12
anno I feedback fanzine di musica indipendente 1 numero 9 GIUGNO 2O11 IN QUESTO NUMERO: Eddie Vedder . Lady Gaga . Gang Gang Dance . Vladislav Delay Quartet . Animal Collective . Matmos . The Tree Of Life issuu.com/feedbackmagazine.it

#9 Giugno 2011

Embed Size (px)

DESCRIPTION

Giugno 2011

Citation preview

Page 1: #9 Giugno 2011

anno I

feedbackfanzine di musica indipendente

1

numero 9

GIUGNO 2O11

IN QUESTO NUMERO:

Eddie Vedder . Lady Gaga . Gang Gang Dance . Vladislav Delay Quartet . Animal Collective . Matmos . The Tree Of Life

issuu.com/feedbackmagazine.it

Page 2: #9 Giugno 2011

feedback - GIUGNO 2011

BON IVER IL SOLSTIZIO D’INVERNO

ARTISTA DEL MESE

Era durante l’estate del 2007 che usciva il pri-mo lavoro di Bon Iver, For Emma, Forever Ago, completamente autoprodotto. Leggenda vuole che Justin Vernon (questo il vero nome sotto al monicker storpiato), abbandonato dai com-pagni con cui suonava e dalla propria ragazza, abbia deciso di ritirarsi come un’asceta in com-pleta solitudine tra le montagne della sua nati-va Wisconsin.

In pieno inverno e immerso nel silenzio dello chalet per quattro mesi ha scritto e registrato i pezzi che compongono il disco. Una produ-zione casalinga: chitarra acustica, riverberi e un vecchio registratore. Il disco infatti è musi-calmente scarno (non povero, ma anzi ricco di sottili dettagli), ove risplende la meravigliosa voce di Vernon, strati�cata più e più volte con-ferendo una grandiosa coralità ad ogni traccia. Flume ci accoglie in questo bosco invernale, tut-to giocato sulle cromie malinconiche della luce sulla neve e dai riverberi spettrali, come vento tra le foglie. Skinny Love ci ricorda come una �-lastrocca folk nasconda, sotto la spensieratezza, una forte amarezza: “I tell my love to wreck it all/cut all the ropes and let me fall”. For Emma e la conclusiva Re: Stacks sono pura stasi evocativa, non lontana dal Tim Buckley di Happy Sad (ri-cordate le meravigliose Love From Room 109 e Dream Letter?).

Questa inattesa e sfolgorante gemma, del tutto personale, non sfugge all’attenzione prima dei blog e poi di Pitchfork. Diventa oggetto di cul-to, osannato dalla critica e apprezzatissimo dal pubblico, tanto che la Jagjaguwar, etichetta di gente del calibro di Okkervil River e Richard Youngs (oltre che di mostri sacri del rock qua-li Dinosaur Jr. e Oneida), si è subito a�rettata a ristampare il disco e distribuirlo in America e la 4AD (inutili le presentazioni, no?!) ha fatto lo stesso in Europa.

In breve tempo Justin passa dalle mura di legno del capanno all’autostrada dei tour mondiali e alle impalcature dei festival più di spicco. Colla-bora con i Volcano Choir e i Gayngs, entrambi compagni di etichetta, e partecipa all’a�resco sonoro di Dark Was The Night (2009), imponen-te compilation, edita sempre dalla 4AD e curata

dai fratelli Dessner (The National), con l’esclusi-va �nalità di raccogliere fondi per la lotta contro l’AIDS. Figurano artisti di prim’ordine del pano-rama musicale più o meno indie, che contribu-iscono con pezzi inediti, cover e collaborazioni talvolta ardite. Brackett, WI è �rmata Bon Iver, chitarra e falsetto a dettar legge, mentre Big Red Machine lo vede, sotto vero nome, a�ancarsi a Aaron Dessner, per una traccia ricca di tensio-ne sinfonica.

Sempre nel 2009 esce l’EP Blood Bank di 4 trac-ce. Sebbene si presenti come una sorta di con-tinuazione del discorso portato avanti con For Emma Forever Ago (la title-track doveva com-parire nella scaletta dell’esordio), c’è da attesta-re un primo tentativo di evoluzione da parte del nostro. L’attenzione sembra infatti essersi ora focalizzata sulla compiutezza della forma can-zone e sulla cura del particolare, così da privi-legiare una visione d’insieme più strutturata e de�nita. Babys, pur mantenendo quasi intatta la consueta poeticità, so�re i limiti di questa pic-cola evoluzione, come se il parziale abbandono delle sonorità tipiche dell’esordio, che rendeva-no quei primi brani, così poco perfetti, meravi-

gliosi nella loro limpida inconcludenza, minas-se al fattore emotivo e a quel senso d’intimità cui ci aveva abituati. La notorietà cresce grazie all’inaspettata inclusione del bravo Woods, trat-to dall’EP, tra le canzoni del tele�lm Skins e alla meravigliosa traccia insieme a St.Vincent per l’OST di New Moon, secondo capitolo dell’epo-pea dei vampiri tinèiger.

Ma il vero cambio di rotta è la collaborazione o�erta da Kanye West per il suo ultimo disco My Beautiful Dark Twisted Fantasy, che pri-ma usa il sample di vocoder di Vernon (tratta sempre da Woods) per la sua traccia Lost in the World, poi lo invita in studio a collaborare per gran parte del disco. Fumare marijuana con Rick Ross, a quanto a�erma lo stesso Vernon su Pitchfork, oltre ad averlo sconvolto, ha aiutato a liberarlo di alcuni pesi musicali ed espressivi. Nell’omonimo disco, in uscita il giorno dopo il solstizio d’estate (spero ora abbiate capito il sottotitolo), vedremo se Bon Iver sarà riuscito a subissare il successo qualitativo del precedente lavoro e �n dove l’in�uenza subita in quest’anni si è spinta.

- mr. potato

2

Page 3: #9 Giugno 2011

feedback - GIUGNO 2011

LIVEJOHN WIESE - MATMOSBologna, 24/05/2011

XIAO HE Venezia, 31/05/2011

ANIMAL COLLECTIVEMilano, 25/05/2011

In una location inusuale, e che fa bene a rimanere tale in quanto inadatta ad ospitare così tante persone e priva di un qualsiasi sistema di areazione, come Le scu-derie, si sono esibiti, in ordine, John Wiese e Matmos.Il primo, sconosciuto ai più, è in realtà una piccola celebrità dell’underground noise americano, con all’attivo miriadi di incisioni (non come Merzbow, eh!) e collaborazioni con Wolf Eyes, Prurient e compagnia bella. Mette in scena un bel set ove la povertà della strumentazione tradisce l’imponenza sonora creata. Frattaglie e scorie noise , indistinti accartocciamenti sonori, vetri e cocci infranti assal-tano il pubblico un po’ ignaro un po’ complice. La quadrifonia (due casse audio sul palco e due alle spalle dello stesso pubblico) è una �gata e lo sono

Dopo aver passato molti dei troppi semafori di Milano, dribblando manifestini inneggianti a mi-tologiche Zingaropoli, giungiamo in�ne alle gri-gie porte dell’Alcatraz. Limpido e terso il cielo, bollente l’aria (che si aggira minacciosa intorno ai 32 gradi anche alle otto di sera), rovente l’asfal-to, squallidi i dintorni, nel preconcerto ci diamo brevemente all’osservazione dei tipi umani che a�ollano l’entrata e il marciapiede: una folla ete-rogenea che non si risolve, come troppe volte ac-cade, in un tripudio di occhiali stravaganti, barbe incolte e cardigan s�lacciati, anzi spazia dal radical chic al radical puro, passando per quelli che sono probabilmente gli abituali avventori del locale un po’ sorpresi di trovarsi d’intorno sti tipi strani. Dopo i Teengirl Fantasy(?), abbastanza insigni�-canti, nelle loro boriose fantasie elettroniche, da far salire spasmodicamente l’attesa, il rinnovato quar-tetto (che ci provoca non pochi equivoci e scambi di persona) si arrampica sul palco. In formazione “stabile” con Panda Bear a voce e batteria, il lumi-nare delle macchinette Geologist inchiodato al suo tavolo e Avey Tare & Deakin piuttosto liberi di sva-riare tra chitarre, voci e elettronica, gli Animal Col-lective hanno tanta voglia di divertirsi: che poi noi ci divertiamo, sembrano apprezzare pure quello.

Mi vien subito da pensare che il pubblico sia un po’ troppo serio e immobile, a�etto da quella sindrome di snobismo dilagante che costringe il signore ac-canto a me a retrocedere nei climax sudoriferi del concerto. Complice della seriosità del pubblico è forse la scelta dei brani, che privilegia nettamente la promozione del disco venturo e concede poco agli appetiti dei fan di lunga data. Il pubblico ci dà veramente dentro solo quando i quattro ci danno in pasto due delle hit di Merriweather Post Pavillion: Brothersport e Summertime Clothes. Allora sì che, tra

pure i tappi per le orecchie che mi son ricordato di portare. Il maledetto locale, una volta appartenuto alla signoria dei Bentivoglio, comincia a riempirsi e la temperatura dello stesso ad alzarsi.

Inizia quindi il duo californiano Matmos, conosciuti ai più per le splendide collaborazioni con Bjork, ma autori anche di opere mature e ricercate come The rose has teeth in the mouth of a beast o l’ultimo, Treasure State, insieme al collettivo So Percussion.Il tutto inizia con una lunga suite d’apertura in cui persone selezionate tra la folla vengono bendate con strani occhiali e costrette a recitare quello che ascoltano in cu�a: ipnotico ma alla lunga noioso. Iniziano poi le tracce vere e proprie, tra paperelle e

richiami per uccelli, tra materiale nuovo e vecchio repertorio (“Polychords” diverte come sempre più di tutte).

Il concerto si conclude con l’aggiunta sul palco di J.Lesser al modular system e J.Wiese alle sue valvo-le, per un �nale jam infuocato e caciarone. Purtrop-po la ricchissima e storica famiglia bolognese non ha calcolato né previsto tutto questo a�usso di per-sone. Giovanni I Bentivoglio, nonostante la grande intraprendenza politica, non ha pensato di dotare il palazzo con un sistema di areazione che permettes-se un minimo agli auditori di respirare e godersi il concerto, di per sé interessante.

