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197 VII. IMOLA 1. Forum Corneli e Castrum Imolas Il problema ha origine con due passi, abbastanza famosi, uno di Paolo diacono, l’altro di Andrea Agnello. Scrive Paolo nella sua Historia Langobardorum (II, 18), a proposito delle città della decima provincia, l’Emi- lia: «Haec locupletibus urbibus, Placentia scilicet et Parma, Regio et Bononia Cornelique foro, cuius castrum Imolas appellatur». Il passo risulta interes- sante sotto due punti di vista: il primo è che Forum Corneli doveva avere un certo rilievo al tempo dello storico (o della fonte da cui dipende), tanto da essere inserito nel novero delle città più importanti dell’antica Emilia. Il se- condo è che qui ritroviamo la prima attestazione del castrum Imolas (poi ricordato nelle fonti d’archivio solo a partire dal 964, CI, I, 1, anche se la stessa citazione, in verità, era contenuta nel Catalogo delle Province d’Italia, sui cui esistono incertezze per la derivazione o meno da Paolo: vd. infra), che passerà successivamente ad indicare, tout court, l’antico centro abitato (la prima volta in cui compare l’appellativo di Imola attribuito alla città è in un episodio del LPRo, I, p. 430, riferito all’anno 743: vd. ancora infra). Così già è, invece, in Andrea Agnello (che scrive tra l’830 e l’847): per lui l’antico nome della città era Imulas, poi trasformato in Forum Corneli per volontà di Pier Crisologo, che avrebbe voluto onorare il suo maestro, Cornelio, dando quel nome alla città. Ma Andrea Agnello non ignorava che altri avevano in merito opinione diversa («Sed aiunt alii, ideo Corneliense quod Cornelii Forum fuisset»: LPRa, XXI 196-197). Tuttavia, in questa occasione, a noi interessa un inciso successivo, contenuto ancora nella vita del vescovo Pietro Seniore (570-578) (LPRa, XXVIII 196-197), che molti ritengono riportare una lezio- ne corrotta. Così recita testualmente: «Et construxerunt predicti Longobardi Forum Corneli et cumsumata est civitas ab eis». Secondo l’opinione corrente il primo verbo ( construxerunt ) mal si coniugherebbe con il secondo (cumsumata est): i più hanno dunque letto destruxerunt per construxerunt, ed hanno pensato che la città, in un momento imprecisato, sarebbe stata distrutta dai Longobardi (vd. infra VII. 3). Secondo Paolo Forum Corneli sarebbe dunque da annoverare tra le © 1996-2005 All’Insegna del Giglio s.a.s., vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale

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VII. IMOLA

1. Forum Corneli e Castrum Imolas

Il problema ha origine con due passi, abbastanza famosi, uno di Paolodiacono, l’altro di Andrea Agnello. Scrive Paolo nella sua HistoriaLangobardorum (II, 18), a proposito delle città della decima provincia, l’Emi-lia: «Haec locupletibus urbibus, Placentia scilicet et Parma, Regio et BononiaCornelique foro, cuius castrum Imolas appellatur». Il passo risulta interes-sante sotto due punti di vista: il primo è che Forum Corneli doveva avere uncerto rilievo al tempo dello storico (o della fonte da cui dipende), tanto daessere inserito nel novero delle città più importanti dell’antica Emilia. Il se-condo è che qui ritroviamo la prima attestazione del castrum Imolas (poiricordato nelle fonti d’archivio solo a partire dal 964, CI, I, 1, anche se lastessa citazione, in verità, era contenuta nel Catalogo delle Province d’Italia,sui cui esistono incertezze per la derivazione o meno da Paolo: vd. infra), chepasserà successivamente ad indicare, tout court, l’antico centro abitato (laprima volta in cui compare l’appellativo di Imola attribuito alla città è in unepisodio del LPRo, I, p. 430, riferito all’anno 743: vd. ancora infra). Così giàè, invece, in Andrea Agnello (che scrive tra l’830 e l’847): per lui l’anticonome della città era Imulas, poi trasformato in Forum Corneli per volontà diPier Crisologo, che avrebbe voluto onorare il suo maestro, Cornelio, dandoquel nome alla città. Ma Andrea Agnello non ignorava che altri avevano inmerito opinione diversa («Sed aiunt alii, ideo Corneliense quod Cornelii Forumfuisset»: LPRa, XXI 196-197). Tuttavia, in questa occasione, a noi interessaun inciso successivo, contenuto ancora nella vita del vescovo Pietro Seniore(570-578) (LPRa, XXVIII 196-197), che molti ritengono riportare una lezio-ne corrotta. Così recita testualmente: «Et construxerunt predicti LongobardiForum Corneli et cumsumata est civitas ab eis». Secondo l’opinione correnteil primo verbo (construxerunt) mal si coniugherebbe con il secondo(cumsumata est): i più hanno dunque letto destruxerunt per construxerunt,ed hanno pensato che la città, in un momento imprecisato, sarebbe statadistrutta dai Longobardi (vd. infra VII. 3).

Secondo Paolo Forum Corneli sarebbe dunque da annoverare tra le

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città più importanti di questa regione, mentre, per Andrea Agnello, questasarebbe stata distrutta dai Longobardi. I due fatti non sono necessariamentein contraddizione, privati oltre tutto, ambedue i testi come sono, di precisecoordinate cronologiche di riferimento. Essi potrebbero riferirsi, come è sta-to congetturato, a due momenti diversi della storia della città. Tuttavia unqualche dubbio rimane e, nel contempo, la necessità di fare chiarezza si ri-connette con la conseguenza che la storiografia, specie locale, collega con lapresunta distruzione dell’abitato, cui si fanno risalire il fisiologico declinodell’organismo urbano, il cambiamento di nome e la tripartizione delle sediistituzionali (sul concetto di Imola città tripartita vd. VASINA 1970, pp. 213-225).

2. L’origine del nome

La lezione più seguita, anche di recente, lo vuole di origine latina. Susi-ni (1957, pp. 100-102), esclude che Forum Corneli potesse essere l’appellati-vo originario, dal momento che l’uso di chiamare una città con il nome delfondatore o dell’ordinatore al genitivo data a partire dalla fine del secolo IIa.C. *Imula, dunque, potrebbe essere il toponimo più antico, derivato da undiminutivo del sostantivo imus (= basso), testimoniato come aggettivo an-che in Catullo (XXV, 2). Fasoli (1982, pp. 9-10), d’accordo con questa ipote-si, tenta di spiegare l’uso dell’accusativo plurale femminile, come toponimoderivato da moto a luogo o moto da luogo, senza preposizione (Ib., p. 14):dovremmo cioè supporre un originario «ad imulas», nel senso «alle basse»,attribuito al primitivo nucleo abitato. «È abbastanza ovvio» scrive la Fasoli,«che il primitivo insediamento si sia formato nel luogo dove la via Emiliadoveva superare il Santerno, per ospitare gli addetti ai lavori, liberi o serviche fossero, ed è anche ovvio che questo insediamento fosse indicato in qual-che modo dai funzionari romani che sovrintendevano alla costruzione dellastrada, agli insediamenti vecchi e nuovi che attraversava e poiché i terrenilungo le rive dei fiumi sono generalmente digradanti verso i fiumi stessi, epiù bassi dei terreni più lontani, è verosimile che il primo agglomerato sullerive del Santerno venisse indicato come (ad) imulas, cioè “alle basse”» (Ib.).Come questo originario toponimo fosse poi passato, dopo la parentesi diForum Corneli, ad indicare prima il castello, poi la città, è percorso logicopiù tormentato. Il presupposto è che il castrum Imolas fosse d’origine bizan-tina e che il nome gli venisse dato (se già non l’aveva), da quegli abitanti delsettore orientale della città che, «quando si profilò il pericolo longobardo»,vi si sarebbero rifugiati (al pari degli altri abitanti che, vivendo nel settoreoccidentale, avrebbero trovato rifugio presso la tomba del martire Cassiano,in quell’area che diventerà la sede episcopale imolese) (Ib., p. 15). Sempre

