oltre i reattori materia-antimateria fino a raggiungerli.

Cyndi fu sorpresa quando Jason la fece passare attraverso lo schermo che richiudeva l'ambiente ermetico. «Non abbiamo più ricevuto immagini da quando avete staccato il collegamento» disse. «Aspetta che a Columbus vedano tutto questo!»

«È solo l'inizio» disse Jason. «Aspetta di vedere il resto.» Erika portò Cyndi verso l'edificio dell'incubatrice. Parlava velocemente,

la voce era agitata. «Non riuscivamo a capire perché avrebbero costruito un'intera città senza nessun alieno per abitarci. C'è di tutto qui. La città è pronta per essere abitata, biblioteche, scuole, generatori, comunicazioni...»

«Almeno crediamo che la maggior parte di questa roba serva per que-sto» la interruppe Jason.

«Se le nanobestiole hanno costruito il tutto per un'altra civiltà che voleva colonizzare la Luna, allora dove sono gli alieni? Stanno viaggiando più lentamente? Se è così, come mai le nanobestiole sono state programmate per costruire l'intero complesso subito invece di costruire l'antenna e atten-dere ulteriori istruzioni? Cioè, quelle nanocreature sono in grado di com-pletare il tutto prima ancora dell'arrivo degli alieni. Perché fare tutto ora?»

«Che prima sia arrivata un'astronave per dare il via a tutta l'operazione?» chiese Cyndi.

Jason la condusse lungo uno dei corridoi sovrastati dalle arcate. «Tu stessa ci hai detto che un altro segnale è stato trasmesso da Marte e quindi dobbiamo presumere che le nanobestiole sono arrivate anche là e hanno costruito un'antenna come questa. Non sono granché precise, vero? Come potevano sapere se la loro colonia era in una buona posizione o meno? Non sembra che gliene importi molto.»

Cyndi rise. «La testa mi gira solo a guardare questi strani oggetti, figu-

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riamoci se mi metto a seguire queste strane idee!» Jason la prese per il braccio e la condusse verso l'edificio delle incuba-

trici. «È giunta l'ora che tu incontri gli alieni.» «Cosa!?» Cyndi rimase ammutolita dentro la camera con le file di bolle e guardava

attraverso le pareti agli embrioni alieni protetti dalle loro incubatrici. Sem-bravano morbidi e gelatinosi con una pelle che mutava di disegno. Jason cercò di immaginarsi come sarebbero stati da adulti.

«Ma come sono arrivati? Avete detto che non c'era alcuna nave. Come è possibile che questi piccoli organismi siano sopravvissuti a un viaggio del genere? Solo i raggi cosmici ne avrebbero distrutto la maggior parte. An-che se fossero stati congelati non sarebbero sopravvissuti all'impatto.»

«Di nuovo con le nanobestiole» disse Jason. «Crediamo di aver capito» si intromise Erika. «In tutti quei campioni di

regolite che ho portato a Simul-Marte, ho trovato sempre una "specie" di nanomacchine che non sembrava avere nessuno scopo particolare. Sem-brava che non facessero altro che aspettare mentre gli altri disassemblava-no, assemblavano, controllavano e riprogrammavano.»

«Capito? Credo che quelle nanomacchine fossero i veicoli genetici. L'in-tera memoria di quelle nanomacchine era dedicata alle istruzioni per l'as-semblaggio di DNA alieno, atomo per atomo. Sarebbe stato impossibile per loro costruire un intero organismo, credo, e poi, come fare per farlo vi-vere? No. Ma con un singolo filo di DNA controllato e ricontrollato dalle nanomacchine per il controllo qualità hanno potuto costruire cloni di tutti gli individui alieni che volevano una volta disponibile la matrice geneti-ca.»

Cyndi si sentiva smarrita. «Mi è difficile capire tutto questo in una volta sola. Dammi tempo.»

Jason indicò l'attrezzatura d'incubazione. «Guarda questi congegni. Sono progettati per accudire i piccoli cloni. Guarda quanti progressi hanno fatto nei pochi mesi che hanno avuto a disposizione. I cubi-dati, gli edifici, le infrastrutture; è una colonia completa, pronta per l'uso.»

Erika continuava a girare intorno, illuminando i contenitori incapsulati nelle cupole di vetro. «Una volta completato l'intero complesso e iniziata la crescita degli embrioni, i sistemi necessari hanno determinato che que-sto luogo era in grado di sostenere la vita aliena. Quindi hanno inviato un segnale al pianeta d'origine per informare che la colonia era stata comple-tata. Anche se gli alieni arriveranno solo più tardi, con un'astronave più

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lenta, hanno già, qui, una colonia iniziale: edifici, infrastrutture e, ciò che è più importante ancora, alcuni esemplari della propria specie cresciuti dalle macchine, che serviranno a popolare questo posto.»

«Ma perché vorrebbero avere i loro figli qui soli, ad aspettarli?» chiese Cyndi.

Erika assunse un tono pessimista. «Forse questa prima ondata di cloni è considerata una generazione che può essere scartata. Forse vengono alleva-ti come schiavi per i veri costruttori al loro arrivo.»

Rimasero in silenzio per un momento. «Allora, vuole dire che quando quel segnale è ricevuto dagli alieni pos-

siamo aspettarci che dei visitatori vengano a colonizzare il nostro Sistema solare?» disse Cyndi a bassa voce.

«C'è molto spazio qui nel nostro Sistema solare, per molte cose» disse Jason.

«Non sarà vero se sparano colonie in questa maniera. Devo confessare che è una maniera piuttosto intelligente per colonizzare la Galassia, anche se ancora non sappiamo come sono» aggiunse Cyndi. «Come faremo a scoprire abbastanza cose di loro in tempo utile?»

Jason meditò il problema e si guardò intorno. «Possono insegnarcele lo-ro stessi. Se tutti questi attrezzi sono qui per addestrare gli embrioni allora noi possiamo restare qui a seguirli e, chi lo sa, stringere amicizia con que-ste creature, cercare di convincerle a essere gentili nei confronti di noi po-veri piccoli terrestri quando arrivano gli altri.»

«Mi ricorda Tarzan» disse la Salito. «Allevato dalle scimmie, era più in armonia con la giungla che non con gli esseri umani.»

«Ricordiamoci che c'è un'altra colonia primitiva su Mare» avvertì Erika. «Almeno a giudicare da quel primo segnale.»

«Almeno avremo del tempo per studiare la loro cultura prima che arrivi-no i genitori alieni» disse Jason. «L'unico problema è: quanto tempo ci ri-mane?»

EPILOGO

L'oloscopio mostrava una rappresentazione della zona galattica. Punti

brillanti che rappresentavano stelle disperse nelle tre dimensioni mostran-do l'enorme lunghezza della spirale, la distanza immane tra le singole stelle all'interno della Via Lattea e quanto insignificante fosse il Sole della Terra nell'intero disegno.

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«L'abbiamo tracciato fin qui» disse il generale Simon Pritchard alzando la mano col dito esteso per indicare il punto in questione. Il punto bianco da lui selezionato brillò più intensamente per evidenziarsi.

«Questa stella si chiama L-145-141. È una "DA", una nana bianca. La trasmissione di Dedalo era diretta qui. L-145-141 è un irradiatore di UV da 30.000 gradi all'interno di Centauro. Inoltre è una stella che emette una li-nea ferrea Fraunhofer "t" a 2.99944 angstrom, esattamente dieci miliardi di volte più piccola del diametro di Dedalo. E questa è la "prova del delitto". L-145-141 dista dalla Terra solamente diciassette anni luce. Praticamente siamo vicini di casa, come vedete. Non c'è nulla di emozionante laggiù tranne il fatto che sappiamo che ci abitano i "costruttori".»

Nella grande stanza delle simulazioni, il nuovo direttore della United Space Agency annuì. Il generale Pritchard si ricordava del momento, molto tempo prima, o almeno così sembrava, in cui aveva conosciuto Celeste McConnell proprio lì quando le mostrò la sua simulazione dell'impatto del-l'asteroide Icaro.

«Lasci stare Icaro, generale» gli aveva detto allora Celeste. «Voglio farle vedere quanto è diventato interessante Dedalo.» E aveva ragione, ma né lei né lui avrebbero potuto immaginare quante cose inaspettate sarebbero suc-cesse.

Il direttore dell'Agenzia Bernard Chu tornò alla poltrona e si fece cupo. Il suo viso sembrava teso e linee di fatica gli circondavano gli occhi. Pri-tchard conosceva le difficoltà che avrebbe avuto ad adattarsi alla gravità normale della Terra. Chu era stato nello spazio per sei anni; non c'era da stupirsi se doveva riposarsi spesso e rimettersi a sedere quando gli altri probabilmente sarebbero rimasti in piedi. Ci voleva ancora del tempo pri-ma che i suoi muscoli si ricostruissero. I supplementi di calcio avrebbero fatto riacquistare quello che le ossa avevano perso. Chu era tornato sulla Terra per rimanerci.

«Quindi» disse «lei ci sta dicendo che... la persona che deve ricevere la trasmissione da Dedalo deve aspettare diciassette anni luce prima di alzare la cornetta e dire pronto.»

«Sì, e poi ci vorranno altri diciassette anni prima di sentire la risposta.» E.T. telefono casa! pensò. Avevano appena rimesso in circolazione il

film nella nuova versione tridimensionale, nonostante le obiezioni dell'an-ziano regista. Un mese prima Pritchard aveva invitato Celeste ad andare a vederlo con lui ma lei si rifiutava di parlare ancora con lui.

L'agenzia aveva fatto di tutto per evitare che i dettagli del suo tentativo

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di distruggere la costruzione di Dedalo arrivassero alle newsnets e c'era riuscita abbastanza bene. Celeste era stata destituita con discrezione e tra-sferita a un incarico di minore rilievo in un dipartimento dell'amministra-zione poco conosciuto e poco visibile.

«Credevo che fosse escluso che stelle di quel tipo potessero sviluppare forme di vita» disse Chu.

Pritchard scrollò le spalle. «Nessuno dice che i "costruttori" siano origi-nari di là. Forse seguono delle migrazioni, si stabiliscono ovunque arrivino le nanomacchine e costruiscono un trasmettitore. Comunque le cose qua-drano, se vedono con la luce UV.»

Fece apparire un'immagine di L-145-141 ripresa dalla superficie lunare con un interferometro ottico. La definizione dell'immagine era un milione di volte superiore a quella del migliore dei telescopi terrestri.

Bernard Chu si massaggiò le tempie. Pritchard tolse l'immagine della mappa stellare locale e si chiese se poteva essere di aiuto. «Sono qui per assisterla, dottor Chu. Se le serve qualcosa farò quello che posso.»

Chu sospirò e abbozzò un sorriso. «Devo ancora abituarmi alla vita ter-restre. Mi sento sempre stanco. Non posso bere del caffè ma gradirei un po' di tè, non troppo forte però. Non so come riuscivo a sopportare questa gravitazione prima. È come portare vestiti fatti di mattoni.»

Pritchard rise. «Vuole qualcosa nel tè?» Premette il pannello dell'inter-com. «No, grazie.»

Mentre aspettavano il tè, Chu disse: «Dobbiamo assolutamente andare su Marte nel luogo dove si è verificato l'altro segnale. Anche con i trenta-quattro anni luce che dobbiamo aspettare prima di ricevere una risposta, avremo bisogno di ogni risorsa a disposizione per imparare tutto quello che possiamo su questi Costruttori. Ho deciso anche di mettere Erika Trace a capo delle indagini su Dedalo. Sembra che lei e Dvorak lavorino bene in-sieme e che nessuno dei due abbia voglia di tornare sulla Terra».

«Prima che arrivi la risposta, è meglio sapere il più possibile» disse Pri-tchard. «Ci conviene.»

Chu annuì. «Le Nazioni Unite hanno già raggiunto un accordo secondo il quale sarà proprio questo il compito prioritario della United Space A-gency.»

Pritchard annuì. «D'ora in poi sarà la missione principale per l'intera raz-za umana.»

Jason era nella cabina trasmissioni della base lunare Columbus. Non riu-

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sciva a evitare di sorridere. I suoi due figli, Lacy e Lawrence, cercavano in tutti i modi di entrare nel campo visivo e ridevano. Entrambi avevano ca-pelli neri e ricci. Margaret li aveva vestiti con due tute colorate identiche.

«Ti abbiamo visto sulle newsnets, papà» disse Lawrence agitatissimo. Lacy provò a dire la frase più volte prima che le riuscisse bene. «Ma ci

sei andato davvero in quel posto? Non avevi paura?» «Sì, ci sono andato, e sì avevo un po' di paura. Sarò lì a lavorare per un

bel po' ora. Ci sono molte cose che dobbiamo ancora vedere.» «Salutate papà ora» disse Margaret mentre con fare protettivo appoggia-

va le mani sulle spalle dei figli. Lo salutarono e Margaret occupò il campo visivo. Fissò Jason silenziosamente per un momento. Molto più a lungo di quanto non richiedesse il ritardo di trasmissione.

Margaret gli sembrava una persona estranea. Si ricordava, ma con di-stacco, che la trovava ancora molto attraente ma non riusciva a collegare quella sensazione con i sentimenti che una volta provava per lei. Com'era possibile passare dall'amore all'indifferenza in così breve tempo? Non riu-sciva a capirlo nemmeno lui.

«Forse ti sembrerà poco, Jase... Jason, ma hai fatto un cosa molto impor-tante lassù. L'ho capito, sai.» Fece una smorfia che la fece sembrare dieci anni più anziana. «Mi dispiace che le tue priorità siano queste ora, e non noi.»

Jason rimase inespressivo. Lei voleva questo, voleva scuoterlo almeno un po'. Con Margaret non c'era modo di avere la meglio. Doveva accettar-lo. La cosa migliore era non accettare la provocazione. Lasciare che cades-se nel vuoto.

E così fece. Erika seguiva da vicino Jason mentre facevano jogging sulla pista della

base Columbus. Cominciava a sentire la stanchezza e il sudore le faceva aderire la tuta alla pelle. Non aveva ancora il fiatone nonostante avessero già percorso venti chilometri.

Sembrava che stessero planando nella bassa gravità. Le si stringeva il cuore quando pensava alle meraviglie ancora da scoprire su Dedalo. «A volte è perfino troppo, quando ci penso.»

Erika diede un'occhiata a Jason per vedere che espressione aveva. Sape-va che stava di nuovo pensando alla sua ex-moglie e non a Dedalo. Disse: «Almeno i miei figli sono fieri di me».

«Anch'io lo sono» disse Erika. Accelerò e, sorprendendolo, lo raggiunse.

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Ora toccava a Jason allungare il passo. Jason continuò a parlare. A volte aveva bisogno di sfogarsi. «Non so co-

sa fare con Margaret, le ho provate tutte. Mi domando se ne vale la pena.» Erika scrollò le spalle. «Ad alcune persone non piacciono le sfide. Ho

l'impressione che lei sia una di quelle. Ma io e te abbiamo una grossa sfida dinanzi, su Dedalo.»

«E molto da aspettare» disse Jason. «A me va bene. Ecco perché mi piacciono gli uomini più maturi.» «Eh? Perché?» Erika sorrise tra sé e sé. «Perché sono pazienti» gli disse superandolo. Ridendo, si lanciarono insieme verso il traguardo.

Titolo originale: Assemblers of Infinity

Analog Science Fiction and Fact, September, October,

November, December 1992

GEORGIA ON MY MIND

di Charles Sheffield

Cosa ci può essere in comune

tra i Maori neozelandesi del diciannovesimo secolo, i ghiacci dell'Antartide e la macchina differenziale

di Charles Babbage?

Come sempre, impariamo dagli altri e finiamo per insegnare a noi stessi.

James Beard L'unica barriera che ci protegge dal mondo è la completa co-

noscenza di esso. John Locke

La prima volta che ho messo mano a un computer digitale è stato nel

1958. Sembrerà lontano come il medioevo, ma noi ci consideravamo infi-nitamente più avanzati dei nostri predecessori di una decina di anni prima, quando la programmazione dei computer veniva fatta conficcando spine in

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un pannello e un computer programmabile a scheda sequenziale era consi-derato il massimo della sofisticazione.

Nel 1958, comunque, la controversia sul fatto se fossero meglio i com-puter analogici o digitali non si era ancora risolta in maniera definitiva con la vittoria dei digitali. E il primo computer che programmai era, da tutti i punti di vista, un troglodita.

Si chiamava DEUCE, che stava per Digital Electronic Universal Computing Engine. Come sarà ovvio per qualsiasi giocatore di carte, pri-ma del Due viene l'Asso, e infatti DEUCE veniva subito dopo ACE (Au-tomatic Computing Engine), costruito dal National Physics, Laboratory di Teddington. A differenza di ACE, DEUCE era un computer commerciale; e ci si può fare un'idea dei suoi difetti dal commento, fatto da uno dei suoi stessi programmatori a proposito di ACE: «Se avessimo saputo che sareb-be stato immesso nel mercato, l'avremmo finito».

DEUCE era così grande che ci si poteva camminare dentro. Ed era quel-lo che effettivamente i tecnici facevano, picchiettando a vuoto con un cac-ciavite sulle valvole sospette, tutte le volte che la bestia si mostrava ricalci-trante; il che succedeva spesso. I problemi derivavano con uguale frequen-za sia dagli errori della macchina che da quelli di programmazione; e que-sti ultimi erano terribilmente frequenti, perché lavoravamo pressoché con la stessa logica base degli elaboratori, fatto che oggi risulta quasi inconce-pibile.

Stavo per dire che il computer era privo di compilatori e di assemblatori, ma ciò non è esattamente vero. C'era un compilatore a virgola mobile chiamato ALPHACODE, ma era mille volte più lento di un programma in codice macchina, e chiunque avesse un minimo di amor proprio non lo a-vrebbe mai usato. Programmammo quindi in codifica assoluta, cercando di usare al meglio le quattrocentodue parole della memoria rapida (a linea di ritardo), e le ottomilacentonovantadue parole della memoria di back-up (a tamburo rotante) di cui disponeva la macchina. Per qualsiasi cosa che non si riuscisse a fare in questo modo bisognava usare come memoria interme-dia delle schede perforate, con il programmatore che doveva stare lì in piedi a riceverle in uscita per poi rificcarle dentro.

Se poi aggiungo che le procedure di conversione dal sistema binario a quello decimale venivano evitate perché consumavano troppo spazio, che tutte le istruzioni venivano definite in binario, che quindi i programmatori dovevano sapere usare molto bene la rappresentazione binaria dei numeri, che la perforazione delle schede veniva fatta con una macchina manuale

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(non elettrica), e che il calcolatore stesso, per una ragione che mi è tuttora oscura, operava con numeri binari la cui cifra più significativa era situata a destra, anziché a sinistra - così che 13, per esempio, diventava 1011, inve-ce del solito 1101 - be', forse adesso potete cominciare a farvi un'idea ge-nerale di cosa volesse dire programmare DEUCE.

Dico queste cose non perché siano interessanti (per alcuni), o perché siano noiose (per molti), ma per far capire che chiunque lavorasse alla programmazione di DEUCE in quei lontani giorni non era un individuo da prendere alla leggera. Così almeno credevamo noi, anche se sospetto che per gli alti dirigenti noi non eravamo altro che dei ragazzini strambi che facevano delle cose incomprensibili, molte delle quali nel cuore della notte (quando era più facile che il computer si inceppasse).

Alcuni anni dopo i computer divennero più diffusi, inevitabilmente av-venne la diaspora dei programmatori, e ce ne andammo tutti in altri posti interessanti. Alcuni di noi si fecero strada nelle università, altri si misero in affari, e molti andarono all'estero. Tendemmo tuttavia a mantenerci in con-tatto, perché quell'esperienza aveva creato fra di noi un legame speciale.

Uno dei personaggi più interessanti era Bill Rigley. Era un tipo alto, pie-no di slancio, con i capelli ondulati, che portava giacche di tweed e pro-nunciava le "a" molto aperte, cosa che alla maggior parte degli americani fa pensare a un'origine bostoniana. Ma Bill era neozelandese, e aveva visto con i suoi occhi cose come la Grande Barriera Corallina che noi avevamo a stento sentito nominare. Non parlava molto del suo paese e della sua fa-miglia, ma doveva essere pieno di nostalgia, perché dopo alcuni anni in Europa e in America tornò là per occupare una cattedra al dipartimento di matematica (e più tardi al dipartimento di informatica, quando finalmente ne crearono uno) all'Università di Auckland.

Auckland è situata sull'Isola del Nord, un po' meno remota e desolata di quella del Sud, ma sempre lontanissima dalla costa est degli Stati Uniti dove io invece avevo messo radici. Io e Bill rimanemmo comunque in stretto contatto, perché i nostri interessi scientifici erano molto simili. Ci vedevamo ogni due o tre anni a Stanford o a Londra, o in qualsiasi altro posto si incrociassero le nostre strade, e avevamo quel grado di intimità che è possibile solo con poche persone. Fu Bill a essermi vicino dopo la morte di mia moglie; io a mia volta venni a conoscenza (ma non ne parlai mai) dell'oscuro segreto che aveva segnato la sua vita. Per quanto lunghi fossero gli intervalli fra i nostri incontri, ogni volta che ci vedevamo ci mettevamo a parlare come se non ci fossimo mai separati.

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Bill aveva interessi enciclopedici, e nutriva una particolare passione per la storia della scienza. Così non mi sorpresi affatto quando, una volta tor-nato in patria, si mise a girare per il paese alla ricerca dei contributi che la Nuova Zelanda aveva apportato alla scienza mondiale.

Quello che mi sorprese fu una lettera che ricevetti alcuni mesi fa, in cui mi raccontava che in una fattoria vicino a Dunedin, nell'estremità meridio-nale dell'Isola del Sud, aveva scoperto per caso alcuni resti appartenenti al-la macchina differenziale di Charles Babbage.