- mr. potato

un saltello e un altro, sembra di essere in quei mondi pastello sbavato tutti colori e strepiti che il gruppo ci ha sempre propinato. Sorprende soprattutto, per me che nel 2008 li avevo visti in tre, la grandissima ricchezza espressiva e sonora che la “nuova” dimen-sione di quartetto ha portato: gli schizzati dialoghi chitarristici, il �uido susseguirsi di pattern ritmici, la creatività nello storpiare le linee vocali sono tut-ti elementi che si erano un po’ persi per strada da Strawberry Jam in poi, nel tentativo di costruire un canone psychedelic-pop più de�nito, e che fa piace-re ritrovare, dopo quattro anni, sul palco milanese. La vera sorpresa, comunque, è scoprire, rovistando tra i mucchi di ri�, urletti e e�ettini, quanto i quat-tro di Baltimore abbiano ancora da dire. L’impres-

sione di gruppo ormai stanco, pronto ad adagiarsi su progetti pseudoavanguardistici (leggi alla voce ODDSAC) esce polverizzata dalle mura dell’Alcatraz; i nuovi brani, forti di melodie forse più smaccata-mente pop rispetto al passato, ma più che in pas-sato conditi con quella irrefrenabile gioia di vivere che è il marchio di fabbrica dei Collective, risultano degni di �gurare tra i grandi capolavori del gruppo. Grande dunque, è l’ansia per l’uscita della prossima milestone del gruppo americano; ancora più grande però è l’irripetibile ebbrezza che si prova, dopo una serata come questa, alzando lo sguardo alle stelle che sembrano ammiccare, scoppiettare e spintonar-si, anche loro, come gli Animal Collective, ubriache corifee dell’estate.

- samgah

Grande sorpresa quella che si è presentata il 31 Maggio all’auditorium Santa Margherita di Ve-nezia. Per il ciclo di concerti Wall of sound: chine-se contemporary music ospite della serata è sta-to Xiao He. Un ometto con maglia giallo limone sale sul palco. Indossa un cappellino a cono nero che gli copre il volto �no agli occhi; Jeans bag-gies chiusi in fondo alla zuava, piedi scalzi. Il con-certo comincia e parte con arpeggi di chitarra che

man mano verranno campionati e che si sormon-teranno. Xiao He dà prova della grande capacità di oscillare tra la ritmica (la sua chitarra acustica disponeva di un pad numerico che attribuiva ad ogni corda un suono/e�etto diverso: gran casse di batteria, �schi di ampli�catore, ri� di chitarra me-tal) e l’ambient (echi lontanissimi, delay in�niti). Il terzo polo che l’artista riesce a toccare è il can-to: il canto melodico popolare cinese rivisitato

da grida sguaiate, acuti poco controllati e sus-surri messi proposti ritmicamente. Insomma, un personaggio che ha fatto vedere le tradizio-ni della melodia cinese, e l’innovazione della musica leggera contemporanea sperimentale. Un piccolo goblin del teatro contemporaneo che ride sereno e spensierato saltellando tra le distese di suoni.

- gorot

JOHN WIESE - MATMOS ANIMAL COLLECTIVE

XIAO HE

Foto

di A

less

ia M

azzu

cato

3

Page 4: #9 Giugno 2011

feedback - GIUGNO 2011

Indie-Folk/Soul/Art Pop

BON IVER Bon Iver[4AD, 2011]

Minimal-glitch

ALVA NOTO & RYUICHI SAKAMOTO Summvs[Raster Norton, 2011]

DISCO DEL MESE

Quando due artisti come Noto e Sakamoto si mettono al lavoro è perchè hanno qualcosa da comunicare. Basterebbe vedere i due curri-cula per capire che ci troviamo di fronte a due veri mostri sacri della musica, che hanno scan-dagliato qualsiasi tipo di sonorità, ma non rie-scono mai (grazie al Dio della Musica) ad esse-re ebbri di esperienze. Questa è la loro quinta collaborazione, esce per la beneamata etichet-ta di Alva Noto, la Raster Noton, e si allaccia ai suoni di quest’ultima, in particolare per quan-to riguarda il ritmo (rigorosamente in corsivo).Con questa nuova opera i due riesumano quel-lo che era la base della loro prima collaborazio-ne, ovvero costruiscono impalcature ritmiche fondamentalmente minimal su cui si innestano i suoni glitch, tanto cari al compositore tedesco. Ma nonostante questo �usso, i due riescono a dare continuità alla loro musica, a creare un’im-palcatura che l’aggrovigliarsi dei beat non rie-sce a scal�re: tanto è perfetto il connubio tra il tedesco e il nipponico. Si torna alle meraviglio-se armonie che avevano reso memorabili i pri-mi due dischi del duo, Insen del 2005 e Vrioon del 2002. L’alchimia, dopo 10 anni di collabo-razione, è perfetta, la comunicazione che si in-staura tra loro si sente ascoltando il disco, e ne è una prova esemplare la foto in cui i due, seduti accanto, lavorano con i loro MacBook con gli sguardi �ssi sullo schermo, come se non ci fosse bisogno di parole, anzi, come se le parole fosse-ro la musica che esce dalle casse condivise.

Il disco si apre con delle note di pianoforte ri-succhiate dal mare più profondo e più scuro

(Microon I), prima parte di una suite di tre pezzi dei quali l’ul-timo è un’apoteosi dove a fare da controcanto alle note di piano è un synth che sembra un pezzo di mare registrato e portato via da un’isola deserta. L’emozione arriva quasi al mas-simo in Reverso, un ticchettio di sottofondo che ci accompagna per tutta la durata, squarcia-to da rumor bianco controlla-to e da un crescendo di piano sakamotiano da sogno. Come questo ticchettio, preciso come quello di un orologio, in que-sto disco tutto è calcolato �no in fondo; ne è un esempio Na-ono, dove l’impossibilità di tro-vare un �lo del pezzo si tramuta nell’esserne avvolto e, sepolto tra i suoni, riuscire ad arrivare alla perfezione meccanicistica della parte pianistica centrale, dove il pianoforte piange sangue in un mare di �schi e droni.

Il capolavoro del disco è però il rifacimento di By This River, tratta dall’album Before And After Science di Brian Eno. Noto e Sakamoto riescono a lavorare su una delle canzoni più belle della sto-ria della musica, una delle più dolci e drammati-che, riuscendo forse a renderla ancora più eterea. È sicuramente l’apice emozionale del disco, co-stituito dalla ripetizioni delle note iniziali del

pezzo, intervallate da silenzi, leggeri �schi e battiti impalpabili. Veramente un sogno ad oc-chi aperti.

Non sappiamo cosa altro possa venir fuori da una delle collaborazioni più intelligenti degli ultimi anni, ma sappiamo che, come detto in apertura, quando queste due grandi menti si riuniscono è perchè hanno qualcosa, come in questa occasione, di meraviglioso da dirci. Gra-zie.

8

- matmo

4

Con un nome che letto alla francese pare una dichiarazione d’intenti, Bon Iver torna a far par-lare di sé con questo album multiforme e di non facile lettura.

Cosa rimane, ci si chiede nell’ascoltare il nuovo Justin Vernon, del ragazzo recluso e so�erente di For Emma, Forever Ago? La domanda è leci-ta, perché l’impressione che deriva dall’ascolto è contrastante, ma non del tutto inaspettata: le scarne basi musicali che caratterizzavano l’ac-clamato esordio vengono ora riproposte alla luce di una sensibilità tutta nuova e, se si vuole, più matura; la voce, oggetto prediletto delle ma-nipolazioni di Bon Iver, si adagia su un tappeto sonoro non proprio ridotto all’osso, smussato com’è da carezzevoli arpeggi di chitarra e di pia-no e da brevi inserti orchestrali. C’è anche spa-zio per qualche spunto elettronico, ad attestare la volontà di Vernon di sperimentare nuove so-luzioni senza ricorrere necessariamente a quelle già ampiamente collaudate �no ad ora (che sia il fantasma di Kanye West che incombe su di lui?).Non è bastato però improvvisarsi rapper in My Beautiful Dark Twisted Fantasy per dimentica-re le lande innevate del Wisconsin e le delusioni a�ettive passate (leggete l’articolo di mr.potato a proposito): in Michicant, dolce e introspet-tiva, ritroviamo il solito falsetto e quel lirismo

nei testi che ci aveva ammaliati ai tempi di For Emma; in Wash ad accoglierci e cullarci ci pen-sa ancora la bella voce di Justin, ben disposto, come in passato, a deliziarci con strati e strati di armonie vocali da capogiro.

A farci parlare di evoluzione dal punto di vista musicale, però, sono ballate come Towers, nel-la quale al cantato di Bon Iver si a�anca (udite udite) una chi-tarra e una batteria dall’ince-dere tipicamente country-folk. O la conclusiva Beth/Rest, che dopo un’inizio da power ballad si risolve in un tripudio di au-totune vocali e sintetizzatori. Trovate spiazzanti a parte il di-sco scorre piacevolmente, e tra le sonorità ben note e le allet-tanti “new entries” non man-cano momenti di alto livello: il connubio iniziale Perth/Minnesota ad esempio, nel quale Vernon accompagna le variazioni di ritmo con repentini cambi di timbro, Holocene, nobilitata dai �ati di Colin Stetson in sottofon-do, la già citata Wash.

Un disco, insomma, che ci consegna un artista maturo e sicuramente più sicuro di se stesso, con tutti i pro e i contro che questo comporta.

7

- zorba

Page 5: #9 Giugno 2011

feedback - GIUGNO 2011

RECENSIONIDance-Electro-Pop

LADY GAGA Born This Way[Universal/Interscope, 2011]

Noisy/Impro-Jazz

VLADISLAV DELAY QUARTET

Debut [Honest Jon’s, 2011]

E nella categoria peg-gior album più ascolta-to il vincitore è... Lady GaGa: Born This Way. Lo so, è un duro colpo anche per me che sono un fan sfegatato, ma purtroppo è la dura ve-rità: la regina peggior vestita del mondo ha fatto un colossale buco nell’acqua. Non nel senso che non canteremo le sue canzoncine tamarre per tutta l’estate - so che lo faremo -, ma perché la sua proverbiale ricerca sonora anziché progredire sembra tor-nata indietro. Se nel primo disco, oltre alla nota eccentricità della diva, si era visto e sentito qualcosa di strano ed interessante a livello mu-sicale, questo secondo prodotto sembra essere veramente un accozzaglia di ritornelli estivi un po’ scopiazzati. Born this Way, Judas, Americano e The Edge of Glory sembrano versioni rielabo-rate di canzoni precedenti e anche con le no-vità la newyorkese di origini italiane non si su-pera più di tanto, tranne in qualche raro caso dove le canzoni si fanno più elaborate e ri�nite (Government Hooker, Electric Chapel, Scheiße).Il furore artistico e musicale millantato dalla cantante sembra essersi già spento per far po-sto a canzoncine che di rivoluzionario hanno ben poco, a parte i video inquietanti che adesso vanno tanto di moda; cara mia, pensa meno al successo e più alla musica perchè per arrivare a scal�re Madonna di strada ce n’è ancora tanta.