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secondo la Fasoli «il castello conservò poi il suo nome anche quando la civi-tas antiqua corneliensis, che non era forse mai stata del tutto abbandonata, furivitalizzata». Allora «a cambiar nome fu la civitas, perché il processo di rivi-talizzazione ebbe inizio nella zona orientale, quella che continuava a chia-marsi Imolas» (Ib.). Come si vede l’ipotesi, ancorché farraginosa, si basa sualcuni presupposti affatto sicuri: che il castello fosse d’origine bizantina (masu questo torneremo), che fosse “colonizzato” dagli abitanti del settore orien-tale della città (il cui nome antico avrebbe dovuto essere *Imula), che quellidel settore occidentale si sarebbero rifugiati presso l’episcopio già fortificato(e non siamo del tutto certi che, in questo periodo, la sede del vescovo fossegià in San Cassiano, come non si hanno informazioni in merito al fatto chel’area fosse comunque fortificata prima del secolo XI: GELICHI 1989c, pp.179-188 e GELICHI in CURINA et al., 1990, pp. 121-127), che l’ipotetico pro-cesso di rivitalizzazione della città ebbe inizio dal settore orientale.

Anche Mancini contesta l’ipotesi della Fasoli su alcuni punti (1990, pp.152-153), ma rimane dell’avviso che il toponimo sia d’origine romana e cheil castello sia di fondazione bizantina (Ib., p. 149).

Ma la querelle sul nome ha origini lontane: tutta la storiografia locale,tra il secolo scorso e la metà del presente, è contrassegnata da un’altalenantesequenza di ipotesi (MANCINI 1990, pp. 150-151). Tra queste meritano diessere presi in considerazione i suggerimenti del Brizio (1897 e lettera a Sca-rabelli del 1902 cit. in MANCINI 1990, p. 150, nota 150) e dello Zanardelli(1902), che ricollegavano l’origine del nome ai Longobardi. Seppure in for-me diverse, e con soluzioni non univoche, il problema del rapporto originedel toponimo-presenza longobarda, trova qui le sue prime formulazioni, cuinon sono esenti, specie in Brizio, sollecitazioni di carattere prettamente ar-cheologico, le stesse che ritroveremo in uno scritto inedito del Galli di qual-che anno più tardo (GALLI ms.). Ma un passo in avanti si registra con i lavoridel Gamillscheg (1935, p. 97) e poi del Battisti (1959, p. 651): ambedue iglottologi sostengono che il toponimo deriverebbe dal nome germanico Immo,e che Imula, dunque, sarebbe da leggere come «la casa, la fortezza di Immo»(maggiori incertezze sul significato di Immo, che il Gamillscheg faceva risali-re al gotico antico imr (lupo), in lettera di Battisti a Mancini citata in MANCI-NI 1990, p. 152, nota 208). Un Immone, tra l’altro, è ricordato come gastal-do di Piacenza tra il 616 e il 626 (CDL, III, 4, 17), ed un altro Immone è acapo della curtis regia di Parma al tempo di Pertarito, nel 674 (CDL, III, 6, p.23: vd. anche GASPARRI 1978, pp. 21-22). Il castrum Imulas, dunque, potreb-be essere stato fondato proprio da un longobardo e da questo aver presonome.

Torniamo allora all’ipotetica distruzione della città da parte dei Longo-bardi.

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3. Ancora sul passo di Andrea Agnello

Già il primo editore di Andrea Agnello (HOLDER HEGGER in LPRa p.338, nota i) aveva supposto una incongruenza nel citato passo del protosto-rico ravennate (LPRa XXVIII 196-197): dopo essere passati in Toscana edaver distrutto Petra Pertusa (il castello che controllava il valico del Furlo),«construxerunt predicti Longobardi Forum Cornelii et cumsumata est civitasab eis». Abbiamo già detto che quel construxerunt fu corretto in destruxerunt(HARTMANN 1900, p. 47), o in combusserunt (CORTINI 1915, p. 218; IDEM

1924, p. 9). Da qui l’ipotesi, sostenuta da quasi tutti gli storici che si sonooccupati del problema, di una distruzione dell’abitato, che la Fasoli (1949-50, p. 150, nota 3; 1951-53, pp. 37-38, nota 7; 1982, p. 14), seguita poi daCarile (1975, pp. 345-346), avrebbe attribuito all’opera di Faroaldo, duca diSpoleto, durante la sua incursione verso Classe (anni 580-581). In realtà sitratta di due episodi distinti, non necessariamente consequenziali. Paolo dia-cono, cui si deve il riferimento al saccheggio di Classe (HL, III, 13), omettedi ricordare l’episodio relativo ad Imola, e così Andrea Agnello, parlando diForum Corneli e del castrum Imolas, non cita l’incursione del duca di Spole-to. L’inciso del protostorico ravennate è contenuto all’interno della vita delvescovo Pietro Seniore (570-578): non solo, ma i principali episodi cui fariferimento (morte di Narsete e di Alboino), si collocano in un periodo com-preso tra il 570 e il 572. Anche per questo tutta una tradizione erudita imo-lese datava la presunta distruzione di Forum Corneli agli anni del regno diAlboino o quelli di poco successivi (ALBERGHETTI 1810, I, pp. 45-47; CERCHIARI

1847, pp. 10-11; BALDISSERRI datt., I, pp. 31-32; CORTINI 1924): e così ancherecentemente Vasina (1982, p. 482, nota 23). La possibilità che l’episodionarrato da Andrea Agnello, dunque, sia riferibile agli anni 80 del VI secolo(vd. supra), mi sembra, così formulata, poco sostenibile (come del resto han-no rimarcato, con plausibili osservazioni BENATI 1975, p. 48 e GALASSI 1984,p. 61), a meno che non lo si voglia sganciare del tutto dalla cornice storicaall’interno dalla quale il protostorico ravennate lo aveva inserito. In quest’ul-tima eventualità, allora, altre ipotesi sono altrettanto sostenibili. Ma tornia-mo al problema delle presunta distruzione della città.

Si deve ad Andrea Padovani (1989, pp. 37-38) la corretta intuizioneche restituisce senso compiuto al passo di Agnello, quando corregge quelcumsumata est in cumsummata est, facendolo da derivare da consummo-are(= portare a compimento) e non da consumo-ere (= estinguere). Lo stessoPadovani riferisce che in Andrea Agnello il verbo è anche altrove usato conquesto significato (Ib.). La presunta distruzione della città da parte dei Lon-gobardi perde dunque il suo più autorevole supporto documentario. Letta inquest’ottica non vi è più incongruenza con quanto riferito da Paolo diacono,che annovera Forum Corneli tra le città più ricche dell’antica Emilia. Le uni-

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che due fonti storiche che parlano della città in epoca longobarda fannoriferimento, in un passo più specificamente, in un altro più genericamente,ad una posizione di rilievo che la città avrebbe assunto proprio in quel peri-odo: resta ora da definire meglio in quale periodo. Andrea Agnello (la fontepiù specifica), parla di ricostruzione della città da parte dei Longobardi, rife-rendo di un episodio che non data con precisione, ma che collega con l’avan-zata in Toscana e la distruzione del castello del Furlo: sono i tre episodicronologicamente contemporanei e consequenziali? Datando i primi, possia-mo anche attribuire la stessa cronologia al terzo? E allora: quanto riportatoda Pao-lo diacono fa riferimento ad una situazione anche temporalmentecircoscritta, che potrebbe coincidere con le circostanze narrate da AndreaAgnello? Infine, qual’è la fonte di Paolo?