Fin dai tardi anni Cinquanta sapevamo tutto su Babbage. All'epoca c'era un unico manuale sui computer digitali, Più veloce del pensiero di Bo-wden, ma il primo capitolo era tutto dedicato a quest'inglese eccentrico ma formidabile, che odiava i musicisti di strada e aveva una bassissima consi-derazione della Royal Society (il cui unico scopo, era solito dire, era orga-nizzare cene in cui i membri si conferivano medaglie a vicenda). Nono-stante le sue opinioni antiquate, Babbage era sempre stato il nostro santo protettore. E questo perché, dal 1834 fino alla fine della sua vita, aveva cercato senza successo di costruire il primo computer digitale programma-bile del mondo. Aveva compreso alla perfezione i principi, ma si era trova-to in difficoltà per il fatto di dover lavorare con parti meccaniche. Riuscite a immaginare un computer tutto fatto di ingranaggi, molle, leve e cilindri dentati?

Be', Babbage ci era riuscito. E avrebbe persino potuto aver la meglio sul-l'inadeguatezza della tecnologia disponibile, se non fosse stato per un pro-blema fatale: non aveva mai smesso di pensare a come migliorarlo. Appe-na aveva realizzato metà di un progetto, lo distruggeva e cominciava a uti-lizzarne i pezzi per costruirne uno migliore. Quando Babbage morì nel 1871, la sua meravigliosa macchina differenziale era ancora un sogno. I pezzi furono spediti al Kensington Science Museum di Londra, dove sono tuttora.

Data la nostra antica familiarità con Babbage, la mia reazione alla lettera di Bill Rigley fu di puro scetticismo. Potevo capire che a Bill sarebbe pia-ciuto trovare reperti della macchina differenziale in una qualche parte del suo suolo natio, ma se pensava di esserci riuscito s'ingannava sicuramente.

Gli risposi, cercando di suggerirglielo con tutto il tatto possibile, e rice-vetti come pronta risposta non una ritrattazione, ma il più straordinario pacco di documenti che avessi mai visto in vita mia (dovrei aggiungere, ri-spetto a questo, che aveva in serbo per me cose ancor più strane).

Il primo documento era una lettera di Bill, in cui spiegava con la sua so-

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lita franchezza che il macchinario che aveva trovato era sopravvissuto nel-l'isola meridionale della Nuova Zelanda perché diceva: «Noi non buttiamo via la roba buona come fate voi». Cercava anche di dimostrare con una dozzina di esempi, che nel secolo scorso i contatti tra l'Inghilterra e gli an-tipodi erano molto più stretti di quello che potessi pensare. Visitare la Nuova Zelanda e l'Australia era diventata una moda fra le persone colte, una specie di versione ampliata del grand tour in Europa. Una di quelle persone naturalmente fu Charles Darwin, che vi giunse a bordo del Beagle, ma vi furono anche tanti altri scienziati di fama minore, viaggiatori inter-nazionali, e gentiluomini delle classi agiate. Due figli di Babbage si trova-vano in Nuova Zelanda intorno al 1850.

Il secondo articolo contenuto nel pacco era corredato di fotografie del macchinario trovato da Bill. Mi sembrò quello che in realtà era: un am-masso di ingranaggi, ruote e cilindri dentati. Pezzi che assomigliavano ve-ramente a parti della macchina analitica, o della precedente macchina dif-ferenziale, ma non riuscivo a capire come potessero stare assieme.

Né la lettera né le foto erano molto convincenti. Il contrario, semmai. I-niziai a scrivere mentalmente una lettera dove gli dicevo questo, ma esitai per una ragione: molti storici della scienza ne sapevano molto più di storia che di scienza, e ben pochi erano specialisti di informatica. Bill era esatta-mente l'opposto: un esperto di computer che si dava il caso fosse anche appassionato di storia della scienza. Sarebbe stato molto difficile prendersi gioco di lui - a meno che non decidesse di prendersi in giro da solo.

Così mi toccava scrivergli un'altra lettera sgradevole. Ma il problema mi fu risparmiato, perché quello che non potevo ignorare o fraintendere era il terzo articolo contenuto nel pacco: la fotocopia di un manuale di pro-grammazione, scritto a mano, della macchina analitica di Babbage. Era da-tato 7 luglio 1854. Bill diceva di possederne l'originale. Diceva inoltre che nessuno era a conoscenza della sua scoperta, e mi chiedeva di mantenere il segreto.

E qui, per spiegare il mio sbalordimento, devo rituffarmi nella storia dei computer e ritornare non ai tardi anni Cinquanta, quando noi eravamo agli inizi, ma molto più indietro, all'anno 1840. In quell'anno il matematico ita-liano Luigi Federico Menabrea assistette a Torino a una conferenza di Babbage in cui questi parlava della nuova macchina che stava costruendo. Dopo aver ricevuto da Babbage alcuni ulteriori chiarimenti per via episto-lare, Menabrea scrisse un articolo in francese sulla macchina analitica, che fu pubblicato nel 1842. Verso la fine di quell'anno Ada Lovelace (la figlia

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di Lord Byron; Lady Augusta Ada Byron Lovelace, per citare il suo nome completo) lo tradusse, aggiungendo lunghe note di suo pugno. Queste note formarono il primo manuale di software del mondo; Ada Lovelace vi de-scriveva come programmare la macchina analitica, comprese le complesse tecniche della ricorsione, del looping e della diramazione.

Dodici anni prima del 1854, quindi, un manuale di programmazione del-la macchina differenziale esisteva già; era possibile che quello che Bill a-veva trovato in Nuova Zelanda non fosse altro che una copia di quello scritto nel 1842 da Ada Lovelace.

Ma rimanevano alcuni problemi. Il documento che mi aveva spedito Bill andava ben oltre le note del 1842. Affrontava argomenti difficili come l'in-dirizzamento indiretto, i programmi e le sequenze rilocabili, e introduceva un nuovo linguaggio per programmare la macchina analitica - equivalente in pratica a un assemblatore primitivo.

Era possibile che fosse stata Ada Lovelace a sviluppare delle idee così avanzate, e ad aver scritto questo manuale. Sebbene i suoi appunti di ma-tematica siano andati completamente perduti, è possibile che avesse un gran talento. Ma era morta nel 1852, e nelle opere rimasteci non c'era nes-sun indizio che lei avesse mai aperto le strade sorprendenti descritte nel documento che avevo ricevuto da Bill. Inoltre, il documento recava sul frontespizio le iniziali dell'autore, L.D., mentre Ada Lovelace aveva sem-pre usato nelle sue opere pubblicate le sue iniziali, A.A.L.

Rilessi il manuale molte volte, soprattutto la parte finale. Conteneva un programma esemplificativo per calcolare il volume di un solido irregolare con gli integrali numerici - e includeva una pagina di output, la stampa dei risultati del programma.

A questo punto intravedevo solo tre possibilità. La prima era che qual-cuno in tempi recenti avesse accuratamente piazzato nei pressi di Dunedin un falso, e avesse guidato Bill Rigley alla sua "scoperta". La seconda era che Bill stesso fosse coinvolto in un tentativo di truffa molto elaborata, per ragioni che non riuscivo a immaginare.

Entrambe queste spiegazioni mi creavano dei problemi. Bill era forse il ricercatore più cauto, prudente e scrupoloso che avessi mai conosciuto. Era fin troppo coscienzioso, e non gli piacevano gli scherzi. E poi era l'ultima persona al mondo che potesse trovare divertente organizzare una truffa.

Restava così la terza possibilità. Qualcuno in Nuova Zelanda aveva co-struito una versione della macchina differenziale, l'aveva fatta funzionare, e l'aveva portata a un livello molto superiore rispetto al prototipo di Bab-

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bage. La chiamo la terza possibilità, ma impossibile quanto le altre due. Non

c'era da stupirsi che Bill avesse chiesto la mia riservatezza. Non voleva di-ventare lo zimbello degli storici dell'informatica.

E nemmeno io. Feci una cosa che era insolita nel mio rapporto con Bill: alzai la cornetta e lo chiamai in Nuova Zelanda.

«Be', cosa ne pensi?» mi chiese non appena riconobbe la mia voce. «Ho paura di pensare. Quanti controlli hai fatto?» «Ho spedito copie del documento in cinque posti diversi, una in Giappo-

ne, due in Europa e due negli Stati Uniti. Secondo le stime che sono state fatte, la carta e l'inchiostro risalgono a un periodo che va dal 1840 al 1875, e il 1850 è la data che ricorre più di tutte. Il macchinario che ho trovato era stato protetto da un involucro di tela di sacco impregnata di olio di semi di lino. Il sacco risalirebbe a un tempo compreso fra il 1830 e il 1880.» Ci fu una pausa all'altro capo del filo. «C'è di più. Cose che non avevo due set-timane fa.»

«Dimmi.» «Preferisco di no. Non così.» Ci fu un altro momento di silenzio, più

lungo questa volta. «Vieni qui, no?» «Perché credi che ti stia telefonando? Che aereo dovrei prendere?» «Per Christchurch, nell'Isola del Sud. Proseguiremo più a sud, oltre Du-

nedin. Porta degli indumenti pesanti. È inverno qui.» «Lo so. Ti richiamerò appena saprò l'orario d'arrivo.» E fu così che tutto ebbe inizio. La chioma ondulata di capelli biondi aveva cominciato a imbiancarsi, e

Bill Rigley sfoggiava ora una barba brizzolata che sulla sua faccia provata dalle intemperie lo faceva assomigliare al Vecchio Marinaio di Coleridge. Per il resto non era cambiato, tranne forse per quella strana tensione nel suo sguardo.

Non ci stringemmo la mano quando venne a prendermi all'aeroporto, e non scambiammo neanche una parola convenzionale di saluto. Disse solo, appena fummo abbastanza vicini per parlare: «Se non stesse capitando a me, avrei detto che non poteva capitare a nessuno» e mi condusse verso la macchina.

Bill era nato nell'Isola del Sud; il lungo tragitto da Christchurch a Dune-din gli era dunque familiare. Io mi sentivo addosso quello stordimento strano ma piacevole che segue un lungo viaggio intercontinentale - quello

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che si prova appena scesi dall'aereo, prima di cominciare ad avvertire i primi sintomi del jetlag - e fissavo il paesaggio da quello che per me era il posto del guidatore (tengono ancora la sinistra in Nuova Zelanda, come gli inglesi).

Stavamo attraversando le pianure di Canterbury, lungo una strada dritta che tagliava a metà una distesa piatta e deserta di campi fangosi. Erano passati quasi tre mesi dalla mietitura - del grano o dell'orzo, a giudicare dalle stoppie - e non c'era molto da vedere, fino a quando, giunti a Timaru, imboccammo la strada costiera, e ci ritrovammo a sinistra il mare grigio cupo e a destra la pianura scura e disabitata. Ero già stato sull'Isola del Sud una volta, ma era stato un viaggio lampo, con una puntata a Christchurch e poco altro. Cominciai a capire per la prima volta le lamentele di Bill a pro-posito del "sovraffollamento" di Auckland, nell'Isola del Nord. Si incon-travano macchine e persone, ma era roba da ridere rispetto a quello a cui ero abituato. Era il tardo pomeriggio, e quando fummo più a sud si fece più freddo e cominciò a piovere. Il mare scomparve dalla vista in un cortina di nebbia e di piovischio.

Da quando eravamo saliti in macchina avevamo chiacchierato a vuoto. Erano parole dette per evitare di parlare, e ne eravamo entrambi consape-voli. Ma alla fine fu Bill, dopo alcuni secondi di silenzio rotto solo dal ru-more del motore e dal fruscio dei tergicristalli, a dire: «Sono felice di aver-ti qui. Ci sono stati momenti durante le ultime settimane in cui ho pensato seriamente di impazzire. Ti dico cosa penso di fare. Domani mattina, dopo che ti sarai ben riposato, voglio mostrarti tutto, così come l'ho trovato. E voglio che mi dici cosa ne pensi tu».

Feci cenno di sì. «Qual è la popolazione della Nuova Zelanda?» Senza voltarmi vidi la rapida occhiata di Bill. «In totale? Quattro milioni

al massimo.» «E qual era nel 1850?» «Questa è proprio una bella domanda. Non so se ci sia nessuno che lo

sappia veramente; io direi, un paio di centinaia di migliaia. Ma la grande maggioranza erano indigeni Maori. So a cosa stai pensando, e sono assolu-tamente d'accordo. Non c'è modo che qualcuno abbia potuto costruire una versione della macchina differenziale in Nuova Zelanda a metà del secolo scorso. Qui l'industria manifatturiera proprio non esisteva. L'assemblaggio Finale avrebbero potuto farlo, ma i componenti avrebbero dovuto farli co-struire e spedire parzialmente montati dall'Europa.»

«Da Babbage?»

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«Impossibile. Era ancora vivo nel 1854. Morì solo nel 1871, e se avesse saputo che in qualsiasi parte del mondo stavano costruendo una versione della macchina differenziale, ne avrebbe parlato ininterrottamente in tutta Europa.»

«Ma se non è stato Babbage...» «Allora chi è stato? Lo so. Abbi pazienza ancora qualche ora. Non cer-

care di capirci prima di esserti fatto una bella dormita, e aver avuto l'op-portunità di vedere tutto quanto con i tuoi occhi.»

Aveva ragione. Avevo viaggiato senza sosta giorno e notte, e il mio cer-vello era in sciopero. Mi alzai il bavero del cappotto sulle orecchie, e spro-fondai più in basso nel sedile. Negli ultimi giorni, su Babbage e la macchi-na differenziale avevo assorbito più informazioni di quante ne potesse con-tenere la mia testa. Adesso avevo bisogno che trovassero un loro ordine, tenendo conto anche di quello che Bill mi avrebbe mostrato l'indomani. Poi avremmo visto se sarei riuscito a proporre una spiegazione più plausi-bile di quella che aveva trovato lui.

Mentre scivolavo in uno stato di semincoscienza, mi balenò in mente il mistero più grande di tutti. Fino a quel momento mi ero detto, inconscia-mente, che Bill si sbagliava. Era il mio modo di evitare le conseguenze lo-giche del fatto che avesse ragione. Ma supponiamo che avesse veramente ragione. Allora il mistero più grande non era la comparsa di una macchina differenziale, con i suoi avanzati strumenti di programmazione, in Nuova Zelanda. Era la scomparsa di tutte queste cose dalla faccia della terra.

Dove diavolo erano andate a finire? La nostra destinazione era una fattoria a una trentina di chilometri circa

da Dunedin. Non la vidi bene quando arrivammo, perché pioveva, era buio pesto e io ero per tre quarti addormentato. Semmai pensavo a qualcosa mentre mi accompagnavano in una stanza piccola e stretta e crollavo sul letto, era che l'indomani, di buon mattino, Bill mi avrebbe mostrato tutto e le mie perplessità sarebbero finite.

Non andò così. Innanzitutto dormii troppo e quando mi alzai mi sentivo malissimo. Mi ero dimenticato come ti può ridurre un viaggio lungo senza chiudere occhio. Negli ultimi anni avevo viaggiato sempre meno, e stavo diventando fiacco. Inoltre la pioggia si era trasformata in grandine e veniva giù in raffiche gelate. Un vento pungente soffiava da est, proveniente dal mare. Io e Bill ci sedemmo al tavolo sgangherato della cucina della fatto-ria, e la signora Trevelyan mi rimpinzò di bacon, uova, salsiccia fatta in

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casa, pane e tè zuccherato e bollente finché non ricominciai a dare segni di vita. Era una donna sui sessantacinque anni, vigorosa e rubizza, e se era sorpresa che Bill avesse finalmente portato a casa qualcun altro per esplo-rare Little House, non lo diede affatto a vedere.

«Bene, allora» disse, quando fui completamente sazio. «Se fate due pas-si su per la collina avrete bisogno di un impermeabile. Jim se ne è messo uno quando è uscito, ma ne abbiamo un mucchio di riserva.»

Jim Trevelyan doveva essere fuori da qualche parte a prendersi cura de-gli animali della fattoria, ed era uscito all'alba. Bill vide la mia faccia e fe-ce un risolino sadico. «Non vorrai fermare i lavori per un po' di pioggia?»

Avrei voluto tornarmene a letto. Ma non avevo fatto diciottomila chilo-metri per battere la fiacca. I "due passi su per la collina" si rivelarono una scarpinata di quasi un chilometro attraverso una poltiglia fangosa ricoperta da uno strato sottile di torba acida.

«Come hai fatto a trovare questo posto?» domandai a Bill. «Chiedendo in giro e guardandomi attorno. Ero già stato in mille posti

come questo, ma non avevo trovato niente.» Ci stavamo avvicinando a una casa quadrata, dalla costruzione solida,

fatta di blocchi di pietra calcarea fissati con la malta. Aveva un aspetto un po' malandato, ma il tetto di ardesia e il camino erano intatti. Non mi sem-brava molto più piccola dell'edificio principale della fattoria.

«Non si chiama "Little House" perché è piccola» spiegò Bill «ma perché è la casa dove dovrebbero abitare i figli quando si sposano. Hai davanti una tragedia del ventesimo secolo. Jim e Annie Trevelyan sono agricoltori di quarta generazione. Hanno cinque figli. Tutti sono andati a studiare al-l'università, e non uno che sia tornato ad abitare a Little House aspettando che venga il suo turno di dirigere la fattoria. Jim e Annie tengono duro a Big House, aspettando e sperando.»

Entrando notai che la pesante porta di legno aveva una chiusura perfetta e ruotava con facilità sui cardini oliati.

«Jim Trevelyan mantiene la casa in buono stato, e credo che siano con-tenti che io sia qui a darle un'atmosfera abitata» disse Bill. «Ho il sospetto che entrambi pensino che sia matto come un cavallo, ma non dicono mai niente. Tieni stretta questa mentre mi preparo.»

Aveva portato con sé una lanterna. Quando me la passò fui colpito da quanto fosse pesante - e se l'era trascinata dietro per quasi un chilometro.

«È la batteria» spiegò Bill. «Ci sono delle lampade a petrolio qui, ma ovviamente niente elettricità. Dopo aver vagato per un paio d'anni in posti

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fuori mano, ho deciso che non valeva la pena di fare trecentocinquanta chi-lometri se poi non puoi vedere quello che eri venuto a cercare. Posso rica-ricarla con la batteria della macchina se è necessario.»

Appena Bill ebbe chiuso la porta il vento tacque. Attraversammo una la-vanderia per giungere a una cucina arredata con delle sedie, un tavolo e una credenza di legno massiccio. La stanza era gelata, e guardai pieno di voglia il secchio di carbone e le braci spente nel caminetto.

«Fai pure» disse Bill «mentre io preparo tutto quanto. Tieni il cappotto addosso, però - puoi stare lì ad arrostirti dopo.»

Accese due grandi lampade a petrolio che erano sulla tavola, mentre io disponevo nel caminetto strati di carta arrotolata, bastoncini e pezzi di car-bone. Erano trent'anni che non facevo un fuoco con il carbone, ma la cosa non richiedeva una grande abilità. Dopo pochi minuti mi bastò buttarci un occhio per controllare che stesse prendendo bene, e così potei guardarmi meglio in giro. Non c'erano tappeti, ma dalla porta partiva una lunga stuoia di foglie di cocco che arrivava fino alle camere da letto. Bill iniziò ad arro-tolarla, scoprendo una botola chiusa da un coperchio quadrato di legno. In-filò la cintura nell'anello di ferro e tirò, grugnendo dallo sforzo, finché il coperchio finalmente si sollevò e ruotando sui cardini di ottone si aprì completamente.

«Un ripostiglio sotterraneo» commentò. «Ora avremo bisogno della lan-terna. Accendila e passamela giù.»

Si calò nell'oscurità, ma non troppo. Era in piedi sul pavimento di sotto, ma gli vedevo ancora la testa e le spalle. Accesi la lanterna elettrica e glie-la passai.

«Solo un secondo» dissi. Andai verso il caminetto, gettai sul fuoco cin-que o sei pezzi grossi di carbone, e corsi di nuovo alla botola. Bill era già scomparso quando mi calai nell'apertura.

Il ripostiglio era alto poco più di un metro, e aveva un pavimento di terra battuta. Seguii la luce della lanterna, fino a un'estremità sollevata alcuni centimetri da terra per mezzo di grosse travi di legno. Su questo pavimento rialzato stavano tre grandi casse di tè. La lanterna le illuminava con una luce ferma e potente.

«Ti avevo detto che avresti visto esattamente quello che ho visto io» dis-se Bill. «Queste qui sono state tutte spedite fuori per essere esaminate, na-turalmente, ma tutto è quasi come l'ho trovato. Bene, prima l'hardware.»

Sollevò attentamente il coperchio della cassa di destra. Era piena a metà di vecchi sacchi. Bill ne tirò fuori uno, lo distese, e mi passò i contenuti. In

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mano avevo un cilindro di metallo massiccio, leggermente oliato e fatto apparentemente di ottone. Sulla parte superiore erano segnate le cifre da 0 a 9, e all'estremità inferiore c'era una ruota dentata leggermente più grande.

Lo esaminai attentamente con calma. «Potrebbe essere» dissi. «Corri-sponde perfettamente alle illustrazioni.»

Non avevo bisogno di specificare quali. Sapeva che nelle ultime setti-mane avevo pensato quasi esclusivamente a Babbage e alle sue macchine analitiche, esattamente come lui.

«Non penso che sia stato fatto in Inghilterra» disse Bill. «L'ho esaminato da cima a fondo con una lente, e non ho trovato nessun marchio di fabbri-ca. La mia ipotesi è che sia stato fatto in Francia.»

«E per quale motivo?» «I numeri. Lo stesso stile usato da alcuni tra i migliori orologiai francesi

- vedi, anch'io ho fatto le mie ricerche.» Prese il cilindro e lo avvolse di nuovo, con cura infinita, nel suo involucro impregnato d'olio. Guardai at-torno a noi, dal pavimento di terra alle travi polverose. «Non è il posto mi-gliore per conservare oggetti di valore.»

«È andato benissimo per 140 anni. Non credo si possa dire altrettanto della maggior parte dei posti.» C'era un'altra cosa, che Bill non aveva bi-sogno di sottolineare. Era un posto perfetto per conservare oggetti di valo-re - finché nessuno pensava che ce l'avessero un valore.

«Qui non ci sono neanche lontanamente i pezzi sufficienti per costruire una macchina differenziale, è ovvio» continuò. «Questi potevano essere semplicemente pezzi di ricambio. Ne ho portati alcuni a Auckland. Qui non ho nemmeno l'originale del manuale di programmazione. È a Au-ckland, all'università, chiuso in una cassaforte. Ne ho portata una copia, se serve.»