5

- w

lay). Ma la cosa in cui riesce di più è mantenere sempre alto il livello delle sue releases. Ci riesce anche con questo disco che riunisce l’intelli-ghenzia più o meno evanescente europea, af-�ancato com’è da Capece, Shirley e Mika Vai-nio. Proprio da quest’ultimo possiamo partire. Le atmosfere di questo disco ricordano molto le sue mirabolanti cavalcate pansonichiane.Delay per quest’opera ha voluto che la post-produzione, salvo minimi accenni, non esi-stesse, infatti si tratta di una session fatta dai quattro e subito registrata e così consegna-ta alle stampe (Fennesz Daniell Buck vi ri-corda qualcosa?). Il risultato salta subito agli occhi: la parola d’ordine è improvvisare. La libertà dei musicisti è assoluta, ognuno può dare sfogo al suo estro. L’impalcatura di molti brani nasce dalle ceneri dal suono post-indu-strial dei Pan Sonic, Vainio dissemina i pezzi di una coltre oscura e impalpabile, la batteria segue ritmi serrati senza troppe variazioni, Ri-patti è invece il direttore d’orchestra, riempie i buchi e dà una corporeità incredibile al suono

raggiungendo i massimi livelli quando la sin-tonia con il clarinetto è a livelli altissimi (Kil-ling The Water Bed). Con Lohuos ci troviamo negli ambienti dub cari ai nostri, nel pezzo forse migliore del disco, mosso com’è da spa-smi di clarinetto, batterie svolazzanti, e quel beat unico, ripetitivo che ci accompagna per tutto il pezzo �no a scomparire nel marasma �nale. Con Santa Teresa veniamo catapulta-ti in un mondo di battiti minimal sopra�atti da un clarinetto infernale e un noise che resta sempre a bassi livelli, senza essere mai invasi-vo. Il �nale (Salt Flat) è un’elegia funebre che sembra essere sempre sul punto di esplodere senza però mai farlo, che ci prende per mano per questo oscuro rito di iniziazione a cui non è possibile rinunciare e ci dice che ci porterà lei stessa alla vera esplosione, basta avere �ducia. Gli oscuri geni al lavoro hanno fatto centro; fa-tevi un giro in questo parco oscuro e vedrete che non ne uscirete più.

7/8

- matmo

Sasu Ripatti è uno che di progetti ne ha a biz-ze�e, con il suo nome d’arte più famoso (Vla-dislav Delay), in ve-sti minimal (Luomo) e con collaborazioni durature (Moritz Von Oswald Trio, AGF/De-

Songwriter

EDDIE VEDDER Ukulele Songs[Universal, 2011]

Into The Wild lo ha consacrato e un ukulele lo distruggerà. La voce dei Pearl Jam ha scelto la famosa “chitarrina” hawaiana, una sua vecchia

La prima cosa che mi viene da dire è: �nal-mente qualcuno che ha il coraggio di non cantare! La secon-da rimane invece a mezz’aria, ammuto-lita dalla sbalorditiva introduzione space-

Folk/Rock

I TRENI ALL’ALBA 2011 A.D.[INRI, 2011]

Raga-Rock

CHRIS FORSYTH Paranoid Cat[Family Vineyard, 2011]

Certo non cambierà il mondo, questo disch-etto qui. Non ho molte ragioni per ascoltarlo, eppure lo metto su spesso. Quattro trac-ce tutte strumentali, dominate dai timbri squillanti di una chi-tarra elettrica a metà tra le fricchettonate raga e un minimalismo da quattro soldi - e dunque di quelli caciaroni e pieni di vita, moderata-mente ipnotico e in fondo scipito e indolore. Chris è un musicista proli�co, e nemmeno ho voglia di contare i dischi che ha fatto (toh, ve lo dico: è il terzo solista). Di sicuro è membro fondatore dei Peeesseye, oscura e proli�cis-sima formazione psych-drone-folk, di sicuro ha collaborato coi Talibam! e di sicuro ha gi-rato con quel rintronato di Tetuzi Akiyama.Rispetto a tali esperienze il disco in questione è facile facile, saldo nelle sue movenze midwest, col basso che serra gli arpeggi della chitarra e la batteria che rintuzza le velleità del synth con colpi precisi. La prima omonima traccia dura ventun minuti sporchi e sudati, una jam in maggiore frammentata in tre parti. La chi-tarra vibra e reitera, e sembra quasi una cover di John Fahey (o del compianto Jack Rose...) suonata dai Television - anche perché basso e batteria non fanno che adeguarsi all’andazzo. A un certo punto una tromba sconquassa il garbato incedere dell’orchestrina, e il fantasma di Sterling Morrison fa deragliare la jam in una pozza blu. New Pharmacist Boogie a�onda nelle stesse paludi, Front Street Drone o�re un po’ di quiete e la �nale Anniversary Day resus-cita il Jim O’Rourke di dieci anni fa e Papa M.Non sorprende e nemmeno diverte, ma a me va più che bene così.

6/7

- bobi raspati

que minuti si trascinano così lentamente che verrebbe voglia di dargli una spinta. Vedder si rende benissimo conto che, per quanto lui possa amarlo, un ukulele non è uno strumen-to in grado di sostenere interamente un disco. Non che mi aspettassi qualcosa di incredibil-mente intenso ma in questo caso non c’è pro-prio niente a cui prestare attenzione. L’intero disco trascorre senza nessun momento degno di particolare rilievo, a eccezione forse del duet-to con Cat Power. Anche quest’ultimo, Tonight you belong to me non è niente di eccezionale ma la voce femminile riesce a spezzare l’asso-luta monotonia. Brani come Longing to belong o More than you know, che in un altro contesto avrebbero molta presa sugli amanti delle tinte pastello, passano inosservati nel susseguirsi di queste sedici “lullabies” trasognate e sostan-zialmente insigni�canti.

Tutti hanno deciso di adottare la linea dell’indulgenza. Avrà raggiunto un livel-lo tale da potersi togliere qualche s�zio? Noi lo aspettiamo, pronti a battere le mani quando tornerà a fare sul serio.

4/5

- comyn

folk dell’album: un misto di stupore e sorpre-sa per un genere non ben de�nibile, a cavallo tra folk, rock e psichedelia con un retrogusto quasi progressive. Un sovrapporsi di chitarre elettriche e acustiche, rimbombate da piano/tastiera e colpi sordi di rullante, questi sono gli ingredienti di 2011 A.D., un bel colpo per la ne-onata etichetta torinese gestita da Dade, bassi-sta dei Linea 77. Il disco procede però su una linea leggermente diversa dall’introduzione: segue un andamento a tratti etereo e ad altri enfatico, compatibilmente con le intenzioni di voler raccontare una ”apocalisse della quoti-dianità”, che a volte si adagia tuttavia su passi poco pro�cui o perlomeno di non facile ascolto. Si passa da brani calmi e sognatori che sci-volano quasi nel pop a veri e propri as-salti sonori a base di chitarre ritmiche. Funzionano bene le sonorità propriamente folk de Il demone e L’arte della guerra, ma soprattut-to quelle più cupe di L’apocalisse e Tempi moder-ni?, acme sonoro del disco. Il meglio arriva però con gli accenni più rock‘n’roll di Distrettotredici e Streghe (con vere e proprie punte di jazz): forse è solo la mia inguaribile sete di distorsione, o in re-altà l’assenza di canto appiattisce un po’ troppo l’ascolto, che scorre placidamente �no alla �ne

passione, per questo breve lavoro solista. Il risultato, dopo i fasti della colonna sonora del �lm di Sean Penn, è riuscito a deludere con uniformità sor-prendente critica e fan. Questi trentacin-

5

Page 6: #9 Giugno 2011

feedback - GIUGNO 2011

Electro-Pop/Nostalgia per il passato

GANG GANG DANCE Eye Contact[4AD, 2011]

senza intoppi né particolari momenti di spicco. Resta comunque un bel viaggio mentale ver-so la �ne del mondo, ogni giorno a portata di orecchio.

7

-fp

Synth-World

MIST House[Spectrum Spools, 2011]

La moda inesorabile dei progetti paralle-li è un’arma a doppio taglio per la musica moderna, e se in cer-ti casi fa rimpiangere il motto “l’ unione fa la forza” in altri rive-la quali sono le vere menti musicali di un gruppo. Sam Goldberg (Radio People, etc) e John Elliott (Emeralds, Outer Space, etc) sono entrambi molto esper-ti da questo punto di vista; il loro progetto nato due anni fa nella loro Cleveland proce-de verso cime sempre più alte con questo che è il terzo prodotto ed anche il più solido. Dove e quando i due musicisti trovino il tempo di dedicarsi al loro percorso elettronico alterna-tivo non è dato sapere, ma sicuramente la loro o�cina di idee deve essere sempre a lavoro. 53 minuti, questi, divisi in 6 tracce tutte contrad-distinte da ritmi sferzanti, progressioni e sventa-gliate sonore. Grande il lavoro dei synth, attenti a non rendere mai violento l’ascolto ma anzi ca-paci di elevarlo ad una delicatezza e morbosità che alle volte stanca l’orecchio; i 13 minuti di en-trambe le tracce �nali risultano un po’ pesanti e soporiferi e qualche beat in più per risvegliare l’orecchio non sarebbe stato male visto che l’in-tero disco è abbastanza faticoso da sopportare. Lungo e ri�essivo è il percorso, impervia è la vetta, ma arrivati in cima godrete di un ottima vista.

6/7

-w

Sarò sincero e schiet-to: i Gang Gang Dan-ce in Italia non se li era mai cagati nessuno, �no ad ora, dimostran-do il pesante handi-cap tutto nostrano (non solo della critica, ma anche del pub-blico) dell’arrivare sempre e comunque in ritardo. Capita talvolta di arrivare pure fuo-ri tempo massimo, perché quest’ultima fati-ca del gruppo è proprio brutta. E intanto la stampa specializzata del bel paese è tutta lì ad elogiarla, spinta e succube di Pitchfork. Eye Contact sposta l’ago della bilancia rovino-samente verso l’electro pop più kitsch e becero. L’intro è a�data alla lunga suite di Glass Jar, già ascoltabile da tempo in streaming come preview. Unica traccia bella, anzi bellissima, in cui possiamo ritrovare tutti i punti cardine dei precedenti lavori: i tappeti di synth gras-si e granulosi che si trasformano in melodie killer, il cantato sincopato della frontwoman Lizzi Bougatsos, le chitarre liquide e i triba-lismi. Rimane un capolavoro Glass Jar, così paradossalmente fuori luogo rispetto al re-sto del disco, ma rende evidente che è stata composta prima del cambio di rotta (e prima

dell’abbandono del batterista Tim DeWitt, so-stituito da Jesse Lee, più pestone nei ritmi).Adult Goth è portata avanti da synth sporchi alla Cold Cave: sempre pop, non più punk, ma più Bollywood. Segue Chinese High, altra trac-cia imbarazzante, piatta e vergognosa con quei suonini dreamy anni 80. Ci pensa Mindkilla ad alzare di poco la qualità, ai minimi storici, pre-sentando qualche soluzione interessante. La voce viene progressivamente distorta e la me-lodia si imbastardisce poco dopo per poi mu-tare più volte in maniera alquanto bizzarra. In Romance Layer il frontman degli Hot Chip, Alexis Taylor, si mette d’impegno per rincarare la già cospicua dose di cattivo gusto eighties: com-pito non facile, congratulazioni. Sembra d’esse-re in Egitto in Thru and Thru, purtroppo quello formato cartolina per turista di plastica. Troppo irrigidita e scandita in un’impalcatura smaccata-mente pop. Certo, anche House Jam del prece-dente album era smaccatamente pop, ma riusci-va a uscirne, mentre qui si è proprio ingabbiati.I Gang Gang Dance son morti, viva i Gang Gang Dance.