4. Castrum Imolas: castello bizantino o longobardo?

Che il castello abbia dato (o ridato) il nome alla città (qualunque sial’origine del toponimo), è ipotesi accolta universalmente. Ma quando avven-ne? Ancora nel 564, e la fonte è un papiro ravennate, la città viene chiamatacon il nome che aveva in epoca romana (TJÄDER 1955, p. 42: «nec non exdomo intra civitate Corniliense»), mentre, nel 680, al concilio costantinopo-litano III per definire la chiesa imolese il termine è di nuovo «corneliense».L’attestazione del toponimo Imulas, Imula, dunque, per la prima volta attri-buito alla città, compare in una serie di fonti biografico-letterarie ecancelleresche di ambito papale, negli anni compresi tra il 743 e il 775. Lapiù antica menzione è nel Liber Pontificalis (LPRo I, p. 430) e si riferisce adun episodio della vita di papa Zaccaria (741-752). Giunto a Ravenna, minac-ciata dalle truppe di Liutprando, il pontefice invia al re, che risiedeva a Pavia,il prete Stefano e il primicerio Ambrogio per preannunciargli il suo arrivo:costoro, entrati in territorio longobardo, incontrano per prima la città diImola («Qui viri ingressi in finibus Langobardorum, in civitate qui vocaturImulas»). La città, che doveva essere entrata a far parte del Regno a seguitodelle conquiste di Liutprando del 727, è chiamata inequivocabilmente con ilnuove appellattivo: né menzione è fatta del vecchio nome, né del castello.Può sorgere il dubbio che così questa fosse chiamata al tempo della stesuradel Liber Pontificalis (attribuito integralmente ad Anastasio bibliotecario,morto dopo l’877), perplessità che tuttavia scompaiono di fronte ad unaserie di lettere che, tra il 757 e il 775, i papi Stefano II, Paolo I e Adriano Iinviano ai re carolingi (Pipino e Carlo), al primo affinché intercedesse conDesiderio per la restituzione di una serie di città, tra cui appunto Imula (CC,11, pp. 503-507; 16, pp. 513-514; 17, pp. 514-517), al secondo affinchéfacesse pressioni con l’arcivescovo ravennate, che aveva occupato alcune cit-

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tà dell’Emilia, tra cui Imula (CC 49, pp. 567-569; 54, pp. 576-577; 55, pp.578-580), appartenenti invece al Patrimonium Sancti Petri. Nella secondametà del secolo VIII, dunque, fonti coeve non sembrano incerte nel definire,con il nuovo termine, l’antica Forum Corneli: ma quello che a prima vistaparrebbe costituire l’atto finale di un processo avviato, si presume, qualchetempo prima (dopo comunque il 564, vd. supra) non rappresenta che unaincerta tappa intermedia. Ancora ambivalenti, infatti, i termini compaiono inAndrea Agnello, quando scrive a proposito della vita di Pier Crisologo, tantoda far sospettare, a Vasina, che il protostorico volesse dire che il territorio, alsuo tempo (IX secolo), era da poco chiamato imolese, «anche se si continua-va ad usare la denominazione tradizionale di “Corneliense”» (VASINA 1982,p. 479, nota 15). Inoltre, sempre Vasina, richiama l’attenzione sul fatto che leattestazioni del toponimo Imulas sono presenti, nei primi tempi, esclusiva-mente in fonti prodotte in ambienti esterni alla città e al suo territorio, e che,ancora nel X-XI secolo, nelle carte locali, questi non si fosse ancora definiti-vamente affermato (Ib. p. 487, note 38-39). La spiegazione non è semplice:tuttavia non si può escludere che tale ambivalenza nascesse da una situazio-ne, anche istituzionale, frammentata, quale sarà quella imolese fino a tutto ilsecolo XII (VASINA 1970, pp. 213-225; IDEM 1982; MONTANARI 1982).

Torniamo allora al problema del castello ed al passaggio del toponimoda quest’ultimo alla città. Se la fonte più antica resta Paolo diacono, chescrive verso la fine del secolo VIII, dobbiamo riconoscere che l’appellativoImulas compare per la prima volta attribuito al centro abitato (a. 757) e nonal castrum. Tuttavia, di recente, Mancini (1990, pp. 147-148) ha rimarcatola forte similarità, peraltro già nota, del passo di Paolo con il Catalogo delleProvince d’Italia, edito in appendice dal Waitz all’Historia Langobardorum(MGH, 1878, p. 81), anche nel punto che riguarda la decima regione (chenel Catalogo è citata come ottava), con l’unica variante dell’assenza, in que-st’ultimo, della città di Parma. Ritenendo Paolo derivato dal Catalogo (e nonviceversa), Mancini ignorava sul problema un’annosa querelle (vd. BENATI

1978-79, pp. 113-151) e, nel contempo, era portato a datare la fonte, sem-pre con il Waitz, a poco dopo il 616 (MGH, 1878, p. 188). Così, anche laprima attestazione di un castrum Imolas poteva essere retrodatata agli annidel regno di Agilulfo, motivo che avrebbe spiegato, di contro a Paolo, l’as-senza della citazione di Parma (forse caduta in quel periodo in mano deibizantini: HL, IV, 20). La spiegazione, oltre che suggestiva e plausibile, ostacon il tradizionale iter di studi che vuole il Catalogo derivato da Paolo (e nonviceversa) (per ultimo CAPO 1992, pp. 437-438): pertanto la possibilità diretrodatare l’origine del castrum ad epoca così alta viene privata di una pre-cisa base documentaria e dobbiamo, giocoforza, ritenere il passo dell’HistoriaLangobardorum la prima attestazione scritta della presenza del castello.

Sull’origine del castrum Imolas gli studiosi sono divisi: di recente non è

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mancato chi volesse attribuirlo ad epoca teodoriciana (PADOVANI 1989, p.36), sulla scorta, tuttavia, di fragili indizi, come una leggenda riportata dalmonaco Galassi (GALASSI 1666) e la considerazione, peraltro infondata, dellacostruzione in quegli stessi anni delle mura di Bologna. Ma l’opzione piùplausibile resta quella, inaugurata da tempo, tra una possibile origine bizan-tina e una longobarda. Indipendentemente dalla derivazione del nome la se-conda ipotesi è quella che ha avuto, fino ad oggi, maggiori consensi (perultimo VASINA 1982, pp. 486-487). Tuttavia l’autorevole posizione espressanon molti anni fa dalla Fasoli (1982, pp. 13-15) ha rimesso in gioco l’altraalternativa: vale la pena di ripercorrerla per verificarne l’attendibilità. Lastudiosa bolognese parte dalla «Descriptio orbis romani» di Giorgio Ciprio,un’opera catalogica che si fa risalire agli anni tra il 573 e il 584 (vd. supra II,4). L’elenco dei castra bizantini in essa citati, finora ritenuto ingestibile sulpiano dell’identificazione topografica dai suoi editori (GELZER 1890;HONIGMANN 1939), è stato recuperato nella sua plausibilità logica e dopodefatiganti tentativi dal Conti (1975). Ben due castelli sarebbero da localiz-zare nella valle del Santerno: il Kaéstron Solernoév e il Kaéstron Touleérikon.Il primo sarebbe da identificare, secondo lo storico, con il castrum Saternum,nel comune di Firenzuola, oggi Montale o San Iacopo di Castro (CONTI 1975,pp. 105-107, ma altri lo riconoscono in Castellare di Borgo San Pietro: MON-TEVECCHI 1970, p. 342), il secondo con il castrum Tierlum, ancora nel comu-ne di Firenzuola e non molto distante dal precedente, le cui prime attestazio-ni documentarie finora note risalgono però al XIII secolo (Ib. pp. 351-352 eCONTI 1975, pp. 107-108). Tali identificazioni, di contro in parte al Gelzer(che aveva letto Silaro o Salerno per Saternum) in parte ad ambedue gli edi-tori, (per i quali in Toulerikon sarebbe stato da leggere Todi), sono state inve-ce accettate dalla Fasoli (come da altri studiosi), la quale arriva ad ipotizzare,seppure in assoluta mancanza di documentazione diretta, che, in quegli stessianni, «venissero approntate le prime strutture difensive della sede episcopalee della cattedrale e che venisse altresì apprestato, sulla destra del Santerno,ancora più a valle di Castel Santerno e di Castel Tierlo, quell’installazioneche Paolo Diacono alla fine del’VIII secolo indicava con il nome di CastrumImolas» (FASOLI 1982, p. 13). Per quanto attiene il castrum S. Cassiani abbia-mo già detto come l’identificazione di una precoce sede episcopale nell’areasuburbana imolese sia incerta, e meno credibile l’ipotesi dell’esistenza di strut-ture difensive prima degli inizi dell’XI secolo (GELICHI in CURINA et al. 1990,pp. 215-225).