«Anch'io.» Sorridemmo entrambi. Sotto la mia calma apparente non riu-scivo quasi a parlare dall'eccitazione, e sentivo che era lo stesso per Bill. «Hai qualche indizio su chi potrebbe essere "L.D.", quelle iniziali sul fron-tespizio?»

«Neanche un barlume.» Il coperchio della prima cassa era tornato al suo posto, e Bill stava aprendo la seconda. «Ma ho un altro mistero su L.D. per te. Tieniti pronto.»

Si era messo un paio di guanti sottili e stava aprendo con grande cautela una carpetta di cartone cosparsa di macchie, legata con una nastro come una lettera legale. Dopo che l'ebbe aperta l'appoggiò sul coperchio della terza cassa.

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«Preferirei che questa non la toccassi affatto» disse. «Potrebbe essere molto fragile. Dimmelo quando vuoi vedere il foglio successivo. Qui c'è una lente.»

Erano disegni. Uno per foglio, inchiostro di china su carta bianca e fine, eseguiti con un pennino sottile. E non avevano proprio niente a che fare con Charles Babbage, i manuali di programmazione o le macchine analiti-che. Ma c'erano scritte sopra così piccole che dovetti prima strizzare gli occhi, poi usare la lente, due minuscole, nitide iniziali "L.D.", in alto sul-l'angolo destro di ogni foglio.

Erano disegni di animali, di quelli con un mucchio di zampette che si vedono a volte mentre fuggono in su e in giù sulle battigie paludose o na-scosti nella corteccia putrefatta di un albero. O meglio, come realizzai e-saminandoli più da vicino, i fogli contenuti nella carpetta erano disegni di un unico animale, visto dall'alto, dal basso e da tutti i lati.

«Allora?» disse Bill attendendo una mia reazione. Ma io stavo osservando nuovamente il piccolo marchio dell'artista. «Non

è lo stesso... questo "L.D." è diverso da quello sul manuale di software.» «Sei molto più in gamba di me» disse Bill. «Ho dovuto guardare cin-

quanta volte prima di accorgermene. Ma sono totalmente d'accordo, la "L" è diversa, e anche la "D". E l'animale?»

«Non ho mai visto niente di simile. Bellissimi disegni, ma non sono uno zoologo. Dovresti fotografarli e portarli al dipartimento di biologia della tua università.»

«L'ho fatto. Tu non conosci Ray Weddle, ma è un tipo eccezionale. Dice che sono solo disegni, cose inventate, perché non esiste niente di simile, e non è mai esistito.» Riannodò accuratamente il nastro e ripose la carpetta nella cassa. «Avevo delle foto anche qui, ma volevo che vedessi gli origi-nali, proprio come li ho visti io la prima volta. Li riguarderemo, ma ades-so... passiamo al prossimo oggetto misterioso.»

Infilò la mano nella terza cassa, estrasse altri pezzi del macchinario, an-che questi protetti da un involucro, poi uno spesso strato di paglia. Notai che le sue mani ora stavano tremando. Odiai il pensiero che Bill avesse su-dato e sofferto per tutto questo, prima di dirlo a qualcuno. La voglia di rendere pubblica una scoperta del genere doveva essere incontenibile; ma la paura di venire deriso dalla comunità scientifica e trattato come uno dei tanti pazzi millantatori doveva essere altrettanto forte.

Se le cose che Bill aveva prodotto finora quel momento erano complesse e sconcertanti, l'oggetto che seguì era di una semplicità quasi comica -

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sempre che fosse autentico. Bill stava sollevando, con notevole fatica, un lingotto lungo circa quindici centimetri, largo cinque, e spesso otto. Alla luce della lanterna, emanava un bagliore ipnotizzante.

«Hai capito cos'è» disse notando la mia espressione stupefatta. «Oro a ventiquattro carati, massiccio. Ce ne sono altri tredici.»

«Ma i Trevelyan, e la gente che aveva la fattoria prima di loro...» «Non gli è mai venuto in mente di guardare. Questi erano stivati sul fon-

do di una cassa, sepolti sotto pezzi della macchina analitica e vecchi sac-chi. Immagino che nessuno abbia mai guardato sotto al primo strato fino a quando sono arrivato io.» Mi sorrise. «Tentato? Se avessi vent'anni di me-no, fuggirei col bottino.»

«Quanto?» «Quanto vale l'oro adesso. In valuta americana?» «Chissà. Forse dodici dollari al grammo?» «Sei tu il ragazzo prodigio della matematica, non io. Quindi i conti li fai

tu. Quattordici lingotti, dal peso di dodici chili ciascuno.» «Un milione e novecentosessantamila. Facciamo due milioni di dollari,

cifra tonda. Da quanto tempo è qui?» «Chi lo sa? Ma visto che si trovava sotto le parti della macchina analiti-

ca, direi che è qui da quando c'è anche il resto.» «E di chi è?» «Se lo chiedi allo stato, scommetto che diranno che appartiene a loro. Se

lo chiedi a me, è di chi l'ha trovato. Cioè mio. E forse adesso anche tuo.» Fece un ghigno che sembrò diabolico alla luce della lanterna. «Pronto per il prossimo oggetto misterioso?»

Non lo ero. «Per qualcuno che porta qui una fortuna in oro, e poi la ab-bandona...»

Sotto l'impermeabile, Bill aveva una vecchia giacca sportiva e un paio di jeans. Per quel che ne sapevo io, possedeva tre abiti, nessuno dei quali a-veva meno di dieci anni. I suoi unici vizi erano la birra, le visite ai musei, e quattro sigari in media all'anno. Non riuscivo a vederlo come l'Uomo da due milioni di dollari, e non credevo che ci riuscisse nemmeno lui. Quello che disse successivamente me lo confermò.

«Per quanto mi riguarda» affermò «tutto questo appartiene ai Trevelyan. Ma dovrò spiegargli che l'oro potrebbe essere la cosa meno preziosa qui.» Ritornò alla seconda cassa, quella che conteneva i disegni, e le mani ripre-sero a tremargli.

«Erano questi che volevo veramente che vedessi» continuò con la voce

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roca. «Non ho ancora avuto modo di farli datare, ma scommetto che sono tutti autentici. Li puoi toccare, ma vacci piano.»

Aveva in mano tre volumi sottili, grandi come libri contabili, tutti larghi circa mezzo metro e lunghi la metà, rilegati con una stoffa nera lucente come il cuoio su cui è stata passata la carta vetrata. Bill mi porse quello in cima, lo presi e lo aprii.

Vidi colonne e colonne di nitide tabelle numeriche. Sicuramente non e-rano il prodotto della macchina analitica, perché erano scritte a mano e ri-portavano alcune correzioni e cancellature.

Diedi una scorsa alle pagine. Numeri. Nient'altro, nessuna nota, nessuna firma. Date su tutte le pagine. Erano tutte dell'ottobre del 1855. La scrittura era la stessa del manuale di programmazione.

Il secondo libro non conteneva nessuna data. Si trattava di una serie di disegni squisitamente particolareggiati che raffiguravano macchinari con denti e ingranaggi che si incastravano in maniera elaborata. C'erano delle parti scritte, sotto forma di quote e di terse note esplicative, ma non rico-nobbi la calligrafia.

«Ti risparmio la fatica» disse Bill, quando stavo già prendendo in mano la lente. «Queste sicuramente non sono di L.D. Sono copie esatte di alcuni dei disegni fatti da Babbage per le sue macchine calcolatrici. Se vuoi a Auckland ti mostrerò delle altre riproduzioni, ma noterai che queste non sono fotografie. Non so quale procedimento di riproduzione sia stato usato. Scommetto che queste cose siano state messe qui allo stesso momento - anche se non sappiamo quando.»

Non avevo intenzione di affidarmi ciecamente alle parole di Bill. Dopo tutto, ero venuto in Nuova Zelanda per verificare di persona le sue conget-ture. Ma bastarono cinque minuti perché fossi d'accordo, almeno all'inizio, con quello che stava dicendo.

«Vorrei portare questo e tutti gli altri libri in cucina» dissi porgendogli il secondo volume. «Voglio guardarli meglio.»

«Certo» replicò. «Me l'aspettavo. Ho detto ai Trevelyan che forse sa-remmo rimasti qui a Little House per un'intera settimana. Possiamo cuci-nare noi, oppure Annie sarebbe più che felice di aspettarci per i pasti. Cre-do che le piaccia la compagnia.»

Non ne ero sicuro. Non sono un tipo elitario, ma prevedevo che le con-versazioni che avremmo avuto io e Bill nei giorni seguenti sarebbero risul-tate incomprensibili a Annie Trevelyan e pressoché a chiunque altro.

Allungai la mano per prendere il terzo volume. Era tutto scritto a mano,

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senza neanche un disegno. Sembravano tante lettere, una attaccata all'altra, e scritte con il libro girato di lato in modo da sfruttare la larghezza delle pagine. Non c'erano capoversi; la calligrafia era bella e uniforme, apparte-nente a una mano diversa da quella che aveva vergato le tavole numeriche del primo libro. Uno spazio di due centimetri esatti separava la fine di ogni lettera dall'inizio della successiva.

La prima era datata 12 ottobre 1850. Iniziava così: Cara J.G., gli indigeni continuano a dimostrare un amichevolezza e una

gentilezza di natura pari alle più alte aspettative, sebbene, ahimè, perseve-rino nel loro paganesimo. Man mano che aumenta la nostra capacità di comprenderli, ci sembra di capire che la popolazione è molto più dispersa di quanto supponessimo all'inizio. Ho menzionato precedentemente le iso-le settentrionali, da Tahiti a Raratonga. Sembra tuttavia che i Maori si siano diffusi anche a sud, in terre molto distanti da qui. Mi domando se i loro insediamenti giungano fino al grande Continente Meridionale, esplo-rato da James Cook e più recentemente anche dal Capitano Ross. Anch'io sto contemplando la possibilità di intraprendere un viaggio verso un'isola più a sud, avvalendomi dell'aiuto della popolazione locale. Veramente, ci attende un'intera vita di lavoro. Malgrado la lontananza di amici affezio-nati come te, entrambi pensiamo all'Europa e alla finanza come a "un mondo che è bello essersi lasciati alle spalle". Louisa è guarita completa-mente dalla malattia che due anni fa mi aveva causato così tante preoccu-pazioni, e credo che la ragione principale di questo miglioramento sia da ricercarsi nel rafforzamento del suo spirito. Ha ripreso il suo lavoro scien-tifico in maniera, credo, più produttiva che mai. I miei stessi sforzi nel campo della biologia si rivelano sempre più soddisfacenti. Quando ci scri-verai ancora raccontaci, ti prego, non degli effimeri eventi della società e della politica londinese, ma dei progressi scientifici. È soprattutto in que-sto campo che io e Louisa abbiamo sete di nuove conoscenze. Sappi che sei sempre presente nei nostri pensieri e nei nostri discorsi. Con affetto, L.D.

La lettera successiva era datata 14 dicembre 1850. Due mesi dopo la prima. Era un tempo sufficiente per fare arrivare una lettera in Inghilterra, e ricevere risposta? Anche questa era firmata L.D.

Andai alla fine del volume. L'ultima ventina di pagine era stata lasciata in bianco, e nelle ultime lettere la bella calligrafia regolare degenerava in una scrittura frettolosa e quasi illeggibile. L'ultima risaliva all'ottobre del 1855.

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Bill mi stava fissando attentamente. «C'è solo questo libro?» domandai. Annuì. «Ma non significa che abbiano smesso di scriverne. Semplice-

mente non le abbiamo.» «Se non hanno smesso, perché hanno lasciato le ultime pagine in bian-

co? Torniamo su. Con i libri.» Volevo leggere tutte le lettere, ed esaminare tutte le pagine una per una,

ma se avessi provato a farlo in quella cantina gelida, avrei preso una pol-monite ancor prima di arrivare a metà. Ero già scosso dai brividi.

«Che te ne pare, così a prima vista?» chiese Bill mentre appoggiava con cura i libri sul tavolo e richiudeva la botola, nascondendola nuovamente sotto la stuoia di foglie di cocco. «So che non hai ancora avuto il tempo di leggerle, ma non vedo l'ora di sapere cosa stai pensando.»

Misi due sedie di fronte al caminetto. Il fuoco crepitava, e l'aria della stanza si era già riscaldata.

«Ci sono due L.D.» dissi. «Marito e moglie?» «Può essere. O forse fratello e sorella.» «Uno di loro - la donna - ha scritto il manuale di programmazione della

macchina differenziale. L'altro - se è un uomo, perché non possiamo dirlo con certezza - ha disegnato gli animali, e ha scritto le lettere. In quel regi-stro conservava le copie delle lettere che spediva in Europa. Immagino che non ci sia traccia delle risposte, giusto?»

«Hai visto tutto quello che c'era da vedere» fece Bill sporgendosi in a-vanti e allungando le mani gelate verso il fuoco. «Ho capito dalle lettere che erano in due, ma non avevo pensato subito alla divisione dei compiti. Hai ragione, però. Nient'altro?»

«Dammi tempo. Ho bisogno di leggere.» Mi alzai per prendere dal tavo-lo il terzo libro, quello con le lettere, e tornai a sedermi davanti al caminet-to. «Sembrano missionari, comunque.»

«Missionari e scienziati. Tipica mescolanza ottocentesca.» Bill mi guar-dò mentre leggevo per un paio di minuti, poi l'impulso di alzarsi per fare qualcosa - o di interrompermi con altre domande - ebbe il sopravvento. Bruciava dal desiderio di parlare, ma allo stesso tempo non voleva impe-dirmi di lavorare.

«Torno a Big House» disse all'improvviso. «Devo dire a Annie che sa-remo lì a pranzo sul tardi?»

Pensai alla vecchia fattoria, a tutte le generazioni che vi si erano succe-dute. Ora c'erano solo i due vecchi, e nessun futuro. Annuii. «Se mi metto a parlare di questo con loro, fermami.»

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«Lo farò, se ci riuscirò. E se non sarò io a cominciare.» Si abbottonò l'impermeabile, e si fermò un attimo sulla soglia. «A proposito dell'oro. Avevo pensato di dirglielo, perché sono sicuro che dal punto di vista legale abbiano più diritto di altri di reclamarne la proprietà. Ma non sopporterei che i figli si precipitassero a casa per le ragioni sbagliate. Avrei piacere che mi aiutassi tu a trovare il momento giusto per dirglielo. Non mi piace giocare con la vita degli altri.»

«Così vorresti un consiglio. Spiegami una cosa. Perché mai questi due a metà del secolo scorso sarebbero venuti fin qui nell'Isola del Sud, di na-scosto, senza dire ad anima viva cosa stavano facendo? Perché così pa-re...»

«Mi viene da pensare che avessero trovato dei pezzi di una macchina analitica, che poi nessuno ha più toccato per un secolo e mezzo. Ma è una spiegazione un po' troppo circolare per i miei gusti. E poi hanno detto quello che facevano. Leggi le lettere.»

Rimasi da solo, seduto comodamente davanti al fuoco con il libro in mano ad asciugarmi le scarpe e i pantaloni fradici. Mi addentrai nella lettu-ra, facendomi cullare dal calore, mentre le parole mi trasportavano rapi-damente nel passato.

La maggior parte delle lettere riguardava argomenti religiosi o d'affari, ed era destinata ad amici in Inghilterra, in Francia o in Irlanda. Tutte le persone erano indicate solamente con le iniziali. Apparve chiaro che anche la donna aveva tenuto un'intensa corrispondenza che però non era stata in-clusa nel libro. I riferimenti casuali alla spesa di grandi somme di denaro rendevano più comprensibile la presenza dei lingotti d'oro. Questi due L.D., chiunque fossero, possedevano notevoli ricchezze in Europa; non e-rano certo state le difficoltà finanziarie a spingerli a trasferirsi in Nuova Zelanda.

Ma non tutte le lettere si riferivano a questo tipo di questioni. Sparse qua e là fra le normali chiacchiere tra amici c'erano delle sorprese, improvvise e imprevedibili come fulmini a ciel sereno. La prima era una breve nota datata gennaio 1851:

Cara J.G., L. ha appreso tramite A.v.H. che C.B. dispera di terminare il suo grandioso progetto. Citando le sue stesse parole: "Non c'è alcuna pos-sibilità che la macchina possa essere realizzata finché sono in vita e non sono nemmeno certo su come disporre dei disegni dopo la mia morte". Ciò è veramente tragico, e L. è fuori di sé al pensiero che possano andare per-si. Possiamo essere d'aiuto in qualche modo? Se dovesse trattarsi sempli-

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cemente di una questione di denaro... E poi veniva questa, dell'aprile del 1853, a più di due anni di distanza: Cara J.G., ti ringrazio infinitamente per i materiali che ci hai spedito.

Sembra tuttavia che ci sia stata tempesta durante il viaggio, e che l'imbal-laggio fosse inadeguato, cosicché tre cilindri sono arrivati con uno o più denti rotti. Accludo la descrizione di questi elementi. È possibile che la ri-parazione possa essere fatta qui, anche se i pochi operai qualificati di cui disponiamo non sono assolutamente all'altezza dei meccanici di Bologna o di Parigi. A ogni modo, mi faresti un grande favore se potessi accertarti che gli oggetti siano stati assicurati come avevamo richiesto. Tuo ecc., L.D.

Cilindri con ingranaggi dentati. Era la prima volta che le lettere allude-vano alla macchina analitica, ma non certo l'ultima. Da altre lettere indiriz-zate a J.G., dedussi che nel 1852 erano già state eseguite tre o quattro spe-dizioni, e tutto, pare, era sopravvissuto al viaggio in buone condizioni.

Per fare più in fretta nel copiare le lettere, L.D. aveva usato una serie di abbreviazioni; "c." stava al posto sia di "che" che di "con"; "per" veniva abbreviato in "p.", e così via. L'uso delle abbreviazioni non impediva affat-to la comprensione, e risultava facile ricostruire l'originale; ma quando le persone venivano indicate solo con le iniziali mi veniva da imprecare. Era impossibile risalire alla loro identità. A.v.H. probabilmente era il grande scrittore e viaggiatore Alexander von Humboldt, che ha lasciato la sua im-pronta su tutte le scienze naturali della prima metà dell'Ottocento; e C.B. doveva sicuramente essere Charles Babbage. Ma chi diavolo era J.G.?

Giunto a circa un terzo del libro, compresi che non si trattava semplice-mente di una raccolta di copie delle lettere che L.D. inviava in Europa. Probabilmente fu così che cominciò, ma a un certo punto L.D. iniziò a u-sarlo anche come diario privato. Così, giunto al febbraio del 1854, dopo un intervallo di silenzio di quasi quattro mesi, trovai quest'annotazione:

22 febbraio. Finalmente a casa. Grazie a Dio L. non è venuta con me, perché i mari del sud sono più infidi di quanto potessi mai immaginare, sebbene agli indigeni dell'equipaggio non facciano nessun effetto. Ridono nell'occhio del ciclone, e fra le onde più paurose balzano dalla nave alle lance con assoluta impunità. Comunque la prospettiva di un viaggio del genere nei mesi invernali frenerebbe lo spirito più ardito, e sfida la mia stessa immaginazione.

L. ha fatto notevolissimi progressi nelle sue ricerche durante la mia as-senza. È giunta alla conclusione che il progetto della grande macchina sia

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suscettibile di considerevoli miglioramenti, e che possa raggiungere una versatilità e una potenza che A.D. non avrebbe ritenuto possibili. La no-stra cara amica lotta per sfuggire alla stretta tirannica della madre, ma sembra destinata a scarso successo. Dietro sua richiesta, L. mantiene il segreto, e non permette che in Inghilterra trapeli nulla sui suoi studi. Se tuttavia le sue ricerche venissero rese note, sono certo che sarebbero molti in Europa a restare sbalorditi da un lavoro simile - così ambizioso, così nobile, e portato avanti interamente da una donna!

Pareva quindi che la notizia della tragica morte di Ada Lovelace, avve-nuta nel 1852, non avesse ancora raggiunto là Nuova Zelanda. Mi chiede-vo come fosse possibile, e continuai a leggere:

Nel frattempo, che dire della mia impresa personale? Il meglio che si possa dire è che i risultati sono stati modesti. Abbiamo navigato verso u-n'isola che gli indigeni chiamano Rormaurma, e che nelle mie carte è in-dicata con il nome di Macwherry o Macquarie. È una grande striscia di terra, lunga quindici miglia ma molto stretta, abbondantemente popolata di pinguini e altri animali marini. Tuttavia, degli "uomini amanti del fred-do" che mi avevano descritto gli indigeni, se ho interpretato correttamente la loro lingua, non ho trovato nessuna traccia o nessun artefatto che te-stimoni la loro capacità di comunicare e di muoversi attraverso l'acqua, di cui gli indigeni invece fanno un gran parlare. È importantissimo che, pri-ma di spiegare e fare accettare loro la parola di Dio, riesca a capire bene le ragioni della loro venerazione nei confronti di questi presunti "uomini superiori".

Per la prima volta mi limitai a dare una scorsa alla seconda parte della lettera. I "notevolissimi progressi" menzionati da L.D. mi interessavano molto di più. Solo più tardi tornai a leggere la parte finale e vi riflettei a lungo.

Le lettere contenevano una serie discontinua e frustrante di riferimenti al lavoro che stava conducendo Louisa. Sembrava che fosse impegnata anche con altre cose, e che potesse trovare un po' di tempo per la ricerca solo quando la coscienza glielo permetteva. Ma all'inizio del 1855, alla stessa ignota corrispondente, L.D. scriveva:

Cara J.G., è finita, e funziona! E, per essere sinceri, sono io il primo a stupirmene. Ti immagino mentre scuoti la testa leggendo queste parole, e riconosco che avevi ragione tu quando tempo fa mi dicevi che era lei il cervello della famiglia - una tesi che non proverò mai più a contraddire.

È finita, e funziona! Stavo rileggendo quella prima frase, con i brividi

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che mi salivano su per la schiena, quando si aprì la porta. Sollevai lo sguardo infastidito. Mi accorsi allora che la stanza era nuovamente gelata, che il fuoco era ormai spento, e che il mio orologio segnava quasi le tre del pomeriggio.