4

- mr. potato

Blues/World Ethnic Music

TAMIKREST Toumastin[Glitterhouse Records, 2011]

Sulla fortunata scia dei colleghi Tinariwen, connazionali del Mali, gli otto musicisti Tua-reg capitanati dal chi-tarrista e compositore Ousmane Ag Mossa registrano Toumastin, il loro secondo lavoro con la casa discogra�ca tedesca Glitterhouse. Un blues scarno, deserti�cato e trasportato dal vento si mischia a elementi di musica etnica tradizionale berbera, all’interno di un progetto di ria�ermazione e promozione della propria identità culturale a rischio d’estinzione (sulla validità di questa a�ermazione lascio discute-re i miei colleghi antropologi). Chitarre elettri-che in progressione lenta e inesorabile, degne della perforabilità di Santana, si uniscono ad una solida base ritmica di basso, percussio-ni e battiti di mani, il tutto impreziosito da splendidi ritornelli corali maschili e femminili. Pur non discostandosi molto dal primo album Adagh, uscito l’anno precedente, il gruppo si ri-presenta con delle sonorità più stabili e piene, pago dell’esperienza acquisita durante un lun-go tour europeo. Al di là del richiamo esotico, le musiche si lasciano ascoltare volentieri e tra-smettono una sensazione di rilassatezza senza tempo. Si oscilla così, in balìa di arrangiamenti sospesi, tra gli accompagnamenti blues-rock di Fassous Tarahnet e Ayitma MaDJam e i misti-ci cori folkloristici di Aratan N Tinariwen o Tidit.Ultima nota positiva: la fuggevole viola dell’eso-terica Dihad Tedoun Itran, carezzevole e river-berante allontanamento da un’atmosfera che tanto i curiosi quanto gli amanti del genere sa-pranno indubbiamente apprezzare.

7

- fp

C’è un albero che a�onda le radici in Luisiana, Mississippi e Chicago, con un ramo a Oakland, in California, e un nuovo �ore sul ramo. L’albe-ro è la sweet soul music e il ramo Raphael Sa-

gelo e Black Thought. Il �ore è Sto-ne Rollin’, quarto album solista dal 2003.Come per il primo Instant Vintage, anche qui il titolo è perfetto: Saadiq rotola come una pietra e ricorda che Bob Dylan e Keith Richard han-no succhiato la linfa dello stesso albero. Questa volta andiamo indietro al rock ‘n’ roll di Buddy Holly, alle Rickenbacker e agli ampli�catori val-volari dei Beatles, senza aver mai lasciato il soul �rmato Motown. Ce n’è per tutti i gusti. Heart At-tack apre l’album neanche fosse Black Dog can-tato con la gioia di Sly Stone. Radio è un perfet-to r’n’r, vintage anche nel titolo e candidata alla pop chart. Il brano Stone Rollin’ è dirty south, e ditemi se non è sorprendente avere tante cita-zioni in così pochi byte. Per i fan del più tradizio-nale Saadiq, provare il thumping bass di Movin’ down the line e il thumping soul di Just Don’t. Stone Rollin’ è un album da almeno quattro mi-crofoni, di un quarantacinquenne esperto che arrangia strumenti elettrici e archi come non è più dato sentire dagli anni settanta. Ai giovani che chiedono The answer (quelli ritratti in coper-tina) Saadiq ricorda di prestare ascolto a “ogni uomo, ogni donna, ogni insegnante, ogni predi-catore”. Aggiungiamo: ascolta Raphael Saadiq, scopri da dove viene la tua musica.

8

- ghostwriter

In parecchi oramai aspettavano a gran-de gloria il secondo disco dei Battles che da 4 anni non si ripre-sentavano sulla scena, da quel Mirrored che aveva colto un po’ tut-ti di sorpresa sia per la

Experimental Math-Rock

BATTLES Gloss Drop[Warp, 2011]

grande energia che riusciva a trasmettere, sia per l’enorme quantitativo sonoro che andava non soltanto ascoltato ma anche e soprattutto capito. Nel 2010 la notizia dell’abbandono da parte di Tyondai Braxton (progetti solisti) ave-va allarmato i molti fans che lo consideravano la spina dorsale del gruppo e convinto tanti a fare dei Battles un gruppo morto. Giammai! Il 6 giugno è uscito Gloss Drop, ovvero la confer-ma che la band newyorkese sta benissimo ed insieme a qualche amico (tante le collaborazio-ni) ha fatto di nuovo un buon lavoro. Il disco, quasi interamente strumentale, è una evoluzio-ne naturale del precedente, perchè se in Mir-rored la presenza di Braxton scandiva tempi e suoni al servizio del suo vocoder, in questo la sua assenza unisce ancora di più il gruppo, che sembra suonare per puro divertimento. Diciamo più frivolo o semplicemente meno im-pegnato, ma comunque più allegro e melodico, con meno strumenti elettronici e più tecnica musicale, anche se mancano le hit come Atlas. In qualche punto i tre sembrano un po’ perdersi per strada e in generale lo spessore dell’album è di molto inferiore al precedente, ma per una “prima” volta può andare. La partenza del poli-strumentista sembra aver liberato la band, che adesso è libera di percorrere nuove strade che non sembrano così diverse da quelle vecchie; ad essere diverso è il modo di percorrerle.

6/7

- w

Ghospadelic

RAPHAEL SAADIQ Stone Rollin’[Columbia/Sony Music, 2011]

adiq. A diciott’anni al seguito di Prince e Sheila E., poi nel new jack swing con Tony! Toni! Toné!, passato al nuovo millennio con Ali Shaheed Muham-mad e Hi-Tek, autore di nu soul con D’An-

6

Page 7: #9 Giugno 2011

feedback - GIUGNO 2011

Hard Bop!

DEXTER GORDON Go![Blue Note, 1962]

ROVISTANDO IN SOFFITTA

Rock

FRANK ZAPPA Freak Out![Verve, 1966]

Psych-Pop

EVANGELICALS The Evening Descends[Dead Oceans, 2008]

L’estate avanza e quando si parla di jazz questo signi�ca una sola cosa: smet-tere i panni invernali e cool, nonché le ri-schiose immersioni nel free e nel modal, e vestire quelli forse più

É estate ma non ve ne importa niente, voi odiate l’estate. É giu-gno, la ragazza v’ha mollato e l’idea di an-dare al mare manco vi passa per la capoccia. Siete in macchina di-retti in u�cio, la cami-

Ascoltare il secondo disco di Freak Out! è perdere la ragione; farlo di fronte alla società del dogma e del pensiero immo-bile, del preconcetto e della regola come camicia di forza.

confortevoli del bebop e del suo �glio ma-turo, l’hard bop. Tuttavia, non è sempre facile districarsi tra la selva di ottimi musicisti che popolarono quegli anni. L’ascoltatore incauto che non volesse smarrire se stesso tra incon-cludenti Greatest Hits di Charlie Parker e im-proponibili alt-take di Sonny Rollins può con-tare però su un discreto numero di ancore di salvezza, veri e propri punti fermi del genere. Una di queste è senza dubbio Go! di Dexter Gordon. Questo tenorsassofonista california-no è spesso ricordato per esser riuscito forse per primo ad adattare con perizia gli stilemi bebop (nati su sax contralto) sul suo strumen-to: non cosa da poco, insomma. L’inconteni-bile talento solistico di Dexter d’altra parte non tarda a mostrarsi: nel ‘45 suona già con Parker e il suo caratteristico timbro - caldo, pieno, simile a quello che diverrà il suono del soprano di Coltrane - è già completamente sviluppato. Tuttavia, il vero e proprio salto di qualità per Gordon avviene solo nel ‘61, col passaggio alla Blue Note, e ancor di più con la pubblicazione di Go!, l’anno successivo. In compagnia di Sonny Clark al piano, Butch Warren al basso e Billy Higgins alla batteria, il vulcanico Long Tall Dexter (così detto per la sua spaventosa altezza di 198 cm) si cimen-ta soprattutto con standards che ripesca da-gli anni ‘40 e ‘50, nel tentativo di infondergli il so�o vitale del bop. Un critico, in occasione di Daddy Plays the Horn, nel ‘55, aveva par-lato eufemisticamente di un disco “non mol-to originale, ma non privo di swing”; il nostro non fa che portare alle estreme conseguenze questo suo eccezionale talento, tanto che di originalità non c’è più bisogno. Il disco altro non è che un susseguirsi di assoli uno più bello dell’altro, e altro non serve: bastano la trasparenza sanguigna e metallica del suo-no del tenore, forse il più bello in assoluto del jazz, o un pezzo come Cheese Cake, l’uni-co autografo, che, malgrado aver trovato un tema indimenticabile, non lo esibisce oltre il dovuto e procede anzi smitragliando più del solito sull’ascoltatore quella serpentina di note tipica del fraseggio impazzito di Gor-don. Neppure si può dire che il disco manchi di originalità: la Love For Sale iperincalzante e la schizzatissima Second Balcony Jump collo-cate a metà dell’opera suonano di monito a chi rimproverava al sassofonista la pedisse-qua imitazione di canoni consolidati. Non che lui se ne sia mai curato molto, intendiamoci: i suoi dischi, Go! compreso, sono votati prima di tutto al divertimento, al piacere di suonare e di ascoltare, e proprio per questo possono essere apprezzati anche da chi di jazz non ha mai nemmeno sentito parlare. È, come suc-cede spesso, questo scon�nato amore per la