Per il castrum Imolas, invece, la costruzione sarebbe da riferire ad unainiziativa bizantina da inserire in quella linea difensiva anti-longobarda, dicui i castra dell’elenco di Giorgio Ciprio sarebbero una testimonianza. Asupportare questa ipotesi la Fasoli richiama il fatto della dedicazione dellapieve del castrum a Santa Maria e di quella di una cappella da essa dipenden-

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te, intitolata a San Teodoro, «dedicazioni tipicamente bizantine» (Ib., p. 14).La spiegazione ci sembra insufficiente. Anzi, proprio la Descriptio di GiorgioCiprio potrebbe essere utilizzata per dimostrare esattamente il contrario. Sei due castra, il castrum S. Cassiani e il castrum Imolas, fossero esistiti altempo dello storico, perché non farne menzione, quando poi, almeno il se-condo, sarebbe stato frutto della diretta iniziativa bizantina e costruito, dicontro al primo, per meri scopi militari? Potremmo invece supporre che idue castelli, all’epoca di Giorgio Ciprio, non esistessero, e poiché la sua ope-ra sembra descrivere una situazione tra il 573 e il 584, avremmo la possibilitàdi datare la loro costruzione (ma in questa sede interessa in particolare ilsecondo) dopo questo arco di tempo.

Giunti a questo punto la querelle non sembra possa registrare ulteriorisviluppi, né paiono probanti, in un senso o nell’altro, seppure molto affasci-nanti, le ricostruzioni basate sulla toponomastica o sull’intitolazione delleistituzioni ecclesiastiche (come in PADOVANI 1990, pp. 45-46). Più significati-va, invece, la documentazione archeologica, poco studiata in funzione diquesto problema: vediamo di analizzarla più nel dettaglio.

5. La documentazione archeologica

La consapevolezza che la documentazione archeologica avrebbe potu-to contribuire, se non a risolvere, perlomeno ad indirizzare o ad arricchire ilproblema, non è certo nuova. Del resto, fin dal secolo scorso, sono notialcuni ritrovamenti di materiali di epoca longobarda sulle prime propagginicollinari (CERCHIARI 1848, pp. 162-164 e 224-225; BRIZIO 1897, p. 54); equalche altro reperto è stato rinvenuto in questo secolo anche in ambitourbano. Seppure si abbia notizia precisa di tombe solo in pochissimi casi, èindubbio che molti dei reperti segnalati appartenessero a corredi di sepolture.

Un’analisi più dettagliata dei reperti imolesi, dopo l’inserimento di al-cuni oggetti nel volume dell’Åberg (1923) e delle fibule nel catalogo di Werner-Fuchs (1950), si deve a Maria Carmela Carretta (1982, pp. 461-474). I nu-clei, già a suo tempo citati ed illustrati nelle schede di Cerrato (1947), sonoanalizzati secondo criteri aggiornati: mancano tuttavia adeguate illustrazio-ni, essendo riprodotti fotograficamente solo alcuni reperti. La Carretta, co-munque, è la prima a rilevare «la preziosità e la varietà dei reperti» che leconsentono di affermare come Imola fosse «sede molto importante di unacomunità longobarda in cui si distingueva una ristretta cerchia sociale moltoelevata» (Ib., p. 461), e come «la datazione piuttosto arretrata di alcuni re-perti» suggerisse che «tale insediamento avvenne nei primi anni seguenti alladiscesa dei Longobardi in Italia» (Ib., p. 462). L’analisi tuttavia si ferma aquesta considerazione preliminare, né la presenza di tali oggetti viene inter-

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pretata in rapporto con la documentazione storica.Nel 1989, nel ridiscutere i corredi di epoca longobarda della regione,

avemmo modi di evidenziare come una cronologia precoce non fosse esten-dibile a tutti i reperti rinvenuti a Imola (GELICHI 1989a, pp. 171-175) e, nelcontempo, come fosse difficile far conciliare le ipotesi tradizionali di unaincidentale presenza longobarda prima della conquista definitiva da parte diLiutprando, con la relativa abbondanza, qualità e cronologia dei corredi fu-nerari: ma il problema, anche per l’approccio generale a queste tematiche,venne lasciato in sospeso. Cerchiamo allora di ripercorrere, seppur breve-mente, i principali contesti, attribuire a questi, per quanto possibile, una da-tazione precisa, studiarli infine in rapporto alla loro distribuzione topografi-ca. Lo facciamo partendo dal repertorio più completo ed attendibile, quellasorta di Carta Archeologica che Luigi Cerrato stilò, per l’Associazione perImola storico-artistica, nel 1947 (CERRATO 1947, pp. 41-42), premettendoche non tutti i materiali qui ricordati sono stati finora identificati e rintracciati.

I primi oggetti di cui si ha menzione sono stati rinvenuti, nella primametà del secolo scorso, in pod. Cardinala, una località ubicata a sud del San-terno, sulle prime propaggini collinari, non lontano dalla parrocchia di Cro-ce in Campo (Fig. 62, n. 2). Secondo Cerrato (1947, n. 1), si tratterebbe ditre fibule a staffa (trovate forse nel 1845-46) (n. 1a), «una armilla bronzea adue giri, una fibula bronzea lavorata ad arabeschi, alcuni anelli da bardaturae una cuspide di lancia» (n. 1b) e «una cuspide di lancia e una spada», rinve-nute, quest’ultime, intorno al 1848 dal Cerchiari (n. 1c) (CERCHIARI 1848, p.164 e GELICHI 1989b, n. 17, p. 421). Le tre fibule sono ancora conservate nelMuseo: si tratta, in un caso, di due fibule a staffa in bronzo dorato decoratein Schlaüfenstill sul piede (WERNER-FUCHS 1950, A56-57, pp. 18-19) e unafibula a staffa in argento dorato, del tipo “Trossingen” (WERNER-FUCHS 1950,A97, p. 24) (Fig. 63). Del gruppo contrassegnato al punto 1b) si può forseidentificare la «fibula bronzea lavorata ad arabeschi», che potrebbe corri-spondere ad una fibbia da cintura “tipo Butrinto”, già pubblicata da Werner(1955, p. 41, taf. 4,9), altrimenti di ignota provenienza. Due lance, di cui unacon alette frenanti, conservate nelle collezioni del Museo (GELICHI 1989a,fig. 7.1-2), potrebbero corrispondere a quelle citate al n. 1b) e 1c). Anche laspada al punto 1c) è stata di recente identificata tra i materiali conservati neimagazzini del Museo imolese.