Era Bill. «Finito?» chiese con un'impazienza che mi diede la certezza che la mia risposta non gli sarebbe piaciuta.

«Mi sono rimaste una decina di pagine per finire le lettere, ma le tabelle e i disegni non li ho nemmeno guardati.» Mi alzai in piedi tutto intirizzito, e con le molle aggiunsi al fuoco un po' di pezzi di carbone. «Se vuoi parla-re, a me va bene.»

Gli si leggeva in volto che era combattuto, ma dopo pochi secondi scos-se il capo. «No, ti potrebbe indirizzare verso lo stesso percorso mentale che ho preso io, anche se entrambi cerchiamo di evitarlo. Sappiamo quanto venga naturale a noi due darci l'imbeccata a vicenda. Aspetterò. Torniamo a Big House, Annie mi ha detto di venirti a prendere, e che se partiamo su-bito arriveremo in tempo per l'ora del tè.»

Al solo pensiero sentii un brontolio allo stomaco. «E questi?» «Lasciali pure dove sono, puoi riprendere da dove ti eri interrotto. Sono

al sicuro qui.» Ma subito dopo notai che schermava accuratamente il fuoco per proteggerli dalle scintille.

Il cielo fuori si era schiarito, e la camminata giù dalla collina era proprio quello di cui avevo bisogno. Ci trovavamo a 46° di latitudine sud, era qua-si metà inverno e a ovest il sole era già basso sulle colline. Soffiava ancora un vento forte e freddo. Se facevo correre lo sguardo verso sud, nulla si frapponeva fra me e il "grande Continente Meridionale" di cui parlava L.D. Se mi volgevo a est o a ovest, avrei trovato solo mare aperto, da lì fi-no al Cile o all'Argentina. Non c'era da stupirsi che i venti fossero così for-ti: facevano mezzo giro del mondo senza trovare ostacoli.

Il "tè" della signora Trevelyan era di quelli in uso nelle famiglie di agri-coltori, per i quali rappresentava il principale pasto caldo del giorno. Quando giungemmo alla fattoria Jim Trevelyan era già seduto con coltello e forchetta in mano. Aveva già passato i settant'anni, ma era un uomo a-sciutto, agile e vigoroso. L'unico segno che tradiva veramente la sua età era la sordità, a cui lui ovviava sporgendosi in avanti con una mano dietro l'orecchio destro e fissando intensamente l'interlocutore.

La portata principale era un pasticcio di montone, una prelibatezza che nascondeva sotto la spessa crosta un miscuglio di carne, mele, cipolle e chiodi di garofano. Lo trovai assolutamente squisito, e ne mangiai tre por-

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zioni facendo felice la signora Trevelyan. Jim Trevelyan ci servì una birra scura fatta in casa. Non disse molto, ma ci fece un cenno di approvazione quando vide che io e Bill dimostravamo di apprezzarla al pari del cibo.

Dopo il terzo boccale, cominciai a scivolare in una piacevole sensazione di sogno. Non avevo voglia di parlare, e fortunatamente non ce n'era biso-gno. Feci la mia parte imitando Jim, ascoltando Annie mentre ci racconta-va di Big House e della sua famiglia, e facendo cenno di sì nei momenti giusti.

Dopo che ebbe sparecchiato tirò fuori una vecchia valigia piena di foto-grafie. Di tutti sapeva il nome e i legami di parentela che univano gli uni agli altri fino a comprendere quattro generazioni. Ci aveva già mostrato metà della pila quando si interruppe, lanciando un'occhiata imbarazzata a me e a Bill. «Vi starò annoiando» disse.

«Neanche un po'» risposi. Ed era vero: si infervorava talmente parlando del passato. Anche lei a modo suo aveva la passione della storia, esatta-mente come me e Bill.

«Continui, la prego» aggiunse Bill. «È veramente interessante.» «D'accordo.» Arrossì. «Mi faccio trasportare, capite? È così bello avere

di nuovo dei giovani per casa...» Bill incrociò il mio sguardo. Giovani? Noi? Con la sua barba brizzolata,

e la mia stempiatura? Ma Annie aveva già ripreso il suo racconto a ritroso nel tempo, fino a giungere ai tempi dei primi Trevelyan che costruirono Big House. Sul fondo della valigia giacevano ancora due fotografie incor-niciate.

«Su queste però non so proprio cosa dirvi» commentò ridendo. «Non ne ho idea di chi siano questi due. Di sicuro sono i più vecchi qua dentro.»

Le passò da un capo all'altro del tavolo perché potessimo guardarle da vicino, porgendone una a ciascuno. La mia era un ritratto, non una fotogra-fia. Raffigurava un uomo grassoccio, con una gran barba e occhi grigio chiaro. In una mano teneva una lunga pipa di terracotta, e con l'altra acca-rezzava un cane sulla testa. Non c'era nessun indizio su chi potesse essere.

Bill era ancora intento a osservare la sua. Tesi la mano e, dopo aver in-dugiato a lungo, finalmente me la porse.

Era un altro ritratto. L'uomo era di tre quarti, come se fosse stato com-battuto tra guardare il pittore e guardare la donna. Aveva i capelli scuri e lunghi baffi piegati all'ingiù. Lei era al suo fianco, con un mazzolino di fiori in mano e il mento lievemente sollevato in quella che sembrava un'e-spressione di risolutezza o di sfida. I suoi occhi erano fissi al di là del qua-

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dro, mi penetravano, quasi mi stessero leggendo dentro. In basso, vicino alla cornice, c'erano quattro parole scritte con un inchiostro nero: "Luke e Louisa Derwent".

Ero ammutolito. Fu Bill a rompere il silenzio. «Come fa ad avere queste due, se non fanno parte della sua famiglia?»

La sua voce era roca e vacillante, ma Annie non sembrò farvi caso. «Non ve l'ho detto? Il primo Trevelyan costruì Big House, ma prima c'era stata altra gente qui. Abitavano a Little House - è stata costruita molto, molto tempo prima, non so di preciso quando. Queste due foto dovevano appartenere a quella famiglia, secondo me.»

Bill si girò e mi lanciò un'occhiata. Aveva la bocca mezza aperta, ma almeno riuscì a chiuderla e a chiedere a Annie: «Ne ha... cioè, ci sono delle altre cose? Cose che una volta erano a Little House?»

Annie scosse il capo. «Prima sì, ma poi il nonno, il padre di Jim, pochi giorni dopo che ci eravamo sposati dette una gran ripulita. Non gettò via le cose che avete trovato perché nessuno di noi ha mai usato quel bugigattolo sotto la cucina. Ho tenuto queste due perché mi piacciono i ritratti. Ma tut-to il resto è stato buttato.»

Doveva aver notato che io e Bill eravamo sprofondati nelle nostre sedie, perché scosse il capo e disse: «Oh, vi ho riempiti di chiacchiere, e mi sono scordata di darvi il dessert. Torta di mele e formaggio».

Quando si alzò per andare in dispensa e Jim Trevelyan la seguì fuori dal-la cucina, Bill mi disse: «Mi credi se ti dico che non ho mai pensato di chiedere a loro? Cioè, una volta domandai a Jim che cosa c'era prima a Lit-tle House, e lui mi disse che suo padre aveva gettato via tutto tranne quello che c'è ora. E basta. Non ho mai chiesto niente a Annie».

«Niente di grave. Adesso sappiamo, no? L'artista si chiamava Luke Derwent, e Louisa era la matematica e l'ingegnere.»

«E la programmatrice, un secolo prima che nascesse ufficialmente la programmazione.» Bill si interruppe. Avevamo deciso di non discutere di questo finché non avessi finito di esaminare il resto dei documenti. Il ritor-no di Jim Trevelyan ci salvò dalla tentazione. Aveva in mano un libro e-norme, grande quasi come una valigia, con una copertina nera in rilievo e gli angoli rifiniti di ottone.

«Le dissi che mio padre aveva cacciato via tutto» disse. «E più o meno è così, alcune cose le buttò, altre le bruciò. Ma era un uomo religioso, e non avrebbe mai distrutto una Bibbia.» La fece cadere sul tavolo con un tonfo, facendo vibrare il legno massiccio. «Questa era a Little House. Se volete

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darci un'occhiata, potete anche riportarvela là, fate pure liberamente.» La tirai verso di me e sganciai il grosso fermaglio di metallo che la tene-

va chiusa. Dai bordi leggermente scostati di alcune pagine avevo intuito che c'erano degli inserti. Nella stanza si fece un silenzio improvviso men-tre sfogliavo nervosamente le pagine per trovarli.

La delusione che seguì mi lasciò svuotato come se non avessi toccato ci-bo per l'intera giornata. C'erano degli inserti, certo: fiori selvatici secchi, raccolti molto, moltissimo tempo prima, e pressati fra le pagine della Bib-bia. Li esaminai uno per uno, e diedi una scorsa al libro per controllare che non ci fosse nient'altro. Lo misi via con un profondo sospiro.

Bill si sporse e lo tirò dalla sua parte. «C'è un'altra possibilità...» disse. «La mia famiglia aveva un'usanza...» Andò all'ultima pagina. La copertina era rivestita internamente da una fodera spessa e ingiallita. Su di essa, con inchiostri di diversi colori e ormai sbiaditi, una mano diligente aveva trac-ciato l'albero genealogico dei Derwent.

Ci scordammo completamente della torta di mele. Con l'aiuto spontaneo di Annie e Jim Trevelyan, deciframmo tutti i nomi delle diverse genera-zioni, trascrivendoli via via su un foglio.

Sembravamo destinati a un'ulteriore delusione. A eccezione di quelli di Luke e Louisa Derwent, nessuno di noi fu in grado di riconoscere neanche un nome. L'unico fatto nuovo che emergeva dall'albero genealogico era che i due erano fratello e sorella da parte di padre. Non c'erano date, e l'ul-tima generazione riportata era quella di Luke e Louisa Derwent.

Io e Bill dovemmo ammettere di essere in un vicolo cieco. Infine Annie servì il dessert, terminato il quale io e Bill avvolgemmo i due ritratti in due buste impermeabili (sebbene non stesse piovendo) e ci apprestammo a ri-tornare a Little House, dopo aver promesso a Annie che saremmo sicura-mente ripassati per la colazione.

Stavamo camminando in silenzio su per la collina, quando a metà del cammino Bill disse improvvisamente: «Mi dispiace. L'ho notata anch'io, sai, la somiglianza con Eileen. Sapevo che ti avrebbe colpito. Ma non c'era nulla che potessi fare.»

«È l'espressione, più che altro» risposi. «Con quel mento alzato, quello sguardo... Ma è solo una coincidenza, non è che si assomiglino veramente. È normale che succeda.»

«Deve essere dura per te, però.» «No, va tutto bene.» «Sono contento» replicò con un tono di sollievo. «Non volevo dirti nul-

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la, ma volevo essere sicuro che stessi bene.» «Sto bene.» Sì, stavo bene, tranne che non più di un mese prima un vecchio amico

mi aveva chiesto, preoccupato: «Pensi ancora a Eileen come alla donna della tua vita?» E avevo sentito il cuore stringermisi nel petto e sprofonda-re come un sasso freddo nel fondo delle mie viscere.

Quando giungemmo a Little House andai dritto a dormire, pretendendo di essere ancora stanco per il viaggio. Con tutta la birra di Jim Trevelyan che avevo in corpo, avrei dovuto dormire un sonno profondo e senza so-gni. Ma i morti, una volta risvegliati, non si addormentano così facilmente.

Immagini di Eileen e di un passato felice mi scorrevano davanti, mesco-landosi e fondendosi con quelle dei Derwent. Una tristezza insopportabile calò su di me, e non mi lasciò nemmeno dopo che mi fui assopito. E riap-parve il vecchio senso di impotenza, la sensazione di non essere stato ca-pace di superare in nessun modo l'unico evento veramente importante della mia vita.

Mi svegliai molto prima dell'alba, con la testa ancora immersa in un

mondo lontano nel tempo e nello spazio. Le braci erano ancora accese sot-to la cenere che Bill aveva cosparso la sera prima, e sarebbero bastati una manciata di legna e dell'altro carbone per rifare un bel fuoco.

Bill dormiva ancora. Accesi le due lampade a olio, mi misi vicino i tre volumi di lettere, e iniziai a leggere. Ero deciso a essere pronto a parlare con lui quando fossimo andati giù a Big House per la colazione, ma l'obiet-tivo si rivelò più difficile di quanto mi aspettassi. Il giorno prima ero trop-po stanco, e dovetti rileggere alcune delle lettere prima di essere in grado di proseguire.

Ero rimasto alla primavera del 1855, con una specie di macchina analiti-ca finita e funzionante. Ma ora, proprio quando non vedevo l'ora di cono-scere i particolari, Luke Derwent mi deludeva. Non scriveva nulla per quattro mesi, e quando infine si decideva a farlo non era per raccontare le imprese di Louisa ma per dilungarsi sui portenti delle proprie.

21 settembre 1855. Gloria a Dio Onnipotente! Concedimi di non avere mai più dubbi. Io e Louisa ci siamo chiesti molte volte se avevamo fatto bene a venire qui. Non abbiamo mai avuto rimpianti, ma ci chiedevamo se fossimo stati spinti solo dall'egoismo. Ora, finalmente, è chiaro che siamo stati chiamati per uno scopo superiore.

Ieri sono tornato dal mio ultimo viaggio all'isola Macquarie. Li ho visti!

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Gli "uomini amanti del freddo", come mi avevano assicurato i miei amici indigeni. Addirittura essi trovano che il clima dell'isola sia troppo caldo, a eccezione dei mesi invernali che qui vanno da maggio ad agosto, e quando è approdata la nostra nave erano quasi pronti a ripartire. Sono infatti una popolazione migrante, e trascorrono la maggior parte dell'anno in una lo-calità più remota.

Gli indigeni li chiamano "uomini", e io farò lo stesso, perché sebbene il loro aspetto esteriore non abbia nulla di umano, sono senza dubbio dotati di intelligenza. Riescono a comunicare con gli indigeni per mezzo di una specie di scatola che si portano sempre appresso. Possiedono utensili sor-prendenti che consentono loro di fabbricare gli oggetti di uso quotidiano con grande rapidità. Secondo i miei traduttori indigeni, essi hanno una base più stabile in un altro punto dell'emisfero, ma provengono origina-riamente da "molto, molto lontano". Questo per i Maori significa un luogo situato dall'altra parte dell'oceano, anche se io sono un po' meno sicuro di questa versione.

Hanno inoltre dei poteri eccezionali nella cura delle malattie. Gli indi-geni Maori giurano che uno dei loro, che a causa di ferite andate in can-crena era così prossimo alla morte da avere al massimo un giorno di vita, guarì completamente nel giro di poche ore. Un'altra donna venne congela-ta ma tenuta in vita per un intero inverno, fino a quando poté essere cura-ta e portata alla guarigione dai medicamenti straordinari che gli "uomini amanti del freddo" (per i quali a dire il vero sento il dovere di trovare un nome migliore) avevano portato dalla loro base permanente. Devo ag-giungere che sono amichevoli, e che sono stati pronti ad assecondare il mio desiderio di ritrarre minuziosamente le loro sembianze. Mi hanno chiesto tramite il mio interprete Maori di parlare inglese, e mi hanno assi-curato che alla mia prossima visita saranno in grado di comunicare con me nella mia lingua.

Tutto ciò è affascinante, ma perde qualsiasi interesse di fronte alla do-manda fondamentale: questi esseri hanno o no un'anima immortale? Non spetta a noi trovare la risposta definitiva a una domanda de! genere, ma sia io che Louisa pensiamo di doverci comportare come se ce l'avessero. Perché se spetta a noi fare conoscere Cristo anche a solo uno di questi es-seri che altrimenti morirebbe senza Grazia, allora è chiaramente nostro dovere fare così.

Era una digressione completamente estranea all'argomento della mac-china differenziale, e così bizzarra che stetti lì a fissare la pagina per un bel

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po' di tempo. E la lettera successiva, con il suo traboccare di emozioni, sembrò condurmi ancor più fuori tema.

Cara J.G., devo comunicarti il peggio. Come posso dirtelo? L. è nuova-mente ammalata e, ahimè, molto più gravemente di prima. Non mi aveva detto nulla, ma ieri ho scoperto un fazzoletto macchiato di sangue, e non ha potuto negare l'evidenza. Dietro mia insistenza si è fatta visitare da un medico, e la prognosi è veramente disperata. Lei è sorprendentemente tranquilla per il futuro, ma io non riesco a essere così fiducioso. Prega per lei, mia cara amica, come faccio io costantemente.

La lettera era datata 25 settembre, pochi giorni dopo il suo ritorno da Macquarie. Subito dopo, come se non riuscisse a frenare i suoi pensieri, Luke continuava il diario:

Louisa insiste a dire quello che io non riesco a credere: che la sua ma-lattia non è altro che la giusta punizione divina per il peccato che entram-bi abbiamo commesso. Ha una calma e un coraggio incredibili. È felice che io stia bene, e sembra rassegnata alla prospettiva di morire, mentre io non mi rassegnerò mai. Ma cosa posso fare? Cosa? Non posso stare qui seduto a vederla sfiorire. Ma non sarà una cosa lenta. Sei mesi, non di più.

Aveva dimenticato completamente i viaggi fra la colonia degli "uomini amanti del freddo". La macchina analitica non gli interessava. Ma quelle poche righe di diario mi spiegarono molte cose. Tirai fuori il ritratto di Lu-ke e Louisa Derwent e lo stavo osservando quando Bill emerse con i capel-li tutti arruffati dalla camera da letto.

Questa volta ero io a morire dalla voglia di parlare. «Ho capito! Ho capi-to perché sono venuti fino in Nuova Zelanda.»

Guardò me e il ritratto che tenevo in mano. «Come hai fatto?» «Avremmo dovuto capirlo ieri sera. Hai presente l'albero genealogico

nella Bibbia? Si vedeva che erano fratellastri. E guarda questo.» Alzai il ri-tratto verso di lui.

Si stropicciò gli occhi e lo osservò. «Lo vedo. Cosa c'è?» «Bill, è il ritratto di due che si sono appena sposati. Vedi il mazzolino di

fiori, e la fede al dito di lei? Non avrebbero potuto farlo in Inghilterra, lo scandalo sarebbe stato troppo grande. Ma qui, dove nessuno li conosceva, potevano ricominciare da capo e vivere come marito e moglie.»

Guardò la pagina aperta, annuendo. «Accidenti, hai ragione. Si spiega tutto. Il loro peccato, come scrive lui. Hai letto quello?»

«C'ero appena arrivato.» «Allora hai quasi finito. Leggi le ultime pagine, e poi ci avviamo verso

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Big House per la colazione. Possiamo parlare lungo la strada.» Si girò e sparì di nuovo nella camera da letto. Sfogliai il libro. Come a-

veva detto lui, ero vicino alla fine; Derwent aveva lasciato le ultime pagine in bianco.

C'era rimasta solo un'altra lettera, indirizzata sempre alla stessa amica lontana. Portava la data del 6 ottobre 1855, e aveva un tono pacato, quasi clinico.

Cara J.G., io e L. ci imbarcheremo a giorni per un lungo viaggio verso un'isola lontana, abitata da genti pagane che L. ama chiamare col nome di Eteromorfi, perché hanno un aspetto molto diverso dagli altri esseri uma-ni, anche se sembrano possedere le nostre stesse capacità razionali. A questi esseri desidereremmo moltissimo portare la parola di Nostro Signo-re Gesù Cristo. Se pertanto tu non dovessi più ricevere nostre notizie, allo scadere di quattro anni ti prego di disporre delle nostre proprietà come ti avevamo precedentemente indicato. Spero che questa non sia l'ultima let-tera che ti scrivo; se questo tuttavia dovesse essere il caso, sii certa che ti ricorderemo sempre con la parola e con il pensiero. Con l'amore che en-trambi portiamo al nostro Salvatore, L.D.

Era seguita da alcune note personali scribacchiate frettolosamente. Potrò ingannare Louisa, e il mondo intero, ma non posso ingannare me

stesso. Dio mi perdoni se confesso che la conversione degli Eteromorfi non è il mio scopo principale. Perché se il messaggio di Cristo può atten-dere fino al loro ritorno alla loro base invernale dell'isola Macquarie, i nostri problemi non possono aspettare. La mia povera Louisa. Sei mesi, al massimo. Già si sta indebolendo, e il rossore della febbre non lascia mai il suo viso. Maggio sarebbe troppo tardi. Devo portare Louisa là ora, e pre-gare che quello che dicono i Maori sui potenti mezzi di cura degli Etero-morfi non sia solo una favola.

Porteremo con noi la parola di Cristo. Louisa è fiduciosamente convinta che questo sia tutto ciò di cui abbiamo bisogno, mentre io, volgare aposta-ta, sono divorato dai dubbi. Cosa succederà se rifiutano la verità divina, e si comportano da mercanti? Io so quello che voglio da loro, ma cosa ho da offrire in cambio?

Forse è un miracolo della misericordia divina. Perché posso offrire una meraviglia mai vista prima, straordinaria per quest'epoca e per qualsiasi altra: la grande macchina di Louisa, che con il suo funzionamento mecca-nico e inanimato sembra imitare il pensiero degli esseri viventi e razioci-nanti. Essa possiede sicuramente un interesse e un valore inestimabili per

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qualsiasi popolo, qualunque sia lo stadio di progresso in cui si trovi. Le ultime righe erano state scritte con affanno frenetico. Louisa ha finalmente completato le trasformazioni delle informazioni

che ho ricevuto dagli Eteromorfi. Conosciamo finalmente la destinazione precisa, e salperemo domattina con la prima marea. Abbiamo abbondanti provviste, e il nostro equipaggio indigeno è pronto e molto più fiducioso di me. Come Rabelais, "Je m'en vais chercher un grand peut-être". Che Dio mi aiuti a trovarlo.

Vado a cercare un "grande forse". Rabbrividii. Mi alzai e andai in ca-mera da letto, dove Bill si stava mettendo un maglione.