In una realtà in cui le logiche antiumanistiche (e quindi anti-artistiche) del moderno capi-talismo so�ocano l’individuo e la sua voglia di conoscenza, l’unica via d’uscita sembra essere la battaglia al buon senso, al meto-do e alla razionalizzazione. Se l’artista del novecento non riesce a vedere al di là della frammentazione che lo circonda, tale im-possibilità di cogliere un quadro unitario è, per il nuovo artista, dovuto alla negazione dello stesso. Il senso di non appartenenza a una realtà caduca si trasforma, allora, nel-la consapevolezza dell’impossibilità di rag-giungere un fantomatico ordine superiore, la paranoia diventa schizofrenia. Freak Out! strizzando l’occhio alla corrente antimoder-nista per eccellenza, il dadaismo, diventa l’archetipo dell’opera d’arte post-moderna. All’idea di opera d’arte come opera �nita si sostituisce l’idea di un’opera d’arte come partecipazione, performance. Il risultato di Zappa non è quello di un prodotto statico nella sua compiutezza, bensì un collage di suoni e rumori, un montaggio caotico di im-pressioni istantanee che prendono campo si-multaneamente e che forniscono l’immagine di uno spazio in disgregazione. Si prenda il primo pezzo dell’album: Help I’m A Rock è la risultante sghemba di componenti in�nite-sime e vettorialmente opposte l’una rispetto l’altra: il motivo orientaleggiante che apre il primo movimento si confonde tra il ciangot-tare grottesco di vocalizzi gutturali, ed è un �usso incessante che non conduce a niente se non ad improvvisi spasmi fatti di orgasmi femminili e strepitii selvaggi. Tutt’a un tratto i disordini sembrano placarsi, ma la sperata quiete è rotta in partenza dalle turbe psichi-che di Zappa che ora prendono voce: It Can’t Happen Here non è altro che il solito dileggio verso tutte quelle false-verità che il cittadino americano medio si beve ogni giorno. Poi la batteria e il fragore delle urla riprendono il loro corso. È il ritorno, The Return Of The Son Of Monster Magnet, la danza più allucinata dell’intero album, e uno dei componimenti più insani che chi scrive abbia mai ascoltato. Il caos è totalizzante: ritornano i versi laceran-ti degli uccelli notturni, gli schiamazzi incon-trollati, i mugolii femminili, i mono-dialoghi senza senso (America is wonderful. Wonder-ful wonderful wonderful wonderful wondr-ful wonderful wonderful…); gli strumenti musicali impazziscono, il piano suona note

cia si incolla al sedile e voi sognate di essere nel mezzo della neve, in silenzio. A scuola ave-te fatto ridere per un anno intero, e ora vi toc-ca pagare. Il contratto scade tra tre mesi ap-pena: a voi andare al mare piacerebbe pure, ma assieme vorreste fosse ancora novembre e avere ancora tempo davanti. Ebbene, di qualsiasi natura sia la vostra metereopatia la so�tta di Feedback ha una proposta sonora in grado di congelare questo giugno afoso e piovoso: il secondo disco degli Evangelicals, quartetto di Oklahoma City sottovalutato e scostante, vi riporterà dritti ai primi giorni di dicembre, o giù di lì. Uscito nel gennaio 2008, in pochi si erano accorti del talento di que-sti ragazzi. Il disco precedente, intitolato So Gone, vomitava addosso all’ascoltatore una sequela di sputazzi melodici senza capo nè coda. Gli elementi erano gli stessi di questa luminosa raccolta: canzoncine anni ‘60 stra-volte da arrangiamenti massimalisti ed ec-centrici, come i Pizzicato Five in rotta di col-lisione coi primissimi Pink Floyd, distorsioni esagerate e strati�cazioni di cori a sovrastare la voce efebica di Josh Jones, proteso in un registro tra Gordon Gano e Frank Black. Mancava però un collante poetico che riu-scisse a dare corpo all’opera e a non stancare l’ascoltatore. Il colpo di genio arriva con The Evening Descends, disco tutto avviluppato su un immaginario da �lmetto horror e su una rappresentazione delirante dell’inverno. Midnight Vignette sembrano i Belle and Se-bastian folgorati vivi. Skeleton Man è una ridi-cola progressione su amore e morte, condita da risate demoniache, a�ato epico e ri� di-storti. Party Crashin’ è un dialogo tra uno sbir-ro e un ragazzo schiantato in macchina, men-tre un arpeggio acustico viene strapazzato da un marasma sonoro indecifrabile. Paperback Suicide simula uno xilofono e si chiude con un coro gospel, dopo aver passato una miriade di stili di�erenti. Here in the Deadlights, capo-lavoro di approssimazione e coraggio, è una ballata ipermelodica buttata al vento. Come degli Holy Modal Rounders in botta di mo-dernariato, Bloodstream chiude il disco con le vertigini. Fuori fa caldo, ma sotto le cu�e si respira ancora.

- bobi raspati

musica che li rende così caldi e emozionanti e che li fa colonna sonora perfetta per un ro-vente inizio di estate a suon di swing.

- samgah

stonate, i piatti producono in un fragore in-distinto, il tempo scandito dalle percussioni non risponde a nessuno standard, e tutto è in sincronia perfetta col ritmo del lunatico diret-tore d’orchestra. Poi, di colpo, nient’altro.

- visjo

7

Page 8: #9 Giugno 2011

feedback - GIUGNO 2011

LO SPETTRO DELLA VOCE CON LE DITA

INTERVISTA AD ANNE-JAMES CHATON

DEEP INSIDE

Anne-James Chaton è un artista francese nato a Besançon nel 1971. Il suo ultimo Evènèments 09 è uscito pochi mesi fa ed è stato recensito nel numero 7 di Feedback (Aprile). Grazie alla sua grandissima disponibilità lo abbiamo contatta-to per un’intervista esclusiva.

Ciao Anne-James, vorrei partire dagli inizi. La tua è una musica molto concettuale e non di immediata fruibilità, merita un ascolto ap-profondito. Per arrivare a questo livello, qua-li sono state le tappe fondamentali della tua vita musicale?

In realtà sono partito più dalle scritture e dai suoni della lingua, la mia e quella di altri. Mi sono subito interrogato sul signi�cato di questi testi quotidiani, che accompagnano ogni nostra gesto, non appena varchiamo la soglia della no-stra porta. La mia ricerca è stata guidata dalla stessa preoccupazione per la concretezza. Ho preferito un apparecchio di registrazione ‘Low �’, corrispondente alla ‘letteratura povera’ che ho accumulato tramite molti testi. Ho usato un piccolo registratore AIWA di pessima qualità e un registratore MD, che, comprimendo il suono, ha fatto il resto: la saturazione del suo linguag-gio è causato da fonemi dentali, come P, B, T. Io non sono un musicista, ma uso gli strumenti di composizione musicale per entrare nel suono. Con il lavoro di ripetizione dei titoli dei giornali, è come se avessi recepito il ‘cut up’ nel mondo del ‘campione’. Penso che la stranezza della mu-sica che ne risulta è una parte di questo movi-mento: la scrittura letteraria di un materiale so-noro.

Penso che la tua musica si possa dividere in due parti a sé stanti, ma indissolubili, ovvero un 50% di poesia e un 50% di musica. Anche riguardo alla poesia, vorrei che ci raccontassi il tuo cammino culturale.

Sì distinti e inseparabili! Solo l’orecchio che ascolta ha la possibilità di dissociare o fondere le componenti del pezzo musicale. Questo è uno dei motivi per cui adotto un modo di let-tura molto monotono, in modo che la lettura del testo, che è molto secco, può dopo un tem-po essere visto come una linea di suono, una linea di basso, e quindi possa essere reso pos-sibile un divenire del suono totale. Ma le paro-le, il linguaggio, sono anche alte frequenze! La “s”, sssssssssss!, Può improvvisamente diventa-re stridente e risvegliare l’orecchio a seconda dell’utilizzo che se ne fa nel testo. Avrai quindi

immediatamente fatto il collegamento con le correnti della poesia come futurismo russo e il dadaismo che ha esplorato queste testo-sono-rità. Il resto è in parte il risultato dell’uso di una tecnologia di scrittura che allontana il mio lavo-ro dalla cosiddetta poesia dell’oralità.

Passiamo ora a parlare del disco. Innanzitut-to è uscito per la Raster Noton, etichetta di Alva Noto con il quale hai già collaborato in passato. Un’altra tua importante collabora-zione è stata con Andy Moor (chitarrista dei The Ex). Com’è stato lavorare con questi mu-sicisti?

Io preferisco collaborazioni a lungo termine. Forse perché sono lento! Ho bisogno di entrare pienamente nel mondo di un artista per lavo-rare con lui, per parlare con lui, e per,a poco a poco, costruire un oggetto che sia di entrambi. Quello che lega Carsten Nicolai aka Alva Noto e Andy Moor, della band The Ex, è lo stesso modo di lavorare pur provenendo questi musi-cisti da mondi molto diversi: quando abbiamo un materiale in comune, ci rapportiamo avanti ed indietro, tramite proposte e contro-propo-ste. In questo modo le diverse parti si creano in maniera progressiva. E in entrambi i casi, pro-prio perchè non lavoro come un musicista, pro-prio per questo motivo le nostre collaborazioni sono riuscite. È come uno scrittore che cerca il suo senso letterale, quello più profondo, come se lavorassi lo spettro del suono della mia voce con le dita! È un poeta sonoro che produce suo-ni con la sua scrittura, producendo “e�etti so-nori”, perché gli e�etti speciali sono generati da macchinette e manipolazione a volte rischiose, che minano la naturalità del suono.

I “testi” delle tue canzoni a�rontano temi popolari, come l’investitura di Barack Oba-ma, la morte di Micheal Jackson (The King Of Pop Is Dead), la morte della coreografa Pina Bausch, il tutto accompagnato da letture di biglietti dell’autobus, scritte sulle sigarette, scontrini ecc. Da dove nasce questa poetica?

Questa poetica viene da un appiattimento del signi�icato delle parole ‘leggere’ e ‘scrivere’ e di un azzeramento, una sorta di reset della mia biblioteca. Immagina un uomo o una donna in metropolitana che leggono, spesso vedo per-sone che camminano per strada e che leggo-no Virgilio, Dante, Zola, Joyce, Beckett, Perec. Guardo la persona che legge, e tutto intorno a lei, leggo la scritta di un negozio “Le Lann - ma-

cellazione di cavallo”, un logo su un camion che passa in secondo piano “Schenker-GIOIELLO - DB Logistics” Il titolo del giornale o una rivi-sta che sfoglia un passante. Credo che la mia poesia nasca dall’incontro inatteso e talvolta sconcertante tra questi strati di scrittura. In un confronto tra quelli che si possono de�nire “no-bili” in opposizioni a tutti gli altri che però sono quelli che abitano le nostre vite. Nel caso dei Evenements09, due linee si sovrappongono e si scontrano, una che racconta della storia del mondo e quella che parla del qui e dell’ora.