Genericamente provenienti dai colli imolesi, ma forse ancora nella pre-cedente zona, sono altri oggetti segnalati dal Cerrato: una impugnatura dispada in argento, una fibbia in bronzo, frammenti di una collana in oro ebronzi vari. Eccetto i bronzi, troppo genericamente descritti, gli altri oggettisono ancora identificabili presso le collezioni del Museo. L’impugnatura dispada è un pezzo giustamente famoso (CARRETTA 1982, n. 11, p. 473)(Fig.64): potrebbe essere riconoscibile in quel «grande fermaglio cesellato in ar-

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gento posseduto dal signor Giorgio Barbato Tozzoni», scoperto «tre annisono» (dunque nel 1845) sempre nella medesima area, di cui fa menzioneancora Cerchiari (1848, p. 225). Non sappiamo se uno degli elementi dellacollana in oro (Fig. 65 al centro) sia da identificare in quella «bulla (cosìdetta dai Romani) col suo appiccagnolo che i fanciulli portavano appesa alcollo», trovata, quando parte del libro era già stampata (dunque nel 1848),sempre nella sunnominata necropoli di podere Cardinala (CERCHIARI 1848,pp. 224-225, nota 44: necropoli che il medesimo aveva definito, sic etsimpliciter, «di detto castello di Imola», p. 163, nota 7). La descrizione e ledimensioni («È d’oro, di figura circolare, del diametro di 18 millimetri, delpeso di undici carati, ed in una delle facce è convessa nel mezzo con un fregioegizio attorno, e nell’altra è concava senza fregio»: Ib., p. 225) sembrano coin-cidere. La Carretta (1982, n. 12, p. 473), attribuisce a questa zona anche unpendente di cintura in bronzo lavorato a giorno (altri lo danno, sulla scortadell’Aoberg, da via Garibaldi: GELICHI 1989a, p. 165, nota 67) (Fig. 66). Nelcentro storico (via Appia) sarebbero stati scoperti alcuni reperti (non sia sa

Fig. 62 – Imola: localizzazione dei siti citati nel testo. 1. Monte Castellaccio; 2. Pod. Cardinala;3. Via Appia; 4. Villa Clelia.

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Fig. 63 – Imola (BO). Museo Civico. Fibule a staffa da podere Cardinala.

quando né come), di cui dà conto ancora Cerrato (1947, n. 5, p. 41): la Carret-ta ricorda esistente solo una fibula del tipo ad “S” (CARRETTA 1982, n. 9, p.473) (Fig. 67, a sinistra). Infine, nel 1894, vennero recuperati, in loc. VillaClelia (dunque nell’area dove si identifica la basilica Sancti Cassiani e un gran-de cimitero tardo-antico), alcune fibbie in bronzo e una fibula ad “S” (BRIZIO

1894, p. 274) (Fig. 67, a destra).La distribuzione dei reperti è sufficientemente indicativa: benché la

maggior parte dei materiali sia stata rinvenuta durante il secolo scorso, èindubbio che si tratti di resti di corredi funebri (sia maschili che femminili),che vanno ubicati in tre aree ben precise. La prima, a sud del Santerno, sulleprime propaggini collinari, in prossimità dell’antica parrocchia di Croce inCampo, non molto distante dal sito del Castellaccio (Fig. 62, n. 2). La secon-da nell’area dell’antico centro abitato (via Appia e via Garibaldi) (Fig. 62, n.3). La terza nella zona di Villa Clelia (Fig. 62, n. 4). Un certo numero direperti, infine, viene dato come di provenienza incerta, ma è estremamenteprobabile vada riferito alla prima area.

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Fig. 64 – Imola (BO). Museo Civico. Pomo di spada in argento dai Colli Imolesi.

Fig. 65 – Imola (BO). Museo Civico. Elementi di collana in oro e “perla magica” dai ColliImolesi.

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Fig. 67 – Imola (BO). Museo Civico. Fibule ad S da via Appia e Villa Clelia e fibula a disco daiColli Imolesi.

Fig. 66 – Imola (BO). Museo Civico. Pendente in Bronzo dai Colli Imolesi (?).

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Veniamo alla datazione dei reperti, partendo da quelli di pertinenzadelle sepolture femminili. Le fibule a staffa (WERNER-FUCHS 1950 A56/57,pp. 18-19, Taf. 10 e A97, p. 24, Taf. 27, con bibl. prec.) vennero datate, daWerner-Fuchs, nella prima metà del secolo VII (Ib., pp. 57-58), ma la Carret-ta, più recentemente, ha alzato la cronologia alla fine del VI secolo, per il c.d.“Tipo Imola” (CARRETTA 1982, pp. 462-464) e, addirittura, alla prima metàdel VI (sic!), per il c.d. “Tipo Trossingen”, in quest’ultimo caso avanzandouna serie di confronti con le fibule a staffa ostrogote (Ib.). Tale proposta sibasa soprattutto sulla considerazione che questo tipo di fibule, usate a coppiain associazione con due ad “S” (vd. infra), (e che rappresentano una costantenormativa dei corredi d’ambiente merovingico dei “Reihengräber”: BIERBRAUER

1984, p. 472), si trovano già nella c.d. fase pannonica e si ritiene che venga-no sostituite verso la fine del VI secolo (VON HESSEN 1978, pp. 266-267; IDEM

1990, p. 202). Lo stesso dicasi per le due fibule ad “S”, l’una da via Appia(WERNER-FUCHS 1950, B59, p. 32, Taf. 35, con bibl. prec.), l’altra da VillaClelia (Ib. B60, p. 33, Taf. 33, con bibl. prec.), datate intorno al 600 dalWerner-Fuchs (Ib., p. 61), e così anche dalla Carretta (1978, pp. 465-466,fig. 2). Al tipo “Schwechat-Pallersdorf” (BIERBRAUER 1991a, p. 28, fig. 6), vainvece attribuito un terzo esemplare, rinvenuto nel 1930 in una sepoltura «aipiedi del Monte Castellaccio a sud della città», durante la costruzione delcampo sportivo (Archivio della Biblioteca Comunale, Lettera Cerrato datata25.4.1930). Del ritrovamento aveva dato notizia il Cerrato nel 1947 (p. 42,n. 12), senza però pubblicare disegni né foto. La fibula è rimasta finora inedi-ta, forse perché irreperibile tra i materiali delle collezioni del Museo, dovel’A. dice di averla depositato subito dopo la scoperta. Un disegno è peròcontenuto nella lettera citata, di cui abbiamo potuto prendere visione graziealla cortesia di Marco Pacciarelli. La riproduzione è sufficientemente detta-gliata e tale da attribuirla al gruppo suddetto, di cui si conoscevano in Italiasolo quattro esemplari: uno da Cividale-Cella (WERNER-FUCHS 1950 B30, pp.29-30, Taf. 33), uno da Arcisa-Chiusi (VON HESSEN 1971a, p. 13, Tav. 8.1),uno da una località sconosciuta, conservata al Museo Nazionale di Villa Giu-lia (WERNER-FUCHS 1950 B68, p. 33, Taf. 36) e infine uno dal Trentino(BIERBRAUER 1991a, p. 28). Si tratta di una variante del “Tipo Várpalota tom-ba 160” (Ib. p. 28, fig. 6), decorato con scanalature longitudinali, almandinoquadrato centrale, due almandini triangolari e il becco ricurvo. Questo tipodi fibule viene ritenuto tra i più precoci rinvenuti nella penisola italiana edatato al periodo della migrazione (ibid.).

Ad Imola è documentata anche un fibula a disco in oro, con decorazio-ne a cloisonné (WERNER-FUCHS 1950, C1, p. 34, Taf. 36), di provenienza nonpiù precisabile (CERRATO 1947, p. 42, n. 10) (Fig. 67 al centro). Le grandifibule a disco in oro (la cui funzione era quella di chiudere il mantello o unindumento che copriva le spalle) (BIERBRAUER 1984, p. 473), portate da sole,