«La macchina analitica. L'hanno portata con sé quando sono partiti.» «Anch'io credo così.» Aveva un'espressione strana, di soddisfazione mi-

sta a frustrazione. «Ma dimmi adesso, secondo te, dove possono essere an-dati?»

«Non so che dire.» «Dobbiamo riuscire a capirlo. Guarda qua.» Bill si diresse in cucina, con

il maglione infilato a metà. Prese la carpetta di disegni che avevamo porta-to su dal ripostiglio, «Li hai guardati appena, ma io ci ho perso altrettanto tempo che sulle lettere. Guarda.»

Mi passò un disegno a china che raffigurava un insetto visto dal davanti. Aveva tantissime zampette lunghe e esili - ne contai quattordici - e quattro antenne fini e pelose, più altre due da cui sembravano sporgere un paio di occhi.

Queste erano le caratteristiche più evidenti. Ma poi, guardando più atten-tamente, notai su entrambi i lati del corpo due piccole borse che non face-vano parte dell'animale, ma parevano fissate lì con una cinghia. Con quat-tro delle sue zampe l'animale reggeva di fianco a sé un oggetto lungo e di-ritto con dei numeri segnati sopra. Vi passai un dito.

«È una riga graduata» disse Bill. «Se è precisa, e non vedo perché Luke Derwent dovrebbe averla disegnata sbagliata, i suoi "Eteromorfi" erano alti un metro.»

«E quelle borse sui fianchi erano per gli attrezzi.» «Attrezzi, cibo, strumenti di comunicazione. Potevano servire a traspor-

tare qualsiasi cosa. Vedi adesso perché ti ho detto che nelle ultime due set-timane credevo di diventare pazzo? Avevo questa cosa davanti e non sape-vo come farmene una ragione.»

«Quel posto che diceva... l'isola Macquarie?» «Esiste. È circa milletrecento chilometri da qui, in direzione sud-ovest.

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Ma ti assicuro che non c'è niente del genere là. È troppo piccola, ed è stata già esplorata un mucchio di volte. Se avessero trovato qualcosa che asso-migliava a questi Eteromorfi, si sarebbe saputo. E non è il posto dove Derwent stava andando. Si stava dirigendo da un'altra parte, alla loro base permanente. Dovunque essa fosse.» Bill aveva gli occhi lucidi, e gli tre-mavano le labbra. Si era tenuto dentro tutto questo per troppo tempo, e ora aveva raggiunto il limite. «Cosa diavolo possiamo fare adesso?»

«Torniamo a Big House, così facciamo colazione da Annie. Poi riparle-remo con calma di tutto quanto.» Lo presi per un braccio. «Forza, andia-mo.»

L'aria fredda del mattino ci sferzò il volto appena mettemmo piede fuori dalla porta e, come avevo sperato, Bill apparve immediatamente più rin-francato e disteso.

«Forse siamo arrivati fin dove potevamo arrivare» mormorò con tono più pacato. «Forse dovremmo uscire allo scoperto e dire al mondo quello che abbiamo trovato.»

«Potremmo farlo, ma non servirebbe.» «E perché?» «Perché se ci pensi bene, non abbiamo trovato niente. Bill, se fosse stato

un altro a mandarmi quella lettera e quel pacco di roba, lo sai cosa avrei detto?»

«Sì. Ecco qua un altro pazzo.» «O un altro truffatore. Ho pensato a un'altra cosa mentre leggevo quelle

lettere. Se fossero stati Jim e Annie Trevelyan a trovare quella roba nel ri-postiglio, e l'avessero spedita a Christchurch, sarebbe stato più plausibile. Si capisce subito che non ne sanno niente di Babbage, di computer, o di programmazione. Ma se vuoi due persone che potrebbero aver congegnato una truffa in grande stile, dovresti cercare con il lanternino per trovare due più qualificati di noi. La gente direbbe che sono due maghi del computer, fanatici della storia della scienza, e che hanno inventato questo falso per prendere in giro tutti quanti.»

«Ma non è vero!» «Lo sappiamo io e te, Bill, ma gli altri? Non possiamo dimostrare niente.

Cosa facciamo, ci alziamo e diciamo, oh sì, c'era veramente una macchina differenziale, ma l'hanno portata via per farla vedere a questi alieni? E pur-troppo non sappiamo nemmeno dove siano, gli alieni.»

Bill sospirò. «Hai ragione. Tanto varrebbe dire che l'hanno rubata le fa-te.»

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Avevamo raggiunto Big House. Quando entrammo, Annie Trevelyan vi-de le nostre facce e disse: «Avete avuto brutte notizie, eh?» Mentre ci se-devamo cominciò a servirci frittelle e salsicce. «Be', non so cosa vi è suc-cesso, ma ricordatevi questo: siete giovani e sani. Qualunque cosa sia, non è la fine del mondo.»

Ma quasi. Credo però che entrambi pensammo che Annie Trevelyan era più in gamba di noi due messi insieme.

«Mi ripeto» disse Bill dopo un po'. «Cosa facciamo adesso?» «Facciamo colazione, e poi torniamo a Little House, e riguardiamo tutto,

assieme. Forse c'è qualcosa che non abbiamo notato.» «Eh sì. Ci ho già messo un mese della mia vita.» Ma poi iniziò ad attac-

care il mucchio di salsicce che aveva nel piatto, e questo era un buon se-gno. In condizioni normali, io e lui eravamo quelle che Annie definiva "buone forchette", ma per altri meno gentili saremmo stati semplicemente degli ingordi.

Ci diede da mangiare fino a quando non ne potemmo più, poi ci accom-pagnò fuori. «Andate e non mollate» ci incoraggiò allegramente. «Trove-rete una soluzione. So che ce la farete.»

Era bello sentire che almeno una persona al mondo aveva fiducia in noi. Sazi e satolli, ci inerpicammo su per la collina. Mi sentivo bene, pieno di ottimismo. Ma credo fosse perché i documenti erano quasi nuovi per me; Bill doveva averli esaminati fino a quando gli occhi gli uscivano dalla te-sta.

Una volta giunti a Little House, cominciò il lavoro serio. Riguardammo di nuovo il diario e le lettere, pagina per pagina, giorno per giorno, frase per frase. Non saltò fuori nulla di nuovo, tranne che, ora che lo sapevamo, notavamo tutte le allusioni al loro rapporto ambivalente di marito e moglie, e fratello e sorella.

Poi venne la volta dei disegni. Gli Eteromorfi avevano un aspetto così alieno che spesso ci capitava di provare a indovinare quale funzione avesse un certo organo o a cosa servissero i piccoli oggetti che, dopo un attento esame, individuavamo appesi ai loro corpi o stretti in una delle loro nume-rose zampe, ma al termine della nostra analisi non avevamo trovato nulla che aumentasse o modificasse le conoscenze già in nostro possesso.

C'era rimasta solo una cosa: il registro con le tabelle di numeri compilate da Louisa Derwent. Bill l'aprì a caso e fissammo la pagina in silenzio.

«È datata ottobre 1855, come tutte le altre» dissi infine. «È quando sono partiti.»

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«Giusto. E Luke aveva scritto "Louisa ha completato i calcoli necessa-ri".» Bill stava guardando accigliato un elenco di numeri, come se li accu-sasse di non volerci rivelare i loro segreti. «Necessari per cosa?»

Mi appoggiai alla sua spalla. La tabella conteneva una ventina di nume-ri, tutti di due o tre cifre. «Non è chiaro da qui. Ma è ragionevole presup-porre che avessero a che fare con il viaggio, per via della data. Su che altro doveva lavorare Louisa nelle ultime settimane?»

«Non sembra una guida di navigazione. Ma potrebbero essere risultati intermedi. Fogli di appunti.» Bill tornò indietro alla prima pagina, dove c'era la prima tabella. «Queste potrebbero essere distanze da posti che a-vrebbero toccato lungo la rotta.»

«Sì, oppure tempi, o pesi, o angoli, o mille altre cose. Anche se fossero distanze, non sappiamo l'unità di misura. Potrebbero essere miglia, o mi-glia marine, o chilometri, o...»

Potevano sembrare solo critiche distruttive, ma Bill non era così stupido. Ciascuno di noi doveva fare l'avvocato del diavolo, controllare di continuo ogni passo dell'altro, se volevamo evitare ragionamenti frettolosi e presup-posizioni infondate.

«Accetto tutte le tue obiezioni» replicò calmo. «Forse dovremo scartare una decina di ipotesi, prima di trovare la soluzione. Ma iniziamo a farle, e a vedere dove portano. C'è tuttavia una ipotesi che dobbiamo fare: che cioè queste tabelle siano servite in qualche modo a Luke e Louisa Derwent per decidere come raggiungere gli Eteromorfi. Partiamo da qui, senza perdere di vista il nostro unico obiettivo: scoprire dov'era la base degli Eteromor-fi.»

Non c'era bisogno che Bill mi spiegasse ciò che questo implicava. Se riuscivamo a trovare la base, forse avremmo trovato anche la macchina a-nalitica. E io a mia volta non avrei avuto bisogno di fargli presente l'altra, opprimente possibilità: molto probabilmente i Derwent erano periti durante il viaggio, e i loro corpi giacevano da qualche parte sul fondo dell'oceano.

Cominciammo così a lavorare su una tabella alla volta, proponendo e scartando interpretazioni per ognuna di esse. Era un lavoro lungo, noioso, e pieno di incognite, ma nemmeno per un momento pensammo di darci per vinti. Dal nostro punto di vista, finché riuscivamo a suggerire e a verificare nuove ipotesi operative, stavamo facendo progressi. Il vero fallimento sa-rebbe stato solo rimanere a corto di idee.

Interrompemmo il lavoro solo per dormire, e per andare a mangiare a Big House. Credo che fu solo grazie alle camminate su e giù per la collina,

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e alle ore passate in compagnia di Jim e Annie Trevelyan, che riuscimmo a mantenere un certo equilibrio mentale.

Passarono cinque giorni. Non avevamo trovato una soluzione; le infor-mazioni contenute nelle tabelle non erano sufficienti. Ma finalmente, verso la metà del sesto giorno, avevamo trovato un problema.

Un problema matematico. Dopo tanti sforzi e una serie spaventosamente lunga di ipotesi, eravamo riusciti a ridurre i nostri pensieri e i nostri calcoli a un'ottimizzazione non lineare dall'aspetto niente affatto incoraggiante. Se aveva un massimo, e se poteva essere risolta per quel massimo, poteva permetterci di individuare, almeno in teoria, il punto della terra che aveva la più alta probabilità di essere stato la meta dei Derwent.

Un mucchio di "se". Ma la cosa peggiore era che, dopo tutta questa fati-ca, né io né Bill eravamo in grado di trovare un approccio sistematico per risolverla. Se avessimo proceduto per tentativi, anche con il computer più veloce ci avremmo messo il resto della nostra vita. Avevamo sperato che le moderne tecniche di calcolo e i progressi enormi resi possibili dai com-puter avrebbero in qualche modo compensato la mancanza di quelle in-formazioni in più di cui disponeva Louisa. Ma per ora sembrava una gara impossibile.

Alla fine ammettemmo la nostra impasse e restammo lì seduti in cucina a guardarci in faccia.

«Dov'è il telefono più vicino?» chiesi. «A Dunedin, probabilmente. Perché?» «Siamo arrivati fin dove potevamo. Adesso ci vuole il parere di un e-

sperto.» «Odio ammetterlo» disse Bill alzandosi «ma hai ragione. Siamo senza

prospettiva. Abbiamo bisogno del migliore analista numerico che riuscia-mo a trovare.»

«Proprio quello che avevo pensato di chiamare.» «Ma cosa gli dirai? Cosa possiamo dire alla gente?» «Solo alcune parti. Il meno possibile.» Infilai il cappotto e iniziai a rac-

cogliere i risultati delle nostre fatiche. «Per il momento dovranno fidarsi di noi.»

«Per farlo devono essere pazzi come noi.» Di positivo c'era che la gente di cui avevamo bisogno aveva molte pro-

babilità di esserlo. Bill mi seguì fuori dalla porta. Non ci fermammo a Dunedin. Arrivammo fino a Chistchurch, dove Bill

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poteva chiamare gratis dal telefono dell'università. Trovammo una stanza tranquilla, e chiamai il dipartimento di informati-

ca di Stanford. Avevo il numero di un vecchio interno, ma riuscii a trovare l'uomo che volevo dopo un paio di passaggi, cosa che mi stupì, perché da bravo scapolo socievole e itinerante si trovava il più delle volte in qualche altro continente.

«Dove sei?» mi chiese Gene appena capì che ero io. Poteva sembrare un esordio strano per qualcuno con cui non hai parlato

da un anno, ma di solito, quando uno di noi due chiamava l'altro, eravamo abbastanza vicini da poter metterci d'accordo per cenare assieme. Cenava-mo quindi assieme, discutevamo di vita, morte e matematica, per poi anda-re ciascuno per la propria strada, stranamente risollevati.

«Sono a Christchurch. Christchurch, Nuova Zelanda.» «Bene.» Ci fu una pausa appena percettibile all'altro capo del filo, poi

Gene continuò. «Sono tutt'orecchi. Ti senti bene?» «Benissimo, ma ho bisogno di un algoritmo.» Gli spiegai a grandi linee qual era il problema, e quando ebbi finito

commentò: «Una versione sottodeterminata del problema del Commesso Viaggiatore, in cui le informazioni sui nodi sono incomplete».

«Avevamo pensato più o meno la stessa cosa. Conosciamo alcune di-stanze, e sappiamo che qualche tappa intermedia e il punto di arrivo devo-no essere sulla terraferma. Inoltre le linee costiere pongono ulteriori limi-tazioni sui percorsi che si possono intraprendere. Il guaio è che non ab-biamo idea di come risolvere il tutto.»

«Grandioso» replicò Gene, e diceva sul serio. Mi sembrava di vederlo che si sfregava le mani all'idea di un bel problema nuovo di zecca. «Da come lo descrivi, sembra decisamente nonpolinomiale, a meno che non saltino fuori altre informazioni. Neanch'io so come risolverlo, ma qualche idea ce l'ho. Devi darmi tutti i dettagli.»

«È quello che ho intenzione di fare. Era solo per metterti in moto il cer-vello. Partirò da qui con il volo di mezzanotte, e arriverò a San Francisco domattina verso le otto. Sarò da te per le undici e mezza. Con tutti i dati.»

«È così urgente?» «Così pare. Forse mentre ceniamo mi convincerai del contrario.» Dopo che ebbi riagganciato, Bill scosse la testa preoccupato. «Sei sicuro

di quello che stai facendo? Dovrai spiegargli un mucchio di cose.» «Meno di quel che credi. Gene ci aiuterà, te lo prometto.» Quello che

stavo facendo l'avevo capito in quel momento: stavo riscuotendo debiti in-

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tellettuali che avevo collezionato per un quarto di secolo. «Forza» dissi. «Riguardiamo tutto ancora una volta. Poi me ne devo an-

dare.» Non fu difficile dividersi il lavoro alla fine. Bill sarebbe tornato a Little

House per accertarsi definitivamente che non ci fosse sfuggito nulla che potesse esserci d'aiuto. Io sarei tornato negli Stati Uniti per tentare di risol-vere il nostro problema computazionale. Bill aveva preventivato duemila ore su un Cray-YMP, una stima non certo incoraggiante.

Arrivai a San Francisco con un'ora di ritardo, stravolto dal jetlag. Ma re-cuperai il tempo perduto sulla strada per Palo Alto, e a mezzogiorno ero seduto nel soggiorno della casa di Gene.

Gene non aveva certo aspettato che arrivassi io. Aveva già contattato cinque o sei persone sparse tra gli Stati Uniti e il Canada, per vedere se c'e-ra qualche novità interessante nel settore che riguardava il nostro lavoro. Gli fornii una versione ridotta della storia di Louisa Derwent e della mac-china analitica scomparsa, omettendo qualsiasi riferimento agli alieni, e poi gli mostrai la mia copia delle analisi che avevamo fatto, e i dati grezzi su cui ci eravamo basati. Mentre lui iniziava a lavorarci sopra, mi impos-sessai del suo telefono e, nonostante la stanchezza, passai alla fase succes-siva.

Gene ci avrebbe dato un algoritmo, ne ero certo, il migliore che potesse fornire la moderna analisi numerica. Ma anche avendo il meglio, ero con-vinto che ci saremmo trovati di fronte a un problema di calcolo incredibil-mente complesso.

Non aspettai di sapere quanto complesso. Supponendo che io e Bill a-vessimo ragione, avremmo sicuramente avuto bisogno di altro. Ci serviva una banca dati digitale del mondo intero, o per lo meno dell'emisfero me-ridionale, da cui risultassero i confini della terraferma. Questa volta la mia telefonata non fu così soddisfacente. Forse l'Ufficio Cartografico del Mini-stero della Difesa aveva quello che cercavo, ma quasi sicuramente non era a disposizione del pubblico. Il mio amico (dietro garanzia di anonimato) mi promise che avrebbe fatto delle ricerche e che avrebbe brigato per farmi avere accesso a questi dati, oppure mi avrebbe indicato le migliori fonti commerciali.

C'era ancora una persona che dovevo chiamare: Marvin Minsky, del Massachusetts Institute of Technology. Guardai l'ora mentre facevo il nu-mero. Le due meno un quarto. Nella costa est la giornata di lavoro era qua-si giunta al termine. Quanto a me, il termine era già passato da un pezzo.

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Anche questa volta fui fortunato. Quando venne al telefono, mi sembrò leggermente sorpreso. Ci conoscevamo, ma non così bene, non come co-noscevo Bill, o Gene.

«Sei ancora in buoni rapporti con la Thinking Machines Corporation?» gli chiesi.

«Sì...» Se mai una risposta può essere anche una domanda, questo era decisamente il caso.

«E Danny Hillis è ancora capo della ricerca, giusto?» «Giusto.» «Bene. Ti ricordi che alcuni anni fa a Pasadena ci hai presentati?» «Durante le riprese del Voyager Neptune. Mi ricordo benissimo.» Il suo

tono era sempre più perplesso. Non c'era da meravigliarsi. Ero stanco da morire, i pensieri mi si accavallavano in testa, e dovevo fare sforzi tremen-di per impedirmi di saltare di palo in frasca.

«Avrei bisogno di circa duecento ore di lavoro sulla macchina di con-nessione più veloce che c'è.»

«Stai parlando con la persona sbagliata.» «Potrei avere bisogno di un accesso privilegiato» continuai come se non

avessi sentito. «Se hai un paio di minuti ti spiego perché.» «Sei tu che paghi la telefonata.» Ora il suo tono si era fatto un po' scetti-

co, ma sentivo che si era incuriosito. «Bisogna che ci vediamo di persona. Ti va bene domattina?» «Venerdì? Aspetta un attimo.» «Dove vuoi» aggiunsi, mentre lui parlottava con qualcuno all'altro capo

del telefono. «Non ci vorrà molto. Hai detto che domani è venerdì?» Avevo l'impressione di aver saltato un giorno, ma non aveva importanza.

Entro il pomeriggio del giorno dopo avrei finito e avrei potuto dormire per tutto il fine settimana.

Gli eventi si erano succeduti con un ritmo sempre più vorticoso, come se

tutto dovesse concludersi nel giro di poco tempo. Ma proprio nel momento in cui io e Bill avremmo voluto accelerare al massimo, le cose iniziarono a procedere con grande lentezza.

In retrospettiva, posso dire che si trattava solo di una nostra impressione. Rispetto a quel che avviene normalmente, stavamo ottenendo risultati con una rapidità spettacolare.

Per esempio Gene riuscì a trovare un algoritmo in meno di una settima-na. Doveva ancora perfezionarlo, e soprattutto renderlo ottimale per l'ela-

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borazione in parallelo, ma non aveva senso aspettare prima che iniziasse la programmazione. Bill nel frattempo era arrivato dalla Nuova Zelanda, e andammo entrambi nel Massachusetts. Nel giro di dieci giorni avevamo un programma operativo, e la banca dati geografica era on-line.

Effettuammo il primo lancio sulla macchina di connessione quella sera stessa. Fu un successo, se per "successo" intendiamo che non fu un fiasco, ma non riuscì a produrre nessun massimo chiaramente definito.

Iniziò così la fase noiosa. Per i parametri di input che ritenevamo incerti, dovevamo considerare tutti i domini accettabili, in tutte le loro possibili variazioni. Naturalmente avevamo impostato il programma in modo che eseguisse questa variazione parametrica automaticamente, e passasse al caso successivo se la forma della soluzione non era soddisfacente. E natu-ralmente non riuscivamo ad allontanarci dal computer. Volevamo vedere i risultati di ogni lancio, essere presenti quando - o se - appariva finalmente il risultato che cercavamo.

Per quattro lunghi giorni non emerse nulla di appena un po' incoraggian-te. Tutti i massimi calcolati erano irrimediabilmente ampi e insufficiente-mente definiti. Continuammo a stare attaccati al computer, sparendo solo per brevi sonnellini e pasti frettolosi. Sembrava che fossimo tornati ai tem-pi della nostra giovinezza, quando l'unico modo per aggiustare i program-mi era intervenire manualmente. Mentre lavoravo nel cuore della notte a-vevo l'impressione di essere a un incrocio strano fra diverse generazioni di computer. Eravamo là, a lavorare come avevamo fatto tanti anni prima, ma stavolta stavamo utilizzando la macchina più avanzata del momento in una strana ricerca del suo primo antenato.

Dovevamo essere una gran seccatura per gli operatori, a forza di vederci rimuginare sui dati in entrata e perdere la pazienza su quelli in uscita, ma nessuno disse mai una parola scortese. Dovevano avere intuito, dalle voci vaghe che circolavano, o direttamente dal nostro comportamento, che tutti quei calcoli dovevano avere a che fare con qualcosa di molto importante. Ci incoraggiavano a fare delle pause per mangiare e per dormire, e sem-brava quasi inevitabile che quando dalla frenetica attività elettronica della macchina di connessione sarebbe finalmente apparso il risultato che io e Bill avevamo aspettato così a lungo, né io né lui saremmo stati lì a vederlo.

La telefonata giunse alle otto e mezza del mattino. Eravamo usciti un'ora prima, e stavamo facendo colazione esausti al Royal Sonesta Motel, non lontano dall'impianto.