Il tuo disco si può dividere in due parti. La prima parte con le tracce vere e proprie e la seconda con le basi delle tue canzoni. Come mai questa scelta stilistica?

La prima parte consiste di nove racconti bre-vi. E ‘anche il motivo per cui sono nel titolo dei pezzi. L’ Investiture de Barack Obama è venuta fuori in una giornata particolare e quel giorno è un po’ �ssato da tutti i documenti sui quali il testo continua a tornare, come la stessa data, gli stessi orari, e gli stessi luoghi speci�ci. Ho scelto di pubblicare i campioni da cui ho fatto queste ‘storie’ per permettere all’ascoltatore di dire qualcosa d’altro, altre storie se l’umore lo porterà a lavorare sui loop. Questa è ancora una volta la possibilità di “divenire solo audio”, che ha l’e�etto di delocalizzazione e di narrazione astratta. Dopo l’ascolto prolungato di ‘Pop è morto’, questa è un’altra storia che inizia, quella di un possibile ‘poppies day’ (giorno dei papave-ri) o il risveglio improvviso di Poppys!

Per chiudere, una curiosità: cosa ascolta An-ne-James Chaton?

Radio e playlist su internet! Trovo fantastici questi incontri musicali e il suono che creano i musicisti e gli amanti della musica. L’orecchio è sollecitato in maniera dolce e sono colpito perché percepiamo allo stesso tempo, l’entu-siasmo di Dj, scopriamo sempre sempre più i gruppi emergenti e gli esperimenti, le connes-sioni inaspettate, passaggi assurdi , connessioni sconcertanti.

(intervista a cura di matmo)

8

Page 9: #9 Giugno 2011

feedback - GIUGNO 2011

9

I Bachi da pietra sono in due. Colpi e trame. Corde e battiti. Giovanni Succi (ex Madrigali Madri) e Bruno Dorella (OvO, Ronin, ex Wol-fango). Si sono trovati un nome da insetti, per poi scoprire che l’insetto in questione esiste veramente. E scava la roccia, incessantemen-te, come alla ricerca di qualcosa. Direi che un nome più azzeccato non poteva esistere. I No-stri Bachi percuotono le corde, che riecheggia-no roche e profonde, come le corde vocali, tra-scinate, roche, profonde, anch’esse sembrano suonate a plettro in un mal di testa nevrotico. I Bachi si insinuano, calpestano, ricercano l’es-senziale. E lo trovano attraverso colpi sordi e so�ci di batteria spolpata �no all’osso, e tuo-ni secchi di chitarra, è un blues cupo e speri-mentale, quasi meta�sico. L’ascolto è netto, spirituale, mistico, celebrale, sporco, in tensio-ne, in apnea, rivelatore, trascendente. Cadi nel torpore e poi ti risvegli, come uscire allo sco-perto dopo esserti liberato da una nebbia che ti avvolge. I ritmi sono secchi e visionari, sotterranei e male�ci, paiono scavati nel gra-nito e sanno far breccia grazie alla loro piatta e ovattata semplicità. E �nalmente un gruppo costante, che fa più o meno un disco all’an-no, e non sbaglia mai un colpo, si può sempre puntare su di loro e andare a scatola chiusa.

BACHI DA PIETRA

SCAVARE NELLA ROCCIATornare nella terra è l’esordio del 2005, regi-strato per la Wallace Records (già con Uochi Toki e Zu tra gli altri) nella cripta della chiesa di Sant’Ippolito a Nizza Monferrato, un album rallentato e nebuloso, ansioso e larvale: ascol-tare la lenta e incessante Prostituisciti per crede-re. Segue Non io nel 2007, disco crudo e secco (vedi il tono inesorabile di Casa di legno), suona come un vecchio proiettore e sullo schermo si vede un mondo oscuro e popolato da insetti malvagi e introspettivi. L’anno successivo è la volta di Tarlo terzo, forse l’opera meglio riuscita ancora ad oggi e punto di svolta nella carriera della band. Undici tracce disidratate, sottocuta-nee, tra cui spiccano in particolare il rock rallen-tato di Lina e la distorta Lui verrà, da ascoltare in un silenzio religiosamente agghiacciante. Nel 2009 i Bachi si sottopongono ad un espe-rimento estremamente interessante, ideato da Francesco Donadello dei Giardini di Mirò: un concerto al Teatro Dimora L’Arboreto nell’estate del 2009 viene registrato con la migliore tec-nologia monofonica degli anni Cinquanta, che raccoglie perfettamente la rauca e cupa evane-scenza sonora dei due musicisti. Accompagna-to da un dvd che racconta i momenti principali dell’esperienza, il vinile Insect tracks viene così distribuito l’anno seguente, e comprende un

lato A diurno senza spettatori e un lato B se-rale in presenza del pubblico, per un totale di sole (purtroppo) otto canzoni. Pochi mesi dopo esce Quarzo, album ormai completamente maturo ma di non facilissimo ascolto. Oltre a Notte delle blatte, già contenuta in Insect tracks come inedito, tra i pezzi forti si contano Bigna-mi, netta come un passaggio a livello sbarrato, Dragamine, ruvida e lugubre, e la tetra marcet-ta Niente come la pelle. Un’altra canzone, Morse, è stata invece rivisitata dai Massimo Volume nell’EP Split, uscito per la Tempesta e presenta-to nell’aprile di quest’anno durante una serata congiunta a Bologna. Oltre a un inedito a testa, i due gruppi si sono reciprocamente scambiati una canzone: i Bachi hanno interpretato Litio, brano tratto da Cattive abitudini, facendo ope-ra di riduzione sui suoni originali, e proposto Stige 11: un tumultuoso �ume che fa implode-re gli armonici della chitarra elettrica e che vale da solo (si fa per dire) il prezzo del biglietto. A modo loro, strisciando sottovento e riparandosi dai raggi solari, i Bachi da pietra sono ormai di-venuti una realtà a�ermata nella scena indipen-dente italiana, portando avanti una ricerca so-nora costante e laboriosa, specchio della ricerca di un’essenzialità a cui si vuole fare ritorno.

- fp

DIRTY THREE - OCEAN SONGS

CANZONI PER L’OCEANOLo stridio dei gabbiani e il frollare delle onde sul bagnasciuga; le folate di vento improvviso e la sabbia che si alza per andare a con�ccarsi nelle gambe come fatta di aghi appuntiti; il rimbom-bare delle onde sulla scogliera e il tu�o della luna nell’orizzonte scuro, oceanico; il rincorrersi delle creste argentee �no all’estremità dell’az-zurro; tutte cose abusate, già sentite, sfruttate �no ai limiti del ridicolo, roba tuttalpiù per poe-tucoli di quart’ordine. O no?

È vero, forse nel 1998 a parole era già stato det-to tutto; generazioni di scrittori si erano succe-dute nel lodare i misteri e le bellezze del mare. Anche l’arte musicale, tuttavia, vantava un certo curriculum in merito; �n dal ‘600 le ten-denze descrittive della musica classica avevano preso forma e si erano prima di tutto dedicate allo stesso mare, in grado più di altri soggetti di incantare (Classicismo), di provocare di volta in volta sgomento (Romanticismo), vividi e su-bitanei lampi cerebrali (Impressionismo) o, per giungere ai nostri giorni, anche solo tranquillità e asetticità (New Age). Sembrava che tutto fos-se già stato detto, insomma, e �no alla nausea; è ancora più ammirevole allora il coraggio di que-sti tre di Melbourne (cittadina della costa sud dell’Australia) che a trentacinque anni, dopo aver già a�ascinato e conquistato pubblico e critica, eppure con lo spirito di un esordiente, si armano di violino, chitarra elettrica e batteria e salpano per chissà dove. Di tutto il materiale musicale citato in precedenza recuperano solo, e solo in parte, l’impressionismo, in quanto ten-denzialmente più immediato e diretto. I rigidi schemi della tradizione classica, che neppure le correnti avanguardiste erano riuscite a rompe-re, continuano tuttavia a mal prestarsi alla volu-bilità dell’elemento marino. Occorre fare piazza pulita delle caratteristiche formali, conservare il contenuto (pittoricità, oniricità) ma inserirlo in un contesto che non è classico, non è rock, non è jazz, bensì attinge super�cialmente da tutto e risulta in un qualcosa di completamen-te diverso. Ecco allora che i Dirty Three al mo-mento di registrare Ocean Songs si annullano, si riducono a meri strumenti per la descrizione del mare; non per questo bisogna però pensare

che il prodotto �nale manchi di passione. Anzi, come se il mare stesso li possedesse e si impa-dronisse del suono dei loro strumenti (e scusa-te le reminiscenze da La Sirenetta di Disney), i tre sembrano pervasi da chissà quale entità so-vrannaturale, e si comportano da veri e propri invasati. Come il mare, elemento naturale, privo di razionalità in senso proprio ma comunque ben regolato da leggi salde, così l’ensemble si muove compatto, come se fosse un solo mem-bro, in modo ora tranquillo, ora collerico, ora in�nitamente dolce; solo raramente le linee de-gli strumenti divergono e allora anche il mare si increspa e l’ordine naturale ne risente. Inutile citare i nomi delle canzoni; Ocean Songs è un unicum concettualmente e musicalmente. Inu-tile anche profondersi nell’usare l’abusatissimo aggettivo “magico”; d’altra parte i sentimenti che il disco sprigiona sono tutti profondamen-te terreni, legati a una dimensione che è quella, schiacciante, del mare prima di tutto, ma anche

della terra e del cielo nella misura in cui essi con il mare comunicano (la sabbia, il vento, gli ani-mali, tutto è descritto con minuziosa precisio-ne). Opera terrestre, dunque, non trascendente bensì panteistica, e proprio per questo accessi-bile a tutti in quanto esseri percettivi del pro-prio legame con la terra.

Ora, so benissimo che a chi legge quanto ho scritto potrà sembrare falso, perso in inutili ra-gionamenti, propenso alle esagerazioni, tanto che sicuramente in pochi ascolteranno davve-ro Ocean Songs. Al di là dei discorsi indagatori e dell’inchiostro versato, però, basta davvero poco per apprezzarlo appieno: prendete un treno, mettete in moto la macchina, fate una passeggiata (se avete la fortuna di vivere vicino al mare), trovate una spiaggia comoda e ma-gari isolata, avviate la musica ad alto volume, volgete lo sguardo davanti a voi e ascoltate. Altro non serve.

- samgah

Dir

ty T

hre

e

Page 10: #9 Giugno 2011

feedback - GIUGNO 2011

VIAGGI EXTRASONORI

DIALOGO/RIFLESSIONI SCONNESSE

- Piaciuto il �lm?

- ‘Nammerda.