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dovettero sostituire, nel costume femminile, le piccole fibule ad “S”. Questoè stato ben riscontrato a Castel Trosino dove grandi fibule d’oro (decorateanche a cloisonné), sono in associazione con fibule a staffa (Ib.): sempre se-condo Bierbrauer si tratterebbe di un adattamento al costume romano (Ib.,p. 473). Ancora Werner-Fuchs (1950, p. 62), datavano questi esemplari nellaprima metà del VII secolo, ma Carretta, a proposito del reperto imolese,suggerisce, in via soprattutto della decorazione a cloisonné, una cronologiaverso la fine del VI, primissimi anni del VII (CARRETTA 1982, p. 469). Ancorapertinenti a ricca tomba femminile sono i pendenti di collana in oro, uno atubetto con decorazione a filigrana, l’altro di forma circolare (Ib., pp. 473-474, nn. 13-14), (Fig. 65, a sinistra e al centro). Si tratta di due oggetti chedovevano appartenere, con tutta probabilità, allo stesso monile, di cui però sisono perse le altre componenti. Medagliette di questa forma, e di questedimensioni, prive di decorazione (TAGLIAFERRI 1990, X49c, p. 391) o condecorazione a filigrana, sono segnalate in varie sepolture d’età longobarda: aRomans d’Isonzo (Isonzo, tomba 79, p. 79, tav. XXII), ad Arcisa (Chiusi)(VON HESSEN 1971a, p. 28, n. 11, tav. 5,3), a Nocera Umbra e Castel Trosino(MENGARELLI 1902, t. 2, n. 7, coll. 75-76, tav. VI, 2, passim). Il confronto piùpertinente è forse con l’esemplare della tomba 107 di Nocera Umbra. Re-stando ancora ai reperti tipici delle sepolture femminili è da segnalare il pen-dente in vetro marrone, agganciato mediante due strisce d’argento (CARRET-TA 1982, n. 18, 474) (Fig. 65, a destra). Si tratta di una c.d. «perla magica»,un monile che veniva appeso alla cintura: un confronto abbastanza pertinen-te si ha con la sepoltura della donna del duomo di Colonia, datata alla primametà del VI secolo. Oggetti simili sono abbastanza diffusi anche nelle sepol-ture longobarde della Pannonia (BONA 1974, p. 251, tav. VIII, tomba 56 daSzentendre), ma si ritrovano anche in tombe italiane (da Cividale: TAGLIAFER-RI 1990, tomba femminile 105/A della necropoli di San Giovanni, pp. 367-268, X4f o dalla tomba 5, sempre femminile, di Gallo, Ib. pp. 393-394,X49t, con fascette d’argento). Infine ancora pertinente ad una donna è unpendente in bronzo, decorato ad occhi di dado (CARRETTA 1982, p. 473, n.12), forse guarnizione da borsa o semplice pendente.

Meno numerosi i reperti dalle tombe maschili. Tra questi, però, spiccail pomo d’argento di spada (Fig. 64), di forma piramidale, decorato con ani-mali di Stile II (WERNER 1950), attribuibile al Tipo Beckum-Vallstenarum(MENGHIN 1983, n. 76, p. 316) e databile tra la fine del VI e gli inizi del VIIsecolo. Altri esemplari, appartenenti allo stesso tipo, ma in oro con decora-zioni a filigrana, sono stati rinvenuti a Nocera Umbra. Alla prima metà delVII secolo rimandano anche la punta di lancia ad alette, l’ascia barbuta e lafibbia da cintura tipo Butrinto (WERNER 1955, p. 41, taf. 4.9).

Questa succinta analisi degli elementi di corredo rinvenuti ad Imolasembra dunque orientarci, seguendo le ultime cronologie dei singoli reperti,

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verso un periodo compreso entro l’ultimo quarto del VI secolo, cui rinvie-rebbero, soprattutto, i reperti dalle sepolture femminili: si tratterebbe, allo-ra, di nuclei cimiteriali appartenenti alla prima generazione di immigrati nel-la nostra penisola. Questo è anche il suggerimento della Carretta nella suaedizione (CARRETTA 1982, pp. 461-462). Una possibilità di abbassare, seppu-re di non molti anni, la cronologia, sembra invece fornita dai reperti dellesepolture maschili, come il pomo di spada, l’ascia barbuta (se proviene dauna sepoltura), la lancia ad alette.

Di recente uno studioso danese ha analizzato le necropoli di NoceraUmbra e Castel Trosino (JØRGENSEN 1991), proponendo una diversa interpre-tazione del loro sviluppo. La base di questo lavoro prevede una reinterpreta-zione complessiva delle cronologie delle sepolture, e di conseguenza, di alcu-ni singoli reperti (JØRGENSEN 1992, pp. 94-122): si tratta di un lavoro cheabbisogna di un minimo di sedimentazione e di verifica, che prescinde dallospecifico del presente contributo; ma poiché molti dei reperti presi in consi-derazione compaiono anche nelle sepolture imolesi, non possiamo non te-nerne conto. Per quanto concerne i corredi femminili dobbiamo rilevare so-prattutto lo slittamento alla prima metà del VII secolo della cronologia dellefibule circolari con decorazione a cloisonnè (CSF, Ib., fig. 5) (con possibilitàdi una oscillazione verso gli anni anteriori al 610 e quelli posteriori al 650).Le fibule a staffa, presenti ovviamente nella seconda metà del VI secolo, po-trebbero arrivare, con alcuni tipi (BF3b), a tutta la prima metà del secoloseguente. Variazioni di minor rilievo dobbiamo assegnare ad altri reperti,come le perle magiche e le fibule ad “S” (fino alla fine del VI: Ib. figg. 5-6), lemedagliette circolari d’oro da collana (tra il 580 e il 610 ca.) (Ib., fig. 6). Perquanto riguarda le sepolture maschili, invece, la revisione ci interessa soloper le lance ad alette (L3), che si attribuiscono alla Fase II e, per le quali, sipropone una leggera anticipazione all’ultimo ventennio del VI secolo (Ib.,fig. 14). I materiali imolesi interpretati secondo queste cronologie, dunque,sembrerebbero poter subire un lieve abbassamento cronologico fino almenoagli anni 620-630.

Cercando di riassumere. Mancano, sia nelle tombe femminili, che inquelle maschili, alcuni dei tipici reperti dei corredi della prima metà del seco-lo VII, come le crocette auree e le cinture multiple in ferro ageminato: sequesto dato ex silentio non è casuale, le sepolture imolesi non possono co-munque scendere molto oltre il primo venticinquennio del VII secolo. Ten-tando di correlare i dati sopra discussi si può allora ragionevolmente asse-gnare tali sepolture imolesi ad un periodo compreso latamente tra l’ultimoquarto del VI secolo e il primo quarto del secolo seguente.

Torniamo alla natura e alla distribuzione delle sepolture. Alcune delletombe scavate il secolo scorso ad Imola, per quanto i corredi siano andatismembrati, sembrano appartenere a contesti, se non «ricchi oltre la media»

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(BIERBRAUER 1984, pp. 483-486), almeno pertinenti a personaggi di me-dio-alto rango sociale: e questo sia per le tombe femminili, che per quellemaschili. Quest’ultime contengono, tra l’altro, armi (spade, lance ed asce):il pomo di spada è sicuramente un oggetto di notevole pregio, come l’asciabarbuta, che se rinvenuta in una tomba, sembra riferibile a personaggi dialto rango sociale. Il fatto che siano passati alle collezioni civiche repertiin genere di notevole valore (oro ed argento), può suggerire l’ipotesi chevi sia stata anche una selezione al momento della scoperta: non è impro-babile che altri manufatti, di minor pregio o in condizioni di conservazio-ne non buona (è questo spesso il caso del ferro), non siano stati raccolti,oppure non siano stati conservati. La presenza di un’unica fibula a staffa“Tipo Trossingen” ha poi suggerito l’ipotesi (peraltro giustificata dal fat-to che queste fibule, generalmente, venivano portate in coppia), che unaanaloga sia andata perduta. Poiché nessuna ricerca sistematica è mai stataintrapresa (e non abbiamo motivo di dubitare che le scoperte del secoloscorso siano frutto della mera casualità), possiamo ragionevolmente sup-porre che il numero delle sepolture d’età longobarda presenti nel territo-rio imolese fosse di molto superiore a qualche unità. Anche i dati relativialla loro distribuzione possono risultare significativi. Le tombe sembranolocalizzate in prevalenza in un’area prossima al Monte Castellaccio, maprobabilmente distribuite per nuclei diversificati. Altre sepolture (isola-te?) sono poi induttivamente localizzabili all’interno della cerchia urba-na. Infine (ma la cosa è meno sicura) nell’area dell’antica basilica di SanCassiano.