«C'è qualcosa che vorrei mostrarti» disse con voce esitante l'operatore di

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turno. Ci aveva visto demoralizzati un mucchio di volte dopo aver guarda-to i risultati, e non voleva destare false speranze. «Uno dei lanci mostra un picco. Veramente netto e definito.»

Avevano dedotto quello che stavamo cercando. «Stiamo arrivando» dis-se Bill. Lasciammo la colazione a metà - cosa alquanto rara per noi due - e facemmo il tragitto in macchina senza riuscire a spiccicare parola.

I risultati del lancio corrispondevano esattamente a quanto indicato dal-l'operatore. La funzione bidimensionale di densità di probabilità consisteva in un insieme di bellissime ellissi concentriche che circondavano un unico punto della terraferma. Avremmo potuto controllare le coordinate sulla banca dati geografica, ma avevamo troppa fretta. Bill si era portato dietro da Auckland un atlante, e l'aveva piazzato nella stanza del computer. Ora lo stava sfogliando rapidamente, cercando la latitudine e la longitudine de-finite dall'output del lancio.

«Dio mio!» esclamò dopo qualche secondo. «È la Georgia del Sud.» La Georgia del Sud! Com'era possibile che i Derwent avessero avuto

una meta così assurda, nel sud degli Stati Uniti? Dopo la mia prima rea-zione di sconcerto, vidi dove Bill teneva il dito.

L'isola della Georgia Australe. L'avevo appena sentita nominare. Era una strisciolina di terra nell'estremo sud dell'oceano Atlantico.

Bill naturalmente sapeva già un mucchio di cose su di essa. Mi era già capitato di notare che, stranamente, la gente che vive a sud dell'equatore conosce la geografia del proprio emisfero molto meglio di quanto noi co-nosciamo quella del nostro. La spiegazione di Bill, secondo cui c'è molta meno terra da conoscere, mi sembrò sensata ma non completamente con-vincente.

Non importava molto, comunque, perché nel giro di quarantotto ore an-ch'io sapevo sulla Georgia Australe tutto quello che c'era da sapere. Che non era molto. Il Sacro Graal che io e Bill avevamo cercato così dispera-tamente era un'isola desolata, lunga meno di duecento chilometri e larga una quarantina. C'erano montagne altissime, che raggiungevano quasi i tremila metri e si affacciavano sul mare in ammassi terrificanti di rocce e di ghiacciai. Non sarebbe stato giusto dire che l'interno era privo di inte-resse, poiché nessuno si era mai preso la briga di esplorarlo.

La Georgia Australe aveva conosciuto il suo breve momento di gloria al-la fine del secolo scorso, quando aveva funzionato come base per i bale-nieri dell'Antartide, ma persino allora solo la zona costiera era abitata. Nel 1916 Shackleton con un manipolo dei suoi uomini effettuò un disperato

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ma riuscito attraversamento delle montagne dell'interno, allo scopo di cer-care soccorsi per il resto dei membri della sua spedizione transantartica, che si era arenata. L'operazione fu ripetuta solo nel 1955 da una squadra di ricognizione inglese.

La storia dell'isola finiva qui. L'unica industria era quella baleniera. Con il suo declino, le città di Husvik e Grytviken erano decadute fino a scom-parire, e la Georgia Australe era tornata a essere quello che era prima, un avamposto ai limiti della civiltà.

Non erano tuttavia questi i motivi che avevano spinto Bill Rigley a gri-dare "Dio mio!" quando il suo dito si era fermato sulla Georgia Australe. Era scioccato per la posizione. L'isola è situata nell'oceano Atlantico, a 54 gradi di latitudine sud. È distante undicimila chilometri dalla Nuova Ze-landa, o dall'avamposto invernale degli Eteromorfi, sull'isola di Macquarie. E non erano undicimila chilometri normali, con venti moderati e su facili rotte mercantili.

«Pensa al dilemma che dovette affrontare Derwent» disse Bill. «O anda-va verso ovest, a sud dell'Africa e attraverso il Capo di Buona Speranza. È la via lunga, sedicimila o diciottomila chilometri, sempre contro venti for-tissimi. Oppure poteva andare verso est. Questa rotta sarebbe stata più cor-ta, forse solo undicimila chilometri, la maggior parte dei quali con il vento a favore. Ma avrebbe dovuto attraversare il Pacifico meridionale, e poi passare lo Stretto di Drake fra Capo Horn e l'Antartide.»

Capii meglio cosa intendeva Bill dopo che mi fui documentato un po'. I mari del sud compresi fra il quarantesimo e il cinquantesimo grado di lati-tudine oggi non fanno più paura, ma cento anni fa erano una leggenda fra i navigatori, una regione di tempeste feroci, onde mostruose, venti fatali. Il punto peggiore era lo Stretto di Drake. Eppure era proprio la terribile rotta orientale che aveva scelto Luke Derwent. Era la più breve, e lui era un uomo in gara contro il tempo.

Mentre io facevo le mie letture, Bill studiava piani di viaggio. Saremmo andati nella Georgia Australe? Naturalmente sì, anche se qual-

siasi considerazione razionale mi portava a credere, più fortemente che mai, che non avremmo trovato nulla là. Luke e Louisa Derwent non erano mai giunti a destinazione. Erano morti, così come tanti prima di loro, nel tentativo di superare quel terribile stretto a sud di Capo Horn.

Non c'era nulla da scoprire nella Georgia Australe, e lo sapevamo. U-gualmente prosciugammo i nostri risparmi, e Bill mise a punto la spedizio-ne. Saremmo andati in aereo fino a Buenos Aires, e di lì alle isole Fal-

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kland. Gli ultimi millecinquecento chilometri fino alla Georgia Australe li avremmo fatti per mare, trasportando il piccolo aereo da ricognizione bi-posto il cui assemblaggio finale doveva essere effettuato sull'isola stessa.

Conoscevamo già le caratteristiche topografiche della Georgia Australe a menadito. Avevo ordinato un paio di fotografie dell'isola effettuate da un satellite, ottime immagini nitide, senza nuvole, con una risoluzione pari a dieci metri. Le studiai accuratamente, segnando le anomalie che volevamo indagare.

Bill fece lo stesso. Ma a quel punto, stranamente, le nostre priorità co-minciarono a divergere. Il suo obiettivo era la macchina analitica, che era al centro dei suoi pensieri da diversi mesi. Aveva scritto un rapporto com-pleto e dettagliato della sequenza di eventi che avevano condotto alle sue scoperte in Nuova Zelanda prima, e alle nostre ricerche assieme poi; in es-so descriveva inoltre l'ubicazione e le caratteristiche di tutti i materiali ri-trovati a Little House. Spedì copie di tutto, con tanto di data, firma e sigil-lo, alla sua università, al British Museum, alla Library of Congress negli Stati Uniti, e alla collezione Reed, contenente libri e manoscritti rari, situa-ta presso la biblioteca pubblica di Dunedin. La scoperta della macchina analitica - o anche solo di una parte di essa - avrebbe convalidato in manie-ra inoppugnabile quanto documentato nel rapporto.

E io? Anch'io volevo trovare le prove della macchina analitica, e ancor più quelle dell'esistenza degli Eteromorfi. Ma al di là di questo, i miei pen-sieri correvano incessantemente a Luke Derwent, e alla sua ricerca del "grande forse".

Aveva detto a Louisa che avrebbero intrapreso quel viaggio per portare il Cristianesimo al popolo amante del freddo; ma io sapevo che le cose non stavano così. Nel profondo del suo cuore aveva un'altra motivazione, più egoistica. Molto più della conversione degli Eteromorfi, gli importava ave-re accesso ai loro grandi poteri curativi. Perché altrimenti avrebbe portato con sé, a scopo di scambio, il meraviglioso congegno di Louisa, "straordi-nario per quest'epoca e per qualsiasi altra", un calcolatore che sembrava un ammasso di ferraglia, per un popolo che possedeva macchine così piccole e potenti da funzionare come traduttori portatili?

Potevo immaginare perfettamente cosa avesse provato Luke Derwent, in quegli ultimi giorni prima di intraprendere il suo viaggio verso est. La donna della sua vita stava per morire, e lui era disperato. Sarebbe stato di-sposto a rischiare la morte nei tempestosi mari del sud per la speranza di salvarla? Sarebbe stato disposto a sacrificare se stesso, tutto il suo equi-

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paggio, e la sua stessa anima, per una probabilità su mille che lei guarisse? Esiste qualcuno che sarebbe disposto a correre un rischio simile?

Ho una risposta a questi interrogativi. Chiunque correrebbe questo ri-schio, e si considererebbe benedetto dagli dei per averne avuto la possibili-tà.

Voglio trovare la macchina analitica nella Georgia Australe, e voglio trovare gli Eteromorfi. Ma soprattutto voglio trovare le prove che Luke Derwent riuscì nella sua ultima, temeraria impresa. Voglio trovare Louisa Derwent, congelata ma viva nei ghiacciai perenni dell'isola, in attesa di es-sere riportata in vita e guarita.

Ho l'opportunità di verificare quanto possa essere benevola la vita. Tra appena due giorni, infatti, io e Bill partiremo per il sud alla ricerca di que-ste prove, alla ricerca del nostro "grande forse".

Ma proprio ora, all'ultimo momento, quando tutto ormai è pronto, gli e-venti hanno preso una piega più complicata. E non sono sicuro se quanto sta accadendo ci sarà d'aiuto o d'intralcio.

Tornato a Christchurch, Bill si era preoccupato per quello che avrei detto alla gente a cui chiedevamo aiuto negli Stati Uniti. Gli dissi che avrei rive-lato il meno possibile, e mantenni la parola. A ciascuno raccontai solo una piccola parte della storia, e i gruppi principali coinvolti in questa impresa erano separati da un intero continente.

Ma le persone con cui avevamo a che fare erano fra le più intelligenti del mondo. E la distanza fisica oggi non significa nulla; la gente comunica co-stantemente attraverso le reti computerizzate. Da qualche parte, nelle pro-fondità vorticose di GEnie, o attraverso la ragnatela invisibile di un'Ether-net, qualcuno ha fatto il collegamento giusto. Da lì sono iniziate inevita-bilmente le chiacchiere.

Bill ne è venuto a conoscenza quasi per caso, discutendo con un agente di viaggio i voli per Buenos Aires. Da allora mi sono tenuto sistematica-mente aggiornato.

Non siamo i soli a dirigerci verso la Georgia Australe. So dell'esistenza di almeno altri tre gruppi, e scommetto che ce ne sono molti di più. Sem-bra che metà del laboratorio di intelligenza artificiale del Massachusetts Institute of Technology sia in partenza. Lo stesso si può dire di una frazio-ne consistente del dipartimento di informatica di Stanford, con rinforzi da Lawrence-Berkeley e Lawrence-Livermore. Ed è facile prevedere che nel sud della California sia stato attivato un gruppo con base a Los Angeles. Niven, Pournelle, Forward, Benford e Brin sono irreperibili. Una parte dei

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membri del JPL sono misteriosamente scomparsi. Altri scienziati e scrittori in ogni parte del paese non rispondono al telefono.

Cosa stanno facendo tutti quanti? Non è difficile indovinare. Stiamo par-lando di individui dalla curiosità sconfinata, e che dispongono di notevoli risorse finanziarie. Conoscendo il loro stile, non mi sorprenderei se rimet-tessero a nuovo la Queen Mary, ancorata a Long Beach, per poi fare rotta verso sud.

Ma anche loro, come tutti gli altri, avranno fretta e prenderanno l'aereo. Nessuno vuole perdere quest'occasione. Stiamo parlando di quelli, non di-mentichiamolo, che non hanno esitato a precipitarsi a Pasadena per vedere le immagini dei pianeti riprese dal Voyager, o nelle Hawaii o in Messico per assistere a un'eclissi totale di sole. Ci credete che si lascino sfuggire l'opportunità di assistere alla scoperta più grande del secolo, anzi, della storia? E non solo di assistervi, ma forse addirittura di prendervi parte? Piomberanno sulla Georgia Australe a decine, a centinaia, con i loro poten-ti computer portatili e i loro terminali GPS e i loro aerei privati e i loro a-vanzatissimi strumenti di rilevazione?

La logica dirà loro, così come a me, che non troveremo proprio niente. Luke e Louisa Derwent sono morti da un secolo, sepolti nel profondo delle acque gelide dello Stretto di Drake. Con loro, se mai è esistita, giacciono i resti arrugginiti della macchina analitica di Louisa. Gli Eteromorfi, se mai vissero veramente nella Georgia Australe, se ne sono andati da un pezzo.

Tutto questo lo so, e lo sa anche Bill. Ma comunque vada, io e Bill parti-remo. E così faranno gli altri.

E comunque vada, so un'altra cosa. Dopo che saremo passati noi, e l'orda potente, curiosa, geniale e comprensiva che ha seguito le nostre tracce, la Georgia Australe non sarà mai più la stessa.

Questo racconto è dedicato a Garry Tee, professore di informa-

tica all'Università di Auckland; matematico, specialista di com-puter, e storico della scienza; che a Dunedin, Nuova Zelanda, ha scoperto parti della macchina differenziale di Charles Babbage; che ha programmato il computer DEUCE nei tardi anni Cinquan-ta, e che da allora è mio collega e amico; che non è Bill Rigley più di quanto io sia il narratore di questa storia.

Charles Sheffield 31 dicembre 1991

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Titolo originale: Georgia On My Mind

Analog Science Fiction and Fact January 1993

QUELLO CHE NON SI VEDE

di Martha Soukup

Ciò che si vede, naturalmente, dipende da come lo si vede...

Il suo schermo era leggermente sbilanciato sul verde. I rossi erano smor-

zati e la faccia del dottor Herrera sembrava striata di cioccolata. Ginnie E-rickson rivolse lo sguardo verso il robot di vigilanza accovacciato di fianco a lei e collegato alla sua workstation. «Fermala, per favore.» L'immagine si fissò. Batté alcuni tasti finché il sangue non divenne di colore rosso vivo. «Dimezza la velocità.» La testa di Herrera si mosse leggermente in avanti come se stesse cercando di scrutare attraverso gli occhi strappati dalle or-bite e cominciò a sprofondare sulla sedia. «Riduci a un quarto la velocità.»

Il punto di vista continuò a spostarsi convulsamente finché Ralph Herre-ra non ebbe riempito lo schermo. La diagnosi - pressione sanguigna e pol-so - scorreva sotto l'immagine dello scienziato agonizzante. Le misurazioni venivano prese dal robot che si era temporaneamente trasformato in una macchina cuore-polmone che, applicata al sistema circolatorio di Herrera, gli ossigenava il sangue.

Troppo tardi. Il cervello era spappolato dallo stesso punteruolo da ghiac-cio che gli aveva trafitto gli occhi. Il robot di vigilanza non era fornito di EEG, cosa che gli avrebbe permesso di registrare la morte cerebrale del suo paziente, risparmiandogli un bel po' di lavoro.

«Stop» disse Ginnie. Nella memoria del robot non vi era niente di parti-colarmente interessante se non l'arrivo di Drobisch, il capo delle guardie di sicurezza, giunto dieci minuti più tardi. Avrebbe potuto continuare con lo scorrimento veloce, ma Drobisch era lì dietro di lei. Aveva già visto quella parte. La registrazione digitale mostrava il suo arrivo precipitoso, camicia fuori dai pantaloni e fucile in mano, poi lui che si chinava sul cadavere di-cendo: «Cazzo, accidenti a te Herrera, se questo mi costerà il lavoro...» Non le sembrava opportuno andare avanti fino a quel punto.

«Allora, cos'ha che non va questa stupida macchina?» domandò Dro-

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bisch. «Non lo so, mi lasci un po' di tempo.» «Tempo? Tempo?» Ginnie sospettava che quell'uomo avesse delle cono-

scenze da qualche parte; era l'unica spiegazione possibile al fatto che un cretino come lui avesse ottenuto quel posto.

«È una stupida, complicatissima macchina.» Poi si girò verso il robot. «Sei una macchina complicata, vero?»

«Sì» disse il robot con quella sua gradevole voce proveniente da un alto-parlante situato nel petto. Aveva conosciuto il ragazzo che aveva pro-grammato il suo modulo vocale, diceva di averci impiegato una settimana, ma ne era valsa la pena: era così piacevole all'orecchio che era uscita per due mesi con il padrone di quella voce. L'unica cosa che la indispettiva era che in sei anni di lavoro sui robot nessuno avesse mai pensato di proporre la sua voce come modello.

«E allora la semplifichi» disse Drobisch. «Questa stupida macchina dice che Herrera è entrato, si è seduto e improvvisamente si è trovato addosso sangue e bulbi oculari. Non è altro che denaro buttato. La compagnia non se ne fa niente finché non scopriamo cos'è che non funziona.»

«Sì, però il mio collo è già abbastanza caldo, grazie» disse Ginnie. Dro-bisch la fissò. «Potrebbe smetterla di alitarci sopra per un po'? Comincia a prudermi.»

«Va bene, ci starò attento.» «Allora perché non mi dice come mai è la Compagnia che sta facendo le

indagini sul caso? Perché non lo lascia fare alla polizia?» «Sono affari della Compagnia.» «Ma su cosa diavolo stava lavorando? Perché gli avevano assegnato ad-

dirittura un robot di vigilanza?» «Lasci perdere, signorinella, sono informazioni riservate.» «Potrebbe servirmi a scoprire chi ce l'avesse con lui.» «Non sono affari suoi. Il suo lavoro è capire cosa non funzioni in questo

stupido robot. Punto. Quindi si dia da fare.» Fece scorrere in avanti la memoria del robot mentre mostrava il tentativo

totalmente inutile di tenere in vita Herrera. Drobisch, chiaramente imba-razzato, se ne andò prima che arrivassero le immagini della sua entrata in scena. Ginnie aveva di nuovo l'ufficio tutto per sé.

Si stiracchiò, sospirò e disse al robot: «Ricominciamo da capo. Venerdì notte, ore undici».

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Quattro ore più tardi non aveva ancora cavato un ragno dal buco. Le domande fatte al robot e l'esame della sua memoria visiva avevano portato a un unico risultato: un terribile mal di testa. Si appoggiò alla scrivania flettendo i polsi indolenziti.

«A parte Herrera, quando è uscita dal laboratorio l'ultima persona?» «Ore venti, quarantasei minuti e diciassette secondi» disse il robot. «Era Jane Yonamura?» «Sì.» «Da quel momento fino all'arrivo di Drobisch, undici e ventisei, non c'è

stato nessun altro nel laboratorio, a parte il dottor Herrera?» «Esatto.» «Herrera sembrava nervoso?» «Per favore definisci contestualmente il termine "nervoso".» «Ha fatto qualcosa di insolito in quel lasso di tempo?» «È morto.» Ginnie sorrise: un programma che la prendeva alla lettera. Altri riusci-

vano ad antropomorfizzare il robot, nonostante la sua somiglianza con un bidone dell'immondizia pieno di arti meccanici e altre protuberanze; lei era consapevole di avere a che fare con un sofisticato programma per compu-ter inserito in un meccanismo semovente. C'era ancora molta strada da percorrere prima di arrivare a una vera intelligenza artificiale.

«Ha fatto qualcosa di insolito nel tempo in cui è rimasto solo, prima di morire?»»

«Ha trascorso l'ottantasette per cento di quel tempo in bagno. Queste percentuali rientrano nella normalità per quel che riguarda le attività not-turne del dottor Herrera da quando sono stato assegnato alla sua sorve-glianza.»

«Perché sei stato assegnato alla sua sorveglianza?» «Questa informazione è riservata.» «A che cosa stava lavorando?» «Questa informazione è riservata.» Ginnie scosse la testa e riguardò i suoi appunti. Yonamura esce,

20:46':17". Herrera va al cesso, 23:08':51". Herrera. torna, 23:15':02". Her-rera è morto, 23:15':43". Arriva Drobisch, 23:26':25". Sembrava strano che Herrera fosse stato ucciso proprio subito dopo esser tornato dal bagno, ma questo non era un particolare di grande aiuto. E se qualcuno avesse appro-fittato di quei sei minuti di assenza dello scienziato e del robot per intro-dursi nel laboratorio? Possibile, ma non spiegava perché il robot non aveva

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visto l'assassino uccidere lo scienziato, così, alla luce del sole. Non si spiegava neppure come Herrera avesse potuto rimanere tranquil-

lamente seduto mentre qualcuno gli conficcava un punteruolo da ghiaccio negli occhi. Le venivano i brividi solo a pensarci. E se lo avessero droga-to? Ma dalle analisi del sangue non era risultato niente.

Il robot era stato istruito in modo che non potesse rivelarle niente sul ti-po di lavoro svolto da Herrera, ma in quell'ora e mezza che seguì l'uscita della sua assistente, lui non aveva fatto niente di riservato: non c'erano vuoti in quello che le aveva detto. Anche se la memoria del robot fosse sta-ta modificata da un programmatore, ogni cambiamento sarebbe stato regi-strato in maniera indelebile. Aveva controllato, le sue memorie non erano state toccate da almeno due mesi.

Le bruciavano gli occhi, forse per una specie di solidarietà con il morto, o forse perché aveva lavorato troppo.

«Chiudi» disse al robot. Lo lasciò collegato al suo computer così avreb-be potuto subito rimettersi al lavoro l'indomani mattina.

George sollevò gli occhi dal libro quando entrò Ginnie. «Giornata dura»

commentò. Ginnie fece un grugnito a sua sorella gemella, quella che por-tava il nome dello stato da cui proveniva la madre. Il padre era della Virgi-nia e in famiglia scherzando si diceva che Ginnie - Virginia - era la cocca del papà, mentre George era la preferita della mamma. Il giochetto poi an-dava oltre, visto che Ginnie lavorava sui computer come suo padre, e Ge-orge era nel campo della ricerca medica come sua madre.

L'altra battuta classica in famiglia era sulla fortuna che avevano avuto per il fatto che nessuno dei genitori fosse del New Jersey.

«E lo dici a me.» Ginnie appese la giacca nella sua parte dell'armadio. «Ehi, questo ombrello è tuo, tienilo dalla tua parte!»