- Oddio, secondo me è bellissimo!

- No guarda, ho goduto i primi 5 minuti. L’incipit del �lm è molto bello sia visivamente che nei contenuti. L’uso della telecamera di Malick è �sico, permeando lo spazio ora nel seguire il movimento di un’altalena, ora capo-volgendosi o alzandosi verso il cielo.

- Il dialogo iniziale della madre l’ho tro-vato splendido, perchè ti fa subito entrare nell’atmosfera mistica del �lm. Il dualismo è centrale nel �lm. Le due forze archetipe, im-personi�cate nei genitori, fanno parte non solo dell’animo umano (del �glio Jack ad es-empio, dentro di sé scisso) ma anche della na-tura stessa che è ra�gurata come puro tumul-to, movimento e autocommistione. E’ sempre in lotta contro se stesso, e noi non possiamo che farne parte, in scala ridotta. La concezi-one di Malick della natura riprende molto il romanticismo: come in un quadro di Friedrich o Turner, si manifesta a noi come immensa. Il sentimento “panico”, da Pan, che suscita am-mirazione e nel contempo sgomento.

- Vero, però poi il �lm crolla e per tre volte ho pensato di andarmene...

- Intendi il capitombolo all’indietro, la creazi-one del mondo?

- Ma infatti, perchè il regista deve dirmi tutto questo?

- Beh, il titolo di per sé lo spiega: l’albero della vita è il percorso che parte dalla creazione del mondo. Da una parte la terra, che vediamo in tutta la sua potenza visiva: bellissime le im-magini delle cellule, pure quelle delle esplo-sioni e dei vapori primordiali. Dall’altra il cie-lo, lo spirituale. Tra i due, molteplici forme di consapevolezza, sia umana che angelica.

NOSTALGIA, IL DOLORE DEL RITORNO

“Eravamo una famiglia. Come ha potuto rompersi e dividersi e ora siamo uno contro l’altro, ognuno fa ombra all’altro? Come ab-biamo fatto a perdere il bene che ci era stato dato, lasciarlo scivolare via, disperdersi, dis-truggersi. Cosa ci impedisce di uscire, toccare la gloria?”

C’è una sottile linea rossa a dividerci dal senso delle cose. Sottile come il velo della morte, rossa come l’erba macchiata di sangue. Una linea che separa il soldato dall’isola di Gua-dalcanal, che lo getta nell’irresolutezza della frammentarietà e che serpeggia tra angoscia

Ho apprezzato molto lo stile “sounds and visions” di questa parte, solo musica e im-magini, niente dialoghi o didascalie. Musica meravigliosa poi, la Lacrimosa di Preisner su tutte. Una sorta di Koyaanisqatsi meno ambi-entalista e più esistenziale. Dopotutto il �lm di Malick è una preghiera.

- Ma Koyaanisqatsi è immenso perchè era stilizzato, meno retorico (anche se in alcuni punti lo era). Però cazzo, Reggio non avrebbe mai usato la computer gra�ca, non avrebbe distrutto l’atmosfera con dinosauri di plas-tica. Pure la volpe di Antichrist di Von Trier è �ntissima, ma in relazione al �lm tutto fa tre-mendamente paura, mentre qui non spiega nulla, rimane vacuo, super�ciale.

- E poi arriva la parte centrale del �lm, quella più narrativa: Malick contrap-pone all’in�nitamente grande del cosmo, l’in�nitamente piccolo di una classica famiglia americana anni 50. Essa però nasconde un altro macrocosmo, quello psicologico, della crescita sia �sica che interiore, della scoperta, del dubbio, della consapevolezza. Il regista re-gala scene di grande cinema quali la scoperta dell’altro sesso (l’abito da notte della vicina prima nascosto, poi gettato), il rapporto-scon-tro con il padre (colpiscimi!), il complesso di edipo e le continue fascinazioni naturali.

- E’ quello che fa incazzare...ci sono immagini o scene bellissime e altre banali, retoriche, da cattiva pittura. E’ un calderone esagerato, con più di 6 ore di materiale �lmato e un lavoro di post produzione masochista con mezza dozzina di montatori. E’ troppo americano, e secondo me questo è il difetto più grande di Malick e del suo cinema (non solo nella mancanza del dono della sintesi, ma proprio nell’attitudine magniloquente).

- Fatto sta che il cinema è tremendamente persuasivo, e The Tree of Life regala momenti di godimento visivo, visto al cinema diventa quasi estatico.

THE TREE OF LIFE- Che poi non è certo il primo a parlare dei massimi sistemi (l’eterno, il male, il dolore). Il non detto, cazzo!

- Beh, su questo condivido. Le didascalie sono un male.

- Ma basta dire per esempio Solaris di Tar-kovskij o il non detto/non visto in Robert Bres-son. Ma anche nello stesso Koyaanisqatsi di Reggio, presente il �nale? Quanto è toccante e pregnante il lancio al rallenty del razzo? Vi-ene seguito e �lmato nella sua caduta un pe-zzo del motore dopo un’esplosione: “voglio che tu lo veda �no alla �ne” sembra ti dica il regista, “ così forse capirai la metafora dietro”. Per questo ho odiato la parte sulla spiaggia, ed evito commenti su *braccia al cielo*: “lo dono a teee!”. So che capirai.

- Diciamo di si, anche se bisogna accettarlo, credo. Come accetto il tuo punto di vista. Dopotutto esistono molteplici universi, tanti quante sono le persone con cui ci relazioni-amo, lanciando continuamente sonde nello spazio, come messaggi in bottiglia.

- Un preludio di Bach suona ai con�ni del Sistema Solare.

- mr. potato

10

Page 11: #9 Giugno 2011

feedback - MARZO 2011

UNA CHORA ABBRACCIABILE CON LO

SGUARDO

Tree Of Life è il �lm di una vita. Il �lm non di una vita qualsiasi ma il �lm della vita, quel-la con la V maiuscola, quella attraverso il cui �uttuare noi siamo ciò che siamo, siamo dove siamo e siamo come siamo. Proprio ri-guardo questi movimenti, quello che Malick ci propone è un �usso folle di visioni, una chora di immagini, momenti di vita, even-ti naturali che si muovono dalla terra al cie-lo, dal piccolo al grande, con una focalizza-zione microscopica che poi torna ad essere una larga veduta. Non c’è niente di meglio di una bella chora abbracciabile solo con lo sguardo, con la vista, cercando di individuare le sue trame ed i suoi tranelli, stando atten-

e serenità, tenebra e chiarezza, �nzione e re-altà.

In un mondo di cui non è possibile fare alcuna rappresentazione unitaria e del quale non è possibile avere una visione complessiva, che senso ha impegnarci in un progetto globale, che riguardi il bene comune, l’altro? La via della natura è la via della sopravvivenza come vittoria sull’altro, come delimitazione di un proprio territorio all’interno del quale vigono le nostre regole e che grazie a esse possiamo controllare. Ma fuori, per quanto le regole che imponiamo possano risultare coerenti, gli e�etti delle stesse sono destinati a svanire. Ciò che non capiamo nei suoi meccanismi ci fa spavento e, in ogni caso, non ci è utile in nessun modo: lo allontaniamo quasi istinti-vamente dal nostro percorso. L’uomo che de-cide di intraprendere la via della natura non si fa troppe domande su quello che troverà al di là dei con�ni del proprio territorio: “quello è il giardino degli Spencer, è chiaro? La vedi questa linea? Non la attraversiamo, hai cap-ito?”; impara piuttosto a correre in solitaria, con i piedi per terra, e sa che se perde tempo a suonare il piano poi resterà indietro, dato che nessuno rimarrà lì ad aspettarlo.

Jack ha imparato tutto questo, e lo ha fatto dal padre. Ora ha raggiunto un obiettivo, ep-pure non sembra essere arrivato, non riposa. Non tanto per la sua nuova vita da attivo lavoratore, quanto per la quiete che non ri-esce a trovare dentro di sé. Qualcuno, anni fa, gli aveva lasciato una traccia profonda, che, insanabile, ora parla per lui: “Come ti ho per-duto? Mi sono allontanato, ti ho dimenticato”, quasi a ripetere le stesse parole del soldato Witt.

Il cinema di Malick è la nostalgia di un’unità che in piccola parte, forse, ci appartiene an-cora, è il tendere a quel pezzettino di verità che, nonostante tutto, conserviamo sempre. Ed è il ripartire da lì per una ricostruzione autentica della nostra identità, dove non ci si accontenta del frammento, ma si fatica a cercarne un altro e un altro ancora che com-baci con esso. Ma è davvero possibile che l’uomo riparta da capo, rinasca? The Tree Of Life non è solo il passaggio da una visione del mondo come chora a quella di mondo come totalmente altro, dalla poetica stanca dell’ontologia contemporanea a quella di una riscoperta epistemologia, ma soprattutto

è la risposta a�ermativa a questa domanda, quella risposta che nessuno ha voluto capire, dal momento che indica chiaramente una delle due vie possibili. Ma non ci stupiamo: la Grazia, così lontana dalle nostre logiche, che “non mira a compiacere se stessa, ma accetta di essere disprezzata, dimenticata, sgradita” ci sconvolge da sempre. Anche The Tree Of Life ci ha sconvolto, e non smetterà mai di farlo. Qualcosa continuerà a non quadrare.

- visjo

ti a non perdersi bensì a vivere le due ore e venti di �lm come un lasso di tempo di quasi-dormiveglia, quasi uno stato di allucinazio-ne, lasciandoci trascinare dalla struggente bellezza degli a�reschi malickiani, restando però sempre ancorati con la mente nel reale. Il �lm viaggia su binari che portano all’esteti-ca pura che ci rapisce, ci portano al signi�ca-to vero della parola aesthetis, alla percezione. Così vediamo scorrere sullo schermo le imma-gini di una cellula che mediante meiosi si di-vide, ingrandita in maniera spettacolare, ren-dendo labile il con�ne tra ciò che veramente stiamo vedendo ed un qualsiasi avvenimento naturale come un’eruzione vulcanica. Ecco che ci perdiamo in una foresta verde dove assistiamo ad un confronto tra due dinosauri, per poi essere portati ad uno schermo scu-ro, illuminato da un bagliore bianco e lieve, che ricorre diverse volte nella durata del �lm. In questo cammino cosmico è poi presente il salto dai tempi più antichi a quelli moderni. Bellissimo il modo in cui Malick sottolinea la di�erenza tra i tempi naturali e quelli uma-ni. Ai lunghissimi tempi della natura, come la formazione della Terra, si contrappone la nascita e la crescita dei bambini protagonisti del �lm, in una sequenza meravigliosa che in pochi minuti ci mostra la crescita di uno dei bambini, dalla culla all’infanzia, attraverso cromie e movimenti dolcissimi. Dopo la pri-ma parte incentrata sulla natura, la seconda si svolge in una classica cittadina di campagna americana con il giardino antistante ad ogni casa, a stretto contatto con la natura, quando il rapporto dell’uomo nei suoi confronti era di amore e solidarietà, dove il moderno, letto in chiave heideggeriana come perdita della sacralità nei confronti del paesaggio, non era ancora arrivato. Qui la famiglia del patriarca Brad Pitt è sottoposta ad una ferrea educazio-ne impartita dal padre, vero e proprio despo-ta dal cuore dolce che cerca di non trasmet-tere le sue paure ai tre �gli e dove la moglie è un’entità astratta, quasi una dea dei boschi visto il suo rapporto con l’ambiente, rappor-to non altrettanto idilliaco quello col marito. E poco importa se alla �ne del �lm tutto non è stato compreso, alla maniera di Bor-ges e delle pagine “della sua enciclopedia plagiaria” Malick ci consegna il suo capo-lavoro, il suo disegno di storia universale. E noi non possiamo che inchinarci.