I dati archeologici, dunque, sono molto più precisi di quanto lacritica fino ad oggi abbia messo in evidenza. Essi suggeriscono alcuneconsiderazioni. Un nucleo di Longobardi stazionò in questo territorioben prima di quanto le fonti scritte abbiano indicato (conquiste di Liut-prando del 727). La loro presenza non deve ritenersi né casuale néincidentale o temporanea: lo indica abbastanza chiaramente la presen-za e il numero di sepolture, che non si addice ad una incursione dibreve durata. La distribuzione delle tombe lascia aperte due possibilitàsul luogo dello stanziamento (sulle prime propaggini collinari a suddel Santerno e all’interno della città), possibilità che non sono comun-que necessariamente antitetiche. Tuttavia al momento non si conosceche una tomba all’interno del perimetro urbano (incerto il caso di viaGaribaldi), e questa inumazione è femminile. Il periodo in cui i Lon-gobardi sarebbero stati presenti in questo territorio è, sotto il profiloarcheologico, ben precisabile, anche secondo quanto già precedente-mente esposto: si può solo discutere la sua durata (una/due generazio-ni?), ma non spostare gli estremi cronologici all’interno del quale col-locarlo.

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6. I Longobardi e il castrum Imolas

Giunti a questo punto, vale la pena di riprendere le fila della scarnadocumentazione scritta, già precedentemente discussa, per verificarne la com-patibilità con i dati archeologici e per valutare in quale misura questi ultimisiano in grado di chiarire alcuni nodi rimasti insoluti.

Le uniche fonti letterarie che parlano di Imola in epoca longobarda(Paolo diacono ed Agnello) pongono ambedue l’accento su un fatto che cipare, alla luce inoltre di quanto sopra esposto, sufficientemente illuminante:nel primo caso la città è ricordata tra le «locupletibus urbibus» della regione,nel secondo ai Longobardi è riferito, anzi enfatizzato, un ruolo di rigeneratori(meglio ricostruttori) dell’abitato. Dunque, non solo l’insediamento non avrebbesubito devastazioni ed incendi, ma anzi avrebbe goduto, in quel periodo, diuna certa vitalità e “floridezza”. Si può certo obiettare che non conosciamo lafonte di Paolo (e quindi non siamo in grado di precisare con sicurezza il perio-do cui il protostorico allude), né sappiamo collocare con esattezza l’episodiocui fa riferimento Andrea Agnello. Ma, in merito al secondo, se recuperiamocome genuina la lezione del testo originario, cadono almeno le interpretazionidella Fasoli (580-581) e del Benati (662: BENATI 1975, p. 49), e torna a preva-lere una data non molto lontana dagli anni dell’episcopato dell’arcivescovoPietro Seniore, nella cui vita, è bene ricordarlo, Andrea Agnello aveva inseritoil suo episodio (e del resto gran parte della tradizione erudita locale avevaattribuito la costruzione del castello di Imola proprio al re Clefi: ad es.ALBERGHETTI 1810, p. 45; CERCHIARI 1848, p. 14). Invece, in merito al primo, (ein attesa che venga fatta chiarezza sulle fonti di Paolo), una serie concomitantedi elementi ci sembra suggerire che il periodo a cui si allude debba essere collo-cato dopo il 571-584 e prima del 680. Nell’elenco di Paolo, infatti, manca, trale città che ci saremmo aspettate, Modena. La situazione di questo centro du-rante la prima età longobarda è già stata analizzata, dettagliatamente, in altraparte di questo libro, cui ovviamente si rimanda (vd. supra cap. II, 2.4). Qui èsufficiente ricordare l’accertato declino dell’abitato, almeno dopo il 590, e laprobabile ripresa solo dopo le conquiste rotariane della metà del secolo succes-sivo, fino all’episodio di re Cuniperto, che, nel 680, avrebbe restituito alla città«l'antico decoro». Paolo diacono, inoltre, cita il castrum Imolas: poiché il ca-stello non è menzionato nella Descriptio di Giorgio Ciprio, compilata tra il571 e il 584 (mentre lo sono altri castelli nella contigua vallata del Santerno),dobbiamo congetturare che questi non doveva ancora esistere in quegli anni edunque il passo di Paolo pare riflettere una situazione consolidatasi, come ab-biamo detto, dopo il 571-584 e prima del 680.

L’analisi delle fonti archeologiche, che colloca una presenza longobar-da nel territorio imolese tra l’ultimo quarto del VI e il primo venticinquenniodel VII secolo, può mettere d’accordo, nei punti laconici, i passi di Paolo

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diacono e Andrea Agnello, dando loro una più specifica e circoscritta conno-tazione cronologica. Essi si riferirebbero ad uno stesso periodo e riflette-rebbero una tradizione di conoscenze (sufficientemente ben radicata seppureimprecisa o nebulosa ai loro tempi: ed anche questo è spiegabile, vd. infra) chelegava strettamente il territorio imolese ad una specifica e stabile presenza lon-gobarda. Paolo diacono, l’abbiamo già ricordato, è il primo che parla del castrumImolas e Andrea Agnello riferisce (anzi enfatizza) una attività “edificatoria”(attraverso il verbo «construxerunt») da parte dei Longobardi. Certo, il costru-ire è in Andrea espressamente riferito alla città («construxerunt Forum Corneli,et cumsumata est civitas ab eis»), ma come rinunciare alla tentazione di colle-garlo, invece, anche se non esclusivamente, alla fondazione del castello?

Già Vasina aveva sottolineato come, non poi tanto stranamente, la pri-ma attestazione del castrum Imolas comparisse, per la prima volta, in unafonte di parte longobarda (VASINA 1982, p. 486). Il fatto che Giorgio Ciprionon ne faccia menzione (vd. supra), è a nostro parere indizio non del tuttoincidentale che ad esso non possa essere attribuita una origine bizantina (nétantomeno anteriore). Se l’origine del nome deriva da un antroponimo, cometaluno ha autorevolmente suggerito, questi non può rimandare, ancora unavolta, che ad ambito longobardo, e non solo per la supposta derivazione dalnome germanico Immo, ma anche per la non attestata consuetudine, tra iBizantini, di dare nome a castelli con un antroponimo. La distribuzione dellesepolture longobarde, sulle colline a sud del Santerno, non sarebbe dunqueaffatto casuale. Qui si localizza quel Monte Castellaccio (Fig. 62, n. 1), chemolti (anche se la critica non è unanimamente d’accordo) hanno riconosciu-to come la sede del castrum Imolas.

A questo proposito torna utile citare gli scavi che, su questo sito, loScarabelli compì nella seconda metà del secolo scorso (SCARABELLI 1887).Obiettivo dell’intervento era l’indagine di un insediamento dell’età del Bron-zo. Tuttavia in quell’occasione vennero scoperte tracce di elementi strutturali(buche di palo e focolari), manufatti (vasche centrali), sepolture e manufatti,di epoche sicuramente posteriori (Fig. 68). La qualità di questa documenta-zione sembrò allo Scarabelli tale da fargli abbandonare l’idea, come ebbe ascrivere, che «sul Castellaccio, per quanto almeno riguarda le scoperte fattesulla sommità, non sorgessero grandi costruzioni di carattere guerresco, ro-mano, o medioevale, ma soltanto abitazioni in pietre informi e ciottoli, forsedipendenza od origine della Jomla antica, adesso trasformate in una ridentestazione di rigogliosi vitigni» (Ib., p. 95). Già prima, infatti, aveva interpreta-to le «grandi fosse irregolari e buche più o meno profonde, entro le qualierano stati radunati tutti gli avanzi più grossolani dei manufatti distrutti»(Ib., p. 31) come frutto delle attività agricole sul colle, attività che avrebberocancellato definitivamente non tanto «robuste costruzioni» quanto «miseriabituri, in relazione in qualche modo colle memorie leggendarie di un caso-

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lare appartenente alla Jomla antica» (Ib.). Dunque, secondo Scarabelli, l’esi-stenza di tracce, certo non monumentali, comunque significative, di una oc-cupazione tardiva del colle, non portavano un contributo verso l’identifica-zione, in questo stesso sito, del castrum imolas, come molta tradizione erudi-ta voleva, bensì costituivano un elemento di prova contraria («si è costrettidai fatti», scrive lo Scarabelli, «a contraddire le asserzioni del Ferri e di altriposteriori scrittori, sull’esistenza di fortilizi in cima al Castellaccio, i qualiinvece è molto probabile sorgessero più in basso all’est del Colle, presso unacasa colonica, dove esiste tuttora un avanzo di un grosso muro con cementodurissimo»: Ib., 26). Dobbiamo essere grati, tuttavia, alla qualità dell’inter-vento archeologico e, soprattutto, della documentazione prodotta, se oggipossiamo, partendo proprio da quegli stessi dati, proporre una interpretazio-ne diversa.