«Noiosetta, eh? Sei di ottimo umore stasera.» George era la sua copia: fianchi larghi e vita sottile, con una massa indomabile di scurissimi capelli ricci. Ogni volta che Ginnie la guardava le veniva l'istinto di pettinarsi.

«Il giorno in cui uno stronzo ti aliterà sul collo pretendendo l'impossibi-le, ti sarà permesso di fare dei commenti.»

George abbozzò un sorriso. Lavorava nel laboratorio della madre e per questo spesso rientrava tardi la sera, ultimamente però avevano portato a termine un progetto molto importante e si erano prese un periodo di vacan-za. «Che hai?»

«Senti questa: hai presente il tipo che è stato ucciso l'altro giorno? Il ro-

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bot di vigilanza è andato in tilt e non ha registrato l'omicidio. Io ho il com-pito di scoprire cosa non ha funzionato.» «Questo sì che è interessante. Pensi di riuscire a trovare l'assassino?»

Ginnie entrò nel cucinotto dov'era sua sorella. «Non è affar mio, io devo solo scoprire perché il robot del servizio di sicurezza si è incasinato.» Pre-se una scodella e una scatola di cereali.

«Robot e computer: che noia. L'omicidio di Ralph Herrera, questo sì che è interessante. Ehi, ma non aveva studiato alla CalTech? Dovresti trovare il colpevole per vendicare l'onore della nostra alma mater. E non sarà un invito a cena.»

Ginnie rimise il latte nel frigorifero. «Sarà dura. A proposito di cena, perché non prepari qualcosa?»

«Se la signora vuole essere invitata a cena sarò ben contenta di scaldare qualcosa nel microonde. Allora, l'omicidio. Chi l'ha fatto fuori?»

«Non lo so. È tutto così segreto. Drobisch - quell'idiota del servizio di sicurezza che si sta davvero sudando il posto - non mi dirà il perché. Forse nemmeno lui ne è al corrente, non lo so, non so su cosa stesse lavorando Herrera, non so niente della sua vita sociale, non so se fosse in possesso di negativi di Drobisch a letto con il suo pastore tedesco. Devo solo trovare l'anomalia.» Si mise in bocca una bella cucchiaiata di cereali. «Certo che aver speso tutti quei soldi per un droide di sicurezza che non è nemmeno capace di individuare un assassino, è una ragione sufficiente. Comunque hanno tenuto nascosto il robot alla polizia.»

«Non ti sopporto quando parli con la bocca piena. Mi fai vedere come sarei io se non fossi una persona educata, e non è un bello spettacolo, sai.»

Ginnie continuò a sgranocchiare i suoi cereali. «Arma del delitto, movente, circostanze» disse George. Ginnie si accor-

se in ritardo che la sorella stava leggendo un romanzo di Nero Wolf. «Per fare ipotesi dobbiamo partire da qualcosa che sai.»

«Le circostanze non le capisco, del movente non ho alcuna idea, l'arma è un punteruolo da ghiaccio ficcato dritto nel cervello e fatto ruotare leg-germente.»

«Uh... si conosce la provenienza del punteruolo?» «Questo è compito della polizia, però dubito che possa scoprirlo. Ho a-

nalizzato abbastanza bene la memoria visiva del robot. Era un normalissi-mo punteruolo da ghiaccio, marca Sears.»

«Impronte digitali?» «Per quel che so, solo qualche impronta confusa del palmo della mano.»

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«Potrebbe averle lasciate lui stesso mentre tentava di toglierselo. Cosa ti fa pensare che non sia stato il robot? Non ti fa paura lavorare con quell'ag-geggio?»

Ginnie scosse la testa. «Ho già fatto domande su questa eventualità. C'e-rano frammenti di cervello sul punteruolo, e di conseguenza ce ne doveva-no essere anche sulle mani dell'assassino. Non c'era niente sugli arti pren-sili che il robot avrebbe potuto usare per tenere l'arma, solo sangue e parte del corpo vitreo degli occhi. E comunque nell'angolo dell'ingresso non a-vrebbe potuto entrare un assassino della dimensione del robot. Solo un umano avrebbe potuto farlo.»

George mise un segnalibro nel suo Nero Wolf e lo ripose. «Non sei suf-ficientemente perspicace per scoprire le circostanze, l'arma è banale anche se orribile. Dobbiamo concentrarci sul movente.»

Ginnie aggiunse altri cereali nella scodella. «Non ho bisogno di venire a casa per farmi insultare, sai? Basta che torni al lavoro da Drobisch.»

«Io sono molto più brava.» «Solo perché hai più esperienza e geni perfetti.» «Il movente, il movente. Avevi avuto già occasione sul lavoro di cono-

scere quel tipo?» «No, era uno di quelli che arrivava, lavorava senza sosta e se ne andava

a casa. Non si fermava mai a fare due chiacchiere in mensa. Dicono che lavorasse a qualcosa di segreto.»

«Quindi potrebbe essere un caso di sabotaggio industriale.» George cor-rugò la fronte. «Ma perché un sabotatore avrebbe dovuto ucciderlo in un modo così disgustoso? Cavargli gli occhi... sembra una cosa personale. Forse simbolica. Come... sì, gelosia: "Non guarderai mai più un'altra don-na!"»

«Non mi sembra il tipo da avere un'amante-killer» disse Ginnie. «Questo non significa che non possa essere andato tutto al contrario di

quel che sembra a te, giusto?» «Era il tipo d'uomo che passava tutto il suo tempo in laboratorio.» «Allora se la faceva con una del laboratorio. Era sposato?» Ginnie scos-

se la testa. «Allora andava con una del laboratorio, che poi si è ingelosita. Forse non la tradiva nemmeno. Forse è una di quelle ricercatrici schizzate che vanno giù di testa per mancanza di sonno.»

«Forse tu sei una di quelle» commentò Ginnie. «Chi è l'ultima persona che l'ha visto vivo?» «La sua assistente, Jane Yonamura.»

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«Ah-ah!» «Ma dai, non mi sembra proprio il tipo.» «Non lo sembrano mai» replicò George. «Di cosa si occupa?» «Questo lo so. Prima di essere affiancata a Herrera dirigeva il laborato-

rio di clonazione in cui lavoriamo.» Ginnie collaborava alla progettazione di stazioni diagnostiche robotizzate traducendo le competenze dei medici della BioInnovations in programmi capaci di riscontrare sintomi sempre più impercettibili di malattie. Analizzavano decine di conigli, topi, scim-mie tutti uguali per mettere alla prova i loro strumenti. Fino a quando non le fu assegnato il compito di trovare un'anomalia in un robot alla cui pro-grammazione non aveva messo mano, la parte più frustrante del lavoro di Ginnie era stata quella di aspettare per mesi che un topo, geneticamente predisposto a contrarre malattie cardiache, manifestasse sintomi riscontra-bili nei suoi programmi.

«Sai cosa ti dico?» disse George «Herrera frequentava la Tech un po' di anni prima di noi, ma scommetto che conosco qualcuno lì dentro che lo conosceva. Chiederò in giro informazioni su di lui. Tu dovresti parlare con la Yonamura. Potrebbe essere l'assassina, oppure potrebbe conoscere l'altra donna che è l'assassina, oppure potrebbe sapere se è stato ucciso per qual-cosa che riguardava il loro progetto.»

«Drobisch non la lascerà sicuramente parlare, e poi il mio compito non è risolvere casi di omicidio.»

«Sei una guastafeste. Io, comunque, andrò in giro a fare un po' di do-mande.»

Ginnie andò a prendere altro latte. Gettò da parte gli stampati. «Bah!» «Come, scusa?» disse il robot. «Era una, una... interiezione» rispose Ginnie. «Non dicevo a te, dicevo a

questa maledetta documentazione.» Il robot restò in silenzio. Probabilmente sapeva che non avrebbe dovuto

dare nessuna risposta a un commento sulla maledetta documentazione, pensò Ginnie.

O sulla mancanza di una maledetta documentazione. La BioInnovations era riuscita a ottenere dai progettisti solo le parti non coperte da copyright del software del robot, dato che per chissà quale ragione non volevano si sapesse che il robot non era riuscito a impedire un omicidio. Ginnie chia-mò il ragazzo con cui era uscita, quello della voce, ma lui aveva lavorato

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solo sul software vocale del robot. Non le fu di nessun aiuto. La documentazione sul software fornita dall'altra compagnia era terribi-

le. Però Ginnie non pensava fosse stata contraffatta per garantire i segreti commerciali. Lei stessa aveva prodotto un sacco di documentazione fretto-losa e poco curata.

Quello che cercava era una specie di programma "tappabuchi" proba-bilmente scritto per coprire un difetto che i programmatori precedenti non erano riusciti a trovare, quello che lei chiamava la scuola di programma-zione dell'"usa un martello più grande". L'aveva fatto anche lei, anche se non così spudoratamente come quel programmatore che di fronte a un pro-gramma che, inspiegabilmente, calcolava che due più due faceva cinque, aveva inserito un codice secondo il quale: se 2+2 = 5 allora 54.

Una cosa così ovvia le sarebbe subito balzata agli occhi, ma questa non sembrava poi tanto ovvia.

Doveva anche guardare che non si trattasse di sabotaggio, ma fino a quel momento il robot aveva sempre lavorato come doveva, senza dare segni di manomissione.

Certo che se si fosse trattato di risolvere un caso di omicidio piuttosto che cercare di scovare un invisibile difetto in un robot a dir poco bizantino, senz'altro sarebbe stato più interessante.

Si appoggiò allo schienale della sedia, che scricchiolò. «Ho dato troppo ascolto a George.» Il robot si girò concentrando la sua attenzione su di lei. «Vado a controllare una cosa» gli disse Ginnie. «Non ti muovere.»

«Ricevuto» disse il robot. «Impossibile» disse Drobisch. La sua scrivania era enorme, un mostro di

legno scuro, rifinito in ferro. «È stata l'ultima persona vivente a vedere il robot al lavoro. Magari ha

notato qualcosa che potrebbe essermi utile.» «Non ha notato niente.» «Lei non è un esperto di computer. Mi lasci parlare con Jane Yonamu-

ra.» «Siamo preoccupati per la sua sicurezza.» E così credi proprio che Herrera sia stato ucciso a causa del suo lavoro,

pensò Ginnie. «Senta, voglio solo farle alcune domande sul funzionamento del robot. Un particolare che a voi può sembrare insignificante potrebbe essere un indizio prezioso per me.»

Drobisch la guardò in cagnesco.

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Lei si alzò per andarsene. «Va bene, vedrò di trovare il difetto in altro modo. Probabilmente non è importante. Probabilmente la polizia scoprirà che la macchina cuore-polmone, a cui hanno trovato attaccato Herrera, era la seconda, e se dovesse scoprire anche che sulla scena del delitto c'era un robot, lo sequestreranno e io non avrò più mal di testa.»

«Aspetti» disse Drobisch. Ginnie, con la mano sulla maniglia della por-ta, si girò. «Potrà parlare con lei. Domani, all'ora di pranzo.»

Come immaginava. Se trovava l'anomalia prima che la polizia venisse a sapere del robot, avrebbero potuto cancellare la sua memoria e, una volta che l'avessero riavuto indietro, continuare a usarlo tranquillamente. «Gra-zie.»

«Ci sarò anch'io, potrei esserle di aiuto.» Il tono astioso della sua voce suonava come un avvertimento.

Jane Yonamura era minuta, più vecchia di Ginnie, anche se era difficile

dire di quanto lo fosse: avrà avuto trenta, trentacinque anni. Si sedette al tavolo della mensa di fronte a Ginnie, senza incrociare il suo sguardo. Ginnie ricordò che era un tipico gesto di cortesia dei giapponesi. Per il re-sto sembrava abbastanza americana.

«Mi spiace per il dottor Herrera» disse Ginnie. «Lo conosceva da mol-to?» Drobisch si piazzò nella sedia di fianco a lei. Potresti benissimo la-sciar perdere la maledetta cortesia giapponese, pensò Ginnie. Chiunque a-vrebbe fatto questa domanda.

«Abbiamo lavorato insieme per due anni» disse Jane. «Lo conoscevo come di solito si conoscono le persone con cui si lavora. È difficile abi-tuarsi alla sua assenza.»

«Mi dispiace molto» disse Ginnie. Drobisch si schiarì la voce. La Yonamura restò in silenzio. «Ha notato niente di strano nel robot quella sera?» «Veramente non saprei dire, signorina Erickson. Non sono un'esperta di

queste cose. Il dottor Herrera ne sapeva molto di computer, era un uomo molto intelligente. Io sono una semplice esperta di biologia cellulare, uso i computer e i robot solo quando servono al mio lavoro.»

«È quello che dice sempre anche mia sorella, lei odia usare i computer.» Drobisch guardò l'orologio con ostentazione. «Però poi li usa molto più

di quel che pensa. Per questo sono sicura che lei deve aver notato qualco-sa.»

«Non mi viene in mente niente.»

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«Be', avete lavorato fino a tardi.» «Come succedeva spesso.» Semplicemente lavorato? si domandò Ginnie. Probabilmente sì. Il robot

li controllava da varie settimane. «Il robot aveva il compito di assistervi in tutto?» La macchina era stata programmata in modo che non potesse rive-larle niente sul lavoro di Herrera e della sua assistente.

«No. Be', il dottor Herrera magari gli chiedeva di cronometrare alcuni processi o di reggere uno strumento: solo cose molto semplici.»

«Bene. Ha avuto problemi nella comprensione delle istruzioni quella notte?»

«No, mi ci lasci pensare. No, non credo, ma come le ho detto, non gli fa-ceva mai fare granché. Non sono nemmeno sicura che quella sera gli abbia parlato.»

Però si ricorderà di quel che fece Herrera la notte dell'omicidio, pensò Ginnie. Sono passati solo cinque giorni, ed è stato sicuramente uno di quei momenti che non si dimenticano. «Sarebbe uno spreco avere a disposizio-ne un robot così all'avanguardia e non servirsene in nessun modo, dico be-ne? Voglio dire che quelli dell'amministrazione avranno riflettuto prima di assegnarvi una macchina così costosa. Immagino che il vostro lavoro do-vesse essere molto importante.»

«Suppongo che qualcuno lo ritenesse tale» disse la Yonamura senza scomporsi.

Ginnie sentiva il respiro pesante e rumoroso di Drobisch. Doveva aver messo a punto una tecnica particolare per farsi notare.

«Nessuno di voi due ha parlato con il robot? Ha detto qualcosa?» «Può essere, non ricordo.» «Era per sapere se avesse avuto problemi di linguaggio, se balbettasse o

si ripetesse. Non si ricorda proprio se ha parlato?» «No» disse la Yonamura. «Provi a pensare ai movimenti, aveva problemi a spostarsi?» «Non riesco proprio a ricordarlo. È una cosa a cui non ho mai prestato

attenzione.» «Non sta ottenendo niente, Erickson» disse Drobisch. «E abbiamo tutti

un sacco di lavoro da fare.» Su questo ha proprio ragione, pensò Ginnie. Jane Yonamura era stata

educata, ma era reticente, volutamente, Ginnie ne era sicura. Ciò poteva dipendere dalla presenza di Drobisch. Forse.

«Grazie lo stesso» disse a Jane che sorrise leggermente mentre le strin-

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geva la mano. «Mi sta facendo impazzire» si sfogò con sua sorella. «Sono tre giorni

che vado avanti così e il robot non è più chiaro del solito, anzi, è chiaro come sempre. E il suo software è talmente complesso che ci vorrebbero cent'anni per controllarlo. Potrei cercare per tutta la vita.» Si stropicciò la faccia e sbadigliò. «Se non fossero così paranoici potrebbero fare interve-nire una squadra di programmatori. Il miglior modo per scovare un difetto è avere punti di vista diversi, ma Drobisch è addirittura infastidito dalla presenza di una sola persona accanto al robot.»

«Hai visto la Yonamura?» domandò George. «Certo. È una causa persa. Quella donna non aprirà bocca.» «Una passione soffocata?» «Tutto soffocato. Non ho idea dei segreti che nasconde. O forse è solo

più rispettosa del segreto professionale di quanto non lo sia io.» «Ehi, se non lo dici a una persona che ha il tuo stesso patrimonio geneti-

co, allora a chi lo puoi dire?» disse George. «Non ne farò parola con nes-suno. Facciamo in modo che credano che io sia te.»

«Non passeresti il controllo di identificazione della retina che mi hanno fatto fare quando ho firmato tutti quei moduli.»

«Non lascerò che guardino nel profondo dei miei occhi. Non controlle-rebbero di sicuro, anche se pensassero che hai una sorella gemella. Il mon-do è pieno di idioti che credono che i gemelli abbiano le stesse impronte digitali e la stessa conformazione della retina.» Quando erano adolescenti George e Ginnie avevano letto un sacco di libri di fantascienza sui cloni, che non sono altro che gemelli creati tecnologicamente, i quali non solo hanno identiche impronte digitali, ma addirittura la stessa personalità. O-diavano tutto ciò. «Ecco qua il premio che ti spetta per avere una sorella ficcanaso» disse, gettando sul tavolo della cucina un documento rilegato.

«Cos'è?» «Oggi ho fatto un salto alla Tech per scoprire qualche vecchio pettego-

lezzo su Herrera. Niente. Aveva una ragazza che faceva il terzo anno al City College, ma la cosa non è durata.» Ginnie sbuffò. Non aveva mai avu-to molta stima dei ragazzi che dovevano cercarsi le ragazze fuori dal campus. «Poi ho guardato la sua tesi di dottorato. Così, almeno, andare a Pasadena non è stata una completa perdita di tempo.»

«Andare a Pasadena è sempre una perdita di tempo» disse Ginnie mec-canicamente mentre prendeva il plico. «"Euristica indotta e apprendimento

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dei comportamenti nei mammiferi"? Sembra proprio avvincente.» «Sono sempre convinta che l'abbia fatto fuori la Yonamura, ma se non

avessero avuto una relazione e se si fosse trattato davvero di sabotaggio, avremmo un indizio per sapere su cosa stavano lavorando.»

«È roba di dodici anni fa» disse Ginnie. «Potrebbe non aver niente a che vedere con quello che stava facendo per la compagnia.» Scorse veloce-mente le pagine. «Ed è anche scritta male. Vi fanno sempre fare le tesi in questo modo? Per fortuna non ho fatto il dottorato.»

«Ho dato un'occhiata» disse George. «C'è una parte di teoria su come trattare gente che ha perso alcune capacità a causa di lesioni o altri traumi cerebrali.»

«Tipo punteruoli da ghiaccio?» «Per esempio, uno che ha avuto una microlesione e non riesce più ad al-

lacciarsi le scarpe. Herrera pensa che nel cervello si possa eliminare l'inte-ra subroutine per allacciarsi le scarpe.»

«Come?» «Lo voglio rileggere. È un bel mattone, e non sono abituata a leggere

cose di neurologia. Per la maggior parte parla di topi bianchi e conigli, e accenna all'uomo solo verso la fine.»

«Però è quella la parte interessante, vero?» disse Ginnie. Diede un'oc-chiata a un groviglio di grafici riguardanti sostanze chimiche del cervello che non aveva mai sentito nominare. «Programmare il cervello umano. Pensa a quanto sbaverebbe un'organizzazione militare per una cosa del ge-nere.»

«Ci sono» disse George. «Possiamo rimettere il sabotaggio industriale nella lista dei moventi, e lo stesso vale per l'intrigo internazionale.»

«Fantastico» disse Ginnie. «Quasi preferisco la teoria dell'assistente af-famata di sesso che gli cava gli occhi.»

«A ogni modo, poveraccio, chissà se l'aspettava.» «Questo può spiegare perché la Yonamura è così tranquilla. Saperne

davvero qualcosa potrebbe essere molto pericoloso.» «Se è collegato al lavoro che Herrera stava facendo alla BioInnovations»

disse George. «Andrò in giro a fare altre domande, forse a qualcuno ha detto su cosa

stava lavorando.» «Ascolta» disse Ginnie, pur sapendo che non poteva fermare sua sorella

se si era messa in testa di risolvere un enigma. Anche lei si era incuriosita e si sentiva coinvolta, ma provava un certo senso di ansia e di disagio. Si

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allungò sul tavolo e strinse la mano della sorella gemella: «Sta attenta». George sorrise e le strizzò le dita. Stava controllando i dieci minuti precedenti alla morte di Herrera nella

memoria del robot. L'immagine oscillava mentre il robot trotterellava die-tro allo scienziato lungo il corridoio. Herrera entrò nell'ultimo gabinetto del bagno degli uomini, e il robot mise a fuoco la porta. Qualcuno vi aveva attaccato un vecchio disegno di Gary Larson, tanto ingiallito da sembrare marrone: raffigurava un laboratorio pieno di gatti in camice bianco e privi di uno "zampino". Probabilmente la curiosità li aveva fatti cadere in trap-pola. Herrera uscì dal gabinetto e si diresse speditamente verso l'uscita dei bagni, senza fermarsi per lavarsi le mani. Ginnie scosse la testa. Il robot doveva procedere in fretta per stare al suo passo. Si fermò sulla porta del laboratorio e il robot entrò per primo nella stanza sistemandosi nella sua solita posizione nell'angolo opposto da cui poteva vedere tutto. Herrera at-traversò la stanza e si sedette davanti al suo terminale. Ginnie fece un pri-mo piano della tastiera. Herrera aveva battuto sui tasti A, 6, Caps Lock, Shift, J, Y, Delete, G, H, 2, Tab. La sequenza sembrava non avere nessun senso. Aggrottò la fronte.

Era quello il momento in cui la porta si era chiusa con un colpo improv-viso; il robot aveva guardato nella direzione da cui proveniva il rumore, solo per un istante.

Quando si voltò di nuovo verso Herrera il sangue gli stava già colando dagli occhi.

Dietro di lei qualcuno si schiarì la voce: «Ha ancora due giorni». «Due giorni per cosa?» «Ho parlato con quelli del suo dipartimento» disse Drobisch. «Il suo su-

pervisore dice che non ci stanno più dentro con gli stipendi. Può darsi che non possano tenerla.»