- matmo

11

Page 12: #9 Giugno 2011

feedback - GIUGNO 2011

UN GIORNO DEL TUTTO DIFFERENTE3 Luglio @ Piazza Castello, Ferrara Verdena

Dinosaur Jr. (Performing BUG)

Jennifer Gentle

Aucan

IOSONOUNCANE

MIODI 20115 Luglio @ Magnolia, MilanoEyehategod

Russian Circles

Boris

Church of Misery

Valerian Swing ecc...

TRAFFIC FREE FESTIVAL5 Luglio @Piazza San Carlo, TorinoFrancesco de Gregori

Verdena

Edoardo Bennato

Tre Allegri Ragazzi Morti

Il Teatro degli Orrori

Le Luci della Centrale Elettrica

VILLA TEMPESTA23 Luglio @ Villa Manin, Passariano di CodroipoTre Allegri Ragazzi Morti

Le Luci della Centrale Elettrica

Massimo Volume

Uochi Toki

Zen Circus

One Dimensional Man

Articoli, recensioni e monogra�e a cura di Matteo Moca, Andrea Lulli, Riccardo Gorone, Marco Vivarelli, Michele Luccioletti, Claudio Luccioletti, Samuele Gaggioli, Angela Felicetti, Alessia Mazzucato, Jacopo Incani, Lorenzo Ma�ucci, Federico Pozzoni, Stefano Dominici.Gra�ca e impaginazione a cura di Francesco Gori.Rivista auto�nanziata, non a scopo di lucro, stampata in proprio nel Giugno 2011.Per informazioni, critiche e consigli: [email protected] Magazine è consultabile e disponibile in download gratuito all’indirizzo http://issuu.com/feedbackmagazine.it.

JORGE LUIS BORGES LONTANO DALLA VITA, LONTANO DALLA MORTE

MEET IN TOWN22-23 Luglio @ Auditorium Parco della Musica, RomaZero 7

Primal Scream

Apparat

Gold Panda

port-royal

Cocorosie

Kode 9 & Spaceape

Modeselektor

Nicolas Jaar

Fuck Buttons (DJ set)

I-DAY FESTIVAL3-4 Settembre @ Arena Parco Nord, BolognaArctic Monkeys

Kasabian

The Wombats

White Lies

The O�spring

Simple Plan

SONISPHERE FESTIVAL 2011 Autodromo Enzo e Dino Ferrari, Imola (Bo)25 Giugno:

Iron Maiden

Slipknot

Motorhead

Rob Zombie

Apocalyptica

Mastodon

Labyrinth

Papa Roach

EVENTI E CONCERTI

J. L. Borges, nato nel 1899 a Buenos Aires e morto a Ginevra nel 1986, aveva profetizzato a suo padre il suo avvenire: “Sarò scrittore”. E così e�ettivamente è stato. Ricordo che nello scrivere il breve saggio Bor-ges: tra profezia e narrazione mi sono immerso nella sua lettura per giungere ad una personale interpre-tazione del suo “pensiero”: cosa ardua nei confronti di un artista che ha lasciato incredibili capolavori alle sue spalle, come Finzioni (1944), l’Aleph (1949), Elogio dell’Ombra (1969), Nove Saggi danteschi (1982), Altre inquisizioni (1952), solo per citarne alcu-ni. Scrittore proli�co che ha fatto dell’opera d’arte un mondo distante sia dalla poetica che dall’estetica. Il libro altro non è che un oggetto, un materiale so-lido costituito prevalentemente di cellulosa; lo scrit-tore non è un demiurgo che crea qualcosa ex nihilo: la nascita di un’opera è piuttosto dettata “dal Caso o dallo Spirito”(Elogio dell’ombra); e per quanto riguar-da la poetica, beh, quella poi è cosa futile poiché in-sensata agli occhi dello scrittore argentino. Credere che da una pratica letteraria, dalla scrittura, possano nascere frutti maturi che, non solo possano essere gustati, ma che possano fare sopravvivere l’uomo, è lontana da ogni concezione borgesiana. La lettera-tura non è poetica poiché non è poiesis, produzione di qualcosa; bensì è praxis �ne a se stessa. Lo scrivere per scrivere è scopo dello scrivere. Non è autorefe-renzialità dell’opera, e nemmeno intransitività. Anzi, è l’ultimo baluardo della morale rimasta per l’artista. Lo scrivere per disseminare: i semi verranno lancia-ti sul cemento, altri sulla terra; alcuni germoglie-ranno, altri no. “Il 30, il 60, il 100”, diceva il Vangelo. E così Borges. La memoria che si conserva di uno scrittore, è la stessa che lo scrittore conserva dei suoi saperi: capire che l’oblio è l’altra faccia della stessa

medaglia rispetto al ricordo. Abele perdonerà Cai-no poiché dimentico del delitto. La dimenticanza è l’imperativo morale che sta connesso con il vivere, e dunque con la morte. Oblio/memoria; vita/mor-te. Gli opposti che camminano abbracciati senza risolversi in una mediazione, o in un terzo positivo se non nella loro continua pratica sono i protago-nisti della non-logica borgesiana. Ireneo Funes che comincia a vivere quando smette di concettualizza-re per categorie i fenomeni di ogni giorno e li vive nella loro in�nita singolarità stupendosi continua-mente; gli abitanti “tlonisti” di Uqbar che non pre-dicano verità, ma stupore; T’sui Pen che scrive il li-bro sul più grande ed incompiuto labirinto che sia mai esistito, ecc. Tutte vicende di personaggi che abitano le �nzioni per scoprire che esse sono tali: le �nzioni si manifestano nella loro evidenza dopo un lungo percorso di chi, vivendo, crede di esse-re sveglio, quando in realtà non ha fatto altro che sognare, per poi destarsi, e per poi riaddormentar-si, e così via. Risveglio, veglia-sonno, risveglio, ecc. Ecco la pratica vitale di Borges della sua scrittura: perdersi nei suoi libri-labirinto, iniziare a credere a quello che si sta leggendo, per poi sollevarsi con omerica risata dalla lampante �nzione che abbiamo abitato �no a pochi istanti precedenti. Filologie �n-tamente dettagliate, scrittori inesistenti che hanno riscritto lo stesso libro, ma “diversamente”, anche se con le stesse parole, con la stessa sintassi, con la stessa numerazione d pagine,ecc. sono le archi-tetture destinate a crollare (come la torre di Babele, medesimo luogo dell’in�nita biblioteca-labirinto in cui innumerevoli nefandezze vengono compiute per giungere ad un sapere inarrivabile) di be�arde vicende.

F. Lucentini, primo traduttore in Italia per Einaudi delle opere di Borges, non poteva sopportare il pro-prio ruolo: diceva che tradurre e interpretare uno scrittore tale avrebbe fatto perdere il piacere dell’in-terpretazione, o della lettura personale.. Il perdersi nell’interpretazione, già. Altra cosa poco cara al no-stro Borges: elucubrare sistemi di interpretazione astrusi quando gli elementi che utilizza sono dettati da vicende personali realmente accadute, o casuali. Ma poco importa! Borges non si è mai perso nella cecità, ma ha sempre voluto stupirsi continuamen-te nei meandri della letteratura. Siamo tutti poeti destinati a perderci, poiché tutti condividiamo lo stesso linguaggio. Siamo tutti abitatori di labirinti: per questo la Fondazione Cini, nell’isola San Giorgio di Venezia, ha inaugurato il 14 Giugno, una stupe-facente mostra sui progetti dei labirinti borgesiani. Per informazioni sull’evento si visiti il link: http://www.cini.it/it/event/detail/6/527.

Verrà creato un giardino dietro il chiostro in memo-ria dello scrittore per i 25 anni dalla sua morte (14 Giugno, 1986). La memoria di un personaggio che ha sempre abitato il crepuscolo tra vita e morte, tra sogno e realtà, un Prospero contemporaneo imme-more di sé, che ha lasciato una traccia in pagine di anonimi scrittori mai esistiti (forse...). L’oblio ricorda-to oggi: le cose dureranno oltre la nostra morte, nel-la memoria, e dunque oltre il nostro oblio.

Che Jorge Luis Borges non sia mai esistito?

- gorot

26 Giugno:

Linkin Park

My Chemical Romance

Sum 41

Alter Bridge

Guano Apes

The Cult

Kyuss Lives!

The Dwarves

The Damned Things

ANNA CALVI 20 Luglio @Piazza Castello, Sesto al Reghena (PN)B.B KING + JOE COCKER15 Luglio @Piazza Napoleone, LuccaBLIXA BARGELD + ALVA NOTO17 Settembre @Fondazione Arnaldo Pomodoro, MilanodEUS29 Luglio @Gruvillage Festival, TorinoDIAMANDA GALÀS 11 Settembre @Auditorium, MilanoJOANNA NEWSOM + JOSH T. PEARSON27 Luglio @Castello Estense, FerraraJOHN GRANT + COCOROSIE22 Luglio @Cortile del Castello, FerraraLOU REED8 Luglio @Arena Civica, Milano10 Luglio @Piazza Duomo, Pistoia18 Luglio @Teatro Antico, Taormina25 Luglio @Auditorium Parco della Musica, RomaLOU REED + VERDENA16 Luglio @Stadio Via del Mare, LecceONEIDA11 Agosto @Mole Vanvitelliana, Ancona12 Agosto @Hana-Bi, RavennaPJ HARVEY6 Luglio @Piazza Castello, FerraraVERDENA17 Luglio @Villa Ada, Roma20 Luglio @Rockin’ Umbria, Perugia29 Luglio @Lazio Wave, FrosinoneYANN TIERSEN 10 Luglio @Arena Cappuccini, Cesenatico11 Luglio @Villa Ada, Roma

12