Tralasciamo per il momento alcuni elementi interpretati dallo Scara-belli come appartenenti «a rozze costruzioni» di epoca imprecisata (ma co-munque posteriori all’età del Bronzo) e soffermiamoci ad analizzare le strut-ture scoperte. Le buche di palo, le fosse ed i focolari, non appartengono tuttead epoca protostorica: alcune, e vengono segnate con colori diversi dalloScarabelli (Ib., tav. II), sono ritenute posteriori («meno antiche» nel testo). Iltipo di stratificazione e i forti rimaneggiamenti della parte superficiale deldeposito impediscono di identificare dei livelli d’uso con queste ultime strut-ture: non si può dunque escludere che esse appartengano ad epoca moltodiversa da quella della stazione dell’età del Bronzo. Una recente revisionedella situazione stratigrafica basata sempre sull’edito ha permesso di identifi-care non solo nuove capanne dell’età del Bronzo non riconosciute dallo Sca-rabelli (ex inf. Pacciarelli), ma di non escludere la possibilità che alcune dellebuche «meno antiche» appartengano ad epoca alto-medievale. Del resto trac-ce di occupazione del sito in questo periodo erano già state segnalate dallostesso Scarabelli che aveva pubblicato anche alcuni materiali (pietra ollare,ceramica grezza, fusaiole di steatite, macine in cloritoscisto a granati) generi-camente attribuibili ad età post-classica (SCARABELLI 1887, pp. 88-89, tav.XXXIII 8, 11-16) (Fig. 69). Ma ancor più interessante è la presenza, sempresul colle ed in prossimità delle strutture abitative, di sepolture (ne vengonosegnalate sei) (Ib., pp. 20-21), presso le quali (rinvenute in gran parte scon-volte dall’aratro a causa della scarsa potenza del deposito) vennero ritrovati«parecchi di quei grandi mattoni così frequenti nei tumuli romani, come purevicino ad uno scheletro si videro poche sferette forate di vetro turchino.Vicinissimo poi ad un altro si raccolse la fibbia di bronzo di stile barbarico,rappresentata nella tav. XXIII, fig. 17» (Ib., pp. 29-30) (Fig. 69, n. 17). Aduna sepoltura penso sia possibile attribuire anche un orecchino a doppiocappio in bronzo, scoperto «entro un mucchio di cenere, creduto allora gia-cente in posto, ma che negli scavi della trincea successiva, eseguita l’anno

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Fig. 68 – Imola (BO). Monte Castellaccio, pianta di scavo (da SCARABELLI 1887).

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dopo, si riconobbe per rimaneggiato» (Ib., p. 89, tav. XXIII, 18) (Fig. 69, n.18). Il tipo di fibbia in bronzo qui rinvenuta è abbastanza comune in ambitogoto (BIERBRAUER 1975, tav. XLVI, 5, p. 326) ed altre ne sono state trovate nelterritorio imolese (ad es. a Villa Clelia dal Brizio nel 1894: vd. supra): tutta-via sembrano aver avuto continuità fino ad epoca longobarda (seconda metàdel VI). Per quanto concerne, invece, l’orecchino in filo di rame, esso appar-tiene ad un gruppo molto diffuso tra VI-VII secolo (BIERBRAUER 1987, pp.152-161, abb. 24 (carta di distribuzione); SONJE 1980-81, pp. 75-76 e 88,tab. I, 1 e TORCELLAN 1986, p. 44, tav. 15, n. 12 passim, dall’Istria; CINI-PALUMBO-RICCI 1979-80, tav. II.4 e 6, p. 49, da Luni). La documentazionearcheologica superstite sembra dunque indicare, per Monte Castellaccio, dueprincipali fasi di occupazione: una dell’età del Bronzo, con un villaggio dicapanne, e l’altra in una imprecisata epoca alto-medievale, cui sarebbero daattribuire ancora capanne con alcune sepolture, talune provviste di elementidi corredo (o abbigliamento personale) databili, questi ultimi, verso l’ultimoquarto del VI secolo. Il tipo di sepolture (con elementi di corredo abbastanzamodesti), la loro associazione, postulabile non in tutti i casi ma spesso, con lecapanne, e la cronologia assoluta, ci consentono un parallelo, non poi troppoardito, con la situazione recentemente individuata nell’area di S. Giulia diBrescia, dove è stata identificata, nella prima età longobarda, la presenza diindividui di differente ceto sociale e di diversa etnia, inquadrati nella medesi-ma organizzazione giuridica all’interno di una supposta vasta area di pro-prietà fiscale, che vivevano e venivano seppelliti nei pressi di modeste capan-ne (BROGIOLO 1991c, pp. 107-108). Sepolture di personaggi di alto rangosociale, ma all’incirca dello stesso periodo, sono state identificate, invece, aldi fuori del Monte Castellaccio.

Sulla base di quanto sopra esposto è possibile tracciare un breve, sep-pure ipotetico, quadro di sintesi.

Il territorio e la città di Forum Corneli furono certamente occupati daLongobardi in un periodo piuttosto precoce: il momento preciso non è de-terminabile. Questo potrebbe essere già avvenuto durante il regno di Alboinoo Clefi, oppure durante il c.d. «interregno», per opera di qualche duca, op-pure ancora dopo, sotto il regno di Agilulfo. La prima soluzione sarebbemeglio in sintonia con il passo di Andrea Agnello e con la presenza, tra icorredi funerari, di reperti che in genere appaiono nelle sepolture longobar-de della prima generazione.

A questi Longobardi sarebbe dunque da attribuire la fondazione di unostanziamento militare, cui avrebbero anche dato il nome (il castrum Imolas).Se questo non avvenne con il regno di Agilulfo, è possibile che ancora in taleperiodo il territorio imolese fosse sotto il controllo longobardo. I corredifunerari, infatti, paiono scendere fino al primo venticinquennio del VII seco-lo. Cosa sia successo negli anni immediatamente seguenti, non è possibile

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Fig. 69 – Imola (BO). Monte Castellaccio, materiali medievali provenienti dagli scavi di MonteCastellaccio (da SCARABELLI 1887, tav. XXIII 8, 11-18).

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ricostruire. La documentazione archeologica si arresta a questo periodo ma,non è forse un caso che la ripresa delle attestazioni vescovili, dopo una lungalacuna, si registri solo con il 630.

I Longobardi rioccuparono, questa volta stabilmente, il territorio imo-lese con Liutprando (727). Questi si attestano su una linea di confine cheBenati, senza trarne ulteriori conseguenze, riferisce ad epoca ben anteriore.Questa occupazione potrebbe aver rivitalizzato un tessuto insediativo prece-dente, e ridato forza ad un toponimo che sarebbe passato direttamente adindicare la città. Non sembra infatti casuale che la prima attestazione lettera-ria del toponimo attribuito al centro abitato (741), si collochi proprio neglianni del regno di Liutprando. Il gap tra le due fasi di occupazione potrebbeinfine non essere stato più chiaramente sentito dagli storici successivi, ai qua-li sarebbe rimasta solo una eco, confusa e indefinita, che li portava comun-que a collegare città, toponimo e castello all’età longobarda.

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