«Aspetti un attimo.» «Naturalmente gli ho detto che per quello che ha fatto finché era in pre-

stito al dipartimento di sicurezza, siamo disposti a collaborare, magari al-lungando loro un po' di denaro per arrotondare il budget. Per gratitudine. Ammesso che proviamo gratitudine.»

Era una mossa abbastanza astuta, avrebbe dovuto esserne impressionata. «Non scherzi. Qui non si tratta di un programma di contabilità dipendenti. Questo robot contiene un numero esagerato di codici. Non potete pensare che un solo programmatore possa trovare l'anomalia in una settimana!»

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«Ci sono un sacco di programmatori, non si può pensare che la Bio-Innovations li impieghi tutti.» Drobisch sembrava compiaciuto; fece mez-zo giro sui tacchi e se ne andò.

«Maledizione!» Stava facendo in modo che la colpa ricadesse su di lei. Non era colpa di

Drobisch se il robot preposto alla sicurezza non aveva funzionato: la com-pagnia faceva lavorare dei programmatori idioti che non ne capivano nien-te. A nessuno importava che lei non avesse quasi mai visto il robot prima del delitto. Aveva il sospetto che Drobisch potesse metterla nei guai con il lavoro.

Su una cosa Drobisch aveva ragione: la California del sud, che dieci an-ni prima sembrava per i programmatori una fonte inesauribile di lavoro, ora ne era satura. E anche se una viveva con la sorella gli affitti erano proibitivi, ci volevano tutti e due gli stipendi per sostenere le spese di un bilocale, il solo costo dell'acqua avrebbe potuto mandarla in rovina se fos-se rimasta a lungo senza lavoro.

Magari sarebbe stata costretta ad andarsene nel New Jersey. «Maledizione.»

* * * «Non siamo qui per parlare di chi altro dividerà con me l'appartamento»

disse George seccamente. «Dobbiamo risolvere questo mistero.» Ginnie era stesa sul divano, pensava abbracciando un cuscino. «Se do-

vessi andarmene da qui mamma vorrà che tu torni da lei.» «Neanche per idea. Certo voglio bene alla mamma, ma ogni tanto ho bi-

sogno di una pausa. Non la sento da una settimana e sono contenta, tanto per cambiare.»

«Non le hai ancora detto niente? Hai fatto bene. Si preoccuperebbe e ba-sta. Hai scoperto qualcosa sulla Yonamura?»

«No.» George si morse le labbra. «Mi dispiace, oggi ho perso tempo. Se avessi saputo che Drobisch stava facendo pressione su di te...»

«Ma non lo sapevi. Neanche per idea. Voglio bene alla mamma.» «Sì, però se perdi il lavoro... Ho parlato di Herrera con qualcuno della

Lloyd House. Lo sai che anche lui ha vissuto lì, proprio come me?» «Piccolo il mondo.» Un vecchio compagno di college di Ginnie, che si

era ritirato da fisica, aveva messo in piedi una piccola attività di importa-zione su nell'Oregon. Magari poteva aver bisogno di un programmatore

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per rendere più efficiente il settore spedizioni. Doveva solo abituarsi a vi-vere tra i pini. Oppure avrebbe potuto trovare un lavoro all'imbarco merci dell'approdo del porto. Si strinse forte il cuscino sulla guancia.

«Mi hanno raccontato un aneddoto su di un suo rompicapo della "Gior-nata della Bigiata" che è entrato nella storia.» Alla CalTech durante la "Giornata della Bigiata" degli studenti veterani, questi preparavano degli enigmi, chiamati "trucchi", che i più giovani dovevano cercare di risolvere per entrare nella loro stanza. Se, una volta entrati, ad attenderli non trova-vano un premio - di solito patatine, dolcetti e schifezze varie - avevano il diritto di fare un controtrucco, restituendo pan per focaccia.

Ginnie, preoccupata per gli estenuanti esami finali, aveva preparato solo un piccolo quiz. Il gruppo che cercava di entrare nella sua stanza aveva ri-sposto ad alcune domande banali sul suo computer e aveva risolto rapida-mente quello che lei riteneva un difficile enigma di programmazione, il computer aveva così svelato loro dove si trovasse la chiave della sua stan-za. Aveva lasciato nella stanza un fusto di birra e tre etti di cioccolata, e al ritorno dalla gita della "Giornata della Bigiata" a Disneyland, non aveva trovato altro che carte di dolci avanzate dal premio.

Rimpiangeva ancora di non aver avuto tempo per inventare un rompica-po più astuto, qualcosa che potesse far scervellare i giovani per tutto il giorno, ma che poi, una volta entrati in possesso di tutti gli indizi e trovata la soluzione si rivelasse banale.

«Andarono verso la sua stanza e trovarono un monitor e un joystick fuo-ri della porta» continuò a raccontare George «e un biglietto che diceva solo "prendi la chiave o scopri perché non si può fare".»

«Sembra carino» disse Ginnie interessata nonostante tutto. «Quando accesero il video comparve l'interno della sua stanza, come se

la telecamera fosse di fianco alla porta. Tutto sembrava normale tranne il fatto che il pavimento era completamente vuoto e nel mezzo si trovava la chiave della stanza e un piccolo carrello con un braccio mobile davanti e un'antenna in cima. Uno di loro prese il joystick e cominciò a muoverlo, e il carrello si mosse di conseguenza. Un bottone del joystick alzava e ab-bassava il braccio e l'altro faceva andare avanti e indietro il carrello. Sul braccio c'era una calamita, mentre sulla chiave era legata una rondella me-tallica, così che potesse essere presa con la calamita.»

«Troppo facile, ci dev'essere un trucco.» «Ma certo. Sembrava che non ci fosse altro da fare che manovrare il car-

rello con la chiave fino alla porta e fare in modo che la facesse scivolare

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sotto la porta. Ma non riuscivano a fare andare il carrellino come voleva-no: cominciava ad andare in direzione della porta e, improvvisamente, sterzava nella direzione sbagliata, oppure si fermava, o lasciava cadere la chiave.»

«Come se ci fosse stato una sorta di "capriccio" nel programma di mo-vimento del carrello.»

«Pensarono anche a quell'eventualità. Tracciarono tutti i movimenti in-spiegabili per cercare uno schema. Per esempio, se giri di centottanta gradi a destra, il carrello va indietro. Be', a volte funzionava e altre no.»

«Allora era stato programmato per fare errori casuali e per questo non riuscivano a cavarne fuori niente?»

«Sì, ma come puoi "provarlo"? È un vero "trucco" da maestro: doveva esserci qualcosa di grosso e illusoriamente ovvio da poter dimostrare op-pure Herrera si era incasinato. Cominciavano a innervosirsi, potevano chiaramente vedere la stanza, ma non c'era nessun premio all'interno. Al-cuni studenti stavano pensando seriamente di saltare il "controtrucco" e semplicemente saccheggiare la stanza una volta risolto il "trucco". Sem-brava che sapesse già dall'inizio che fosse impossibile da risolvere, e non era leale.»

«E poi cos'era?» domandò Ginnie. «Prova a pensarci. Avevano in mano tre oggetti per risolvere il rompica-

po: il carrellino telecomandato, il joystick e il video con telecamera. Non potevano disporre del carrellino se non maneggiando il joystick e guardan-do attraverso il monitor.»

«Il joystick.» «Lo presero da parte e lo esaminarono attentamente. Per quel che pote-

vano vedere non c'era niente di strano nel joystick.» «Il monitor?» «Era già sera quando una brillante matricola cominciò a domandarsi se il

monitor mostrava proprio tutto. Un pezzo grosso del terzo anno aveva il joystick, ma alla fine lei lo convinse e se lo fece dare. Spostò il carrellino sulla parete di fondo e cominciò a farlo andare avanti e indietro, contro il muro, più veloce che potesse.»

«E con questo cosa provava?» «Nel mezzo della stanza il carrellino scomparve per un attimo dal video.

Poi lo riportò indietro, e la metà era scomparsa. Poi riapparve di nuovo.» «Non ti seguo.» «Ti ricordi quando da piccole guardavamo le previsioni del tempo in tv?

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Il presentatore portava una cravatta verde attraverso la quale a volte si ve-deva la cartina geografica.»

«Ah! Sì, era un dispositivo a chiave cromatica!» «Cominciò a battere i pugni sulla porta e a urlare "Apri, Ralph!" e Her-

rera aprì la porta dall'interno. Il muro di fondo della stanza era ricoperto di verde, aveva dipinto anche il pavimento di verde e lui indossava una giac-ca verde e una calzamaglia verde.»

«E così aveva trovato la spiegazione del perché non riuscivano a prende-re la chiave. La telecamera era una di quelle ormai superate che elimina-vano il verde dallo schermo, lo stesso tipo che usavano quando volevano far sembrare che il meteorologo fosse in piedi di fronte a una cartina o un tramonto o qualcos'altro.»

«Immagino che avesse trovato tutta l'attrezzatura nel campus» disse Ginnie.

«A dire il vero penso che l'avesse recuperata da un centro che aveva ri-modernato l'attrezzatura tecnologica. Come nelle previsioni del tempo: quando la telecamera riprendeva qualcosa di colore verde, quello che si vedeva era, in realtà, un'immagine del pavimento o della parete di fondo registrata in precedenza. Per questo motivo Herrera, completamente vestito di verde, risultava invisibile alla telecamera. In questo modo poteva segui-re il carrellino e impedirne o scombinarne i movimenti senza essere ripreso dalla telecamera.»

«Non male.» «E in fondo alla stanza c'era un grosso mucchio, coperto da un telo ver-

de, e quando l'ha scoperto sono saltati fuori lo champagne ghiacciato, una distesa di pasticcini e tutto il resto. In un certo senso aveva imbrogliato vi-sto che non aveva bigiato nella "Giornata della Bigiata". Però, dopo tutto, era un bravo ragazzo. È un vero peccato che sia morto.» George sospirò. «Alla fine c'erano cannoli al cioccolato per tutti. Io non ho mai avuto can-noli al cioccolato in premio dopo aver risolto un "trucco".»

«Eh, già!» Ginnie si sedette e appoggiò il cuscino. «Allora c'era un altro elemento nel suo enigma oltre al carrellino, al joystick e al video con tele-camera.»

«E sarebbe?» «Lui. Herrera.» «Buongiorno, Erickson» disse Drobisch. «'giorno» rispose lei sorridente.

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Sembrava un po' troppo baldanzosa per essere una che di lì a otto ore sa-rebbe stata licenziata, pensò. Non era brutta, ma aveva l'atteggiamento sbagliato. «Oggi è il suo ultimo giorno, lo sa?»

Lei sorrise ancora e si allontanò verso il corridoio così che Drobisch la eliminò subito dai suoi pensieri.

«Buongiorno, signor Drobisch.» «'giorno» grugnì lui. Aveva già raggiunto l'ufficio quando si voltò. Chi

era quella? Giacca rossa, jeans, capelli castani: la Erickson? Ma non l'ave-va già vista?

Drobisch odiava i déjà vu alla mattina. Decise che aveva bisogno di un altro caffè. La Yonamura non doveva assolutamente parlare con nessuno. Avrebbe passato la giornata occupandosi di questo; era una gran seccatura, non c'era da stupirsi che fosse un po' confuso.

«Questo lo confonderà.» Ginnie alzò il volume del sintetizzatore. «Il

programma prevede venti secondi di silenzio prima che cominci a urlare per l'omicidio. Quindi il tempo è un fattore importante.»

«Ricevuto» disse George. «Devo attraversare la stanza e sedermi in que-sta seggiola, giusto?»

«Giusto. Cerca di farlo nel modo più regolare che puoi, fai i passi tutti uguali.»

«Va bene, pronta quando vuoi.» «Adesso» disse Ginnie. Il robot, spento, era collegato alla sua worksta-

tion. Lo attivò con il joystick che aveva installato. George attraversò la stanza mentre il robot la guardava. Si sedette. Ginnie aspettò un attimo poi attraversò la stanza andando verso George.

Quando si avvicinò alla sorella il sintetizzatore vocale urlò: «Aiuto! Al la-dro! Omicidio! Stop!» Il robot ruotò in direzione dell'allarme, e Ginnie lo spense.

«Vediamo un po' cosa abbiamo ottenuto» disse. «Aspetta fuori, non vo-glio che ti veda ancora.»

Riattivò il robot. «Quando mi hai visto l'ultima volta?» domandò. «Alle 9:09' di questa mattina.»

«Cos'ho fatto?» «Sei entrata nella stanza, hai camminato verso l'angolo nord-est e ti sei

seduta.» «Quante volte ho attraversato la stanza in direzione nord-est questa mat-

tina?»

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«Una.» «Una?» «Esatto.» «Sai cos'hai, caro il mio robot? Un codice del tipo "cinque-uguale-a-

quattro". Hai una toppa nel programma, e so anche chi è che lo sapeva. Forse sono due le persone che lo sapevano.»

«Devo dare una risposta?» «No, grazie, mi hai già detto tutto quello che mi serviva.» Spense il ro-

bot e digitò sulla tastiera la sequenza che le permetteva di cancellare dalla memoria del robot l'esperimento di quella mattina. Avrebbero potuto ac-corgersi della modifica, ma forse non se ne sarebbero interessati e con un po' di fortuna il robot sarebbe finito nell'immondizia il giorno dopo.

«Puoi entrare.» «Bene» disse George. Si chiuse la porta dietro. «Tutti i tuoi colleghi mi

fissavano. Forse si domandavano come mai stavi passando la mattina fuori dalla porta del tuo ufficio. Hai trovato quello che cercavi?»

«Sì» disse Ginnie. «So quasi per certo cos'è successo. Devo solo riuscire a scollare Drobisch dalla Yonamura, quanto basta per parlarle.»

«Potrebbe essere divertente. Ti ricordi a scuola quando avevamo confu-so la Jefferson con le nostre identità?» George sollevò il telefono interno di Ginnie. «Drobisch, per favore.» Pausa. «Non è nel suo ufficio? Allora lo faccia chiamare e gli dica che Virginia Erickson vuole vederlo immedia-tamente. No, non posso aspettare. Ho detto adesso!» e sbatté giù il telefo-no.

«Come pensi di trattenerlo?» «Lo minaccerò di portarlo in tribunale per un errore di scadenze nel mio

contratto di lavoro. Posso sostenere la parte per almeno mezz'ora.» «Ti devo un altro favore.» «Con questo siamo a diciannove, ma chi ne tiene più il conto?» Jane Yonamura stava sbirciando dentro al microscopio e non sollevò

nemmeno la testa. «Non ho niente da dirle, signor Drobisch. Le ho già det-to tutto quello che so.»

«Non c'è bisogno che mi dica tutto, dottoressa Yonamura.» «Signorina Erickson?» la Yonamura buttò indietro i capelli. «Non penso

che venire qui sia una buona idea.» «Siamo controllati?» «Controllati? Ah, allude a un microfono. No, non penso, l'ho già trova-

to.» Evitava lo sguardo di Ginnie come la prima volta che si erano viste.

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«Non ho davvero niente da dirle sul suo robot.» «Volevo parlarle di un paio di cosette. Sono curiosa di sapere se ho capi-

to davvero. Se è così, non si preoccupi, non ha niente da temere da me.» La dottoressa Yonamura la guardava senza parlare. «Ho visto la tesi del dottor Herrera. Parlava di una cosa chiamata "euri-

stica indotta". Non so come lei abbia contribuito al progetto, ma voglio in-dovinare. Credo di capire che lei possa ottenere una maturazione forzata di cloni.»

«Non capisco come possa pensarlo.» «Forse è il caso che le dica che ho trovato l'anomalia nel robot. Be', ve-

ramente ho trovato la "toppa" che copriva l'anomalia nel programma.» La Yonamura incrociò le braccia e aspettò. «Penso che quando il robot è stato progettato avesse un errore di funzio-

namento che gli faceva credere di aver visto le cose più di una volta, come una specie di déjà vu elettronico. Facendogli rotolare una palla davanti po-teva pensare di averla vista due volte o, nel peggiore dei casi, poteva esse-re vittima di una ripetizione infinita in cui non vedeva altro che palle che rotolavano.»

«Immagino che possa essere così, ma non è il mio campo.» «Però il dottor Herrera conosceva i computer. E anche la percezione, e il

comportamento. Era quello che doveva conoscere per il lavoro che stavate facendo, vero? Lei faceva crescere i cloni e lui lavorava sui loro cervelli.»

«Il lavoro del dottor Herrera era segreto, e complicato. Anche se avessi il permesso di spiegarglielo, non ne sarei capace.»

«Va bene allora provo a indovinare. Herrera stava cercando di scoprire il modo di inserire comportamenti in cervelli vuoti, come per esempio cer-velli di cloni a crescita forzata. È l'unica cosa a cui posso pensare per spie-gare il fatto che Herrera sia ancora vivo. È in contatto con lui? Sa dove si trovi ora?»

La dottoressa Yonamura balzò in piedi: «Signorina Erickson! Il dottor Herrera è morto, come può dire...»

«Si calmi. Sto solo dicendo cose senza senso, che non è nemmeno il ca-so di ripetere fuori da questa stanza, però mi lasci finire. Se voi due stavate lavorando a un progetto per trasformare cloni dalla mente vergine in zombi programmati, e se lui voleva andarsene - non era d'accordo su come pen-sava che avrebbero utilizzato i suoi risultati, ma temeva che quelli della BioInnovations o i loro clienti l'avrebbero braccato se fosse scappato - quella piccola caratteristica non documentata del robot poteva tornare uti-

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le.» Ginnie si bagnò le labbra, aveva la bocca asciutta. Cercava di non pensa-

re a ciò che implicava la sua supposizione, ma ormai non poteva più evi-tarlo. Jane Yonamura aveva la faccia di chi vorrebbe fuggire.

Ginnie disse: «E qui viene il punto davvero assurdo: lei aveva sviluppato una tecnica per forzare la crescita dei cloni fino a una maturità precoce. Poi ha creato un clone di Herrera senza un cervello vero e proprio, in cui Herrera, con le sue sostanze neurochimiche, l'elettronica e quant'altro, ha inserito un programma molto semplice: "resta nella toilette finché non ti batterò sulla spalla, esci dalla toilette e passa nel corridoio, entra in una stanza, siediti su una seggiola, pigia qualche tasto a caso del computer, a-spetta". Il vero Herrera, vestito nello stesso modo, segue il clone e fa in modo di camminare nello stesso modo in cui era stato programmato il clo-ne. E qui viene il bello: lui sapeva che il robot, forse perché aveva notato come percepisse la presenza dei piccoli cloni di coniglio programmati, non considera niente di ciò che ritiene una ripetizione di qualcosa successo po-co prima. Lo elimina completamente, non lo percepisce, perché è in questo modo che era stata risolta dai programmatori la sua anomalia di déjà vu».

La dottoressa Yonamura si sedette lentamente. «L'unica cosa che deve fare è confondere il robot per un lasso di tempo

sufficiente per trafiggere il cervello praticamente vuoto del suo clone, di-struggendo incidentalmente le impronte della retina, in caso che a qualcu-no venisse in mente di controllarle. Se si toglie di mezzo abbastanza in fretta, mentre si attivano le funzioni di primo soccorso del robot, questo non avrà nemmeno il tempo di vederlo fuggire. Invece la correzione dell'a-nomalia di deja vu gli ha impedito di vederlo mentre entrava.»

«Non può provare niente di tutto questo» disse Jane con calma. «Non gli hanno assegnato il robot per proteggerlo dalla concorrenza, ve-

ro? Poteva essere utile anche per quello, ma ciò di cui volevano essere as-solutamente sicuri era che Herrera non facesse niente di strano. Il robot era lì per riferire se lo avesse fatto e per inibire qualsiasi sua iniziativa.»

«Era quello che pensavamo.» Il tono di voce della dottoressa Yonamura era uniforme.

Ginnie si sforzava per parlare a voce bassa. «L'unico vantaggio che ab-biamo è che Drobisch cerca di nascondere ogni prova che possa dimostrare che Herrera sia morto per colpa sua. Se mantiene la calma andrà tutto be-ne.»

«Il dottor Herrera era l'unico che capiva veramente le proprie teorie.

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Conto sul fatto che non mi controllino così tanto. Avevo progettato di an-darmene non appena lui avesse fatto perdere completamente le sue tracce. Non pensavamo che non avrebbero mai scoperto il trucco, speravamo solo di guadagnare tempo facendo credere che fosse stato ucciso dalla concor-renza.»

«Spero che sia così. Non voglio sapere quanto denaro ci fosse di mezzo, e non voglio nemmeno sapere quanto sarebbe disposto a pagare un gover-no per possedere questa tecnologia. Voglio sapere solo una cosa.»

«Cosa?» domandò la dottoressa Yonamura. «Le tecniche di Herrera possono essere impiegate solo su cervelli vergi-

ni? O potrebbero essere usate anche sul suo cervello, o sul mio?» La Yonamura guardò Ginnie dritta negli occhi. Non rispose. Quando Ginnie tornò George se ne era già andata. Le ci volle meno di

mezz'ora per trovare la modifica nel codice del robot, ora che sapeva cosa cercare. La cancellò semplicemente e raccolse tutta la sua roba.

«Erickson!» tuonò Drobisch precipitandosi nella stanza. «Con questa compagnia lei ha chiuso. Non avrà futuro da nessun'altra parte. La sua scheda professionale mostra inefficienze che...»

«Ha ragione signor Drobisch» disse Ginnie. Accennò al robot di vigilan-za che fissava immobile la porta, guardando l'immagine di Drobisch che si precipitava dentro, una, due, infinite volte. «Non solo non ho trovato il di-fetto nel robot di vigilanza, l'anomalia è addirittura peggiorata. È un casi-no.»

«Maledetta stupida macchina. Avevo detto loro di non...» «Ha ragione, date le circostanze è meglio che mi licenzi.» Prese la scato-

la con i suoi effetti personali e sgusciò via, sotto il suo sguardo attonito. Chissà se Drobisch sarebbe stato più interessato a nascondere qualsiasi

cosa che lo mettesse in cattiva luce di fronte ai suoi superiori o a seguirla. Era una bella scommessa.

Oregon o New Jersey? Quale avrebbe scelto Herrera?

Titolo originale: Things Not Seen Analog/Science Fiction & Fact,

September 1992

FINE